martedì 3 novembre 2015

Il TTIP sorge ad Oriente

Il TTIP sorge ad Oriente
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Il Trattato Transpacifico TTP, fratello del Transatlantico TTIP, ne ha anticipato la “sostanza”. Tra i due oceani gli Usa tentano di rimettersi al centro e al vertice del mondo. Libero scambio e produzioni belliche. Come si esce dalla stagnazione secolare. La risposta dei movimenti.
  • Berlino, 10 ottobre 2015
    Un fiume di manifestanti (100 o 250mila)
    contro il TTIP
    A Miami, il 19 ottobre, è iniziata una nuova tornata delle trattative tra Unione europea e Stati Uniti per definire il Transatlantic Trade and Investment Partnership (TTIP), un accordo di libero scambio chiamato anche Grande Mercato Transatlantico. L'Europarlamento ha approvato delle raccomandazioni d'indirizzo, con qualche “paletto invalicabile”. Quando si arriverà al documento finale, i rispettivi parlamenti dovranno accettarlo o respingerlo in toto.
  • Contro il TTIP si è manifestato un ampio movimento in tutta Europa, con significative differenze di partecipazione da Paese a Paese. Forte è l'avversione alle basi stesse del patto.
  • Nel frattempo, il 5 ottobre, si sono conclusi i lavori del Trans-Pacific Partnership (TPP), il fratello orientale del TTIP, di cui sono protagonisti Stati Uniti e Giappone. Esso anticipa le reali implicazioni politiche, economiche e militari di quello occidentale.
Inclusi ed esclusi
Del TPP1 non si conosce ancora il testo conclusivo. L’accordo è stato raggiunto fra i rappresentanti di Australia, Brunei, Canada, Cile, Giappone, Malesia, Messico, Nuova Zelanda, Perù, Singapore, Vietnam e Stati Uniti. Non vi fanno parte: le due Coree, le Filippine, la Cambogia, l'Indonesia e soprattutto la Cina. Anche l'India è fuori: non è un Paese del Pacifico.
In Europa dal TTIP la grande esclusa è la Russia. Pertanto, le esclusioni possono essere lette come frontiere poste verso Nord-Est, sia dal versante europeo che da quello asiatico, da un protagonista unico di ambedue i trattati: gli Stati Uniti.
Shinzo Abe, primo ministro giapponese, ed il presidente statunitense Obama hanno cambiato radicalmente atteggiamento verso le finora lodate riforme economiche della Cina e le opportunità offerte dall'apertura del suo mercato. Fino a qualche anno fa la svolta cinese era esaltata come una vittoria epocale del capitalismo e della civiltà. All'euforia è subentrato il timore che il proprio capitalismo (nord-americano e giapponese) non sia surclassato da quello altrui (cinese). E, più in generale, che il mondo diventi multipolare, con un ruolo rilevante degli emergenti a detrimento della supremazia di Usa, Giappone ed Unione europea.
Sicché, dietro la stanca retorica della globalizzazione, la cui fase di espansione è data per finita, si pratica l'egemonia di potenza, con quel che ne consegue. Se non siamo di fronte ad una riedizione della vecchia politica “di contenimento” nord-americana, poco ci manca. Di certo le esclusioni fanno parte di un disegno globale di Washington.
Sembrava che i vecchi muri fossero caduti. Sia la Russia che la Cina avevano aderito al capitalismo e alla globalizzazione. Perché, allora, vengono tenute fuori dai due trattati? Non per via del comunismo.
Notoriamente la ripresa della “guerra fredda” verso la Russia ha già comportato conseguenze pesanti in Ucraina e in Siria. È lecito chiedersi se l'intendimento statunitense non sia di trascinare a una simile deriva anche la Cina.
Escludere un Paese, costringerlo nel ruolo di avversario, alla bisogna tramutabile in nemico, definisce un campo di alleanze politiche che si estende dall'economico al militare (o, in Europa, dal militare Nato all'economico). Serve a contenere chi è “fuori” ma anche chi è “dentro”. Al partner debole e “minacciato” si offre la “benevola protezione” dell'amico più forte ed armato. In questo modo i conflitti commerciali, valutari, economico-finanziari rientrano, o vengono ricondotti, nelle alleanze politico-militari degli Stati. Con queste premesse, tuttavia, si mettono in moto tutti i meccanismi che possono sfociare nelle guerre aperte.
Inoltre, è pur vero che «Più in generale, sia il Ttip che il Tpp mirano a contenere il tentativo dei Brics di creare un blocco economico alternativo a quello occidentale.»2 Ma, in effetti, i neutrali, se desiderosi di non essere coinvolti nelle contese, vengono spinti a scegliere, a schierarsi, magari a dividersi. In questo caso sono i BRICS3, i Paesi emergenti, ai quali appartengono i due grandi esclusi dai due Trattati, a venire presi di mezzo.
Globalizzazione senza adrenalina
Al Fondo Monetario Internazionale (Fmi) c'era un moderato ottimismo che alimentava analisi e proiezioni dei vari think tanks locali, anche governativi, come l'ICE [vedi grafico].
Fonte ultima: "L'Italia nell'economia internazionale" Rapporto ICE 2014.2015
Riferisce ilSole-24ore del 28 settembre: «Una crescita del 3,3% per quest'anno non è più realistica. E neppure del 3,8% per l'anno prossimo. Resteremo sopra il 3%, comunque», secondo Christine Lagarde. E aggiunge: «Il 3% viene considerato dagli economisti la soglia al di sotto della quale l'economia mondiale è in recessione.» Nel contempo l’Organizzazione mondiale del commercio (Wto), ha rivisto al ribasso le stime sugli scambi per l’anno in corso 2015: invece del 3,3% la crescita sarà del 2,8%, la più bassa sin dal 1982.
Secondo i libero-scambisti, tra cui Fabio Scacciavillani,4 il TPP è un'iniezione di adrenalina ed apre la strada ad un nuovo periodo di espansione. Abbatte inefficienze e soffoca privilegi, nella misura in cui elimina dazi e protezioni lobbistiche, introduce standard comuni per l'ambiente, i diritti intellettuali e dei lavoratori.
Non è qui il momento per ribattere nei particolari, sebbene non si scorgano segni di deterioramento protezionistico.5
Vale constatare, in generale, che nei decenni trascorsi la globalizzazione liberista ad alta densità finanziaria ha generato una crisi epocale, mentre i privilegi sono esplosi, i diritti dei lavoratori sono stati calpestati e le inefficienze, commisurate ai costi sociali ed ambientali su scala globale, hanno assunto dimensioni disastrose.
Interessa piuttosto mettere in evidenza che le economie avanzate (ex economie industriali avanzate) si reggono oramai prevalentemente sui servizi che rappresentano più di due terzi del loro Pil. Al contrario la quota dei servizi nel commercio mondiale si attesta attorno al 20%, mentre il restante 80% è dovuto agli scambi di manufatti e materie prime che coprono “solo” il 16% del Pil mondiale.6
Questo è il punto vero, se si vuole ristabilire la supremazia dei Paesi post-industriali, occorre liberalizzare i settori in cui sono più forti: finanza ed assicurazioni, ma anche sanità, trasporti, servizi legali, software, telecomunicazioni, commercio on-line. Aggiungerei, giusto per non tralasciare l'espansione illimitata del business, anche le acque, ça va sans dire da privatizzare.
Tutto fila secondo un semplice ragionamento: ciò che fa bene a noi (a tutti noi?), fa bene al mondo intero (alla maggioranza dei popoli del mondo?).
Metafisica liberista
Senonché le enormi emissioni quantitative di moneta da parte delle banche centrali7 non sono state e non sono delle misure di semplice rivitalizzazione delle economie, a dispetto delle quali il Pil mondiale crolla. Esse si iscrivono nella lotta ingaggiata sul piano valutario per sostenere, deprimendo i propri tassi di cambio, le rispettive posizioni nelle guerre commerciali in pieno svolgimento.
Questa è la realtà. Prova ne sia che la locomotiva tedesca, anche per lo scandalo Volkswagen partecipe delle contese esportative, si è inceppata in una «guerra di valute che non conosce sosta».8 Peraltro, non può sfuggire la stretta relazione tra surplus commerciale tedesco e crescita dei consumi cinesi, per cui venendo meno questi ultimi, anche il modello tedesco orientato all'export ne risente grandemente. Destini incrociati: colpendo gli uni si mettono i bastoni tra le ruote all'altro.
Alle guerre valutarie e commerciali, che investono petrolio e materie prime, si associano quelle militari.9 Checché ne dicano i cantori del libero-scambio, l'esclusione della Cina dal TPP, accompagnata dal riarmo giapponese, assume un ben preciso significato nella lotta per l'egemonia mondiale, affatto pacifico e libero da vincoli statali.
Per comprendere il reale portato dei Trattati commerciali in itinere si ricorre sempre più alla politica, alla geografia e alla geopolitica.
Gioverebbe non trascurare la storia.
Giusto per fare un esempio storico: Bretton Woods. Ha scritto Benn Steil: «Negli anni trenta e quaranta gli Stati Uniti contrastavano le pressioni del mercato sul dollaro attraverso i cambi fissi, mentre oggi cercano di compensare le pressioni di segno opposto sulla loro moneta facendo fluttuare i cambi. Gli Usa non erano coinvolti negli “squilibri globali” quando, negli anni quaranta erano un paese fornitore, ma lo sono molto ora, come paese cronicamente in disavanzo. Il denominatore comune dei due periodi è un dollaro debole per aiutare gli esportatori americani e proteggere i produttori dalla concorrenza di altri paesi.»10
L'odierno attaccamento tedesco all'euro, un sistema di cambi fissi intra-europeo, ha bisogno di ulteriori spiegazioni?
Manifestazione pacifista in Giappone
L'economia di Shinzo Abe

Il primo ministro giapponese è noto per la Abenomics, ossia per il Quantitative easing della Banca centrale nipponica, in concorrenza-rivalità con le emissioni quantitative di moneta delle altre banche centrali dei Paesi ricchi.
Meno nota è la sua propensione al riarmo.
In pieno accordo con gli Stati Uniti, nel 2015 la spesa militare del Giappone è salita a 36 miliardi di euro, la più alta dalla fine della guerra mondiale. Tokyo prevede un budget per le spese militari di circa 25 trilioni di Yen, (circa 250 miliardi di Dollari), nel periodo 2014-2019.11
Parallelamente, il governo nipponico reinterpreta la costituzione all’articolo 9, che afferma la “rinuncia perpetua alla guerra come mezzo di risoluzione delle dispute internazionali” (in Italia l'art. 11 afferma lo stesso principio: è il forzato pacifismo postbellico degli sconfitti) e proclama l'adozione di un nuovo “pacifismo attivo”. Per non lasciare nulla al caso, annuncia di volere ridurre il quorum necessario alle modifiche costituzionali (art. 96) dai due terzi attuali al 50% dei voti.
Washington ha lavorato, da un lato, per il libero scambio e l'apertura concorrenziale dei mercati con le esclusioni di Russia e Cina, e, dall'altro, affinché il Giappone assumesse un ruolo militare primario in estremo Oriente. In Europa è la Nato a svolgere il ruolo, senza che sia necessario armare la Germania.
Liberismo militare
Poiché negli ultimi decenni il centro mondiale dell'espansione capitalistica si è spostato ad Est, qual è il significato dell'imperativo ricorrente negli States: “Anyone but not China”12?
Nell'esclusione si può intravvedere una scelta economica e, al tempo stesso, politica e militare, approfittando dei una fase di passaggio della Cina [Vedi riquadro “TPP: il triangolo noo...”].
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TPP: il triangolo noo...
«Per capire quanto sia stato usato il negoziato per escludere la Cina si può ricordare quanto si sia rovesciata su se stessa la politica del primo ministro giapponese Shinzo Abe nei confronti di Pechino. E, in maniera anche più decisa, quella dell'Amministrazione Obama, passata dal tradizionale favore verso l'intero corso pluridecennale delle riforme economiche cinesi alla presa di distanza delle stesse, viste ora caso per caso, come favorevoli o dannose per la potenza degli Stati Uniti. (...)
«Americani e giapponesi, anticipando una durata non piccola del tempo di cambiamento, scommettendo dunque sulla fase di attesa, cercando di guadagnare posizioni nei confronti dei cinesi accumulando vantaggi, come quelli consentiti dalla nuova configurazione data dal Trattato appena approvato agli scambi entro l'area demarcata dal nuovo accordo. Escludendo la Cina anticipano quello che avverrà nel futuro prossimo, ovvero la volontà di Pechino di fondare la prossima fase di crescita sulla domanda interna, portata avanti dal processo di redistribuzione verso i lavoratori.
Americani e giapponesi ritengono inoltre di poter fare a meno, almeno in parte, della domanda cinese per i propri beni di consumo e di investimento. (…)
Si potrebbe però vedere un ulteriore significato nell'atteggiamento di americani e giapponesi: mettere in rilievo la minaccia cinese per giustificare la costruzione di un super-avanzato settore della difesa in Giappone e negli Stati Uniti, a sostituire in parte il ruolo tradizionalmente svolto dai consumi e dagli investimenti fissi.
La crescita del commercio internazionale è ormai da qualche anno inferiore ai tassi di sviluppo del prodotto lordo globale. Si pensa che comunque ormai la fase di veloce globalizzazione si sia conclusa e leader come Shinzo Abe avviano ormai anche in Giappone la sostituzione del settore del commercio con quello dell'industria degli armamenti [grassetto mio], facendo notare l'appropriatezza della fase storica, quando un paese come il Giappone deve temere una politica di potenza attiva da parte della Cina.
Nello stesso modo è probabile che in un veloce riarmo cinese la leadership di Pechino possa anch'essa trovare una risposta alla caduta del tasso di sviluppo, sceso a tassi ormai ridotti al confronto di quelli dei decenni precedenti.
Allora tutto bene? (…) Può essere che la nuova autostrada non presenti ostacoli ma potrebbe accadere il contrario. Tenendo a mente che se il prezzo da pagare per il nuovo equilibrio è una nuova corsa agli armamenti, potrebbe alla fine rivelarsi troppo alto.»
Marcello De Cecco
Estratti da “L'asse del Pacifico senza la Cina – Usa, Giappone, Cina: il triangolo non c'è”, la Repubblica Affari&Finanza, 12/10/2015.
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Nel lasso di tempo che Pechino impiegherà a reindirizzare il proprio sviluppo verso il mercato e la domanda interni, la risposta alla crisi di sbocco del capitalismo avanzato del tandem Usa-Giappone, sembra puntare sull'industria degli armamenti per sostituire almeno in parte “consumi ed investimenti fissi”.
Trascinata nella contesa anche grazie al TPP, la Cina sarebbe spinta a sua volta ad optare per una corsa al riarmo (non mancano propensioni in tale direzione nella leadership cinese13), rimandando sine die la redistribuzione verso i lavoratori ed il conseguente allargamento dei consumi interni. Ovvero a preferire i cannoni al burro.
Pertanto, Washington e Tokio conseguirebbero molteplici obiettivi: uscire dalla crisi e dalla “stagnazione secolare”; rinsaldare la propria alleanza egemonica nel Pacifico, riarmando il Giappone e ponendolo a presidio dell'area; sub-ordinare i Paesi amici; costringere il governo cinese a disattendere le promesse della “società armoniosa”, già oggi scossa da una diffusa conflittualità sociale.
Sicché il liberismo uscirebbe dalla propria crisi, rilanciandosi nel liberoscambismo transoceanico e finalizzando le commesse di Stato (alle cui risorse non rinuncia mai, in barba ai propri declamati principi) agli investimenti bellici high technology, ad alta tecnologia.
Non è una novità: negli anni ottanta del novecento questa strategia fu adottata con successo da Reagan, campione di liberismo, che, contando su una reazione pavloviana dell'Urss, dominata dalle aspirazioni egemoniche mondiali della sua dirigenza e dalla sua prevalente industria pesante, fu indotta a preferire al burro i cannoni.
Contesti mutati
Ma le reazioni cinesi non sono affatto scontate, né lo sono le chances degli Usa di poter reggere il gioco a lungo e in modo compatto. La Cool War14, la “guerra fresca” appare come un equilibrio solo teorico tra convivenza e scontro, un desiderata, al termine della quale la supremazia mondiale della superpotenza unica verrebbe riconfermata.
Intanto, l'interdipendenza tra le due economie, le più importanti sul piano globale, è assai forte.
Alla base dello sviluppo convesso, rivolto alle esportazioni, ci fu uno sviluppo concavo, capace cioè di attrarre investimenti e di cointeressare ingenti capitali stranieri, anche statunitensi, nell'andamento dell'economia cinese. Annota Rampini: «L'establishment economico-finanziario degli Stati Uniti ha sempre avuto una visione più positiva della Cina rispetto al Pentagono e al Dipartimento di Stato.»15 La Cina ha in portafoglio la cifra record di circa 1.300 miliardi di dollari di debito americano.
Muovendosi per tempo, il governo cinese ha preso le sue contromisure, come il Corridoio economico Cina-Pakistan (Cpec), l'estensione delle relazioni di scambio bilaterali, il fondo di sviluppo Asian infrastructure investiment bank (Aiib) con sede a Shanghai (57 Paesi aderenti). Rinnovata è l'attenzione verso l'Europa, rafforzata dall'adesione dei più importanti Paesi europei alla Aiib.
Inoltre, la Cina ha mostrato a più riprese di volere e saper sfuggire alla logica del confronto-scontro, seguendo una linea defilata nelle relazioni internazionali, non per questo meno “insidiosa” per la supremazia occidentale.
Due movimenti?
Sinora la critica del movimento europeo al Grande Mercato Transatlantico è stato incentrata sui contenuti (il peggioramento degli standard di consumo e servizi) e sugli istituti di “arbitraggio”, chiamati a farne rispettare le regole, peraltro in via di definizione. Nonché, più radicalmente, sui presupposti libero-scambisti e liberisti e sul metodo con cui i negoziati vengono condotti, a porte semi-chiuse.
I negoziati, per parte europea, sono condotti sotto la responsabilità di un tecno-burocrate di Bruxelles, Mr. Ignacio Garcia Bercero, e di Cecilia Malmström commissaria per il commercio, la quale ha dichiarato: «Io non prendo il mio mandato dal popolo europeo», per dire che prende ordini solo dai governi. Dato lo stuolo di lobbisti affaccendati attorno ai negoziati, è dubbio che anche alle multinazionali sia proibito di mettere il becco.
Infine, richiamo l'attenzione su uno “strano” fenomeno: il movimento contro il TTIP registra una partecipazione ed una sensibilità diversa nei Paesi europei16, assai marcata al Centro e via via più debole nelle Periferie. E proprio nei mesi in cui, con forza inversamente proporzionale, più spiccata nelle Periferie rispetto al Centro, si è manifestata l'opposizione all'austerità dell'Europa di Bruxelles.
Quasi due movimenti.
Eppure, a ben vedere e con le ovvie differenze tra i due ambiti, le ragioni di fondo sono le stesse: per il welfare ed i diritti sociali, in difesa dell'ambiente e della salute, contro l'austerità; contro le oligarchie e il liberismo, per la democrazia e la sovranità popolare.
Berlino, 10 ottobre 2015
La bomba TTIP è collocata nella sede del Parlamento
Certo, un conto è dover subire immediatamente sulla propria pelle le imposizioni dei creditori, un altro paventare l'impatto di un trattato ancora imprecisato e futuro.

Vi si può scorgere pure la difficoltà di comprendere problemi complessi ed apparentemente lontani. D'altro canto, l'opacità delle trattative è pensata per far passare tutto alla chetichella, “come se nulla fosse”, tra tecnicismi decifrabili solo dai soliti “esperti”.
Per superare tali difficoltà, riappropriarsi dell'informazione e del dibattito politico serve la Rete, mezzo al quale è più agevole ricorrere in Germania, Francia o Inghilterra. Anche le modalità dell'inaspettata ascesa di Corbyn nel Labour inglese stanno a dimostrarlo.
Due cose appaiono certe:
  1. il TPP ha già anticipato il senso politico e annunciato la “sostanza” del TTIP prossimo venturo; dall'Oriente all'Occidente, in legame di interessi;
  2. il TTIP non farà che peggiorare le condizioni dei popoli dell'Eurozona ancor più nelle sue Periferie, in Grecia, Spagna ed Italia.
E tra i due movimenti si dovrà trovare la via del dialogo e della compenetrazione, se si vorranno fare significativi passi avanti nella direzione auspicata da entrambi.

1 Viene usato anche l'acronimo TTP.
2 Walden Bello, “Ttip e Tpp sono soprattutto strumenti geopolitici”, http://www.sbilanciamoci.info, 17/10/2014.
3 Acronimo per: Brasile, Russia, India, Cina, SudAfrica.
4 Fabio Scacciavillani, Gli opposti estremismi contro il Ttp tra America e Asia, Il Fatto Economico, 21/10/2015, pag. 17.
5 Uri Dadush, Perché il commercio mondiale è in crisi, L'Espresso, 2/09/2015: «Vari esperti hanno verificato gli indicatori di un possibile nuovo protezionismo, e tra questi i dati e le statistiche del segretariato dell’Organizzazione del commercio mondiale, della Banca mondiale e dell’ong Global Trade Alert. Non hanno trovato prove di un deterioramento generalizzato.»
6 Fabio Scacciavillani, ibidem.
7 Il Quantitative easing della Fed americana, della Banca Centrale Europea (in corso) e della Banca Centrale del Giappone(BOJ) detta “Abenomics”.
8 Marcello Minenna, Corriere Economia, 19 ottobre 2015, pag. 11.
9 Vedi anche in questo Blog: “Petrolio & Bombe”.
10 Benn Steil, La battaglia di Bretton Woods, Donzelli, 2015 (2013), pag. 136.
11 http://www.geopolitica.info/riarmo-del-giappone/
12 Traducibile in: Chiunque ma non la Cina.
13 Nel 2014 il bilancio militare cinese è salito a 132 miliardi di dollari (+ 12% rispetto al 2013).
14 Noah Feldman, Cool War, il Saggiatore, 2014 (2013).
15 Federico Rampini, L'ossessione americana per i sussulti dell'Oriente, La Repubblica Affari&Finanza, 19 ottobre 2015, pag. 13.
16 A. Canonne e J. Tyszler, Gli europei sfidano il libero scambio, Le Monde diplomatique – il Manifesto, ottobre 2015, pag. 15.

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