mercoledì 9 settembre 2020

In rotta di collisione?

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In rotta di collisione?


Stati Uniti e Cina. Le caratteristiche di ciascuno configurano il tipo di scontro che, a sua volta, ne condiziona le scelte di politica interna ed estera.


Per decenni ci è stato raccontato che la globalizzazione capitalistica e le liberate forze del mercato stessero appiattendo l'intero mondo.

Acclamato dal mainstream mediatico, Francis Fukuyama sentenziava che, con la vittoria completa del capitalismo democratico-liberale, la storia aveva ormai raggiunto il suo stadio finale.

Per altri, dal piglio visionario, stavamo vivendo in un grande impero universale. Sicché, ridotti tutti gli Stati a simulacri e vanificati i confini, veniva meno, col venir meno di contrapposti imperialismi, la necessità stessa dei popoli e delle nazioni di liberarsene. L'impero universale aveva estinto l'imperialismo. Un pensiero stranamente coincidente con quello espresso anni dopo, ovviamente con parole sue, dall'ex governatore della Fed, Alan Greenspan.

Ora, grazie al prevalere di una visione geopolitica, scopriamo non solo di trovarci al cospetto con una confrontation globale tra “imperi” (USA e Cina), ma che, alla base di essa, la difesa della “sicurezza” - intesa in tutta la sua ampiezza hard e soft -, viene a ricoprire il ruolo chiave per entrambi. Pertanto, quest'ultima sarebbe non più una estrema ratio, a cui fare ricorso in casi d'eccezione, circoscritti nel tempo e geograficamente, bensì il permanente parametro guida politico degli Stati più forti – non solo dei due succitati -, nel frattempo nient'affatto spariti. La supposta eccezione è diventata normalità.

A determinare questo capovolgimento di sguardo e prospettiva ha certamente contribuito la crisi del 2007-2008, scoppiata in seguito al crack finanziario nord-americano, ora seguita da quella di origine pandemica.

La realtà sottostante è venuta a galla.

Per chi non si è mai bevuto il racconto di un mondo piatto, senza sostanziali ed antagonistici conflitti, l'attuale bagno di realismo rappresenta una buona premessa che, però, non esaurisce il compito. Le narrazioni del reale conflittuale possono privilegiare alcuni aspetti e sottovalutarne o addirittura trascurarne altri, con esiti pratici piuttosto discordanti.

Per essere chiari: sulla natura imperialista degli Stati Uniti ci possono essere ben pochi dubbi; non altrettanto si può dire della Cina, le cui propensioni in tal senso andrebbero, perlomeno, meglio diagnosticate.

D'altro canto, ingigantire il potere dei due “imperi” e considerarli alla stessa stregua, senza indagare sulle fasi vissute dall'uno e dall'altro in ragione delle proprie interne caratteristiche - che condizionano lo svolgersi della loro relazione, per poi esserne condizionati -, può condurre a ragionare per categorie inalterabili. La storia non finirebbe, ma sarebbe condannata a ripetere se stessa in un epocale circolo vizioso.

Il significato di una frase

Una frase di Alan Greenspan, presidente della Federal Reserve, la banca centrale degli Stati Uniti d'America, dal 1987 al 2006, riportata da Alessandro Aresu all'inizio nel suo più recente libro,1 richiama l'attenzione:

«Siamo fortunati: grazie alla collaborazione, le decisioni politiche negli Stati Uniti sono state in gran parte sostituite dalla forze globali del mercato. A parte la sicurezza nazionale (...), non fa molta differenza chi sia il prossimo presidente. Il mondo è governato dalle forze di mercato.»

Al di là dell'ironia dei tempi in cui è stata pronunciata (in un'intervista del 2007, alla vigilia della crisi), la frase dell'ex governatore della Fed riveste una certa rilevanza.

Innanzitutto, per accordarsi con il governo del mondo da parte delle forze di mercato, la sicurezza nazionale dovrebbe costituire un'eccezione, non una costante strutturale. Inoltre, a prescindere dal vincolo della sicurezza nazionale, il libero mercato non dovrebbe venire sottoposto al diritto degli Stati in cui vive e grazie ai quali si è affermato.

Nella storia moderna, la forza della sicurezza - nel senso più ampio -, in quanto espressa da uno Stato o da una coalizione di Stati, ha sempre o imposto o difeso la specifica forma di mercato di chi l'ha esercitata, la quale a sua volta è sempre stata regolamentata, anche quando si diceva di fare il contrario. La deregulation degli anni '80, per stare ad un caso recente, non fu nient'altro che una nuova regolazione volta a soppiantare quella precedente. In particolare, tramite l'affermazione della libera circolazione internazionale dei capitali, il Nord ricco ha potuto superare la crisi in cui era precipitato negli anni settanta del novecento, guadagnando tempo.

Qui va dato conto di un terzo aspetto.

Il motivo per cui chi fosse il prossimo presidente degli Stati Uniti non rivestiva molta importanza risiede nella convinzione che le forze di mercato, deputate a governare il mondo, avessero il pilota automatico negli States stessi. Forze concentrate negli headquarters delle imprese finanziarie ed oligopolistiche dell'economia-mondo da loro capeggiata, tutte operanti in un quadro di scambi internazionali saldamente ancorati al dollaro.

Prova ne sia che il sopraggiunto crack finanziario nord-americano del 2007-2008 mostrò il fallimento delle (loro) forze di mercato nel governo globale, insieme all'andamento declinante degli Stati Uniti e dell'economia-mondo di cui sono il centro e, in subordine, l'inconsistenza dell'alternativa rappresentata dall'Unione europea e dall'euro.

La Cina è indicata da Donald Trump come colpevole dei problemi nord-americani ed al governo globale delle forze di mercato non si fa più affidamento, preferendo la politica dei dazi protettivi e lasciando balenare la minaccia del “grosso bastone”, cara a Theodore Roosevelt.

Gli Stati Uniti dispongono, di gran lunga, della maggiore forza militare al mondo.

Chi possa assumere la presidenza sembra ora aver riacquistato una certa importanza, benché l'indirizzo strategico anti-cinese, assunto già prima di Trump, si sia oramai consolidato. A Washington trovare un nemico è trovare un tesoro.

Il capitalismo è politico

Secondo Alessandro Aresu, analista di scuola geopolitica, Stati Uniti e Cina non sarebbero così diversi, come si vorrebbe far credere. Nel citato libro sostiene che, pur rispondendo l'uno ad un sistema democratico e l'altro ad uno autoritario, sono accomunati dal “capitalismo politico” che nella nostra epoca assume alcune caratteristiche fondamentali [vedi nella finestra dedicata, a seguire].

Caratteristiche del “capitalismo politico”:

«- la compenetrazione di economia e politica in un “tutt'uno organico”, che nei sistemi autoritari coincide con la presenza di un articolato partito-Stato, mentre nei sistemi democratici passa per l'intrusività sulla libertà economica delle burocrazie della sicurezza e dei poteri di emergenza;
- l'uso politico del commercio e della finanza, in uno scenario in cui elementi competitivi convivono sempre con l'interdipendenza economica;
- l'uso della tecnologia, e delle imprese tecnologiche, per scopi e vantaggi politici e all'interno dei conflitti geopolitici;
- la designazione di industrie strategiche e di aziende “nemiche” per la loro collocazione geografica; tali industrie ed aziende vengono protette e avversate non solo attraverso partecipazioni azionarie, ma anche e soprattutto tramite direttive politiche, burocrazie statali dedicate, norme speciali;
- il giudizio dell'economia sulla base della sicurezza nazionale, e del suo allargamento concettuale e operativo, attraverso strumenti di “geodiritto”.»
A. Aresu, “Le potenze del capitalismo politico – Stati Uniti e Cina”, La nave di Teseo, 2020. Pagg. 14-15.

La dimostrazione di queste caratteristiche, però, soffre di uno scontato indimostrato. Ovvero che “l'Impero del Centro”, come viene sovente definita la Cina storica, sia oggi imperialista quanto gli Stati Uniti, o nelle condizioni di forza per diventarlo, minacciandone realmente il primato mondiale.

Aresu coglie certamente l'obiettivo di mostrare che il capitalismo non è mai stato, né pensato – da Adamo Smith a Max Weber ad altri grandi autori -, come una entità economica disgiunta dalla politica, intesa o come “difesa” o/e come legislazione gestita dagli apparati burocratici di Stato.

Aggiungerei, en passant, che per vedere la compenetrazione tra Stato e capitale nella lunga durata, nonché la preesistenza del mercato all'avvento del capitalismo, possiamo rifarci agli studi storici della École des Annales, di cui fu massimo esponente Fernand Braudel (1902-1985).

Va pure apprezzato lo sforzo di Aresu allorché s'inoltra nell'analisi dei pensatori del capitalismo occidentale effettuata dai leaders politici cinesi, i quali, avvalendosi di questa, hanno trovato spunti per elaborare il loro “socialismo di mercato”.

Parimenti è abbastanza indagata la complessa struttura tramite la quale il Partito Comunista, grazie ai suoi “mandarini celesti”, articola la catena di controllo sulla vita economica e sociale, sul commercio, la finanza e le nuove tecnologie.

In parallelo è svolto l'esame delle strutture statunitensi, frutto di intese politiche bipartisan a rafforzamento di attivi centri di “scrutinio” e sorveglianza dell'economia, dei diversi dipartimenti federali e dell'onnipresente Pentagono.

Ciò nonostante, anche quando viene evidenziato il formarsi di un vero e proprio “geodiritto”, a sovra-ordinare, in base ad una concezione allargata della sicurezza e dello stato di eccezione economica,2 il potere di giudizio sul divenire degli assetti economici – a partire da quelli definiti strategici -, si ha sempre l'impressione che la parte statunitense agisca in risposta ad una minaccia, sornionamente avanzata dalla Cina, sulla quale a Washington si siano a lungo appisolati.

Ammesso che ciò sia avvenuto (come sostiene Trump), il sonno tranquillo è dipeso, forse, dalle riposanti certezze ideologiche, come quelle professate dal dirigente apicale Alan Greenspan. Sempreché il ridestarsi di Washington non sia dipeso, più prosaicamente, dal fatto che gli enormi profitti dell'ultima ondata globalizzatrice non andavano più a concentrarsi nelle mani nord-americane, mentre quelli conseguiti nei decenni precedenti - come ebbe a dire il capo di Alibaba, Jack Ma - venivano bruciati nell'azzardo finanziario.

Ecco, sul ruolo della finanza negli “imperi” in rotta di collisione, e sull'”autunno finanziario” dell'economia-mondo a guida statunitense, andavano indirizzate altre e più concrete indagini, pur essendo così piacevole aggirarsi, come fa il nostro autore, tra le idee espresse dai capitani delle imprese di maggiore successo dei due Paesi.

Ruolo interno-esterno della finanza che rimanda ai rapporti sociali e di produzione nei due Paesi, dalla cui natura dipende, in prevalente parte, quella del confronto e del suo svolgersi politico.

La diversità cinese

È noto come la Cina abbia assecondato l'esigenza dei capitali occidentali di trovare nuovi sbocchi, per fuoriuscire dalla crisi di valorizzazione ed accumulazione degli anni '70.

L'accettazione di ingenti investimenti esteri e delle conseguenti ricollocazioni produttive, iniziata dagli anni '80, sono stati tra i fattori determinanti di un sorprendente sviluppo, improntato però ad una forte autonomia nazionale ed all'acquisizione in proprio delle più moderne tecnologie.

A differenza di altri Paesi emergenti la dirigenza cinese non si è limitata ad incoraggiare gli impieghi stranieri, ma li ha sottoposti a condizioni di sovrano interesse, in un quadro di predominio dello Stato sugli assetti finanziari, monetari e della “economia reale” - con mercato integrato e proprietà mista3 -, alla base della quale è stata mantenuta la proprietà nazionale della terra.

La Cina ha così potuto via via trattenere in patria la maggior parte del plusvalore originato dalle produzioni modernizzate e, sin dall'inizio, fronteggiare il previsto forte incremento demografico, contenendo il deflusso dalle campagne e gestendo un poderoso inurbamento.

Si tratta del Paese oggi più popolato al mondo, con oltre un miliardo e 400 milioni di abitanti - dai quasi 700 del 1964 -, ai quali occorreva garantire, in primo luogo, casa e cibo.

L'inurbamento è avvenuto senza che sorgessero le immense baraccopoli, tipiche delle megalopoli dei Paesi “in via di sviluppo”, abitate dai più poveri scacciati dalle campagne. Un risultato eccezionale se paragonato, per esempio, a quello dell'India o del Brasile, per non parlare dei Paesi africani.

Altrettanto eccezionale il successo in campo agro-alimentare. Mantenendo in comune le terre e sostenendo la piccola produzione senza piccola proprietà, ha consolidato la sovranità alimentare: sfama il 22% della popolazione mondiale con solo il 6% delle terre arabili a disposizione.

Questi ed altri aspetti sociali e produttivi del successo cinese sono stati analizzati da Samir Amin,4 il quale ci ha offerto lucide spiegazioni sul possibile futuro della Cina.

Riassumendo gli obiettivi del capitalismo di Stato cinese [vedi nel riquadro dedicato, a seguire], pone la questione delle scelte concrete che in Cina possono portare a percorrere la via capitalistica o la via socialista.

Obiettivi del capitalismo di Stato cinese

«Il capitalismo di Stato cinese è stato costruito per raggiungere tre obiettivi. 1) costruire un sistema industriale moderno integrato e sovrano; 2) gestire il rapporto tra questo sistema e la piccola produzione rurale; e 3) controllare l'integrazione della Cina nel sistema-mondo, dominato dai monopoli generalizzati della triade imperialista (USA, Europa, Giappone). Il perseguimento di questi tre obiettivi preliminari è inevitabile. Come risultato, esso crea le basi per un possibile avanzamento nella lunga strada al socialismo, ma allo stesso tempo rafforza le tendenze all'abbandono di tale possibilità per abbracciare lo sviluppo capitalistico puro e semplice. Si deve accettare il carattere inevitabile e sempre presente di tale conflitto. La questione allora è la seguente. Le scelte della Cina favoriscono uno dei due percorsi?»

Samir Amin, Monthly Review, marzo 2013.

In estrema sintesi, per imboccare la via capitalistica “pura e semplice”, la Cina dovrebbe: abbandonare la proprietà pubblica della terra e permettere che essa diventi merce; omologarsi alla globalizzazione finanziaria, dominata dalla triade (USA, Europa, Giappone); lasciare che alla pianificazione statale dell'economia e del sociale (mano visibile) subentri la gestione del mercato (mano invisibile) da parte del grande capitale privato cinese;5 rinunciare a disporre di una propria forza militare di deterrenza; desistere dalla ricerca di un assetto multicentrico del mondo, tanto più se rispettoso delle prerogative di tutte le nazioni.

È innegabile che queste soluzioni siano nelle intenzioni di una parte nel Partito Comunista, nello Stato e nella società. Esse poggiano sul grande sviluppo degli ultimi decenni, il quale, accanto ai successi, ha comportato un intensivo sfruttamento dei lavoratori, un'accentuata concentrazione di capitale in mano privata, diseguaglianza distributiva, nonché una spoliticizzazione diffusa.

D'altro canto, pensare di portare il Pil pro-capite cinese ai livelli degli Stati ricchi del Nord, come pensano di poter fare i sostenitori della via capitalistica, appare piuttosto irrealistico.

Secondo le stime del FMI6 nel 2017 la Cina godeva di un quarto (16.264 $) del PIL pro-capite degli Stati Uniti (59.495 $).7 Tutto ciò in un quadro mondiale di forti disparità tra Paesi del Sud, anche “emergenti”, e del Nord.

Si tenga presente che la disuguaglianza in Cina è aumentata in modo costante da quando sono state avviate le riforme (dal 1975), ma è rimasta stabile dai primi anni duemila al 20128 e si muovono forze tendenti a ridurle.9

Altro aspetto non secondario, la crescita in numero e reddito delle classi medie è collegato alle politiche d'intervento economico-sociale dello Stato, le quali, venute a mancare nei Paesi ricchi, ne hanno segnato invece il declino.

Qualora prevalesse la tendenza ad imboccare la via capitalistica, la stessa sua base di consenso nelle classi medie urbane “occidentalizzate” sarebbe indebolita. Mentre verrebbe destabilizzato non solo la relazione tra città e campagne, con queste ultime in balia della mercificazione delle terre, ma tra le diverse aree – tra provincie marittime e dell'entroterra -, investendo i suoi grandi rapporti.10

Pertanto, mi pare fondata la tesi sostenuta da Samir Amin. Se la Cina rinunciasse al suo scollegamento (delinking) dal mondo capitalistico, parziale ma su settori decisivi quali la finanza ed il governo della moneta, e non puntasse su una forte espansione del mercato interno ed a sviluppare compiutamente il “socialismo con caratteristiche cinesi”, si ritroverebbe risospinta tra i Paesi della periferia, invece di raggiungere quelli del centro. Una dicotomia, quella tra centro e periferie, dominante nell'attuale quadro internazionale ed insuperabile nella omologazione ai suoi rapporti “a-simmetrici”.

Anche per Milanovic:11 «le diseguaglianze nazionali costituiscono ancora la forma di disuguaglianza più importante dal punto di vista politico.»12

La democrazia statunitense

Il tratto distintivo tra Cina e Stati Uniti consisterebbe non tanto nel “capitalismo politico” dal quale sarebbero accomunati, quanto dal sistema politico: il primo autoritario ed il secondo democratico.

È innegabile che esista in Cina un problema di democrazia. Esso, tuttavia, non è risolvibile in senso liberal-democratico se non omologando il Paese agli attuali assetti internazionali e precipitandolo nella subalternità, con le conseguenze anzidette. In alternativa, la democrazia cinese può trovare linfa nella sua applicazione ai processi di socializzazione. Il che implica partecipazione e politicizzazione.

Di contro, gli Stati Uniti non possono dirsi esenti dal problema democratico. Da cosa è generato?

Dalla crescita delle diseguaglianze che potrebbero, a detta di Branko Milanovic, condurre ad una “tempesta perfetta” [vedi nel riquadro dedicato, a seguire]. Dal 2016, anno in cui è uscito il libro, non si può certo dire che la previsione, espressa come timore, sia stata smentita dai fatti.

Stati Uniti: una “tempesta perfetta” di disuguaglianza?

«Un certo numero di sviluppi potrebbero condurre a una “tempesta perfetta” di maggiore disuguaglianza negli Stati Uniti. Possiamo dividerli nei cinque temi che seguono (…):
- Maggiore elasticità di sostituzione tra capitale e lavoro, di fronte a una maggiore intensità di capitale di produzione, manterrà alta la quota del reddito nazionale che proviene dai proprietari di capitale.
- I redditi da capitale rimarranno altamente concentrati, conducendo così a una elevata disuguaglianza interpersonale di reddito.
- Grandi percettori di reddito da capitale e da lavoro potrebbero essere sempre gli stessi individui, esacerbando così ulteriormente la disuguaglianza di reddito generale.
- Individui molto qualificati che sono ricchi sia per lavoro sia per capitale tenderanno a sposarsi tra loro.
- La concentrazione del reddito rafforzerà il potere politico dei ricchi e renderà anche meno probabili di prima i cambiamenti di linee politiche che siano a favore dei poveri in ambito di fisco, finanziamenti dell'istruzione pubblica, e spesa per le infrastrutture.»

Branko Milanovic, “Ingiustizia globale”, LUISS University Press, 2017 (2016), pagg. 169-170.

La concentrazione della ricchezza negli Stati Uniti, dove risiede gran parte dei super-ricchi elencati annualmente da Forbes, si è vieppiù accentuata. Ciò è dovuto alla proprietà dei capitali e «i proprietari di capitale che ottengono grandi profitti dalle loro rendite tendono ad essere ricchi»,13 ed ogni incremento della loro ricchezza allarga la distanza dalle restanti classi sociali.

Vanno considerati i beni finanziari che «sono la forma più concentrata di proprietà di capitale; sono la quintessenza del capitalismo. Così un aumento della quota di redditi da capitale si traduce direttamente in una maggiore concentrazione di ricchezza e reddito generale.»14

Per le tendenze esposte nel riquadro - tra le quali, a mio parere, primeggia la seconda -, la democrazia nord-americana si andrebbe trasformando in una “plutocrazia”. Per Milanovic: «Non solo la classe media si sta assottigliando, ma lo stesso sta avvenendo anche alla democrazia.»15

Sulle riforme proposte da questo autore, per molti aspetti coincidenti con quelli di Thomas Piketty, ci possono essere opinioni diverse. Eppure da questi dati di fatto, all'origine delle tendenze prevalenti, si evince che dare per scontato che gli Stati Uniti rispondano comunque ad un sistema democratico, mentre al contrario la Cina sia senz'altro o votata ad un sistema autoritario o obbligata ad aderire al modello liberale occidentale per diventare democratica, è una rappresentazione fuorviante.

Se il futuro prossimo della democrazia dipendesse dalla distribuzione della ricchezza, dalle divaricazioni sociali e dalla consistenza della middle class (reddito e status), potremmo concludere che gli Stati Uniti sono messi peggio della Cina.

Il conflitto in svolgimento

Dalle caratteristiche dei due Paesi e dalla fase attraversata da ciascuno dipende l'attuale conflitto, il quale non ha un “destino” a cui rassegnarsi.

Alla Convention repubblicana che lo ha nominato candidato alla presidenza, Trump ha sintetizzato: «L’agenda di Joe Biden è ‘Made in China’. La mia è ‘Made in USA’.»

Ha accusato Joe Biden di avere condiviso tutte le scelte in campo commerciale, reputate “disastrose” per l'occupazione sul territorio nazionale, delle precedenti amministrazioni: NAFTA, ingresso della Cina nella Organizzazione Mondiale del Commercio e Trans-Pacific Partnership.

«A differenza delle precedenti Amministrazioni, ho tenuto l'America fuori da nuove guerre e le nostre truppe stanno tornando a casa. Abbiamo speso quasi 2,5 mila miliardi di dollari per ricostruire completamente il nostro esercito (…). Abbiamo anche lanciato la Space Force, il primo nuovo ramo dell'esercito degli Stati Uniti da quando l'Air Force è stata creata quasi 75 anni fa.»

Ha imputato a Biden di avere votato per la guerra in Iraq, di essersi opposto alla missione per eliminare Osama bin Laden e all'uccisione del generale iraniano Soleimani, di inazione verso l'ISIS, e di aver sostenuto «il rafforzamento della Cina».

In buona sostanza, per l'attuale presidente l'avversario globale numero 1 è la Cina. Poiché ritiene che abbia a lungo dissimulato le sue vere intenzioni, per “snidarla” l'attacca in modo sempre più diretto ed insistente su più fronti, dal commerciale al finanziario, dalle nuove tecnologie alle infrastrutture, alle catene del valore, additando produzioni e proprietà nemiche strategiche.16 Superiori motivi di “sicurezza nazionale” lo impongono. Una sicurezza, appunto, minacciata dalla Cina, sulla quale agita il bastone della propria superiorità militare.

Comunque, non pare in discussione la linea anti-cinese già in

In risposta, Pechino ha prima alzato la bandiera della globalizzazione minacciata17 e poi accusato Washington di volere un'anacronistica riedizione della guerra fredda, sempre mostrando di rifuggire dal terreno dello scontro duro a due, sul quale teme di venire attirata. Tuttavia, pur accettando di ridiscutere accordi bilaterali e regole da seguire in ambito commerciale, quando si tratta di sovrana “sicurezza nazionale” non transige. Come dimostra la presa di posizione su Hong Kong.

Secondo Pino Arlacchi,18 già vicesegretario generale dell’ONU, la contesa tra Cina e USA non si trasformerà in guerra, come credono molti analisti americani. Ciò è dovuto soprattutto alla propensione cinese ad evitarla, in un quadro internazionale di “civilizzazione” che la rifiuta.

Inoltre, a suo sostegno cita Henry Kissinger: «La Cina sta accrescendo la sua forza militare, che era stata trascurata [ma] quando la Cina avanza le sue intenzioni cooperative e nega la sfida militare, esprime più una scelta strategica che una preferenza.» Sicché egli consigliava di rispondere sul piano politico ed economico, non illudendosi che in un faccia a faccia militare i Paesi asiatici della regione si sarebbero schierati al fianco degli USA.

Pertanto, mentre gli Stati Uniti continueranno ad incalzare la Cina, per isolarla ed impedire che si affermi un mondo multicentrico, a conferma della propria centralità nell'economia-mondo – il che non li sottrae al loro ”autunno finanziario” -, per Pechino si prospettano difficili scelte. Proseguire nello sviluppo, mantenere la propria indipendenza e rafforzare il “socialismo con caratteristiche cinesi” costituiscono un insieme inseparabile.

Note:

1 A. Aresu, “Le potenze del capitalismo politico – Stati Uniti e Cina”, La nave di Teseo, 2020.

2 Dopo aver osservato che «La sovranità decide sullo stato di eccezione economica», Aresu, a proposito della “frontiera infinita” del capitalismo politico americano, sintetizza: «la sicurezza nazionale, per un impero, è ciò che esso vuole che sia per mantenersi.»

Nel testo citato a pagg. 370-371.

3 L'apertura all'iniziativa privata data in particolare dal 1990.

4 Samir Amin, (1931-2018), economista marxista egiziano-francese, politologo ed analista dei sistemi mondiali. Ha diretto il Forum du Tiers Monde a Dakar ed è stato presidente del Forum mondiale delle Alternative. Vedi in questo Blog “Rampini, nella notte della sinistra brillano le stelle (e strisce)” – Maggio 2019

5 In tal senso è considerato dirimente quali sistemi in materia abitativa, pensionistica e sanitaria verranno adottati.

6 https://it.wikipedia.org/wiki/Stati_per_PIL_(PPA)_pro_capite

7 L'Italia era a 37.970 $ di PIL pro-capite.

8 Branko Milanovic, “Ingiustizia globale”, LUISS University Press, 2017 (2016), grafico e commento a pag. 166.

9 B. Milanovic, ibidem, pag.169.

10 Anche a tale proposito, vedi: Mao tse-tung, “Sui Dieci grandi rapporti”, (25 aprile 1956), Oevres choisis, Tome V, Editions en langues étrangeres, 1977.

11 Branko Milanovic (Belgrado, 1953) è considerato uno dei più grandi economisti oggi all'opera sul tema delle disuguaglianze. Vedi in questo Blog “Il mistero della povertà”, febbraio 2019.

12 B. Milanovic, ibidem, pag. 51.

13 B. Milanovic, ibidem, pag. 171.

14 B. Milanovic, ibidem, pag. 172.

15 B. Milanovic, ibidem, pag. 181.

16 A. Aresu, nel libro citato, ne dà un dettagliato resoconto.

17 Xi Jinping a Davos nel dicembre del 2016.

18 Pino Arlacchi,”I padroni della finanza mondiale”, Chiarelettere, ottobre 2018.