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Paternalismo
razzista e liberismo assistenziale nemici del cambiamento.
Schizofrenie
L'immaginario
sulle migrazioni della maggioranza degli italiani pare divergere. O
si identifica nei “nostri” migranti del passato, di “quando
eravamo poveri” alla ricerca di un posto nel mondo, magari in
America, in cui scampare alla miseria. O, all'opposto, si percepisce
come “pellerossa”, nativi di quella stessa America, invasi ed in
procinto di essere sovrastati da orde di nuovi arrivati; con un
singolare rovesciamento di ruolo delle “razze”: i bianchi europei
di oggi al posto degli indiani di ieri.
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Salvini fa l'indiano |
Supporsi
invasi, come dimostra una recente ricerca dell'Istituto Cattaneo,
ingigantisce la paura, riducendo la disponibilità all'accoglienza. E
questo è un fatto indiscutibile.
Tuttavia,
non di rado ascoltiamo messaggi schizofrenici, proprio da coloro che
vorrebbero se non minimizzare, almeno ricondurre il percepito alla
reale consistenza del fenomeno (stranieri non al 20% della
popolazione, bensì al 7%).
Messaggi
del tipo: “Qualunque barriera eretta contro i flussi è destinata a
venire infranta da ondate migratorie di milioni di persone,
provenienti da Paesi senza crescita ed incontenibile esplosione
demografica. É la grande storia degli esodi contro i quali è vano
opporsi. D'altro canto noi non facciamo più figli...”
Attenzione,
delle due l'una: o le dimensioni del fenomeno sono trascurabili per
il domani quanto per l'oggi; o si tratta di una percezione popolare
che anticipa ansiosamente, ma in base ad un'aspettativa realistica,
una incombente grande ondata.
In
quest'ultimo caso minimizzare avrà comunque scarso e breve seguito.
Bisognerà,
invece, far fronte ad una prospettiva di carattere catastrofico, sia
per “loro” che per “noi”. Per intenderci: catastrofico quanto
il surriscaldamento globale, che non è ritenuto troppo globale per
venire accantonato ed eluso; mentre lo sarebbe il problema
dell'assetto agricolo ed alimentare del pianeta, causa principale
dello spopolamento delle campagne.
Infatti,
ridurre al 5% circa (sul modello euro-occidentale) la popolazione
attiva in agricoltura, per la gran parte dei Paesi del mondo equivale
ad addensare milioni di persone nelle grandi bidonvilles di
megalopoli, dalle quali chi vorrà potrà fuggire solo disponendo dei
minimi mezzi
necessari per farlo.
Perché
il problema agro-alimentare non rientra nelle priorità?
Forse
perché partire da questo ambito, affatto estraneo all'ambiente,
significherebbe destabilizzare alla radice la globalizzazione
attuale, fondata sul libero scambio, sullo straripante potere delle
multinazionali e sulla rovina dei contadini, coltivatori poveri di
aree del mondo da cui vengono cacciati. A questo proposito è
interessante quanto scrive Alessandro Di Battista
dal Chiapas [vedi finestra “I colonizzatori
di oggi”, a pag. 2]. La situazione del Messico, alla
frontiera con gli Usa, può essere paragonata a quella di Paesi
africani vicini.
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I
colonizzatori di oggi
«I
colonizzatori di oggi non devono aprirsi la strada con le armi, gli
bastano i trattati di libero commercio o le novelas che mostrano
modelli di vita irraggiungibili. Si chiama globalizzazione e i
partiti di sinistra europei, se ancora così si possono chiamare, ne
sono diventati i principali paladini. E continuano imperterriti su
questa strada, parlano di Ttip e Ceta spacciando il libero mercato
come la chiave per lo sviluppo e poi, per lavarsi le coscienze,
improvvisano passerelle sulle navi dei migranti dimenticando che
quella gente fugge dalle diseguaglianze che loro stessi hanno
contribuito a creare.
(…)
Grazie al Nafta si sono arricchite multinazionali dell'agro-business,
i padroni dei semi, i padroni del cibo, i padroni del mondo.
Pensate
che il libero mercato sia libero davvero? Andatelo a raccontare a
quei contadini costretti i vendere le proprie terre perché dagli
Usa, grazie al trattato Nafta, arrivano derrate di masi a basso costo
che hanno reso insostenibile lavorare la terra. Da contadini umili ma
sempre padroni di loro stessi si sono trasformati in quell'esercito
di derelitti che ha prima popolato i bassifondi delle metropoli
centroamericane vedendo i figli strappati dalle bande armate dei
quartieri caldi, poi ha attraversato il Messico sperando che al di là
del muro vi fosse un'opportunità per le loro
famiglie.
Il
bello è che tra gli obiettivi del Nafta c'era anche quello di
contrastare l'immigrazione clandestina. Ma nei dieci anni che vanno
dagli inizi del 1980 al 1990 il numero di messicani presenti negli
Stati Uniti d'America passò da 2 a 4 milioni e mezzo. Dal 1994 –
anno di entrata in vigore del Nafta – al 2000, raggiunsero quasi i
10 milioni.
(…)
Da queste parti qualcuno ha capito che occorre partire dalla
sovranità alimentare. L'ha capito Aldo Gonzales e i promotori della
Unosojo che girano le montagne di Oaxaca incontrando le popolazioni
indigene e provando con loro a mettere in piedi progetti di difesa
del mais nativo.»
Alessandro
di Battista
Dissanguamenti
L'idea
di aiutarli “a casa loro” s'è fatta strada quando è apparso che
“a casa nostra” l'immigrazione pianificata dall'Unione europea
era insostenibile sia economicamente che politicamente.
Non
si possono in effetti negare alcune evidenze per chi proviene
dall'Africa: l'eventuale salvataggio in mare e l'iniziale ospitalità
non si traducono in integrazione, bensì troppo spesso in
emarginazione e lavoro supersfruttato. Ne approfittano a man bassa le
mafie, le quali, imitando le aziende, affidano in outsourcing
alcune attività criminali, salvo ammazzare “in proprio” i
migranti (neri) che non volessero sottomettersi.
La
creazione di un esercito di mano d'opera di riserva abbatte i livelli
salariali ed assicurativi dei residenti (compresi gli immigrati
arrivati qualche anno fa), disincentivando le imprese a migliorare la
produttività. Sulla fruizione di un welfare sempre più
ridotto, si scatena una guerra tra poveri per mettere in fondo alla
fila i nuovi arrivati, al grido “Prima gli italiani!”
Tuttavia,
solo chi appartiene ai ceti agiati ed abita nei quartieri bene delle
grandi città può pensare di rispondere a questo slogan con
aristocratico ribrezzo ed accuse politically correct: vanno
trovate soluzioni concrete per impedire alle fratture sociali di
stabilizzarsi ed a xenofobia e razzismo di incistarsi.
D'altro
canto, solo le classi più privilegiate possono ottenere un vantaggio
dal perpetrarsi del laissez-faire in materia di immigrazione,
relegando la politica dello Stato al mero ruolo di soccorso ed
assistenza umanitaria, quasi fosse la Caritas.
Infine,
alle difficoltà dei Paesi d'arrivo corrisponde una “perdita” dei
Paesi di partenza: la migliore gioventù se ne va, privandoli delle
energie necessarie al loro sviluppo. Così l'Africa si dissangua come
se fosse ancora vittima delle grandi razzie degli schiavisti europei.
Paternalismo
razzista
Un
retrogusto amaro che non rimanda solo, come un déjà
vu, ai tempi andati.
Da
secoli l'Europa pretende di aiutare a casa loro i popoli del mondo,
diffondendo la “luce della sua civiltà”
dalle Americhe all'Estremo Oriente. Una sorta di paternalismo
razzista avvolge la cruda realtà dell'aggressione europea al resto
del mondo, sin dai tempi di Cristoforo Colombo e di Vasco de Gama.
Una luce di civiltà talmente accecante da impedire ai suoi moderni
cantori, pure “de sinistra”, di vedere il lato oscurissimo di
quella stessa civiltà. Peraltro ben conosciuto dai popoli da “noi”
aiutati “a casa loro”.
Si
tratta non solo della storia, ma del presente. Come è possibile
aiutare a casa loro le popolazioni africane, quando interi gruppi
dirigenti nazionali sono stati distrutti? Con ogni mezzo, dalla
corruzione, all'assassinio, alla guerra d'aggressione, l'Occidente ha
sistematicamente eliminato ogni possibile forza organizzata per
l'autodeterminazione e lo sviluppo indipendente, per poi accusare
quei Paesi di essere privi di “interlocutori affidabili”. Sicché
gli unici interlocutori rimasti sono i signori della guerra e del
ricatto internazionale, pure sui flussi migratori.
La
Libia come Stato non esiste più e non mancano coloro che, nonostante
gli svolgimenti bellici avversi, ancora sognano di riservare alla
Siria la medesima sorte. Mentre si vaneggia di Europa, l'amica
Francia ha rafforzato l'impegno in Africa: dalla Libia ai Paesi
sub-sahariani. É per "aiutarli a casa loro" che tra partners europei e non solo è ripresa questa contesa sulle materie prime, dal petrolio all'uranio?
Se
lo scopo, come si legge nelle dichiarazioni ufficiali dell'Unione, è
affrontare il problema delle migrazioni rimuovendone le cause, due
sono le priorità: quella, prima ricordata, dell'agro-alimentare e
quella di quale destino debbano avere le materie prime strategiche.
Se rispondere alle esigenze di sviluppo dei Paesi che le producono e
le dovrebbero detenere o, al contrario, servire a quello che si
chiamava colonialismo ed ora è innominabile perché, ancora una
volta, europeo. Anche se non solo europeo.
Note
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