venerdì 30 gennaio 2015

"Destra" e "Sinistra"

Riccardo Bernini - gennaio 2015

Gramigna  Pianta infestante. Può essere usata a scopi terapeutici.

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Le tradizionali e convenzionali definizioni di area politica "destra" e "sinistra" sono in crisi, come lo sono i partiti e la forma partito. Disaffezione quotidiana ed astensionismo al momento del voto esprimono un crescente e radicale "non riconoscersi più". Per presentarsi e rappresentarsi come innovatrici, alle nuove formazioni politiche è d'obbligo dirsi o movimento o rete sociale o estranee e trasversali alle obsolete appartenenze.
So bene che andrebbero introdotte distinzioni, perché, pur essendo intimamente connesse, le parole e i significati poc'anzi evocati meriterebbero una trattazione analitica, separata. Bisognerebbe ripercorrere la storia dei significati e le loro metamorfosi, ponendoli nel relativo contesto reale. Per oggi, mi sottraggo al più gravoso compito e imbocco la via breve dell'attualità.
Syriza, la forza politica che ha recentemente vinto le elezioni greche, si è sempre detta di sinistra. Mancando di poco la maggioranza assoluta, a poche ore dal voto si è alleata con Anel, partito dei "greci indipendenti", nazionalisti di destra ed euroscettici, una costola del partito Nea Dimokratia del premier uscente Antonis Samaras. Chi sperava di diluire la retsina con l'acqua europeista del Fiume (questo significa To Potomi), compagine di centro-sinistra, è rimasto deluso. Il presepe non si è ricomposto in bell'ordine. Evidente lo spiazzamento.
Dietro a tutto questo c'è la fame e la povertà di un popolo, le sue vere sofferenze ed aspettative, riversate nelle urne contro un'Europa ancora una volta "pallida madre" di una figlia, la Grecia, tanto esaltata per i "valori" di cui fu portatrice, quanto osteggiata e impietosamente maltrattata nel suo vivere concreto.
E l'insorgenza di un Paese mediterraneo, periferico, ci coinvolge direttamente.
In questa occasione si è palesata tutta la confusione in cui versa la sinistra italiana presente in Parlamento. Fece dichiarazioni di fuoco contro la scelta di Grillo di associarsi all'Ukip di Nigel Farage per formare un gruppo nel Parlamento europeo, definendola una "epifania" (Vendola), un disvelamento della reale natura di M5S (dimmi con chi vai e ti dirò chi sei). Ora è colta "in contropiede", quando Tsipras va addirittura all'alleanza governativa con una formazione politica del tutto simile a quella di Farage. La questione non è di lana caprina, poiché chiama in causa la capacità di indirizzare le proprie scelte tattiche in base alle proprie priorità strategiche. Senza avere ben chiare queste ultime, le altre risulteranno occasionali seppure ideologicamente salvifiche.
Più in generale, dopo oltre trent'anni di europeismo economicista e monetarista, è venuto meno il costrutto sociale e politico della differenza tra destra e sinistra. Per una ragione semplice: i partiti delle alternanze europee a pendolo hanno praticato le medesime strategie liberiste. Spesso è toccato proprio alla sinistra mettere in atto la macelleria sociale alla quale la destra da sempre aspira. Il Jobs Act renziano ne è l'ultimo esempio.
Similmente è accaduto in occasione di innumerevoli scelte politiche internazionali, di guerra anziché di pace.
Ma la massima epifania resta racchiusa nella costruzione europea. La Grecia svela il fallimento della poliarchia continentale, nella quale "un governo misto di oligarchia e di plutocrazia"1 ha soverchiato la sovranità democratica territoriale dei popoli.
Se volessimo, nonostante tutto, ridare un senso alle parole, come definiremmo la scelta di Syriza di allearsi con Anel: di destra o di sinistra?
1Giulio Sapelli, Economia e Finanza, 27/01/2015 - www.ilsussidiario.net

martedì 27 gennaio 2015

La ripresa statunitense

Riccardo Bernini - gennaio 2015
Messe a fuoco

La ripresa statunitense

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Successi ed incognite della ripresa negli Stati Uniti. Tra Presidenza e Parlamento. Gli obiettivi del tandem Obama-Yellen. Dopo il Quantitative Easing.

Il tandem Obama-Yellen
Secondo la comunicazione prevalente si deve prendere atto di un fatto evidente e sostanziato dai numeri: gli Stati Uniti sono in sostenuta ripresa e dimostrano che superare la crisi si può.
Salgono gli osanna al cielo e per la giornalista Rai a New York, Giovanna Botteri, il Pil cresce semplicemente del 5%!1 Pertanto, il presidente Obama, forte dei risultati ottenuti anche grazie al Quantitative easing2 della Fed, completato per complessivi 4.800 miliardi di dollari [vedi riquadro], con a capo prima Ben Shalom Bernanke e poi, dal 3 febbraio 2014, Janet Louise Yellen, prenderà misure a favore della middle class nord-americana così fortemente penalizzata dalla crisi negli anni appena trascorsi. Obama ha dichiarato: "L'ombra della crisi è passata e lo stato del paese è forte", come dimostrano gli 11 milioni di posti di lavoro in più e i numeri-record di universitari o di cittadini coperti dall'assicurazione medica.
Peccato, sottolinea la stessa giornalista, che l'annuncio giunga tardivo rispetto alle recenti elezioni di medio termine. Oramai in maggioranza sia al Senato sia al Congresso, i repubblicani saranno in grado di contrastare efficacemente i propositi presidenziali. Si annuncia un braccio di ferro non solo tra due partiti ma anche tra due poteri, la Presidenza e il Parlamento. La democrazia statunitense è chiamata ancora una volta a mostrare tutta la sua vitalità.
Su di essa, come in generale sulla necessità di contrappesi tra poteri istituzionali, sembrano non avere dubbi anche coloro che sostengono i patti tra Renzi e Berlusconi tesi a riformare lo Stato italiano in direzione opposta.
Poiché proprio dalla imitazione della politica del Quantitative easing (Qe) da parte della Bce di Mario Draghi, su cui ritornerò prossimamente, si attendono importanti stimoli alla crescita europea ed italiana, nonché la sperata ripresa economica, appare importante comprendere meglio sia il Qe sia la consistenza della ripresa USA.
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Il programma di Quantitative Easing
"A seguito della crisi economico-finanziaria del 2007, la Federal Reserve ha da subito messo in atto le classiche misure monetarie espansive, abbassando i tassi di interesse di riferimento del mercato monetario, che sono passati da 5,25% a zero. Questa mossa non sembrò essere sufficiente a tranquillizzare i mercati e a rilanciare l’economia. Per questo motivo, a partire dalla fine del 2008, la Fed ha promosso misure non convenzionali, che si sono concretizzate nell’acquisto titoli sui mercati secondari (Quantitative Easing – QE, anche detto Large Scale Asset Purchase – LSAP) (...). La banca centrale statunitense ha deciso di acquistare titoli garantiti da ipoteche (Mortgage-backed securities, MBS) e titoli pubblici (Treasuries).
Il programma si è articolato in almeno quattro fasi distinte:
  • Il QE1 è partito nel 2008 con l’acquisto di 100 miliardi di dollari di debito di imprese private con supporto governativo (quali Fannie Mae e Freddie Mac) e 500 miliardi di MBS; pochi mesi dopo, il programma è stato ampliato quantitativamente e qualitativamente, con l’acquisto di 300 miliardi di Treasuries a lungo termine. Il QE1 ha avuto termine all’inizio del 2010;
  • Gli acquisti di titoli sono ripartiti nel novembre del 2010 (QE 2). Nel 2011, con l’operazione Twist, la banca centrale statunitense ha modificato la composizione del suo portafoglio, vendendo titoli a breve e acquistando titoli a lungo termine; l’obiettivo era quello di diminuire i tassi di interesse a lungo termine rispetto a quelli a breve.
  • Nel settembre 2012 è stata approvata la terza ondata di acquisti (QE 3): a differenza di QE 1 e QE 2, la Fed non ha stabilito l’ammontare di titoli da comprare, ma il ritmo degli acquisti, pari a 40 miliardi di MBS al mese.
Dopo pochi mesi la Fed ha deciso anche di acquistare Treasuries a lungo termine pari a 45 miliardi al mese senza sterilizzazione (QE 4)."
[da Stefano Corso, Un bilancio del Quantitative Easing della Fed, 3/06/2014. https://www.finriskalert.it/?p=1128]
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Dati visti da vicino
Tutti i dati macroeconomici sembrano confermare la tendenza positiva: dalla crescita sostenuta del Prodotto interno lordo, dei consumi, degli investimenti e profitti aziendali, delle stesse esportazioni, alla riduzione della disoccupazione al di sotto della soglia del 6%, all'inflazione minima e controllata, all'andamento di Borsa. [Vedi riquadro.]
In verità il volo dell'indice Dow Jones della borsa di New York oltre "quota dei 18.000 punti" un primo momento di apprensione lo crea. Ancora scottati dai crack finanziari che hanno dato il via ai "sette anni di vacche magre", le performances borsistiche non sono più viste con l'entusiasmo di un tempo.
Anche altri risvolti inducono a calmare le eccitazioni. Visti da vicino i dati mostrano molte contraddizioni. Il tasso di partecipazione al lavoro degli americani è sceso al 62,7%, il minimo dal 1978 (era il 66% nel 2008). Nelle statistiche figurano solo i richiedenti lavoro non occupati. Sfuggono al calcolo ufficiale:
- i cosiddetti scoraggiati (2,3 milioni hanno di recente rinunciato a cercare lavoro) e i "rifugiati" nella invalidità;
- i 7 milioni di persone o in galera o ristrette nei movimenti;
- i 6,8 milioni di lavoratori part-time (tra cui anche chi richiede un lavoro a tempo pieno).3
Anche la dinamica interna mostra contraddizioni, giacché aumentano i nuovi posti o per le fasce molto basse o per quelle molto alte " (...) tra il 2007 e il 2012 il numero dei manager del comparto industriale è aumentato dei 387.000 unità, mentre quello degli impiegati è diminuito di circa 2 milioni."4 Sarebbero i frutti non governati dei processi di automazione.
A proposito delle disuguaglianze, si riscontrano due fenomeni: i salari americani continuano ad essere molto più bassi di quelli tedeschi ed aumentano poco più dell'inflazione; 400 persone più ricche posseggono di più dei 180 milioni di più poveri.5
I consumi sono cresciuti a causa dell'Obamacare medico e mostrano qualche problema di tenuta per il futuro.
Alla soddisfazione per l'aumento dei laureati fa da contraltare la preoccupazione per l'alto livello del debito contratto dagli studenti per accedere ai costosi studi universitari.6
Piuttosto bassi sono considerati i livelli d'investimento che non potranno avvalersi della spinta indotta da incrementi della spesa pubblica, in particolare di quella militare. Se non ci saranno ripensamenti, la contrazione dell'enorme budget della difesa proseguirà in futuro sulla scia del calo dai 600.4 miliardi del 2013 ai 582 miliardi del 2014.
Borsa, gas e petroli da shale, occupazione
Sul raddoppio dei valori di borsa, rispetto ad una crescita del debito federale del 48%, già si sollevarono dubbi a fine 2013.7 A giugno del 2014 vengono segnalate tre bolle nascoste (immobiliare, borsa di Wall Street e Social Media) e il rischio derivante dal Qe che ha riempito la pancia della Fed di bond (Treasuries, buoni del tesoro) e di Mortgage-backed security (titoli garantiti da mutui) per 4.340,904 miliardi di dollari, quando a settembre del 2008 erano "appena" 925,725 miliardi di dollari.8
Accanto alla straordinaria lievitazione dei valori di borsa, in direzione della quale sembra essersi indirizzata gran parte della liquidità a basso costo garantita dal Qe, occorre prestare un'attenzione particolare all'autonomia energetica americana derivante da shale gas and oil.9
In tempi di crisi l'ambiente cede il passo al Pil, un cavallo a cui non si guarda in bocca. Tuttavia, la recente forte espansione del settore mostra alcune debolezze di fondo.
Per il BEG (Bureau of Economic Geology)10 dell'università del Texas, i principali giacimenti degli USA, dopo gli affrettati ottimismi iniziali, sarebbero in rapido esaurimento; anche nel resto del mondo le eccessive valorizzazioni di borsa appaiono più come una bolla che rispondenti a reali prospettive.11
A ciò si aggiungano le forti perturbazioni connesse alla caduta del prezzo del petrolio a barile voluto dall'Opec. Se esso continuasse a tenersi al di sotto dei 50$/barile o poco oltre, i costi dello shale negli Stati Uniti potrebbero non essere più convenienti e concorrenziali.
Queste difficoltà potrebbero ricadere negativamente sull'occupazione, poiché "(...) negli stati che non hanno beneficiato di gas e petroli da shale, l'occupazione a ottobre del 2014 era alquanto inferiore rispetto al 2008. Tutta la crescita netta di occupati in America (quasi un milione e mezzo) si è concentrata negli stati del boom energetico."12
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I numeri della crescita USA
  • Pil. Crescita nel 3° trimestre a +5% rispetto al +4,6% registrato nel 2° trimestre. Su base annua la crescita è calcolata a +2,7%, un decimo in più rispetto a quanto calcolato nel trimestre precedente.
  • Disoccupazione. Al 5,9%.
  • Consumi. Spesa (sono la maggior fonte di attività economica degli Stati Uniti) rivista a +3,2%, dal +2.2% della precedente lettura.
  • Investimenti aziendali. Aumentati a +8,%, dal +7,1% delle stime precedenti.
  • Profitti aziendali. +2,8% rispetto al trimestre precedente e di +5,1% su base annuale.
  • Scorte. Aumento a 82,2 miliardi di dollari, da 79,1 miliardi.
  • Esportazioni. Rivista al rialzo, al 4,9%.
  • Inflazione. Invariata a +1,5% su base annuale.
    [Dati estratti da un articolo di Marco Valsania del 23/12/2014, https://www.ilsole24ore.com]
  • Investimenti. Al 17,3% del Pil come nel 2007; erano al 19,1% nel 2006.
  • Deficit. Al 2,8% del Pil (chiusura dell'anno fiscale 30 settembre 2014).
  • Debito pubblico. Al 105% del Pil. La discesa è attesa tra un paio di anni.
    [Dati estratti da Fabio Scacciavillani, Il Fatto Economico, 24/12/2014]
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   Oltre il Quantitative easing
   Nonostante i pubblici proclami, il tandem Obama-Yellen è perfettamente consapevole della precarietà della ripresa quando essa, pur non scontando le fragilità poc'anzi esposte, non fosse sostanziata da una riduzione delle disuguaglianze interne. Oltre al già citato riferimento alla middle class da parte di Obama, più volte la Yellen si è espressa in tal senso.13
   Solo la crescita dei consumi delle classi più svantaggiate, e dalla recente crisi e dalla precedente trentennale polarizzazione di redditi e ricchezze verso il vertice più alto della piramide sociale, potrà stabilizzare la ripresa nello sviluppo della domanda interna. A tale scopo, in un contesto di propugnato contenimento della spesa pubblica per ridurre il debito sovrano:
1. non dovrà venir meno l'autonomia energetica, i relativi investimenti e la connessa occupazione, nonché la derivante limitazione dell'import di petrolio;
2. dovrà consolidarsi la tendenza esportativa [vedi tabella], la quale ha goduto di un dollaro svalutato (temporaneamente rispetto all'euro) e permane un punto debole;
3. la lievitazione dei valori borsistici dovrà essere tenuta sotto controllo per non sboccare in repentini squilibri finanziari.
   Negli States i lavoratori a salario minimo sono saliti a "circa 28 milioni di persone che guadagnano 7,25 dollari l’ora. È quella lowerclass per la quale il presidente Obama sta battagliando per portare il salario minimo a 10,10 dollari. Finora senza successo".14
Senza un'adeguata crescita di redditi della lower class e della middle class, della loro spesa a far da traino ad una domanda ed investimenti interni allargati, la ripresa non si consoliderebbe e l'eventuale ricorso al debito privato, sia interno che internazionale, replicherebbe dinamiche già sperimentate in modo catastrofico.
   Gli Stati Uniti sono in ripresa economica, ma non fuori dalla crisi.

1 Reportage del 20 gennaio 2015 sul 6° discorso di Obama sull'Unione. In realtà il dato del 5% si riferisce solo alla crescita del Pil relativa al terzo trimestre del 2014, rapportata al 2°.
2 Traducibile in "alleggerimento quantitativo". Consiste nell'emissione di moneta da parte della Banca centrale (Fed) in cambio di obbligazioni (Buoni del Tesoro e Titoli garantiti da mutui).
3 Maria Teresa Cometto, Corriere Economia, 16/01/2015.
4 Vincenzo Comito, Il Manifesto, 28/12/2014.
5 Vincenzo Comito, Il Manifesto, 28/12/2014.
6 Federico Rampini, La Repubblica - Affari & Finanza, 20/10/2014.
7 Maria Teresa Cometto, Corriere Economia, 2/12/2013.
8 Fabrizio Goria, Corriere Economia, 23/06/2014.
9 Estrazione di metano e petrolio da argille friabili, tramite fracking, ossia fratturazione idraulica.
10 Traducibile in: Ufficio studi di Geologia Economica.
11 A. Crow e F. Scacciavillani, il Fatto economico, 17/09/2014.
12 Fabio Scacciavillani, il Fatto Economico, 24/12/2014.
13 Federico Rampini, La Repubblica - Affari & Finanza, 20/10/2014.
14 Francesco Riccardi, Avvenire.it, 7/10/2014.


venerdì 16 gennaio 2015

Civiltà dello scontro

Riccardo Bernini - gennaio 2015
Messe a fuoco

Civiltà dello scontro

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Terrorismo endemico. Del Califfato. La Palestina sullo sfondo. Angosce demografiche. Civiltà. Uno standard occidentale. Tolleranza nell'interno sociale. Rompere la gabbia.

Terrorismo endemico
Il terrorismo passatista islamico oramai imperversa da decenni: i recenti fatti di Parigi, pur considerati nella loro specificità, si collocano in coda ad una lunga sequenza. Su scala mondiale. Anche episodi apparentemente isolati possono venire compresi solo se collocati in un quadro più generale, di contraddizioni di più lunga durata in cui si sono venuti formando. In quanto fenomeno stabile è alla soluzione delle contraddizioni che ne costituiscono l'habitat, che deve necessariamente venire rinviata sia la sua riduzione che la sua eliminazione.
A disposizione delle pubblica opinione non mancano le analisi effettuali. Sul piano della psicologia individuale e di gruppo, come su quello sociologico e persino nella narrativa, ci è stato spiegato donde e su quali motivazioni vengano reclutati i terroristi, siano essi provenienti dalle enormi e degradate periferie delle megalopoli del cosiddetto mondo islamico o, caso più recente ma minoritario (ma più "vicino a noi"), da quelle dell'Occidente, dagli Stati Uniti, dal Regno Unito, dalla Francia. Per non parlare dei meccanismi di arruolamento nelle "aree tribali", dall'Afghanistan alla Libia, alla Nigeria.
Sul piano politico il terrorismo passatista islamico è oggetto troppo spesso più che di analisi, di proposte risolutive, sbrigative ed estreme. Pur distinguendo tra islamismo e terrorismo, anche il governo socialista di Manuel Valls1 si situa nella logica di guerra.
In controtendenza si pronuncia una parte del gollismo francese. Proprio alcune settimane fa, l'ex primo ministro Domenique de Villepin aveva ammonito di non commettere l'errore grave della "guerra al terrorismo", prospettando, in alternativa, una "strategia di asfissia" del Califfato e delle sue propaggini. Si tratta di due prospettive divergenti nel concepire le politiche internazionale di tutte le nazioni europee e dell'Unione.
Anche il ricorso agli scenari più apocalittici, quali quelli evocati da chi paventa l'islamizzazione dell'Europa, mostrano una interna difficoltà, quasi un rifiuto. Quello di riandare alle radici, ai problemi reali, al riesame dei contesti concreti come di quelli simbolici, per assumere lucidamente e non oniricamente (sognando incubi) la sostanza di un agire possibile. Un compito vasto. Mi limiterò a sollevare alcune questioni irrisolte, all'interno delle quali questo terrorismo si è incistato.
Del Califfato
Il Califfato della Siria e dell'Iraq non è caduto dal cielo. Il terrorismo si è fatto Stato, ma di terrorismo di Stato, degli Stati d'Occidente si è nutrito. Sia come alleato che come nemico. 
Il muro era già caduto. In Bosnia, quando la politica dei riconoscimenti delle piccole patrie etniche si tradusse in intervento militare per completare l'opera di disgregazione, Stati Uniti e reami arabi vi inviarono i loro alleati di Al-Qaida. Combatterono contro i serbi e a sostegno del governo musulmano di Alija Izetbegović. Più recentemente, il Califfato dell'Isis venne incubato dagli stessi USA quando si inserirono nella crisi siriana. Poi, si ripeté lo scenario già sperimentato con Saddam Hussein, alleato contro l'Iran, che, per il servizio reso con la guerra alla Repubblica Islamica, pensò di prendersi una ricompensa, annettendosi il Kuwait. Anche l'alleato Al-Bahgdadi per il servizio in Siria (non potendo arrivare a Damasco) si è impossessato dei pozzi di Mosul e di parte del Kurdistan iracheno.
Ad un passo dall'intervento diretto e nel giro di pochi mesi, a Washington scoprirono che l'alleato sul campo siriano era diventato un nemico in Iraq. Possibile una simile coazione a ripetere, dopo l'11 settembre?
Ci si chiede quale ruolo abbiano giocato i neo-conservatori (Mc Cain, il partito del petrolio arabo-americano, i reami arabi) e in quali rapporti con l'amministrazione Obama. Altresì, ci si interroga sul reale motivo della estensione dell'etichetta di terrorismo, con le relative conseguenze, da Al-Qaida ed Isis ad organizzazioni come Hamas a Gaza, Hezbollah in Libano e il PKK in Turchia. Mettere sullo stesso piano movimenti e partiti di resistenza, connotati dall'appartenenza religiosa o da quella etnica e nazionale, e terroristi, ora integralisti fanatici e tagliateste, non è un espediente particolarmente nuovo.2 Risponde ad una logica politica che però, de facto, autorizza al pensar male di andreottiana memoria, senza far ricorso a spiegazioni complottistiche o agli esperti di intelligence.
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L'angoscia demografica
«Nel cuore della notte del 24 gennaio 2006, un'unità speciale della polizia di frontiera israeliana occupò il villaggio palestinese di Jaljulya. Le truppe fecero irruzione nelle case trascinando fuori trentasei donne e deportandone otto. A queste ultime venne ordinato di ritornare nelle loro vecchie abitazioni in Cisgiordania. Alcune di loro sposate da anni con palestinesi di Jaljulya, altre erano incinte, molte avevano figli. Furono brutalmente separate dai loro mariti e dai loro figli. Un deputato palestinese della Knesset protestò, ma l'azione venne appoggiata dal governo, dalla magistratura e dai media: i soldati dimostrarono all'opinione pubblica israeliana che quando la presenza della minoranza palestinese minacciava di trasformarsi da "problema demografico" a "pericolo demografico", lo Stato ebraico agiva rapidamente e senza pietà.
Il raid poliziesco di Jaljulya era del tutto "legale": il 31 luglio 2003 la Knesset aveva promulgato una legge che proibiva ai palestinesi, quando sposavano cittadini israeliani, di ottenere la cittadinanza, la residenza permanente o anche la residenza temporanea. In ebraico il termine "palestinesi" è sempre riferito ai palestinesi che vivono in Cisgiordania, nella Striscia di Gaza e nella diaspora, per distinguerli dagli "arabi israeliani", come se non facessero parte della stessa nazione palestinese. Colui che aveva proposto i disegno di legge era un sionista liberale, Avraham Poraz, del partito di centro Shinui, che lo presentò come "misura difensiva". (...)
I parlamentari arabi della Knesset facevano parte di un gruppo di israeliani che si appellarono alla Corte Suprema contro questa ultima legge razzista. (...) La decisione della Corte Suprema [ndr: di respingere l'appello] era una chiara manifestazione di quanto poco essi contassero sia nel parlamento israeliano che nel sistema giudiziario. (...) la Corte preferiva stare dalla parte del sionismo piuttosto che della giustizia.»

Ilan Pappe, La pulizia etnica della Palestina, Fazi, 2008 (2006), pagg. 294-295.
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La Palestina sullo sfondo
Inevitabilmente si ritorna alla Palestina, all'inizio del dramma. Sicché assistiamo alla scena parigina3 alla quale partecipa Netanyahu, in rappresentanza di un governo fresco reduce da un bombardamento indiscriminato, ennesimo atto di guerra terroristica contro la popolazione del ghetto di Gaza. E qui la contraddizione si fa cocente per la supposta univoca identità del civile e democratico Occidente.4 Mentre quest'ultimo teorizza retoricamente pluralismo e libertà nel rifiuto dell'idea di Stato confessionale, tanto più mono-confessionale, appoggia uno Stato (riconoscendolo parte della propria civiltà, cultura e tradizione, a differenza di quelli arabi e del "mondo musulmano") che non può permettersi una Costituzione coerente e completa5 per non autodefinirsi. Giacché Israele dovrebbe ammettere, nero su bianco, di essere lo Stato di una religione e del popolo di quella religione, così come si è andato storicamente e concretamente affermando con la pulizia etnica della Palestina6, ossia uno Stato ebraico. Con la conseguenza di riconoscere formalmente la marginalizzazione degli arabi palestinesi e con essi della religione islamica, mantenuti in numero minoritario "compatibile", sì da assicurare salda e perenne supremazia alla componente maggioritaria attuale. Non a caso si insiste nel richiamare tutti gli ebrei alla "terra promessa", nell'ansia attanagliante della "questione demografica" e l'occupazione della Cisgiordania bada ad incorporare più territorio possibile, acquisendo il minor numero possibile di palestinesi residenti (vedi riquadro).
Pertanto si assiste in Israele ad un apparente "ribaltamento" rispetto alla generalità dei Paesi occidentali. Agli immigrati vengono garantiti diritti e opportunità di inserimento, laddove questi sono negati alle popolazioni indigene. Non è dunque l'immigrazione il problema, bensì l'appartenenza, l'identità degli immigrati a rafforzare/indebolire l'identità ebraica dello Stato.
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Civiltà
«Ma se affossate la parola "civiltà", se minate e scalzate le basi di questa nozione, in nome di che cosa potremmo giustificare la nostra presenza nelle colonie? È necessario che nel termine "civiltà" non facciate passare la nozione di "relativismo culturale", perché non potremmo giustificare la nostra azione in Indocina e in Africa nera. Bisogna che la parola "civiltà" continui ad indicare qualcosa di assoluto non di relativo: ne va della presenza francese nelle colonie francesi.»
Citazione di Paul Doumer presidente della Repubblica dal 13 maggio 1931 al 6 maggio 1932.

Annamaria Rivera, La guerra dei simboli - Veli postcoloniali e retoriche dell'alterità, Dedalo, 2005, pag. 95.
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Un modello occidentale standard
Localizzare la contraddizione alla sola Palestina, tuttavia, comporta una forte limitazione di significato e di senso. Giacché è tutta la storia dell'Occidente degli ultimi cinquecento anni, dalla "scoperta" delle Americhe in poi, con l'Europa tedofora di civiltà, ad essere chiamata in causa. Ad esempio: come si sono formati gli States in America, sia rispetto ai popoli indigeni, sia, più tardi con l'importazione di schiavi dall'Africa? Nel corso della guerra d'indipendenza americana, il generale John Sullivan, inviato da George Washington a distruggere ogni insediamento autoctono nella terra irochese delle Sei Nazioni, inalberò il motto: "Civiltà o Morte!"7 Un imperativo continuamente riproposto.
Appropriarsi di terre abitate da secoli da altri popoli in nome della civiltà, è una costante, uno standard occidentale. Lo Stato d'Israele non ha inventato un modello, lo ha solo mutuato. Ma tardivamente, troppo tardivamente: la sconfitta dell'apartheid in Sud-Africa ne segna la fine.
Il rovesciamento dei flussi migratori
Ora, alla devastazione umana di interi continenti, al colonialismo e al neo-colonialismo, la continuazione delle pratiche liberiste apporta l'ultimo tassello: la forzata emigrazione da forzato spopolamento delle campagne, derivante dalla globalizzazione capitalistica dell'agricoltura. Si tratta della Grande Contraddizione.8
Arricchendo il Centro e depauperando le Periferie (e la polarizzazione è riprodotta anche su scala europea), si costringono milioni di persone all'emigrazione sia interna che internazionale. A questa spinta si aggiungano i profughi per la sopravvivenza dalle guerre di cui i governi d'Occidente si sono resi diretti responsabili. Ne registriamo solo piccole conseguenze nei flussi mediterranei verso l'Italia e l'Europa. Comunque, l'angoscia demografica di Israele si estende ai Paesi della parte più ricca dell'Europa.9
Ecco allora la chiamata alla guerra contro il terrorismo nel mortale scontro di civiltà.10 In realtà, più appropriato sarebbe guardare alla nostra "civiltà degli scontri"11 che tratta in modo antagonista l'immigrazione per non dover far fronte alle sue cause, né alle sue necessarie conseguenze.
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Casta
«Nel descrivere la condizione sociale delle popolazioni d'origine maghrebina in Francia, Christine Delphy (...) ha proposto l'utilizzo della categoria di casta. (...) essa non è nè peregrina nè alternativa alle descrizioni in termini di classe e di genere: "La classe comporta elementi di casta; e la casta, al pari del genere, vale a distribuire gli individui nelle classi sociali." Uno dei vantaggi del suo utilizzo, soggiunge Delphy, risiede nel fatto che, "mentre il concetto di razzismo descrive dei processi, quello di casta pone l'accento sui risultati di tali processi in termini di struttura sociale." E questi sono rispecchiati nel fatto stesso che si parli di questi cittadini e cittadine francesi come di immigrati/e di seconda o di terza generazione, trasformando così uno status per definizione situazionale in una caratteristica quasi-biologica ed ereditaria.
È una tendenza che non riguarda solo l'ordine del linguaggio: effettivamente per gran parte dei figli/e e nipoti di immigrati magherebini non v'è alcuna possibilità di mobilità sociale, così che essi sembrano condannati a ereditare lo status dei loro genitori o nonni, il che potrebbe autorizzare a parlare, appunto, di una situazione di casta. »

Annamaria Rivera, La guerra dei simboli - Veli postcoloniali e retoriche dell'alterità, Dedalo, 2005, pagg. 18-19.
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Interno sociale
L'immigrazione si inserisce in un interno sociale di diseguaglianze crescenti e di sostanziale stagnazione economica. A queste difficoltà si sommano i fallimenti delle strategie di integrazione e di società multietnica-multiculturale.
Infatti, in Europa l'immigrazione è stata trattata secondo strategie riferite a tre Paesi: integrazione (Francia), società multiculturale-multietnica (Regno Unito), lavoratore ospite (Germania). A quanto già scritto12 vorrei aggiungere qualche ulteriore elemento di riflessione.
Nella Francia, scopertasi Charlie Hebdo, il revisionismo storico è diventato legge nel febbraio del 2005, dal momento che è stato fatto obbligo agli insegnanti dei collegi e dei licei di valorizzare "il ruolo positivo" svolto dalla Francia nelle colonie. In un contesto in cui: la popolazione carceraria, per il 60%, è costituita da discendenti di immigrati; i quartieri loro riservati sono stati abbandonati a se stessi e si è creata una situazione di apartheid economico e sociale; "per gran parte dei figli/e e nipoti di immigrati magrebini non v'è possibilità né speranza di mobilità sociale."13 Come meravigliarsi se tra i tanti esclusi, alcuni possano essere indotti all'estremo di darsi alla morte sicura in azioni terroristiche, pur di dare un senso alle proprie esistenze?
Varrebbe la pena di ripensare persino alla declamata "tolleranza", una parola dal retrogusto agro-dolce. Certo, meglio la sopportazione della soppressione dell'altro! Tuttavia, se si tiene conto da chi e in quali rapporti è stata elaborata quella famosa teoria,14 qualche dubbio sovviene. Voltaire "fu poligenista15 convinto, esplicito fautore dell'antiebraismo, risoluto sostenitore e profittatore del sistema schiavistico."16 Non a caso venne preso a riferimento da ideologi del razzismo come Arthur de Gobineau. Il concetto di tolleranza, quando non venga applicato alle sole divergenze d'opinione tra pari reciprocamente tolleranti, implica uno stare sopra e a distanza, socialmente e culturalmente. Oggi potrebbe essere così interpretato: "ti sono superiore, non ti osteggio ma ti tollero, purché tu stia al tuo posto, a debita distanza da me e dal mio quotidiano." Una convivenza tra padrone e subordinato, tra classi e caste (vedi riquadro) ostili ma l'un l'altro funzionali, alla Menenio Agrippa; sicuramente non una convivenza basata sulla condivisione.
Rompere la gabbia
Poiché il terrorismo passatista trae origine e continuo alimento dal terrorismo della civiltà dello scontro, uscire dall'uno non è possibile se si persevera nell'altro. Parimenti l'immediato impatta contraddizioni di ordine epocale, storiche e complessive, che implicano un percorso di lunga durata, sul quale ci si può solo avviare.
Quali i primi passi?
Tra i milioni di coloro che hanno partecipato alle manifestazioni francesi dopo la strage di Charlie Hebdo forte è il sentimento democratico, di avversione alle idee xenofobe, razziste e neo-fasciste, quando sono conclamate. Ma già qualche indecisione traspare di fronte all'idea di scontro delle civiltà. Indecisione che si tramuta , almeno per una parte, in appoggio a chi propugna la guerra al terrorismo. Incombe l'angoscia demografica, accompagnata dalla continua visione del sangue dei "nostri" che spinge nell'oblio il sangue degli "altri" (non dei terroristi, ma degli innocenti). E si finisce per dare per scontata una guerra che non lo è affatto, soprattutto in tutte le sue implicazioni.
Ma è proprio dalla opposizione alla "guerra contro il terrorismo" il punto da cui muovere. Essa, infatti, si viene a situare nella riproposizione della logica della guerra fredda della Nato e degli Stati Uniti, con le note conseguenze ad Est (Ucraina) come a Sud (Medio Oriente e Nord Africa) dell'Europa. In questa logica politica delle relazioni internazionali, nella quale si puntella il traballante egemonismo nord-americano e si rifiuta l'emergente nuovo mondo multipolare, ristagna ogni possibile soluzione del problema palestinese.
Se l'Unione Europa vuole sopravvivere (al di là dei destini della zona euro), deve attivarsi per sminare le situazioni di conflitto. Si cominci dalla Palestina, andando oltre il riconoscimento formale datole da alcuni Parlamenti. Poiché tutti si dicono fautori di "due popoli, due Stati", si operi concretamente in tal senso, aprendo un processo di pace, attraverso il riconoscimento, reciproco e simmetrico, del diritto all'esistenza di tutte le forze aderenti. Si sancisca la fine dell'apartheid ed il rispetto dei diritti umani. I responsabili di stragi e terrore siano sottoposti al giudizio di un Tribunale Internazionale. Il ritiro dalle aree occupate sia garantito da una forza internazionale di interposizione fino all'estensione della sovranità dello Stato palestinese su un territorio continuo e non ridotto ad un arcipelago di bantustan.17 Gerusalemme cessi di venire contesa e divenga città dell'incontro e del dialogo mondiale, anche tra confessioni.
Non bisogna essere gollisti per condividere alcune proposte di Domenique de Villepin18, la cui prospettiva di civiltà declinata "alla francese" diverge, peraltro, da quella qui sostenuta.
Rimettersi in movimento per rompere la gabbia della civiltà dello scontro e del continuo ricorso alla guerra significa aprirsi a tutti coloro i quali fossero disposti anche ad un solo atto per forzarla.
1 Manuel Valls all'Assemblea Nazionale francese del 13/01/15: «Sì, la Francia è in guerra contro il terrorismo, il jihadismo e l’islamismo radicale. La Francia non è in guerra contro l’islam e i musulmani. La Francia proteggerà tutti i suoi cittadini, quelli che credono e quelli che non credono, con determinazione e sangue freddo.»
2 Negli "anni di piombo" ogni movimento d'opposizione venne assimilato al terrorismo.
3 Nella manifestazione del 11 gennaio 2015.
4 A cui si è richiamato Matteo Renzi all'inaugurazione dell'Anno Accademico dell'Università di Bologna.
5 Uriel Lynn, in un articolo sul Jerusalem Post del 23/10/2007, sostiene che alcune Leggi fondamentali formano la Costituzione d'Israele che, tuttavia, "deve essere completata". http://www.israele.net/israele-ha-gi-una-costituzione-scritta.
6 Ilan Pappe, La pulizia etnica della Palestina, Fazi, 2008.
7 Wu Ming, Manituana, Einaudi, 2007, pag. 576.
8 Nel Post "Immigrazione".
9 Da essa muove anche Michel Houellebecq con il libro "Soumission", in cui si prospetta una Francia (nel 2050) islamizzata.
10 Samuel Phillips Huntington, Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, 1996.
11 Arjun Appadurai, Sicuri da morire. La violenza nell'epoca della globalizzazione, Meltemi, 2005.
12 Nel Post "Immigrazione".
13 Annamaria Rivera, La guerra dei simboli - Veli postcoloniali e retoriche dell'alterità, Dedalo, 2005, pagg.16-19.
14 Voltaire, Trattato sulla tolleranza, 1763.
15 Il poligenismo è una teoria, detta anche polifiletismo, che afferma la pluralità delle origini dei vari tipi umani.
16 Annamaria Rivera, ibidem, pag. 101.
17 Territori del Sudafrica e della Namibia assegnati alle etnie nere dal governo sudafricano nell'epoca dell'apartheid.
18 Le Monde Diplomatique - Il Manifesto, dicembre 2014.

giovedì 8 gennaio 2015

Guerra al Terrorismo?

Riccardo Bernini - 8 gennaio 2015

Gramigna  Pianta infestante. Può essere usata a scopi terapeutici.

Guerra al Terrorismo?

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Si palesarono alleati in Afghanistan contro l'URSS e in Bosnia (ricordate l'esibizione delle teste mozzate?) contro i serbi. Altrove, nella vasta area denominata mondo islamico, agirono insieme nell'ombra, sotto copertura. Contro i comuni nemici: il comunismo ateo, il socialismo arabo, le forze laiche nazionaliste, ogni processo di liberazione come affrancamento dalla dominazione esterna e, al contempo, dal feudalesimo, dal tribalismo, dal fondamentalismo religioso. Insieme, uniti, imperialismo e passatismo.
Ora si avversano ferocemente. L'11 settembre ha mostrato al mondo la rottura della loro alleanza. Talvolta l'antico amore rinverdisce (cosa ci faceva il senatore John MacCain con il futuro Califfo Al Baghdadi?), ma solo per l'attimo bastante a fomentare ulteriori scontri,1 tramare sulla pelle di un popolo (quello siriano), meglio condurlo alla distruzione.
Praticano la guerra allo stesso modo: prendono a bersaglio civili e prigionieri indifesi. Se trovano resistenza il loro eroismo appare qual è: retorica ed autoesaltazione bellicista. Kobane insegna. Ma il terrore oggi così si semina: colpendo indistintamente bambini, vecchi, donne e uomini inermi, i più facili bersagli, corpi da devastare per gettare sangue negli occhi del mondo. Per eventi mass-mediali globalizzati. Nulla di ottocentesco. Tutto assai di post-moderno.
Certamente c'è sproporzione, asimmetria: dall'alto dei cieli, con droni comandati da migliaia di chilometri si è al videogioco e la distanza è di irridente, totale sicurezza e comfort per chi semina morte; non altrettanto può dirsi per chi (convinto o costretto) si fa autoesplodere in un affollato mercato o a bordo di un aereo contro grattacieli gremiti di persone al lavoro o assale la sede di un giornale per sterminarne la redazione. Ma il velleitario tentativo dei passatisti è di rendere occhio per occhio, dente per dente. Imitando il nemico più grande e potente, persino nell'arancione delle tute con cui vengono vestite le vittime, s'illudono di poter rivaleggiare con esso. Sono un suo clone, una sua costola, per una visione identitaria avversa ma uguale. Terrorismo a casa "loro" contro terrorismo a casa "nostra". Una escalation dell'orrore.
Chi ha incubato a lungo e con successo il suo contrario-identico integralista islamico? Prima di Abu Grahib, prima di Guantanamo, ma anche recentemente con il bombardamento stragista di Gaza? Difficile non riconoscere la ferita profonda della nakba2 e le mille occasioni per fare la pace sabotate dall'integralismo sionista. Dente per dente, occhio per occhio. Un Dio unico assoluto, mai misericordioso, sempre vendicativo.
Di recente un politico francese, Domenique De Villepin, gollista e pensante, ex primo ministro ed ex ministro degli esteri, ha ammonito: "«La guerra contro il terrorismo» è un errore grave." Soprattutto per la Francia vista dall'interno. Meglio "una strategia di asfissia di lungo respiro. Asfissia finanziaria delle entrate del petrolio, dei traffici e dei sussidi provenienti dal Golfo. Asfissia territoriale con l'arginamento dell'espansione dell'Osi, garantendo un costante appoggio aereo ai curdi di Iraq e Siria, ai giordani e ai libanesi. Infine, e soprattutto, asfissia politica privando l'Osi di sostegni."3
Eppure, la Francia, da Sarkozy in poi, prese la direzione opposta, sposando la Nato e le sue avventure in una sorta di continuazione della guerra fredda di interesse nord-americano, che invece del Califfato asfissia l'Europa da Est a Sud. E Hollande non sembra proprio voler deviare da quella traiettoria.
Dove vuole portarci «la guerra contro il terrorismo», condotta con metodi terroristici, che alimenta il terrorismo, lo si può ben comprendere dalle reazioni politiche in tutto l'Occidente seguite alla strage della redazione di Charlie Hebdo. "Sangue sulla libertà" titolava il Fatto Quotidiano all'indomani. Ma senza la "loro", quella dei popoli oppressi, non può esserci la "nostra", nelle cittadelle degli oppressori.

1 A risarcimento del servizio reso in Siria, il Califfo si è preso Mosul e i suoi pozzi petroliferi, entrando in collisione con l'Occidente. La vicenda ricorda molto la pretesa di Saddam Hussein di annettersi il Kuwait dopo aver reso analogo servizio agli USA con la guerra contro l'Iran.
2 Traducibile dall'arabo in "tragedia", con riferimento a quella del popolo palestinese (1947-1948) costretto all'esodo dalla propria terra dal neonato Stato di Israele.
3 Le Monde Diplomatique - Il Manifesto, dicembre 2014.