lunedì 24 settembre 2018

Eravamo no global

[Clicca sul titolo qui sotto se vuoi scaricare l'articolo in formato PDF]


-->

-->
Sul Fatto Quotidiano di martedì 18 settembre, nella pagina aperta al contributo dei lettori, è comparsa una lettera. Nella finestra qui sotto la ripropongo integralmente. Comunica salda memoria e spirito critico, verso il pensiero unico della grande stampa e delle maggiori emittenti TV, cogliendo appieno il rovesciamento di cui la sinistra anche meno istituzionale s'è fatta protagonista.

I no global di ieri

oggi chiamati “sovranisti”
Per valutare quale sia l'attuale livello di manipolazione lessicale (o di dissociazione cognitiva) di quel che resta della sinistra, basterebbe pensare che circa vent'anni fa i “no global”, cioè i manifestanti di sinistra contro la globalizzazione, venivano pestati a sangue e torturati a centinaia nella caserma Bolzaneto di Genova. Il vicepresidente del Consiglio di allora era un post-fascista “vero”, cioè Gianfranco Fini. Il presidente del Consiglio era un anticomunista craxiano, classista di destra e sdoganatore degli ex missini che aveva portato al governo, cioè Berlusconi.
Oggi chi è contro la globalizzazione viene definito “sovranista” e quasi automaticamente tacciato di nazionalismo, quindi di fascismo e, perché no, di razzismo da chi si trova in pieno accordo con Berlusconi e si definisce di sinistra, multiculturalista e democratico, cioè il Pd. Alleato tattico e strategico di Forza Italia, adesso come qualche anno fa, anche sulla riforma autoritaria della Costituzione.
E fin, da sotto le carte del processo per al casa a Montecarlo, concorda con il Partito democratico: anche lui è contro i sovranisti e a favore dell'Europa e della globalizzazione, come da intervista a Repubblica del 7 febbraio 2017. Non è fantastico?
Glauco Campanozzi

È la dimostrazione che alla base dello smarrimento di sé stessa c'è l'adesione alla globalizzazione liberista, con conseguente sostituzione dell'internazionalismo con il cosmopolitismo.
Qualsiasi punto di vista che reclami sovranità nazionale è presentato come espressione del peggior nazionalismo. “Sovranista!”: questa è l'accusa. Così pare a lorsignori più facile e sbrigativo liquidare, con un'etichetta infamante, ogni opposizione all'Europa attuale ed al suo doppio dominio: delle oligarchie finanziarie e del nazionalismo mercantilista tedesco.
Si tratta di una vecchia tattica, che ora si ripromette di mettere le istanze popolari (definite “populiste”) nello stesso sacco di xenofobia, razzismo, nazionalismo guerrafondaio.
Come se la voglia di sovranità non scaturisse proprio dal suo venir meno, essendo stata assoggettata ad un vincolo esterno e sottratta alla volontà popolare.
Come se la sovranità nazionale non fosse l'unico luogo in cui la democrazia costituzionale può concretamente esercitarsi, qui ed ora, avendo tutti consapevolezza che l'Europa del “patriottismo costituzionale” di Jürgen Habermas non è stata nient'altro che un sogno di mezz'estate.
No, ci dicono i soloni dell'ancien régime: dovete rinunciare alla sovranità popolare nazionale perché essa è invariabilmente destinata a finire nella mani di un nazionalismo fascistizzante e, senza questa Europa, non avremo voce nel mondo invariabilmente globalizzato.
Se non volete essere schiavi domani, fatevi servi da subito.

Aiutarli a casa loro?

[Clicca sul titolo qui sotto se vuoi scaricare l'articolo in formato PDF]


Aiutarli a casa loro?

Paternalismo razzista e liberismo assistenziale nemici del cambiamento.

Schizofrenie
L'immaginario sulle migrazioni della maggioranza degli italiani pare divergere. O si identifica nei “nostri” migranti del passato, di “quando eravamo poveri” alla ricerca di un posto nel mondo, magari in America, in cui scampare alla miseria. O, all'opposto, si percepisce come “pellerossa”, nativi di quella stessa America, invasi ed in procinto di essere sovrastati da orde di nuovi arrivati; con un singolare rovesciamento di ruolo delle “razze”: i bianchi europei di oggi al posto degli indiani di ieri.
Salvini fa l'indiano
Supporsi invasi, come dimostra una recente ricerca dell'Istituto Cattaneo, ingigantisce la paura, riducendo la disponibilità all'accoglienza. E questo è un fatto indiscutibile.
Tuttavia, non di rado ascoltiamo messaggi schizofrenici, proprio da coloro che vorrebbero se non minimizzare, almeno ricondurre il percepito alla reale consistenza del fenomeno (stranieri non al 20% della popolazione, bensì al 7%).
Messaggi del tipo: “Qualunque barriera eretta contro i flussi è destinata a venire infranta da ondate migratorie di milioni di persone, provenienti da Paesi senza crescita ed incontenibile esplosione demografica. É la grande storia degli esodi contro i quali è vano opporsi. D'altro canto noi non facciamo più figli...”
Attenzione, delle due l'una: o le dimensioni del fenomeno sono trascurabili per il domani quanto per l'oggi; o si tratta di una percezione popolare che anticipa ansiosamente, ma in base ad un'aspettativa realistica, una incombente grande ondata.
In quest'ultimo caso minimizzare avrà comunque scarso e breve seguito.
Bisognerà, invece, far fronte ad una prospettiva di carattere catastrofico, sia per “loro” che per “noi”. Per intenderci: catastrofico quanto il surriscaldamento globale, che non è ritenuto troppo globale per venire accantonato ed eluso; mentre lo sarebbe il problema dell'assetto agricolo ed alimentare del pianeta, causa principale dello spopolamento delle campagne.
Infatti, ridurre al 5% circa (sul modello euro-occidentale) la popolazione attiva in agricoltura, per la gran parte dei Paesi del mondo equivale ad addensare milioni di persone nelle grandi bidonvilles di megalopoli, dalle quali chi vorrà potrà fuggire solo disponendo dei minimi mezzi1 necessari per farlo.
Perché il problema agro-alimentare non rientra nelle priorità?
Forse perché partire da questo ambito, affatto estraneo all'ambiente,2 significherebbe destabilizzare alla radice la globalizzazione attuale, fondata sul libero scambio, sullo straripante potere delle multinazionali e sulla rovina dei contadini, coltivatori poveri di aree del mondo da cui vengono cacciati. A questo proposito è interessante quanto scrive Alessandro Di Battista3 dal Chiapas [vedi finestra “I colonizzatori di oggi”, a pag. 2]. La situazione del Messico, alla frontiera con gli Usa, può essere paragonata a quella di Paesi africani vicini.

-->
I colonizzatori di oggi
«I colonizzatori di oggi non devono aprirsi la strada con le armi, gli bastano i trattati di libero commercio o le novelas che mostrano modelli di vita irraggiungibili. Si chiama globalizzazione e i partiti di sinistra europei, se ancora così si possono chiamare, ne sono diventati i principali paladini. E continuano imperterriti su questa strada, parlano di Ttip e Ceta spacciando il libero mercato come la chiave per lo sviluppo e poi, per lavarsi le coscienze, improvvisano passerelle sulle navi dei migranti dimenticando che quella gente fugge dalle diseguaglianze che loro stessi hanno contribuito a creare.
(…) Grazie al Nafta si sono arricchite multinazionali dell'agro-business, i padroni dei semi, i padroni del cibo, i padroni del mondo.
Pensate che il libero mercato sia libero davvero? Andatelo a raccontare a quei contadini costretti i vendere le proprie terre perché dagli Usa, grazie al trattato Nafta, arrivano derrate di masi a basso costo che hanno reso insostenibile lavorare la terra. Da contadini umili ma sempre padroni di loro stessi si sono trasformati in quell'esercito di derelitti che ha prima popolato i bassifondi delle metropoli centroamericane vedendo i figli strappati dalle bande armate dei quartieri caldi, poi ha attraversato il Messico sperando che al di là del muro vi fosse un'opportunità per le loro famiglie.
Il bello è che tra gli obiettivi del Nafta c'era anche quello di contrastare l'immigrazione clandestina. Ma nei dieci anni che vanno dagli inizi del 1980 al 1990 il numero di messicani presenti negli Stati Uniti d'America passò da 2 a 4 milioni e mezzo. Dal 1994 – anno di entrata in vigore del Nafta – al 2000, raggiunsero quasi i 10 milioni.
(…) Da queste parti qualcuno ha capito che occorre partire dalla sovranità alimentare. L'ha capito Aldo Gonzales e i promotori della Unosojo che girano le montagne di Oaxaca incontrando le popolazioni indigene e provando con loro a mettere in piedi progetti di difesa del mais nativo.»
Alessandro di Battista

Dissanguamenti
L'idea di aiutarli “a casa loro” s'è fatta strada quando è apparso che “a casa nostra” l'immigrazione pianificata dall'Unione europea era insostenibile sia economicamente che politicamente.
Non si possono in effetti negare alcune evidenze per chi proviene dall'Africa: l'eventuale salvataggio in mare e l'iniziale ospitalità non si traducono in integrazione, bensì troppo spesso in emarginazione e lavoro supersfruttato. Ne approfittano a man bassa le mafie, le quali, imitando le aziende, affidano in outsourcing alcune attività criminali, salvo ammazzare “in proprio” i migranti (neri) che non volessero sottomettersi.
La creazione di un esercito di mano d'opera di riserva abbatte i livelli salariali ed assicurativi dei residenti (compresi gli immigrati arrivati qualche anno fa), disincentivando le imprese a migliorare la produttività. Sulla fruizione di un welfare sempre più ridotto, si scatena una guerra tra poveri per mettere in fondo alla fila i nuovi arrivati, al grido “Prima gli italiani!”
Tuttavia, solo chi appartiene ai ceti agiati ed abita nei quartieri bene delle grandi città può pensare di rispondere a questo slogan con aristocratico ribrezzo ed accuse politically correct: vanno trovate soluzioni concrete per impedire alle fratture sociali di stabilizzarsi ed a xenofobia e razzismo di incistarsi.
D'altro canto, solo le classi più privilegiate possono ottenere un vantaggio dal perpetrarsi del laissez-faire in materia di immigrazione, relegando la politica dello Stato al mero ruolo di soccorso ed assistenza umanitaria, quasi fosse la Caritas.
Infine, alle difficoltà dei Paesi d'arrivo corrisponde una “perdita” dei Paesi di partenza: la migliore gioventù se ne va, privandoli delle energie necessarie al loro sviluppo. Così l'Africa si dissangua come se fosse ancora vittima delle grandi razzie degli schiavisti europei.
Paternalismo razzista
Un retrogusto amaro che non rimanda solo, come un déjà vu, ai tempi andati.
Da secoli l'Europa pretende di aiutare a casa loro i popoli del mondo, diffondendo la “luce della sua civiltà” dalle Americhe all'Estremo Oriente. Una sorta di paternalismo razzista avvolge la cruda realtà dell'aggressione europea al resto del mondo, sin dai tempi di Cristoforo Colombo e di Vasco de Gama. Una luce di civiltà talmente accecante da impedire ai suoi moderni cantori, pure “de sinistra”, di vedere il lato oscurissimo di quella stessa civiltà. Peraltro ben conosciuto dai popoli da “noi” aiutati “a casa loro”.
Si tratta non solo della storia, ma del presente. Come è possibile aiutare a casa loro le popolazioni africane, quando interi gruppi dirigenti nazionali sono stati distrutti? Con ogni mezzo, dalla corruzione, all'assassinio, alla guerra d'aggressione, l'Occidente ha sistematicamente eliminato ogni possibile forza organizzata per l'autodeterminazione e lo sviluppo indipendente, per poi accusare quei Paesi di essere privi di “interlocutori affidabili”. Sicché gli unici interlocutori rimasti sono i signori della guerra e del ricatto internazionale, pure sui flussi migratori.
La Libia come Stato non esiste più e non mancano coloro che, nonostante gli svolgimenti bellici avversi, ancora sognano di riservare alla Siria la medesima sorte. Mentre si vaneggia di Europa, l'amica Francia ha rafforzato l'impegno in Africa: dalla Libia ai Paesi sub-sahariani. É per "aiutarli a casa loro" che tra partners europei e non solo è ripresa questa contesa sulle materie prime, dal petrolio all'uranio?
Se lo scopo, come si legge nelle dichiarazioni ufficiali dell'Unione, è affrontare il problema delle migrazioni rimuovendone le cause, due sono le priorità: quella, prima ricordata, dell'agro-alimentare e quella di quale destino debbano avere le materie prime strategiche. Se rispondere alle esigenze di sviluppo dei Paesi che le producono e le dovrebbero detenere o, al contrario, servire a quello che si chiamava colonialismo ed ora è innominabile perché, ancora una volta, europeo. Anche se non solo europeo. 

Note
1 Chi in Africa dispone di 4 mila euro ed oltre per tentare di arrivare in Europa non appartiene alle classi povere del continente.
2 Secondo Carlin Petrini, il cambiamento climatico dovuto all'effetto serra è provocato solo per il 17% dalla mobilità, mentre il 34% è invece colpa del comparto agroalimentare.
3 Alessandro Di Battista, “I nuovi zapatisti con la Coca-Cola”, il Fatto Quotidiano, 23 settembre 2018.


-->