mercoledì 19 novembre 2014

Storia recente che parla al presente

Riccardo Bernini - ottobre 2014

Storie

Storia recente che parla al presente

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I rapporti tra fascismo, liberismo e keynesismo. Successo delle socialdemocrazie. Eurocomunismo ed austerity. Il neoliberismo non muore per la crisi.

Keynes e Mussolini
Mesi fa Sergio Romano e Giorgio La Malfa1 hanno cercato di ricostruire i motivi per i quali il "Corriere" rifiutò l'offerta di collaborazione da parte di Keynes, dopo il successo del suo libro "Le conseguenze della pace" sulla conferenza di Versailles (1919). Pare per l'avversione che Mussolini, allora antigermanico e fautore delle riparazioni di guerra a favore delle potenze vincitrici, nutrisse per quanto sosteneva Keynes a questo proposito. Sul veto pesò anche la vicenda sorta attorno alla posizione di Piero Sraffa (oggetto della spalla di La Malfa), a Londra seguace di Keynes, che aveva avuto il torto di evidenziare la situazione in cui versavano le banche italiane. Un vero antitaliano, per i fascisti.
La Malfa ricorda l'atteggiamento compiacente della borghesia liberale milanese verso il fascismo2, mitigata dai ripensamenti di una piccola parte di essa dopo il delitto Matteotti.
Mentre Romano coglie l'occasione per manifestare un certo oltranzismo liberista. Riconosce che Keynes aveva ragione nel sostenere il deficit spending contro i difensori delle politiche di bilancio alla De Stefani3. Tuttavia, per Romano il keynesismo s'adattava meglio ai regimi autoritari: "Keynes non aveva torto, anche se la sua ricetta piacque a regimi autoritari, o poco inclini allo sviluppo dei traffici internazionali4, piuttosto che a Stati democratici e liberali."
A riprova porta l'entusiasmo suscitato in Mussolini dalla cooperazione istituzionalizzata (nella NRA5) tra governo-sindacati-imprenditori, messa in campo dal New Deal applaudito da Keynes. Nella recensione al libro del ministro dell'Agricoltura e collaboratore di Roosevelt, Henry Wallace, "Che cosa vuole l'America?", Mussolini accoglieva caldamente la novità della collaborazione istituzionalizzata perché vi intravvedeva una versione del suo corporativismo. Ma poiché quella "grande democrazia" disponeva di anticorpi, la NRA fu poi bocciata dalla Corte Suprema, al contrario di quanto successe in Italia.
"Niente è più mutevole della storia"
Il detto cinese è irridente. Canzonatorio ma acuto. Infatti, entrambi i commentatori saltano a piè pari un pezzo di storia e alcuni fatti rilevanti, dissimulando l'oggetto attuale del contendere.
Nell'immediato periodo postbellico e per i primi anni della dittatura, il fascismo fu liberista e la buona borghesia liberale non a caso ne fu affascinata. Alcuni studiosi hanno visto nel fascismo una primaria vocazione liberista, tale da rendersi violento strumento di ripristino del "libero mercato" contro le esigenze ed i vincoli posti dalla "società". Certamente il liberismo fu, per la borghesia, una bussola ben più importante della sua vocazione liberale, intesa come adesione alla liberal-democrazia. Transitoriamente poteva servire il fascismo in funzione antisocialista e antipopolare: l'obiettivo ben valeva una messa fascista! A questo allude La Malfa?
Ma la posizione di Mussolini, dopo il '29 e non immediatamente, cambiò. Obtorto collo, per il nazionalismo fascista. E la ragione della precedente avversione a Sraffa si comprende appieno in base al tentativo del governo di allora, ministro delle Finanze il liberista Alberto De Stefani, di convogliare sull'Italia investimenti dagli Stati Uniti in esuberante disponibilità. Mentre il sistema finanziario italiano è in palese difficoltà, gli americani, tra il 1913 e il 1929, hanno più che raddoppiato il prodotto nazionale e "l'eccedenza della bilancia commerciale ha comportato il versamento verso gli Stati Uniti di metà delle riserve auree del mondo."6 Era il tempo della famosa "quota novanta"7. Più tardi, appunto in seguito alla caduta di Wall Street, Mussolini cambiò rotta e, con l'aiuto di Beneduce, aderì di fatto al keynesismo. D'altro canto occorre ricordare che il New Deal ebbe pieno successo non prima, ma grazie all'impegno bellico. Un unico prolungato conflitto, svoltosi in due guerre mondiali dai connotati solo parzialmente diversi, avevano spostato il baricentro del sistema-mondo oltre l'oceano Atlantico.
Matrimonio e divorzio
Da quella storia, pertanto, possiamo evincere:
    1) il liberismo non fu affatto opposto al fascismo; il fascismo fu liberista nella sua prima fase, negli anni venti; e, anche in anni più recenti, come dimostra l'amore tra Cile di Pinochet e scuola di Chicago, fascismo e neoliberismo si sono felicemente coniugati;8
    2) il keynesismo fu adottato sia dalla "grande democrazia americana" che dal fascismo e dal nazismo, negli anni trenta del Novecento; ne fecero strumento per una crescita industriale trainata dalla produzione bellica;
    3) la distanza tra una politica economica orchestrata dall'insieme governo-imprenditori-sindacati (cooperazione negli USA di Roosevelt, concertazione9 dalla fine degli anni settanta in Italia) ed il corporativismo fascista non è poi tanto grande: appare diversa solo per i diversi gradi di istituzionalizzazione; il che, a scanso di equivoci, definisce anche diversi gradi di coercizione e repressione (assolutizzazione) verso gli esclusi.
Sull'orizzonte storico pesa la questione incombente e dirimente (non fu solo istintuale panico di classe), ossia come il capitalismo e l'imperialismo colonialista dovevano affrontare le conseguenze non tanto della pace, ma della Rivoluzione d'ottobre e di quel che conseguiva per il movimento operaio e per le lotte di liberazione nazionale. Il keynesismo10 di fatto salvò l'Occidente: dalla crisi prolungata successiva al '29 di Wall Street, ridando fiato alla crescita industriale e pieno sviluppo alla società dei consumi di massa; dalla concomitante decadenza della potenza inglese, permettendo che il suo baricentro si spostasse da Londra a New York; dal disorientamento ideologico, soppiantando liberismo e monetarismo e conferendo temporanea e rinnovata stabilità al sistema. Consentì poi all'Occidente atlantico a guida nord-americana di vivere i suoi "trenta gloriosi anni" nel secondo dopoguerra, pur se di glorioso per la grande maggioranza dei popoli del pianeta vi fu solo quello che derivava proprio dalle rivoluzioni contro quel sistema-mondo.
Il tardivo successo della socialdemocrazia europea
Le fortune delle socialdemocrazie politiche e sindacali, in quegli anni del dopoguerra, si ebbero nello spazio di mediazione tra la grande ondata rivoluzionaria11, la strategia di contenimento attuata con ogni mezzo dall'Occidente, compresa la guerra, e la necessità nei paesi confederati della Triade (USA, Europa, Giappone) di allargare la base di consenso popolare al proprio interno. Appunto tramite le politiche keynesiane che, appena la situazione internazionale e interna lo permise, vennero prontamente abbandonate, almeno per la parte riguardante le classi lavoratrici, non certo per il ruolo dello Stato a favore delle multinazionali e degli oligopoli. Liberismo per i poveri e keynesismo per i ricchi.12
In Europa il rapporto tra socialdemocrazia e comunismo ha vissuto fasi alterne, in forza delle quali la prima ha ceduto l'iniziativa strategica al secondo. Nel periodo precedente il primo conflitto mondiale, il movimento operaio era diviso tra riformismo e rivoluzione. La componente riformista fu spesso maggioritaria e la pratica politica della minoranza ne subiva l'iniziativa e ne veniva condizionata. Con l'adesione alle ragioni patrie della Grande Guerra, le socialdemocrazie si sottomisero alle superiori necessità del proprio imperialismo. Dall'Ottobre persero via via la leadership nel movimento operaio internazionale, al quale andava collegandosi l'imponente ed esteso movimento di liberazione anticoloniale e antimperialista. Al loro declino contribuì il partito socialdemocratico tedesco (SPD) con la repressione dei moti spartachisti.13
Nel secondo dopoguerra divennero forza di governo a pieno titolo, conseguendo un tardivo successo. In un quadro internazionale, politico ed economico nuovo, assunsero un ruolo di "mediazione" avendo come bersaglio il comunismo, con cui però rivaleggiare sul versante dello Stato Sociale e delle politiche salariali, fruendo degli spazi riformisti concreti offerti dall'affermazione delle ricette keynesiane e dallo sviluppo che esse garantirono. Quel successo è associato ai "trenta gloriosi anni" del capitalismo occidentale.
Dai primi anni '80 le socialdemocrazie europee finirono, tuttavia, per aderire al neoliberismo, alla sua globalizzazione e al dominio della finanza. I suoi connotati riformisti e di sinistra sono andati rapidamente stemperandosi, in modo tale da non essere più riconoscibili. Come meravigliarsi se agli occhi dell'opinione pubblica contemporanea "destra" e "sinistra" appaiono identità desuete e prive di consistenza politica?
Austerità ante litteram
Nel nostro Paese, questi passaggi hanno avuto un loro particolare svolgimento storico per la presenza del PCI. L'eurocomunismo (dei partiti italiano, francese e spagnolo) non significò adesione tout court alla socialdemocrazia europea, per ragioni che tralascio e sulle quali, con il vantaggio della distanza temporale, sarebbe utile ritornare per approfondirne la comprensione.
Importa qui sottolineare che nella seconda metà degli anni '70, i processi ristrutturativi che PCI e sindacati accettarono, in linea con la strategia del "compromesso storico", ebbero un'importanza decisiva nella lotta tra le classi: sgombrarono il campo al successivo prorompere della mondializzazione neoliberista14. Non a caso quella strategia impose austerità (!) ai lavoratori e al Paese. Ciò avvenne in un clima di caccia alle streghe, con una massiccia campagna mass-mediale di regime e facendo ampio ricorso alla repressione15: ogni movimento di opposizione, in particolare quella operaia, venne accusato di terrorismo e accomunato al brigatismo. Una responsabilità affatto irrilevante del PCI e del suo gruppo dirigente, che poi inquinò alla radice qualsiasi pretesa rifondativa.16
L'oggetto attuale del contendere
Consiste nelle divergenze sulle politiche economiche, da cui la diversa narrazione storica a supporto delle rispettive tesi.
Il governo Renzi, nonostante voglia differenziarsi dai precedessori Letta e Monti, persegue una linea che somiglia a quella del Mussolini di quota novanta (allora di aggancio alla sterlina e al gold standard, ora all'euro moneta unica) e della ricerca di finanziamenti esteri americani. Con un'aggravata coazione a ripetere17, se consideriamo che il nostro '29 ha avuto luogo nel 2007-200818, oramai più di 7 anni fa.
Gli ingredienti della austerity sono noti e non dissimili, per le conseguenze deflattive in primo luogo salariali, la depressione del mercato interno, la chiusura di una parte rilevante dell'industria manifatturiera: moneta forte e sopravvalutata rispetto all'economia territoriale; ricerca spasmodica e infruttuosa di capitali sul mercato finanziario internazionale; perseverante privatizzazione a favore dei Fondi con quartier generale a New York o Sovrani, dei Paesi che dispongono di un surplus esportativo da investire, come i reami arabi e la Cina.
"The Strange Non-Death of Neoliberism"19
Si è aperta un'aspra contesa sulla moneta unica europea e la politica di austerity. Anche la Germania arriva a soffrire delle misure imposte ai Paesi più deboli. Potrà reggere l'euro?
Tutta l'attenzione è concentrata sulla crisi dell'Europa e sulle guerre in Ucraina e nel Medio Oriente. In rapida successione il dibattito intellettuale si è spostato dalla critica all'Economics,20 alla ricerca di una alternativa al suo fallimento, verso la geo-politica e le sue implicazioni. Sbrigativamente sono stati messi in secondo piano sia la comprensione della crisi sistemica sia la riforma del sistema stesso, che sembrava ineludibile all'indomani del biennio 2007-2008.
Eppure l'interrogativo posto da Colin Crouch rimane essenziale. Il sociologo inglese, professore anche in Italia, riconduce la non-morte del neoliberismo alle strutture delle imprese giganti e alla loro prevalente forza nel mondo economico e politico. Sostiene che ciò pone un problema non solo di democrazia, ma soprattutto di mercato, osservando in particolare il fenomeno della "privatizzazione del modello keynesiano". Laddove, per arricchire i già ricchi, è stata data una base di consenso più ampia alla finanziarizzazione, attraverso, per esempio, i piani previdenziali e pensionistici gestiti da imprese private (i relativi Fondi), che apre un conflitto di interessi tra gli azionisti e le altre parti coinvolte (stakeholders) su cui vengono trasferiti i rischi.
Sicché, in estrema sintesi: "Siamo così diventati tutti complici del modello finanziario, cosa che ha reso ancor più difficile per i governi opporsi alle richieste delle banche di aiutarle a rimettersi in piedi per ricominciare tutto da capo."21
Mi pare poco convincente pensare di porre rimedio a tutto ciò, affannandosi su nuove regole o morali sulla responsabilità sociale d'impresa, magari con il corollario di apposite Autorities di cui abbiamo già sperimentato l'inutilità, se non la costosa funzione di reale copertura del sistema così come si è andato configurando.
Nondimeno l'analisi dello strapotere dei giganti e l'intreccio imprese-consenso-politica ha una sua consistenza ed induce a pensare alla post-democrazia a cui saremmo avviati.
Ritorno della storia (che era finita)
Rimane il fatto incontestabile che il neoliberismo non è defunto con la crisi, ma sopravvive come anima nel corpo di un sistema dominato dalle oligarchie finanziarizzate. Perché non è il cambiato il "paradigma", come avvenne dopo la crisi del '29? Ovvero, perché non sopravviene il change, una riforma del modello nel sistema nei e dai Paesi ricchi? Perché le politiche keynesiane, o neokeynesiane, non hanno sostituito quelle neoliberiste?
Dalla ricognizione storica sin qui condotta possiamo indicare, in breve, alcune concause.
  • Non esiste alcun pericolo esterno, uno "spettro" rappresentato da un sistema proprietario alternativo e da un esperimento attrattivo verso le classi lavoratrici del globo, né più un minaccioso vento dell'Est.
  • Sul piano interno l'industrialismo, non solo fordista, è stato assai indebolito. Il mondo non è in un'epoca post-industriale,22 ma i Paesi ricchi della confederazione USA-UE-Giappone vivono un passaggio post-industriale, dovuto alle delocalizzazioni e alla finanziarizzazione.
  • Il complesso sistema di globalizzazione, messo in piedi ai diversi livelli, appare congegnato come lo voleva Friedrich von Hayek23 e in modo tale da non permettere facili ritorni. Senza sovranità nazionale, devoluta a superiori organismi e regole internazionali negli anni di egemonia del pensiero unico liberal-liberista, non solo si fanno vieppiù ridotte le prerogative democratiche, ma gli spazi d'agibilità per una politica economica autonoma sono diventati asfittici. In particolare per Paesi come l'Italia.
  • Sul piano culturale i think tanks24 neoliberisti hanno sopraffatto le casematte del paradigma sostitutivo. Contemporaneamente si è diffuso un "riduzionismo" del pensiero che ha trasformato l'economia politica in Economics, astraendola dai problemi reali con modelli e proiezioni matematiche sempre più specialistici e settoriali, mentre soffoca nella microeconomia ogni respiro macroeconomico.25
  • Pure nelle istituzioni politiche, chiunque si opponesse alla révanche dei ricchi, sul tipo di quella imposta da Reagan,26 con tutta la devastante potenza di fuoco dei mass-media è stato ridotto all'angolo se non al silenzio.
Tuttavia, proprio per la tabula rasa effettuata in questi ultimi ingloriosi trent'anni, la crisi sistemica rimette in moto energie, critiche e cambiamenti esogeni, esterni al sistema asserragliato nel suo pensiero unico.
Intanto assistiamo a veri e propri boomerangs di ritorno. Coloro che vollero la globalizzazione, di fronte all'emergere dei BRICS27 nel quadro di una traballante leadership statunitense, sembrano quantomeno intenzionati a limitarne l'estensione per non accettare con la propria decadenza la realtà affiorante di un mondo multipolare. Nella vecchia Europa e ai suoi bordi, ad Oriente e sul Mediterraneo, ribollono antichi e nuovi maligni spiriti ed essa mostra la tendenza a riprendere, se non altro, il proscenio delle tensioni globali.
La storia breve, ma anche di lunga durata, chiede il conto.

1 "Corriere della Sera", 31 gennaio 2014
2 G. La Malfa, nell'articolo oggetto del commento: "(...) la buona borghesia liberale milanese (e non solo) guardava allora al fascismo con simpatia, come una medicina necessaria per portare ordine nel Paese."
3 Alberto De Stefani fu sostituito, come ministro delle finanze, da Giuseppe Volpi (1925-1928).
4 Una delle conseguenze del crollo di Wall Street fu la caduta del commercio internazionale, a cui le politiche keynesiane cercarono di porre rimedio. Quei fatti, per esempio (lo scrive Polany ne 'La grande trasformazione'), ebbero come conseguenza un forzato indirizzo della neonata URSS verso uno sviluppo autarchico.
5 Acronimo di National Recovery Administration.
6 G. Ruffolo, Testa e croce, Einaudi, 2011, pag. 116
7 Politica fascista di tenere il cambio di 90 lire per 1 sterlina, appunto "quota novanta", incaponendosi oltre l'abbandono del gold standard da parte del governo inglese. Vedi anche M. De Cecco, Ma cos'è questa crisi, Donzelli, 2013, pagg. 175-179.
8 Nel magma della destra xenofoba, nazionalismo fascistizzante e localismo "etnico" si mischiano al neoliberismo: M. Salvini della Lega Nord ripropone oggi la flat tax di Milton Friedman.
9 Non si dimentichi la questione della democrazia sindacale. Per tutto il periodo della concertazione ha prevalso l'erga omnes nella sottoscrizione dei contratti di lavoro; venuta meno tale politica, essa è stata risollevata (fu sollevata dal movimento della opposizione operaia alla fine degli anni '70) recentemente dalla Fiom di Maurizio Landini.
10 Il giudizio più complessivo sulle idee di J.M. Keynes non può limitarsi, tuttavia, all'uso che se ne fece.
11 Samir Amin, La Crisi, Punto Rosso, 2009.
12 Mi riferisco al keynesismo militare di Ronald Reagan e, più recentemente, all'enorme esborso degli Stati per salvare le rispettive banche nazionali dal fallimento.
13 Quella repressione, nel gennaio 1919, fu guidata dalla socialdemocrazia di Ebert, Scheidemann e Noske, che non esitò ad unirsi ai Freikorps, incubatori del nazismo. Vi furono assassinati Karl Liebnecht e Rosa Luxemburg.
14 Una funzione paragonabile a quella, più grande e drammatica, dell'ultimo PCUS di Gorbaciov nello spianare la via alla disintegrazione dell'Unione Sovietica perseguita da Eltsin.
15 Non a caso ne fu protagonista Francesco Cossiga che rivendicò la giustezza di Gladio in perfetta coerenza storica.
16 Nessuno dei nodi politici del periodo fu affrontato da Rifondazione, compreso quello sindacale. La stessa figura di E. Berlinguer restò e resta sospesa in un limbo mitico fuori dalla storia reale.
17 http://vocidallestero.blogspot.it/2012/04/john-maynard-keynes-spiega-le.html gioca con i nomi e, riproducendo il capitolo 5° del pamphlet di Keynes "Le conseguenze economiche di Winston Churchill", mostra la stupefacente analogia tra il gold standard, a cui era agganciata la sterlina e la lira di quota novanta, e l'attuale politica di gestione dell'Eurozona.
18 Al 2007 risale il crollo finanziario americano dei subprime. Al 2008 risale il fallimento di Lehman Brothers.
19 Colin Crouch, Il potere dei giganti, perché la crisi non ha sconfitto il neoliberismo, Laterza, 2011. Il titolo originario può essere tradotto in: "La strana non-morte del neoliberismo."
20 Traducibile in Economica, scienza economica.
21 Colin Crouch, ibidem, pag. 130.
22 Ha-Joon Ghang, 23 cose che non ti hanno mai detto sul capitalismo, Il Saggiatore, 2012 (2010), pagg. 95-106.
23 Friedrich von Hayek,The Economic Conditions of Interstate Federalism, rivista "New Commonwealth Quarterly", 1939.
24 Traducibile in serbatoi (tanks) di pensiero (think), ma tanks significa anche carrri armati.
25 Si è giunti al punto di considerare un Paese intero come un'impresa (l'impresa-Italia), ingenerando una perdita di cultura politica ben incarnata dall'attuale compagine governativa.
26 Paul Krugman nel libro "La coscienza di un liberal" (2007) sostiene che la svolta degli anni ottanta è stata una sorta di révanche della parte più ricca degli Stati Uniti contro il New Deal degli anni trenta, per riprendersi quanto avevano dovuto cedere.
27 Acronimo di Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica.

Anni trenta e Bretton Woods
Negli anni Trenta del secolo scorso si affermano le politiche keynesiane: lo sganciamento, nel settembre del '31, della sterlina inglese (vedi polemica di Keynes contro W. Churchill) dal gold standard a cui era incatenata; l'abbandono tardivo da parte di Mussolini della sciagurata "quota novanta"; l'adozione del New Deal di Roosevelt (presidente dal '33) negli States; le obbligazioni MeFo di Hjalmar Schacht (1933-36) nel Terzo Reich.* Da quelle iniziali affermazioni il keynesismo arriverà a dominare il pensiero economico d'Occidente fino alla svolta (stagflazione, inconvertibilità del dollaro, shocks petroliferi, petrodollari e prestiti di prima istanza della Fed) dei primi anni Settanta.
Le politiche economiche dei governi, tuttavia, come dimostra l'esito della conferenza di Bretton Woods, seguirono le indicazioni di Keynes solo parzialmente
La battaglia di Bretton Woods (luglio 1944). Così fu chiamata poiché nella località americana si fronteggiarono due progetti: quello di Harry Dexter White, delegato statunitense e quello di John Maynard Keynes, delegato del Regno Unito. Prevalse quello di White, a segnare il definitivo passaggio della leadership sull'altra sponda dell'Atlantico.
Secondo Keynes ogni tre anni i debiti ed i crediti derivanti dai volumi di scambio del commercio internazionale dei paesi partecipanti, computati in Bancor, moneta di conto, dovevano essere compensati (sull'esempio della compensazione annuale legata alle fiere di Champagne nella Lione medioevale) per evitare gli squilibri più volte sperimentati storicamente (e puntualmente riemersi negli anni a venire). Keynes voleva soppiantare ad un tempo il sistema a base aurea e l'assunzione della valuta di un paese (convertibile in oro) a riferimento degli scambi internazionali.
Il piano White assumeva, al contrario, il dollaro a valuta di riferimento, convertibile (gold exchange standard), con delle limitazioni sia nei cambi che nella mobilità dei capitali. I rapporti tra le valute erano fissi, tutte agganciate al dollaro, seppur aggiustabili per decisione dei rispettivi governi, come di fatto avvenne in seguito. Fu creato il Fondo Monetario Internazionale. Restarono in sospeso molti problemi, tra cui gli eccessi di esportazione.
Non si sfugge all'impressione postuma che l'impianto delle relazioni economiche e monetarie internazionali uscito da Bretton Woods fosse già posizionato su un labile confine: una parziale restaurazione, nessuna rinuncia di principio al liberismo, un keynesismo circoscritto per guadagnare tempo.
* Sull'argomento vedi "Le MeFo di Hjalmar Schacht".

martedì 18 novembre 2014

Krajne e dintorni

Riccardo Bernini - ottobre 2014
Messe a fuoco

Krajne e dintorni

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Territori di confine. Dalle piccole patrie della ex-Jugoslavia all'Ucraina. Guerre d'Europa e NATO. Con l'egemonia USA traballa anche la globalizzazione?


Prima che la crisi Ucraina deflagrasse, l'allora ministro degli esteri dell'Italia in visita a Kiev, Mogherini, ebbe a ricordare che la parola krajna significa terra di confine, non necessariamente luogo di separazione ma possibile territorio di congiunzione. Non muro ma ponte. Forse per questo dovette attendere un po' per essere nominata Alto rappresentante per la politica estera dell'UE (Mrs. PESC). Nomina che avvenne dopo dichiarazioni successive più "rassicuranti".
Confine
Di krajne l'opinione pubblica italiana e occidentale aveva cominciato a sentir parlare qualche decennio fa, quando esplose la crisi jugoslava e, tra le tante autoproclamazioni di indipendenza, proprio la Repubblica Serba di Krajna, proclamata il 1° aprile del 1991 dalla maggioranza serba allora residente1 nelle regioni di Krajna e Slavonia (capitale Knin) della Croazia, non ricevette alcun riconoscimento dalla "comunità internazionale".
Come per un incidente autostradale il problema fu allora "risolto", ripristinando la normale viabilità con il fattivo contributo USA allo sgombero della popolazione serba. Una feroce pulizia etnica tenuta nascosta, essendo assai poco funzionale al racconto atlantico-occidentale per cui le vittime sarebbero state unicamente e inizialmente quelle schierate dalla parte "nostra". Come se la logica delle piccole patrie etniche e confessionali fosse stata solo di Milosevic e non anche di Izetbegovic e Tudjman2 o dell'albanese UCK. Il nemico doveva essere serbo e così, qualche anno dopo (1999), anche l'Italia3, con D'Alema premier, poté partecipare alla guerra umanitaria di Clinton e della Nato in Kosovo. E senza neppure la copertura di un mandato dell'ONU.
Nota: l’Ovest ed il Centro-Nord del Paese vedono una predominanza di popolazione di etnia ucraina o che parla ucraino, mentre il Sud e l’Est hanno una maggioranza russa o russofona.
[Fonte: http://scenarieconomici.it/ucraina-le-mappe-per-capire-la-crisi/]
 


Crimea ed Ucraina
Con la crisi Ucraina sono tornate alla ribalta le vicende jugoslave. A parti rovesciate: ciò che allora giustificò i fulminei riconoscimenti delle autoproclamate repubbliche da parte di governi europei (Italia in prima fila con Austria e Vaticano4), sulla scorta di referendum organizzati manu militari, non vale più. Quale sia la misura minima necessaria, di spazio territoriale abitato dalla prevalente etnia, per ottenere il sigillo di liceità, lo decide, come sempre, il civile occidente. In un simile dibattito, poteva mancare la presa di posizione di un campione degli "europei della libera Europa", che tanta libertà a tutto il mondo ha dato? Bernard-Henry Lévy5 ha sentito immediatamente il bisogno di spiegarci la perfetta ragione delle cancellerie occidentali nel rifiutarsi di riconoscere alla Crimea il diritto di autoproclamarsi indipendente dall'Ucraina per aderire alla Federazione Russa, nonostante la storia.6
Il filosofo francese paragona il caso della Crimea a quello della Repubblica Srpska in Bosnia. Ma, per non contraddirsi, sottilmente distingue: fu giusto negare ai serbi bosniaci il diritto all'autodeterminazione riconosciuto alla Bosnia, mentre quello stesso diritto fu attestato agli albanesi del Kosovo, in quanto pluriennali vittime delle persecuzioni della Serbia. Dimenticando, con rinnovata filosofica disinvoltura, il precedente dell'epurazione dei serbi di Krajna.
Sulla Crimea, inoltre, obiettava: 1) il suo territorio è stato invaso da 30.000 soldati, "accerchiato le sue caserme e terrorizzato le sue popolazioni"; 2) le modalità di indizione e di svolgimento del referendum, "sotto l'autorità di un governo fantoccio", "appare, nel migliore dei casi, come una farsa e, nel peggiore, come un atto di forza"; 3) se l'Europa approvasse avremmo "conseguenze apocalittiche: cosa risponderemmo se, forti di questo precedente, i baschi spagnoli e francesi reclamassero la loro unificazione?"; idem per ungheresi della Transilvania, albanesi della Macedonia, turchi della Bulgaria, russofoni dei Paesi baltici, fiamminghi del Belgio. Nessuna frontiera in Europa sarebbe più sicura.
In forza delle prime due obiezioni finisce per prospettare l'ennesimo intervento militare umanitario a protezione dei popoli minacciati nella loro fisica integrità e contro "il progetto imperialista putiniano". Come fu per il Kosovo. Cotanto elevato pensiero potrebbe indurci a conferire troppo credito al morale, umanitario dovere degli "europei della libera Europa", piuttosto che ai loro interessi materiali e politici, a cui mostrano un secolare e più sicuro attaccamento. Ma è sull'ultima obiezione che occorre porre l'attenzione: il precedente! Il fatto è che avendo seminato a piene mani riconoscimenti e scontri etnici e confessionali, per disgregare ed espandere l'egemonia occidentale a Est, ora se ne temono le conseguenze anche a casa propria. Il virus rischia di contagiare tutto il vecchio continente e oltre.
Intanto a Cernobbio
La frattura inserita a Oriente tra Russia ed Europa è sembrata subito essere più conveniente per gli Stati Uniti che per molti Paesi europei. Negli ambienti del business si è fatto largo il sospetto che dietro l'appoggio ai nazionalisti di Maidan,7 ci fosse un disegno volto a ricreare nelle regioni contese un muro di divisione tra Russia e Unione Europea. La reazione di Putin ad una possibile estensione della Nato alle porte di Mosca era piuttosto prevedibile e prevista. In gioco c'è la politica energetica, il South Stream, gli interscambi commerciali e gli investimenti soprattutto tedeschi.8 Tutto ciò nel momento in cui è in corso la trattativa, tenuta riservata, tra UE e USA per la TTIP (Transatlantic Trade and Investment Partnership), proposto da Washington.
Nell'ultima assise di Cernobbio l'ex ambasciatore Sergio Romano, già a suo tempo su posizioni eterodosse a proposito della ex-Jugoslavia, si è confrontato sul tema della crisi ucraina con il senatore John Sidney McCain, candidato repubblicano alla presidenza sconfitto da Obama. A giudicare dal consenso ricevuto dall'intervento di Romano, la escalation di sanzioni verso la Russia e le sue conseguenze economiche e politiche non è affatto gradita al mondo imprenditoriale. Il caso ha voluto che, con il quasi contemporaneo scoppio della crisi in Siria-Iraq dovuta all'emergere del pericolo Isis, il senatore McCain fosse chiamato in causa per le sue missioni in Medio-Oriente e proprio per i rapporti con i tagliagole.9 Solo una sottovalutazione dell'ISIS o una "diabolica" coazione a ripetizione della operazione nord-americana relativa ad Al Qaida e Bin Laden?
Ma cosa hanno a che fare la Crimea, l'Ucraina, il fondamentalismo islamico e la ex-Jugoslavia?
Allargamento della NATO 1949-2009 [Fonte: Wikipedia]
Il NO alla guerra in Ucraina
Di fronte alla guerra ucraina alcuni analisti, pur dichiarandosi contrari ad un nostro coinvolgimento militare, stentano a comprendere il nesso tra le diverse crisi.10 È il caso di Aldo Giannuli11 che scrive di un "circoscritto caso jugoslavo", come se in quella guerra, la prima in Europa dalla fine del conflitto mondiale, non siano rintracciabili semi di perniciosa ed attualissima fecondità. Giannuli, professore all'Università Statale di Milano e autore di due interessanti libri sulla crisi,12 avanza l'ipotesi che si voglia andare ad una specie di "prova d'assaggio" rivolta a preparare psicologicamente l'opinione pubblica ad una più estesa guerra. E a conferma cita numerosi precedenti storici. Contrarie alla guerra e favorevoli ad un mondo multipolare, le sue posizioni meritano attenzione.
Non per un puntiglio storico, ma il caso jugoslavo sarebbe stato "circoscritto" se non avesse avuto alcun seguito: eppure proprio la guerra in Ucraina dimostra l'opposto e, a ben vedere, pure il caso del Califfato.
Il caso jugoslavo e oltre
Non voglio prendere in esame il modo come l'Europa si è costruita verso Est, riproducendo su scala continentale la dicotomia tra Centro e Periferie a cui è stato sottoposto l'intero globo. Ciò nondimeno può essere dimenticato il fatto che mentre la Germania si unificava e poneva le premesse per porsi al Centro, la disgregazione della Jugoslavia e di altri Paesi poneva le condizioni inverse, ossia la loro riduzione in Periferie addirittura di seconda fascia (della prima ne fanno parte di cosiddetti PIIGS13).
Che avallare le piccole patrie etniche e confessionali, nonché istigare allo scontro territoriale e nazionalistico, fosse utile solo a breve e in funzione dell'immediato economico, ma lanciasse un boomerang sul medio termine, è una evidenza successiva: il risultato di una scelta politica. Sicché da allora nessuna frontiera in Europa risulta stabile e sicura.
Interessa qui ricordare che la Serbia, nel decennio della crisi jugoslava, ebbe nella Russia uno dei pochi alleati. Nell'iniziazione dello spazio europeo allo scontro interetnico e interreligioso, in un quadro di generale regressione al passato, si resuscitò la tradizione di Mosca capitale del mondo ortodosso e pure il panslavismo ottocentesco. Oltretutto l'Occidente non esitò a favorire in Bosnia l'intervento di bande internazionali islamiste a fianco del riconosciuto governo fondamentalista di Izetbegovic. In quelle bande figuravano gruppi combattenti di Bin Laden (con relative teste mozzate di serbi esibite come trofei davanti alla macchina fotografica!).
Comunque, colpire la Serbia significava già allora puntare sulla Russia. Serve ricordare qualche precedente storico del primo Novecento?
Nei primi anni della guerra jugoslava gli Stati Uniti e la NATO, pur operativi sul campo, si mantennero in posizione coperta e defilata. Bastava attendere che i governi europei, già in ordine sparso, mostrassero tutta la loro impotenza politica, anche come Unione, dopo aver contribuito allo sfascio e innescato il conflitto. Esemplare fu l'eccidio di Srebrenica, perpetrato dalle milizie dei četnici serbi di Karadzic, nonostante la presenza dei caschi blu dell'ONU. Non sapevano "uscirne" da soli e, dunque, gli USA ebbero aperta la via per "mettere i piedi nel piatto", sia militarmente che diplomaticamente. Qualche anno dopo si ebbe il già menzionato intervento nel Kosovo con relativa installazione (Camp Bondsteel) di una base nord-americana a comando NATO.
Dopo Maidan e quello che è stato visto come un colpo di Stato, si ebbe una corrispondente reazione russa. Era nell'aria. Come la mossa, da parte di Putin, di presentarsi agli occhi della propria opinione pubblica quale alfiere dell'identità pan-russa, alla cui riesumazione andavano per altro da anni contribuendo misure discriminatorie verso i russofoni,14 messe in atto dal Baltico al Mar Nero da oltranzisti politici a cui non è mai mancato l'appoggio atlantico-occidentale.
Come accadde nella ex-Jugoslavia, durante gli anni successivi alla caduta del muro, nella crisi ucraina l'Europa si è dimostrata uno spazio politico a "sovranità condizionata" dalla sovrastante presenza della NATO a direzione statunitense. Alleati ma tenuti sempre sotto controllo, con una particolare attenzione alla riunificata Germania. Con il crollo dell'Unione Sovietica il problema degli USA consisteva nel contenere e condizionare il ruolo della Germania in Europa. Poiché la Federazione Russa non fu inclusa né nell'alleanza militare, né nell'UE,15 una così forte espansione della NATO ad Est non poteva non suscitare allarme a Mosca, tanto più se portata ai confini ucraini,16 o a mettere in forse la storica base navale di Sebastopoli in Crimea, connessa strategicamente all'unica base russa nel Mediterraneo, allocata in una Siria in preda alla guerra. Quale modo migliore per inserire una frattura tra Germania-Europa e Russia, nel momento i cui traballa l'egemonia nord-americana sul mondo?
Globalizzazione addio?
Se ne potrebbe anche concludere che Washington, reagendo alla caduta della propria egemonia, stia minando le basi stesse della declamata globalizzazione. Disseminando filo spinato, senza il richiamo pavloviano anticomunista, punta a una riedizione rinnovata della vecchia "strategia di contenimento"? Fatto sta che oltre alla già citata TTIP per l'Europa, Washington propone la Trans-Pacific Partnership (TPP), per chiudere da un lato la Germania e l'Unione Europea verso la Russia e, dall'altra, il Giappone e l'India verso la Cina, nel duplice sottinteso obiettivo: scardinare e dividere i Brics; tenere al guinzaglio i partners nella Triade17. Si tratterebbe di una strategia, non di un effetto conseguente ad un errore di prospettiva; e andrebbe oltre il "debole" Obama.
Siamo oltre il "circoscritto caso jugoslavo". Siamo alla Cool War.18

1 Fu l'impero austro-ungarico nel Cinquecento ad istituirvi una Marca militare (Militärgrenze) insediando contadini serbi armati per meglio difendere il proprio confine dall'espansione turco-ottomana.
2 Nell'ordine, gli allora presidenti di Serbia, Bosnia e Croazia.
3 In violazione palese del dettato costituzionale, all'articolo 11.
4 Papa Wojtyla non fu esente dall'"uso di Dio" che contribuì ad innescare il conflitto nella ex-Jugoslavia.
5 "Corriere della sera", 17 marzo 2014.
6 Nel 1954, la Crimea fu "donata" da Krusciev all'Ucraina nell'ambito dell'URSS, per festeggiare i 300 anni di unione tra Russia e Ucraina.
7 Tra cui gruppi paramilitari neofascisti in prima linea.
8 Dal 2006 al 2009, gli investimenti industriali tedeschi in Russia sono cresciuti del 132%, mentre sono diminuiti del 33% in Gran Bretagna, del 17% in Italia e del 10% in Francia. Fonte: G. Gabellini, Eurasia-rivista.org, La "questione tedesca", 14/3/2014. 
9 Il "Fatto Quotidiano", 11 settembre 2014, pubblica una foto del senatore con Ibrahim al Bradi al Baghdadi, capo del Califfato.
10 Sorprendente è l'assenza di qualsiasi riferimento al caso jugoslavo nel pur pregevole libro di L. Canfora e G. Zagrebelsky, "La maschera democratica dell'oligarchia", Laterza, maggio 2014.
11 Blog di Beppe Grillo, 6/10/2014, No alla guerra in Ucraina.
12 Aldo Giannuli: "2012: la grande crisi", Ponte delle Grazie, 2010; "Uscire dalla crisi è possibile", Ponte delle Grazie, 2012.
13 Acronimo di: Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia, Spagna.
14 Cristina Carpinelli, Paesi Baltici: tra integrazione europea e "apartheid", CESPI 2013, in http://www.cespi-ong.org/wp-content/uploads/2013/12/Carpinelli.pdf
15 Romano Prodi affermò che un inglobamento della Russia avrebbe trasformato l'Europa in una superpotenza.
16 Mosca dista 460 km dalla frontiera ucraina. Nell'Operazione Barbarossa (attacco all'URSS), l'Ucraina assunse un ruolo strategico per le armate tedesche del fianco Sud, in direzione di Stalingrado.
17 Samir Amin definisce Triade l'alleanza USA-Europa-Giappone.
18 Traducibile in: guerra fresca (tra USA e Cina).

lunedì 17 novembre 2014

Immigrazione

Riccardo Bernini - ottobre 2014
Messe a fuoco

Immigrazione

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Percezione e realtà attuale. Una Grande Contraddizione ci sovrasta. L'interventismo umanitario e l'integrazione fallita. Multiculturalismo. Disgregazioni e nuova identità: il doloroso parto.

Tre momenti diversi di vita quotidiana
A casa della vecchia nonna la TV mostra le immagini di migliaia di persone provenienti dalla coste dell'Africa, salvate din mare aperto e sbarcate in Sicilia. La badante ucraina non riesce a trattenere un moto di avversione: "Cosa vogliono questi negri? Perché non se ne stanno a casa loro?" Alla nonnina italiana, in permanente "attrito" culturale con lei, non par vero di assumere una posizione benevola e universale: "Cosa vorresti che facessimo? Dovremmo lasciarli annegare tutti? E, poi, non sei anche tu una immigrata?" Risposta: Sì, ma europea."
Nel corso di una discussione, da un'amica mi sento dire: "Non dico che dovremmo loro negare il salvataggio in mare, ma certo dobbiamo trovare un modo per arginare questa ondata di flussi. Non siamo in grado di reggerla."
In un dibattito televisivo, talk-show, spunta un'osservazione: "Con minori costi umani ed economici potremmo organizzare un ponte umanitario dai paesi di partenza e trasferire le persone direttamente in Italia, magari con una ripartizione dell'accoglienza a livello europeo."
Nel turbinio di immagini, osservazioni, proiezioni politiche, ci si ritrova spiazzati. Dalla parte dell'umanità più afflitta e maltrattata, attratti dall'idea di piena pacifica convivenza, comprendiamo che "qualcosa non quadra". Cominciamo ad interrogarci sulla rapporto tra la realtà e parole come intervento umanitario, integrazione, società multietnica e multiculturale.

Fonte: ISTAT
Dalle porte di casa
Dall'Ucraina negli anni successivi alla dichiarazione d'indipendenza, correva il 1991, sono emigrate 7 milioni di persone. Di certo la guerra in corso non costituirà un incentivo a restare o tornare, soprattutto per i giovani maschi in età militare. L'espansione europea occidentale verso Est, da Nord a Sud, ha creato una seconda cintura periferica di forte immigrazione, a ridosso della prima cintura, più interna e costituita dai PIIGS.1 Già inglobati o in procinto di entrare, a questa seconda cintura di Paesi periferici interni all'UE si è recentemente candidata la stessa Ucraina.
Questi processi rappresentano la riproduzione su scala continentale delle polarizzazioni mondiali, sicché anche nell'Eurozona si è costituito un centro forte attorno alla Germania e sono stati ridotti a prima periferia i Paesi denominati con la spregiativo PIIGS.2
Inoltre, i flussi dal Nord Africa e dal Medio Oriente, ma pure dal Corno d'Africa, sono fortemente incrementati dai conflitti in corso, a cui non è mancato il solito "apporto" atlantico-occidentale3. Ai migranti che fuggono la miseria si aggiungono coloro che fuggono dalle guerre e dai campi profughi generati dalle guerre.
Nonostante l'Italia sia per molti solo una sponda di approdo per poi raggiungere altri Paesi del continente; malgrado l'inadeguata accoglienza, la detenzione nei CIE,4 ed un sistema che alimenta lo status di irregolari ridotti all'emarginazione e al più spietato sfruttamento, nelle campagne del Meridione come nelle periferie urbane del Nord, la popolazione straniera residente in Italia tende a stabilizzarsi nella crescita.

Emergenza!
La crisi europea non sembra costituire un deterrente per chi è colpito da crisi ben più devastanti.
"Secondo Frontex è proprio l'Italia ad aver ricevuto il maggior incremento delle richieste di asilo nel secondo quadrimestre 2014 con un balzo del 471%. In termini assoluti si parla di circa 45 mila richieste. Insieme a Germania e Svezia, l'Italia ha cumulato il 60% di quelle totali."5
La ragione è la fuga via mare, la stessa che, data la durata del viaggio su tragitti oramai tradizionali, rende estremamente improbabile l'arrivo di casi di infezione da virus Ebola, il quale ha tempi di incubazione minori.
Ad una più attenta disamina l'immigrazione in Italia presenta al momento un quadro così riassumibile: dalla fuga via mare deriva un temporaneo incremento degli irregolari, i quali dal 2011 erano in diminuzione; l'aumento della popolazione immigrata deriva dai tassi di natalità più che dall'affluenza dall'estero.
In un Paese abituato ad inseguire le emergenze, con relative liti dei governi sui costi, dal livello nazionale a quello europeo, l'informazione dimentica spesso non solo di andare alle cause delle guerre e alle responsabilità di chi poi litiga sulle ricadute economiche, ma, soprattutto, alla radice dei problemi.
La grande contraddizione
Presa dall'immediato, l'opinione pubblica è distolta dall'attenzione sul quadro più complessivo, globale, strutturale.
La questione viene posta, con estrema lucidità da un pensatore controcorrente, Samir Amin, che in un libro sulla Crisi dedica un intero capitolo6 al trascurato problema dell'agricoltura, vista nella dimensione più ampia. Il suo ragionamento parte dall'indubbio successo dell'agricoltura familiare moderna in Europa occidentale e negli Stati Uniti, grazie alla quale la produttività per lavoratore/anno (l'equivalente di 1000/2000 tonnellate di cereali) permette al 5% della popolazione attiva di nutrire la parte restante e pure di esportare l'eccedente.7 Come in un subappalto, essa è stretta in una tenaglia: "da una parte l'agro-business (che oggi gli impone le sementi selezionate, domani gli imporrà gli OGM) e la finanza (che gli concede i crediti necessari), e dall'altra i colossi della commercializzazione."
Ne deriva un inquietante quesito: nel momento in cui l'agricoltura del Sud8 del mondo verrà modernizzata per "via capitalistica", come sta avvenendo, quale sarà il destino di circa 3 miliardi di esseri umani che da essa traggono il proprio sostentamento? "Nel giro di cinquant'anni nessuno sviluppo industriale, più o meno competitivo, potrebbe assorbire neppure un terzo di questa riserva, persino nell'ipotesi fantastica di una crescita continua del 7% annuale per tre quarti dell'umanità." Pertanto, allo spopolamento delle campagne corrisponderà sempre più l'addensarsi di milioni di esclusi nelle bidonvilles di immense megalopoli.
Con tutta evidenza, in mancanza di un'inversione di tendenza politica ed economica, con riguardo particolare alla sovranità alimentare e ai rapporti di produzione in agricoltura, la sopravvivenza di queste popolazioni sarà il problema dei problemi. Secondariamente, anche se solo una parte di esse, come già accade, inevitabilmente tenterà di raggiungere i Paesi più ricchi, i flussi migratori avranno un forte ed insopprimibile incremento.
L'interventismo umanitario
Sul piano internazionale i Paesi ricchi, tra cui l'Italia e l'UE, continuano a spingere nella direzione, sin qui seguita, di trasformazione delle agricolture degli altri Paesi a danno delle loro popolazioni rurali e a tutto vantaggio delle "nostre" multinazionali ed oligarchie finanziarizzate. Al tempo stesso, cercano, sul piano interno, di regolare i derivanti flussi immigratori allo scopo di rinfoltire le fila dell'esercito di riserva occupazionale, in misura tale, però, da non perdere il controllo sociale. Un classico loop della mondializzazione: creare sistematicamente squilibri disastrosi, a livello globale, approfittandone a livello locale pur nella pretesa di mantenere "coesione territoriale", stabilità e governabilità.
In questo contesto, i governi nazionali di casa nostra, nel pendolo conservativo delle alternanze bipartitiche o in grandi coalizioni consociative,9 seguono tutti una medesima corrente mainstream. Al cui interno appare prevalente l'ideologia dell'interventismo umanitario, nelle versioni compassionevole o solidaristica.
Senza qui riprendere la controversa questione di quanto sia utile e liberatorio l'aiuto delle ONG o la pratica di relazioni asimmetriche di partenariato, prendiamo atto delle concrete conseguenze delle guerre umanitarie. Alle quali, con pervicace ipocrisia, seguono aiuti e salvataggi umanitari, largamente insufficienti di fronte alle immani tragedie procurate e sui costi dei quali si aprono continue illuminanti dispute.10 Per tacere delle declamate politiche di integrazione.11
Nella corrente mainstream, dai connotati prima ricordati, scorrono anche le posizioni di chiusura. Condividono con le posizioni di apertura l'interventismo militare, lo spirito atlantico-occidentale, di cui inalberano i vessilli di identità culturale, nonché le politiche economiche di stampo liberal-liberista. Ma vi si differenziano parzialmente per teorizzare e fomentare scontri di civiltà e di religioni, caldeggiare muscolari restaurazioni di antiche dominazioni oltre i limes imperiali, sigillando i confini nel controllo repressivo esterno e interno ai propri territori.
Tra ipocrisie umanitarie, regole dettate e disattese, colpevoli inazioni, rimpalli di responsabilità, prende forza la corrente esondativa delle posizioni più estreme, xenofobe, razziste e neofasciste.
Coesione, disgregazione, neofascismo
Un duplice default politico mina la "coesione territoriale" agognata dai governi.
Da un lato mostra la corda l'integrazione, come assimilazione dell'immigrato posto in condizione subalterna verso lo Stato d'adozione, a cui dovrebbe giocoforza adeguarsi. Dopo generazioni è comunque socialmente discriminato. Esemplari appaiono i fallimenti francesi.12
Dall'altro emerge il rovescio dell'idea di una società multiculturale che pretenderebbe convivenza e coesione in una sorta di asettica e distanziata tolleranza tra diseguali, di ognuno per sè, persino in enclavi urbane autogestite. In questo caso sono i fallimenti inglesi ad occupare la scena.13
Le ricette succitate, a cui bisognerebbe aggiungere quella tedesca dell'immigrato lavoratore ospite (Gastarbeiter) e, in quanto tale provvisorio (!), che hanno una loro lunga storia alle spalle,14 si fondano sul presupposto che sia possibile la coesione senza effettiva inclusione e condivisione. Quasi che la sempre più folta presenza di milioni di immigrati, per produrre convivenza, non debba partorire, tra le doglie, nuove comuni identità a sostanziare l'amalgama politico e culturale di un radicale rinnovamento sociale.
Oltre questa siepe può esserci buio pesto, giacché, sotto la pressione di una crisi sistemica e non solo economica, il diktat "ognuno a casa propria", pur essendo praticamente inapplicabile e forse anche per questo, può raccogliere consenso ed imporsi, dando luogo nella disgregazione ad esiti assai più dolorosi del doloroso parto evocato poc'anzi.
Che si restringano nei confini di una patria nazionale (la Francia) o di una piccola patria localistica15 regionale (il Veneto, la Padania), queste forze politiche possono contare su pretesti e motivazioni disparate16 ed allargare la propria base di appoggio, compattando il panico di intere fasce, ed aree territoriali,17 di ceti medi lasciati in balia della crisi, con gli strati più poveri della società su cui sono scaricati i disagi, messi in competizione per il lavoro, gli alloggi, i servizi sociali. è oramai storia di questi ultimi anni: si sono affermate proprio nei quartieri popolari, una volta rossi, di molte città d'Europa. Da Vienna a Marsiglia, a Milano.
D'altronde è proprio la globalizzazione liberal-liberista (alveo mainstream) a generare volutamente disgregazione e, di converso, una reazione di arroccamento e recupero identitario. A ciò va aggiunta la politica deliberata di fomentare nazionalismi, patrie etniche e confessionali per inglobare l'Oriente europeo18 riducendolo a periferia, che ora torna come un boomerang sull'Unione Europea.
Slide tratta da: Immigrazione: Risorsa o Minaccia?
www.Quattrogratti.info,23 agosto 2012
A poco vale ricordare che gli immigrati sopperiscono al calo demografico dei Paesi ricchi e contribuiscono alla ricchezza nazionale più di quanto non ricevano in sostegno e welfare, sorreggendo il sistema pensionistico di paesi come l'Italia. Una reale inclusione comporta il parto di una identità nuova, condivisa, risultante di una profonda trasformazione culturale, politica e sociale interna ed internazionale.
Non si tratta, paternalisticamente, di dare la "canna da pesca" ai Paesi poveri, ma di non continuare a strappargliela di mano. Nell'accettazione di un nuovo sistema di relazioni globali finalmente multipolare, va innanzitutto assicurata la sovranità alimentare di ciascuno e di tutti i popoli.
Bisogna affrontare i problemi del nostro tempo per ciò che realmente sono. Un sistema, un mondo è finito: prima ne prederemo atto, meglio sarà per tutti noi, ai quali si prospetta, in caso contrario, un futuro prossimo assai simile agli anni Trenta dello scorso secolo.

1 Acronimo di: Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia, Spagna
2 Pigs in inglese significa maiali.
3 Mi riferisco agli interventi militari e non solo, sotto varie denominazioni e coperture ideologiche.
4 Il sistema dei centri per immigrati include: i Centri di identificazione ed espulsione (CIE), i Centri di soccorso e di prima accoglienza (Cpsa), i Centri di Accoglienza (Cda) e i Centri di accoglienza per richiedenti asilo e rifugiati (Cara).
5 Salvatore Cannavò, "Boom dell'asilo politico, ma l'Italia è una tappa", Il Fatto Quotidiano, 22 ottobre 2014.
6 Samir Amin, La Crisi, Punto Rosso, 2009, da pag. 105.
7 In Italia al deficit commerciale del settore agro-alimentare (2013: -6.111 milioni di euro) concorre, tra l'altro, la carenza di produzioni primarie, al 75% del fabbisogno. Quest'ultima è dovuta sia alle restrizioni dell'UE, sia alla politica urbanistica che, dal 1970 ad oggi, ha ridotto la superficie coltivata da 18 a 13 milioni di ettari.
8 Sull'argomento è assai utile la lettura di Jean-Pierre Boris, Le roman noir des matières premières, Pluriel, 2010.
9 Nel caso italiano la distinzione è oltremodo difficile.
10 Come nel caso della richiesta italiana di condividere Mare Nostrum con il resto dell'Unione Europea.
11 Un esempio di pratica dell'integrazione è dato dalla legge sui mini-jobs tedeschi introdotti dal socialdemocratico Schröder.
12 Il disagio da esclusione dei figli e dei nipoti degli immigrati dal Nord-Africa è all'origine delle ribellioni nelle banlieues.
13 Tra i tagliagole dell'Isis forte è la presenza delle seconde/terze generazioni di immigrati islamici provenienti da città come Londra.
14 Per una trattazione più approfondita, può essere assai utile il libro di Annamaria Rivera, "La guerra dei simboli", Dedalo, 2005.
15 In questi casi non si può neppure definire etnica.
16 Per esempio: le delocalizzazioni e la moneta unica.
17 Essendo i distretti produttivi localizzati, la loro crisi diventa crisi di intere aree geografiche.
18 Dalla ex-Jugoslavia all'Ucraina: un lungo sentiero di guerre.