Terrorismo
endemico
Il
terrorismo passatista islamico oramai imperversa da decenni: i
recenti fatti di Parigi, pur considerati nella loro specificità, si
collocano in coda ad una lunga sequenza. Su scala mondiale. Anche
episodi apparentemente isolati possono venire compresi solo se
collocati in un quadro più generale, di contraddizioni di più lunga
durata in cui si sono venuti formando. In quanto fenomeno stabile è
alla soluzione delle contraddizioni che ne costituiscono l'habitat,
che deve necessariamente venire rinviata sia la sua riduzione che la
sua eliminazione.
A
disposizione delle pubblica opinione non mancano le analisi
effettuali. Sul piano della psicologia individuale e di gruppo, come
su quello sociologico e persino nella narrativa, ci è stato spiegato
donde e su quali motivazioni vengano reclutati i terroristi, siano
essi provenienti dalle enormi e degradate periferie delle megalopoli
del cosiddetto mondo islamico o, caso più recente ma minoritario (ma
più "vicino a noi"), da quelle dell'Occidente, dagli Stati
Uniti, dal Regno Unito, dalla Francia. Per non parlare dei meccanismi
di arruolamento nelle "aree tribali", dall'Afghanistan alla
Libia, alla Nigeria.
Sul
piano politico il terrorismo passatista islamico è oggetto troppo
spesso più che di analisi, di proposte risolutive, sbrigative ed
estreme. Pur distinguendo tra islamismo e terrorismo, anche il
governo socialista di Manuel Valls
si situa nella logica di guerra.
In
controtendenza si pronuncia una parte del gollismo francese. Proprio
alcune settimane fa, l'ex primo ministro Domenique de Villepin aveva
ammonito di non commettere l'errore grave della "guerra al
terrorismo", prospettando, in alternativa, una "strategia
di asfissia" del Califfato e delle sue propaggini. Si tratta di
due prospettive divergenti nel concepire le politiche internazionale
di tutte le nazioni europee e dell'Unione.
Anche
il ricorso agli scenari più apocalittici, quali quelli evocati da
chi paventa l'islamizzazione dell'Europa, mostrano una interna
difficoltà, quasi un rifiuto. Quello di riandare alle radici, ai
problemi reali, al riesame dei contesti concreti come di quelli
simbolici, per assumere lucidamente e non oniricamente (sognando
incubi) la sostanza di un agire possibile. Un compito vasto. Mi
limiterò a sollevare alcune questioni irrisolte, all'interno delle
quali questo terrorismo si è incistato.
Del
Califfato
Il
Califfato della Siria e dell'Iraq non è caduto dal cielo. Il
terrorismo si è fatto Stato, ma di terrorismo di Stato, degli Stati
d'Occidente si è nutrito. Sia come alleato che come nemico.
Il
muro era già caduto. In Bosnia, quando la politica dei
riconoscimenti delle piccole patrie etniche si tradusse in intervento
militare per completare l'opera di disgregazione, Stati Uniti e reami
arabi vi inviarono i loro alleati di Al-Qaida. Combatterono contro i
serbi e a sostegno del governo musulmano
di Alija
Izetbegović.
Più recentemente, il
Califfato dell'Isis venne incubato dagli stessi USA quando si
inserirono nella crisi siriana. Poi, si ripeté lo scenario già
sperimentato con Saddam Hussein, alleato contro l'Iran, che, per il
servizio reso con la guerra alla Repubblica Islamica, pensò di
prendersi una ricompensa, annettendosi il Kuwait. Anche l'alleato
Al-Bahgdadi per il servizio in Siria (non potendo arrivare a Damasco)
si è impossessato dei pozzi di Mosul e di parte del Kurdistan
iracheno.
Ad
un passo dall'intervento diretto e nel giro di pochi mesi, a
Washington scoprirono che l'alleato sul campo siriano era diventato
un nemico in Iraq. Possibile una simile coazione a ripetere, dopo
l'11 settembre?
Ci
si chiede quale ruolo abbiano giocato i neo-conservatori (Mc Cain, il
partito del petrolio arabo-americano, i reami arabi) e in quali
rapporti con l'amministrazione Obama. Altresì, ci si interroga sul
reale motivo della estensione dell'etichetta di terrorismo, con le
relative conseguenze, da Al-Qaida ed Isis ad organizzazioni come
Hamas a Gaza, Hezbollah in Libano e il PKK in Turchia. Mettere sullo
stesso piano movimenti e partiti di resistenza, connotati
dall'appartenenza religiosa o da quella etnica e nazionale, e
terroristi, ora integralisti fanatici e tagliateste, non è un
espediente particolarmente nuovo.
Risponde ad una logica politica che però, de facto, autorizza
al pensar male di andreottiana memoria, senza far ricorso a
spiegazioni complottistiche o agli esperti di intelligence.
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L'angoscia
demografica
«Nel
cuore della notte del 24 gennaio 2006, un'unità speciale della
polizia di frontiera israeliana occupò il villaggio palestinese di
Jaljulya. Le truppe fecero irruzione nelle case trascinando fuori
trentasei donne e deportandone otto. A queste ultime venne ordinato
di ritornare nelle loro vecchie abitazioni in Cisgiordania. Alcune di
loro sposate da anni con palestinesi di Jaljulya, altre erano
incinte, molte avevano figli. Furono brutalmente separate dai loro
mariti e dai loro figli. Un deputato palestinese della Knesset
protestò, ma l'azione venne appoggiata dal governo, dalla
magistratura e dai media: i soldati dimostrarono all'opinione
pubblica israeliana che quando la presenza della minoranza
palestinese minacciava di trasformarsi da "problema demografico"
a "pericolo demografico", lo Stato ebraico agiva
rapidamente e senza pietà.
Il
raid poliziesco di Jaljulya era del tutto "legale": il 31
luglio 2003 la Knesset aveva promulgato una legge che proibiva ai
palestinesi, quando sposavano cittadini israeliani, di ottenere la
cittadinanza, la residenza permanente o anche la residenza
temporanea. In ebraico il termine "palestinesi" è sempre
riferito ai palestinesi che vivono in Cisgiordania, nella Striscia di
Gaza e nella diaspora, per distinguerli dagli "arabi
israeliani", come se non facessero parte della stessa nazione
palestinese. Colui che aveva proposto i disegno di legge era un
sionista liberale, Avraham Poraz, del partito di centro Shinui, che
lo presentò come "misura difensiva". (...)
I
parlamentari arabi della Knesset facevano parte di un gruppo di
israeliani che si appellarono alla Corte Suprema contro questa ultima
legge razzista. (...) La decisione della Corte Suprema [ndr: di
respingere l'appello] era una chiara manifestazione di quanto poco
essi contassero sia nel parlamento israeliano che nel sistema
giudiziario. (...) la Corte preferiva stare dalla parte del sionismo
piuttosto che della giustizia.»
Ilan
Pappe, La pulizia etnica della Palestina, Fazi, 2008 (2006), pagg.
294-295.
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La
Palestina sullo sfondo
Inevitabilmente
si ritorna alla Palestina, all'inizio del dramma. Sicché assistiamo
alla scena parigina
alla quale partecipa Netanyahu,
in rappresentanza di un governo fresco reduce da un bombardamento
indiscriminato, ennesimo atto di guerra terroristica contro la
popolazione del ghetto di Gaza. E qui la contraddizione si fa cocente
per la supposta univoca identità del civile e democratico
Occidente.
Mentre quest'ultimo teorizza retoricamente pluralismo e libertà nel
rifiuto dell'idea di Stato confessionale, tanto più
mono-confessionale, appoggia uno Stato (riconoscendolo parte della
propria civiltà, cultura e tradizione, a differenza di quelli arabi
e del "mondo musulmano") che non può permettersi una
Costituzione coerente e completa
per non autodefinirsi. Giacché Israele dovrebbe ammettere, nero su
bianco, di essere lo Stato di una religione e del popolo di quella
religione, così come si è andato storicamente e concretamente
affermando con la pulizia etnica della Palestina,
ossia uno Stato ebraico. Con la conseguenza di riconoscere
formalmente la marginalizzazione degli arabi palestinesi e con essi
della religione islamica, mantenuti in numero minoritario
"compatibile", sì da assicurare salda e perenne supremazia
alla componente maggioritaria attuale. Non a caso si insiste nel
richiamare tutti gli ebrei alla "terra promessa",
nell'ansia attanagliante della "questione demografica" e
l'occupazione della Cisgiordania bada ad incorporare più territorio
possibile, acquisendo il minor numero possibile di palestinesi
residenti (vedi riquadro).
Pertanto
si assiste in Israele ad un apparente "ribaltamento"
rispetto alla generalità dei Paesi occidentali. Agli immigrati
vengono garantiti diritti e opportunità di inserimento, laddove
questi sono negati alle popolazioni indigene. Non è dunque
l'immigrazione il problema, bensì l'appartenenza, l'identità degli
immigrati a rafforzare/indebolire l'identità ebraica dello Stato.
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Civiltà
«Ma
se affossate la parola "civiltà", se minate e scalzate le
basi di questa nozione, in nome di che cosa potremmo giustificare la
nostra presenza nelle colonie? È necessario che nel termine
"civiltà" non facciate passare la nozione di "relativismo
culturale", perché non potremmo giustificare la nostra azione
in Indocina e in Africa nera. Bisogna che la parola "civiltà"
continui ad indicare qualcosa di assoluto non di relativo: ne va
della presenza francese nelle colonie francesi.»
Citazione
di Paul Doumer presidente della Repubblica dal 13 maggio 1931 al 6
maggio 1932.
Annamaria
Rivera, La guerra dei simboli - Veli postcoloniali e retoriche
dell'alterità, Dedalo, 2005, pag. 95.
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Un
modello occidentale standard
Localizzare
la contraddizione alla sola Palestina, tuttavia, comporta una forte
limitazione di significato e di senso. Giacché è tutta la storia
dell'Occidente degli ultimi cinquecento anni, dalla "scoperta"
delle Americhe in poi, con l'Europa tedofora di civiltà, ad essere
chiamata in causa. Ad esempio: come si sono formati gli States
in America, sia rispetto ai popoli indigeni, sia, più tardi con
l'importazione di schiavi dall'Africa? Nel corso della guerra
d'indipendenza americana, il generale John Sullivan, inviato da George
Washington a distruggere ogni insediamento autoctono nella terra
irochese delle Sei Nazioni, inalberò il motto: "Civiltà o
Morte!"
Un imperativo continuamente riproposto.
Appropriarsi
di terre abitate da secoli da altri popoli in nome della civiltà, è
una costante, uno standard occidentale. Lo Stato d'Israele non
ha inventato un modello, lo ha solo mutuato. Ma tardivamente, troppo
tardivamente: la sconfitta dell'apartheid in Sud-Africa ne
segna la fine.
Il
rovesciamento dei flussi migratori
Ora,
alla devastazione umana di interi continenti, al colonialismo e al
neo-colonialismo, la continuazione delle pratiche liberiste apporta
l'ultimo tassello: la forzata emigrazione da forzato spopolamento
delle campagne, derivante dalla globalizzazione capitalistica
dell'agricoltura. Si tratta della Grande Contraddizione.
Arricchendo
il Centro e depauperando le Periferie (e la polarizzazione è
riprodotta anche su scala europea), si costringono milioni di
persone all'emigrazione sia interna che internazionale. A questa
spinta si aggiungano i profughi per la sopravvivenza dalle guerre di
cui i governi d'Occidente si sono resi diretti responsabili. Ne
registriamo solo piccole conseguenze nei flussi mediterranei verso
l'Italia e l'Europa. Comunque, l'angoscia demografica di Israele si
estende ai Paesi della parte più ricca dell'Europa.
Ecco
allora la chiamata alla guerra contro il terrorismo nel mortale
scontro di civiltà.
In realtà, più appropriato sarebbe guardare alla nostra "civiltà
degli scontri"
che tratta in modo antagonista
l'immigrazione per non dover far fronte alle sue cause, né alle sue
necessarie conseguenze.
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Casta
«Nel
descrivere la condizione sociale delle popolazioni d'origine
maghrebina in Francia, Christine Delphy (...) ha proposto l'utilizzo
della categoria di casta.
(...) essa non è nè peregrina nè alternativa alle descrizioni in
termini di classe e di genere: "La classe comporta elementi di
casta; e la casta, al pari del genere, vale a distribuire gli
individui nelle classi sociali." Uno dei vantaggi del suo
utilizzo, soggiunge Delphy, risiede nel fatto che, "mentre il
concetto di razzismo descrive dei processi, quello di casta pone
l'accento sui risultati
di tali processi in termini di struttura sociale." E questi sono
rispecchiati nel fatto stesso che si parli di questi cittadini e
cittadine francesi come di immigrati/e
di seconda o di terza generazione,
trasformando così uno status per definizione situazionale in una
caratteristica quasi-biologica ed ereditaria.
È
una tendenza che non riguarda solo l'ordine del linguaggio:
effettivamente per gran parte dei figli/e e nipoti di immigrati
magherebini non v'è alcuna possibilità di mobilità sociale, così
che essi sembrano condannati a ereditare lo status dei loro genitori
o nonni, il che potrebbe autorizzare a parlare, appunto, di una
situazione di casta. »
Annamaria
Rivera, La guerra dei simboli - Veli postcoloniali e retoriche
dell'alterità, Dedalo, 2005, pagg. 18-19.
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Interno
sociale
L'immigrazione
si inserisce in un interno sociale di diseguaglianze crescenti e di
sostanziale stagnazione economica. A queste difficoltà si sommano i
fallimenti delle strategie di
integrazione e di società multietnica-multiculturale.
Infatti,
in Europa l'immigrazione è stata trattata secondo strategie riferite
a tre Paesi: integrazione (Francia), società
multiculturale-multietnica (Regno Unito), lavoratore ospite
(Germania). A quanto già scritto
vorrei aggiungere qualche ulteriore elemento di riflessione.
Nella
Francia, scopertasi Charlie
Hebdo, il revisionismo
storico è diventato legge nel febbraio del 2005, dal momento che è
stato fatto obbligo agli insegnanti dei collegi e dei licei di
valorizzare "il ruolo positivo" svolto dalla Francia nelle
colonie. In un contesto in cui: la popolazione carceraria, per il
60%, è costituita da discendenti di immigrati; i quartieri loro
riservati sono stati abbandonati a se stessi e si è creata una
situazione di apartheid
economico e sociale; "per gran parte dei figli/e e nipoti di
immigrati magrebini non v'è possibilità né speranza di mobilità
sociale."
Come meravigliarsi se tra i tanti esclusi, alcuni possano essere
indotti all'estremo di darsi alla morte sicura in azioni
terroristiche, pur di dare un senso alle proprie esistenze?
Varrebbe
la pena di ripensare persino alla declamata "tolleranza",
una parola dal retrogusto agro-dolce. Certo, meglio la sopportazione
della soppressione dell'altro! Tuttavia, se si tiene conto da chi e
in quali rapporti è stata elaborata quella famosa teoria,
qualche dubbio sovviene. Voltaire "fu poligenista
convinto, esplicito fautore dell'antiebraismo, risoluto sostenitore e
profittatore del sistema schiavistico."
Non a caso venne preso a riferimento da ideologi del razzismo come
Arthur de Gobineau. Il concetto di tolleranza, quando non venga
applicato alle sole divergenze d'opinione tra pari reciprocamente
tolleranti, implica uno stare sopra e a distanza, socialmente e
culturalmente. Oggi potrebbe essere così interpretato: "ti sono
superiore, non ti osteggio ma ti tollero, purché tu stia al tuo
posto, a debita distanza da me e dal mio quotidiano." Una
convivenza tra padrone e subordinato, tra classi e caste (vedi
riquadro) ostili ma l'un l'altro funzionali, alla Menenio Agrippa;
sicuramente non una convivenza basata sulla condivisione.
Rompere
la gabbia
Poiché
il terrorismo passatista trae origine e continuo alimento dal
terrorismo della civiltà dello scontro, uscire dall'uno non è
possibile se si persevera nell'altro. Parimenti l'immediato impatta
contraddizioni di ordine epocale, storiche e complessive, che
implicano un percorso di lunga durata, sul quale ci si può solo
avviare.
Quali
i primi passi?
Tra
i milioni di coloro che hanno partecipato alle manifestazioni
francesi dopo la strage di Charlie Hebdo forte è il
sentimento democratico, di avversione alle idee xenofobe, razziste e
neo-fasciste, quando sono conclamate. Ma già qualche indecisione
traspare di fronte all'idea di scontro delle civiltà. Indecisione
che si tramuta , almeno per una parte, in appoggio a chi propugna la
guerra al terrorismo. Incombe l'angoscia demografica, accompagnata
dalla continua visione del sangue dei "nostri" che spinge
nell'oblio il sangue degli "altri" (non dei terroristi, ma
degli innocenti). E si finisce per dare per scontata una guerra che
non lo è affatto, soprattutto in tutte le sue implicazioni.
Ma
è proprio dalla opposizione alla "guerra contro il terrorismo"
il punto da cui muovere. Essa, infatti, si viene a situare nella
riproposizione della logica della guerra fredda della Nato e degli
Stati Uniti, con le note conseguenze ad Est (Ucraina) come a Sud
(Medio Oriente e Nord Africa) dell'Europa. In questa logica politica
delle relazioni internazionali, nella quale si puntella il
traballante egemonismo nord-americano e si rifiuta l'emergente nuovo
mondo multipolare, ristagna ogni possibile soluzione del problema
palestinese.
Se
l'Unione Europa vuole sopravvivere (al di là dei destini della zona
euro), deve attivarsi per sminare le situazioni di conflitto. Si
cominci dalla Palestina, andando oltre il riconoscimento formale
datole da alcuni Parlamenti. Poiché tutti si dicono fautori di "due
popoli, due Stati", si operi concretamente in tal senso, aprendo
un processo di pace, attraverso il riconoscimento, reciproco e
simmetrico, del diritto all'esistenza di tutte le forze aderenti.
Si sancisca la fine dell'apartheid ed
il rispetto dei diritti umani. I responsabili di stragi e terrore
siano sottoposti al giudizio di un Tribunale Internazionale. Il
ritiro dalle aree occupate sia garantito da una forza internazionale
di interposizione fino all'estensione della sovranità dello Stato
palestinese su un territorio continuo e non ridotto ad un arcipelago
di bantustan.
Gerusalemme cessi di venire contesa e divenga città dell'incontro e
del dialogo mondiale, anche tra confessioni.
Non
bisogna essere gollisti per condividere alcune proposte di Domenique
de Villepin,
la cui prospettiva di civiltà declinata "alla francese"
diverge, peraltro, da quella qui sostenuta.
Rimettersi
in movimento per rompere la gabbia della civiltà dello scontro e del
continuo ricorso alla guerra significa aprirsi a tutti coloro i quali
fossero disposti anche ad un solo atto per forzarla.