Le
élites
politiche ed intellettuali che hanno pensato e voluto la rivoluzione
liberale e la globalizzazione liberista, indirizzando le politiche
nazionali e configurando l'attuale Unione europea, poste di fronte ai
loro fallimenti si arroccano e mostrano di non disdegnare intrighi e
maniere forti.
Addossano
ogni colpa al “male morale” che pervade le menti, rappresentato
da nazionalismi, sovranismi e populismi. Incapaci di guardare
autocriticamente al proprio operato e, più propriamente, al
liberalismo
reale,
paventano il peggio:
“après
nous, le déluge!”,
dopo di noi, il diluvio.
Tuttalpiù,
come
i liberali di PiùEuropa di Emma Bonino all'indomani della sconfitta
elettorale del 4 marzo 2018, annunciano di voler fare «tesoro delle
esperienze», senza rivedere gli obiettivi, ovviamente.
Mentre
Jean-Claude Juncker piange sull'austerità imposta alla Grecia,
oltralpe la protesta dei gilets
jaunes
fa recedere il presidente Macron da misure adottate in perfetta
continuità con le passate politiche, invise alla maggioranza dei
francesi. Destino beffardo per il capo di “En
marche!”, costretto
a rinculare in retromarcia da un movimento popolare, multistrato sul
piano sociale, che si accomuna su internet nella ribellione politica
e genera una mobilitazione di massa, fisica e diretta, in tutto il
Paese.
Surclassati
dalla in-formazione in rete, i media tradizionali si sentono
impotenti ed obsoleti, e, invece di rassegnarsi alle inevitabili
conseguenze del “progresso tecnologico” (come raccomandavano di
fare ai lavoratori “in esubero”), militano nel partito
del “cambia-niente”. I loro editori, tutt'altro che
“puri”, non hanno nemmeno bisogno di richiamarli agli ordini di
scuderia.
Non
c'è grande testata giornalistica, di stampa e televisiva, che non ci
prospetti le peggiori nequizie, puntualmente causate dal governo
Conte, al quale imputano le conseguenze delle scelte stesse dei
(loro) governi precedenti. Tra queste pure le tendenze recessive in
gran parte della zona euro!
In
mezzo a tanta pervicace e cieca arroganza, tuttavia, qualche voce
comincia a dissociarsi.
È
il caso di Massimo D'Alema,
al quale, avendo aderito al social-liberalismo quando era uno dei
leader emergente del
Pci, politicamente maturo, forse è più facile qualche riflessione
autocritica, sebbene condita di scusanti dovute all'imperio dei
cattivi tempi con cui dovette misurarsi la sua sinistra.
Erano
tempi in cui si glorificava la vittoria definitiva della democrazia
dell'Occidente ricco, la rivoluzione liberale europea, le magnifiche
sorti progressive dell'Europa allargata ad Est. Come se la storia si
fosse completata e finalmente conclusa.
Dopo
aver sperimentato di cosa è capace il capitalismo lasciato libero di
esprimere tutto se stesso, all'euforia
è subentrato il disinganno ed un moto contrario si è fatto
prorompente in tutto il vecchio continente.
Comprendere
il passaggio nel quale ci ritroviamo, per le insidie che nasconde e
le opportunità che offre, significa prendersi cura della società,
della democrazia e, non ultimo, della pace, in un divenire
multilaterale del mondo, situato sui bordi della globalizzazione
liberista ai suoi esiti finali.
Nulla
è scontato: la storia non è la pellicola di un film che si lascia
riavvolgere.
Guai
a fare quadrato
In
un suo contributo dello scorso ottobre,
avviato l'iter
congressuale del PD e vedendo finalmente schiudersi uno spazio per
una riflessione sulla sconfitta elettorale e sulla perdita di
consenso popolare della sinistra, Massimo D'Alema afferma:
|
Massino D'Alema |
«Sarebbe
certamente un errore limitare la riflessione critica a questi anni:
c'è, lo ripeto, una lunga fase su cui tornare a riflettere con
serietà.»
Parole
sante. Senonché il riesame della “lunga fase” appare alquanto
debole, mentre, di contro, il punto forte è rappresentato dalla
svolta politica nazionale che sottende.
Per l'ex lider maximo
l'idea «di fare quadrato con l'establishment europeo in difesa dello
status quo contro la "barbarie sovranista" sarebbe
suicida», mentre viceversa occorre
«una strategia dell'attenzione, quando non sia possibile una
collaborazione, nei confronti di tutti quei movimenti
anti-establishment che non siano riconducibili alla destra razzista e
nazionalista».
In
particolare, ad ottenere attenzione dovrebbero essere: Syriza
in Grecia, Podemos in Spagna, France Insoumise di
Mélenchon, i Verdi tedeschi
e, seppure con minore feeling, il M5S italiano. Sicché, se fu
un grave errore non andare ad una verifica programmatica con i 5
Stelle, quando Di Maio, prima di rivolgersi alla Lega di Salvini,
offrì questa opportunità al PD, la prospettiva implicita è quella,
in un futuro prossimo, di concedere loro una sponda a sinistra,
seppure condizionata e condizionante.
Questa strategia andrebbe a
sventare la minaccia incombente, favorita dalle chiusure dal PD di
Renzi, del ritorno di una Lega, confermata nelle proprie propensioni
più negative, in seno alla coalizione con FI e Fd'I, che
schiuderebbe le porte ad una nuova maggioranza e ad un governo di
centrodestra.
Per inciso, l'analisi di
D'Alema pecca di una certa sottovalutazione dell'impatto che avrebbe
sulla base leghista,
la rimessa in pista dello squalificato Berlusconi, nel frattempo
accovacciato proprio nel vecchio establishment europeo, in
seno al partito popolare europeo a guida tedesca. È così certo che
l'elettorato di Salvini, in parte attratto dall'opposizione al TAV in
val di Susa, alle trivelle in mare dei petrolieri e agli inceneritori
dei prenditori-affaristi (il partito del PIL), lo seguirebbe tra le
schiere del “cambia-niente”?
Pensiero
debole
Qui l'acuto D'Alema
sconta una prima debolezza della
sua revisione storica, nella quale dimentica l'origine dello
sfaldamento del consenso alla sinistra istituzionale, dovuta alla
scellerata politica di austerità ante litteram perseguita dal
“consociativismo” nella seconda metà degli anni settanta.
Per alcuni lustri la Lega di
Bossi poté erigersi a paladina della difesa delle pensioni ed
installarsi tra i lavoratori settentrionali dell'industria
abbandonati da Cgil, Cisl e Uil. Ed anche quella di Salvini, risorta
dalle ceneri della seconda Repubblica grazie alla “svolta
nazionale”, ha potuto affermarsi in opposizione alla legge Fornero,
votata dalla maggior parte della sinistra, in appoggio al governo di
Monti, “podestà straniero” da Varese, via Bruxelles.
Non è affatto scontato che
la Lega possa conservarsi attrattiva verso alcuni settori popolari
qualora, come vorrebbe la sua corrente interna nordista più
affarista e legata al vecchio modello di sviluppo (il TAV
Torino-Lione appartiene al modello petrolio-auto-cemento), giungesse
ad un rieditare le disgrazie della IIa Repubblica.
A questo punto si scorge una
ulteriore debolezza della riflessione sulla “lunga fase”
di D'Alema: la mancanza di una visione autocritica della perdurante
incomprensione, tramutatasi troppo spesso in avversione, della
sinistra istituzionale verso tutti i movimenti, sin dagli anni
settanta. Il Movimento 5 Stelle è solo l'ultimo di una lunga serie.
Qual è il portato di M5S al
quale non ci si può sottrarre, senza perdere il segno dei tempi?
Innanzitutto, il modo di
intendere: la partecipazione attiva per affermare una nuova “volontà
popolare”; la democrazia della delega e della rappresentanza;
l'utilizzo delle nuove tecnologie comunicative che sconquassano la
politica per riappropriarsene. Una socializzazione culturale che
rimette in moto i movimenti di massa (vedi
gilets
jaunes),
un vero e proprio cambio di paradigma della democrazia politica.
|
Manifestazione dei gilets jaunes a Parigi |
Corpi
disorganici
Al contrario di
quanto viene fatto credere dai media tradizionali, la crisi dei
cosiddetti corpi intermedi,
in primis partiti e sindacati (ma ora anche di
quotidiani-partito come “la Repubblica”), non è dovuta
all'insorgere dei barbari populisti e sovranisti. Semmai a trovare
“risposta” nel variegato fenomeno populista è proprio la crisi
di tali corpi intermedi, palesatasi già nella prima Repubblica e
causa non secondaria della sua fine.
L'accesso
all'alfabetizzazione primaria del saper leggere e scrivere connotò
il protagonismo del movimento operaio di fine '800 ed inizio '900. Le
rivoluzioni socialiste e le liberazioni nazionali imposero al mondo
una superiore scolarizzazione di massa che in Italia, dalla metà
dello scorso secolo, mise in crisi il ruolo degli intellettuali, non
più i soli a detenere i fondamenti del sapere generale e politico. I
movimenti si auto-organizzavano ed auto-gestivano senza più aver
bisogno delle prestazioni dei quadri istruiti nelle scuole di partito
o di sindacato.
Nel corso dell'abortita
seconda Repubblica, la sinistra invece di rinnovarsi riandando alle
proprie radici, si è ancor più resa “disorganica” rispetto alla
working class. Arroccata su se stessa, mirando
all'autoconservazione (con stucchevole richiamo a “valori” non
più praticati) e, spesso mutando nome, si è riconosciuta autonoma
in quanto “ceto politico” staccato dalla parte sociale di
riferimento, finendo per coltivare unicamente l'ambizione del potere
per sé. Così si è ritrovata via via in balia della globalizzazione
liberista e, su scala europea, dell'Unione austera, sino a “farsene
doverosamente carico” e contrapporsi inesorabilmente ai settori
popolari, in funzione dei quali diceva di dover esistere come corpo
intermedio.
Non
si comprende altrimenti perché la sinistra di governo sia stata più
realista del Re nell'opera di smantellamento delle conquiste
sociali e del lavoro, del welfare pubblico,
nella svendita delle imprese statali, nella devoluzione all'Europa
della sovranità nazionale monetaria, fiscale di bilancio e persino
costituzionale (art. 81). Al punto da sostenere misure del Tesoro
oltremodo punitive, non richieste né dall'Europa né dalla
globalizzazione, del risparmio popolare e favorevoli, via spread,
alla speculazione finanziaria internazionale,
che oggi puntualmente ci ricatta e minaccia su opportuna segnalazione
della Commissione di Bruxelles.
Senza
rimettere in discussione le forme-sostanza della sinistra,
dalla partecipazione alla rappresentanza, dai modi dell'impegno
militante alla politica come mestiere, lautamente pagato ed spesso
affetto da “cleptomania”, accettando di misurarsi con i nuovi
veicoli in-formativi e comunicativi, per ampliare gli spazi della
democrazia a partecipazione e controllo diretti, qualsivoglia critica
alle ingenuità strategiche del M5S è destinata a riproporre altere
supponenze, delle quali a ragione è imputata.
Inoltre, pur prescindendo
dal portato dei “grillini”, non c'è nulla da imparare dai modi
in cui France Insoumise, Podemos ed i laburisti di
Corbyn si sono affermati? Non c'è nulla da apprendere dai rovesci
stessi che l'esperienza di Syriza ha incontrato nel corso
dell'avvilente sottomissione della Grecia?
Non mettendo in discussione
le forme-sostanza della sinistra, la revisione della “lunga fase”,
ad un certo punto del suo discorso, viene sottratta all'analisi
politica del presente e consegnata con disinvoltura da D'Alema
agli... storici! Sicché, pur richiamandosi a Gramsci,
finisce per negare il nesso proprio tra passato e presente,
essenziale nel pensiero gramsciano sull'egemonia.
La
via maestra
In caduta è un
regime trentennale
di cui la sinistra di governo è corresponsabile, non per aver
coltivato illusioni riformiste, ma in
quanto protagonista
di contro-riforme restaurative generali.
Poteva la sinistra non
abbracciare il liberalismo globalizzatore, ancorché venato di
riformismo sociale?
Qui si sconta una illusione
sovrastante d'impronta “cosmopolita”: l'idea di riformare,
attraverso regole mondiali, il contesto internazionale, nel quale
invece ha prevalso il neoliberismo
a fronte di «istituzioni politiche rimaste sostanzialmente
nazionali».
Ciò sarebbe avvenuto a causa dell'orientamento prevalente delle
istituzioni internazionali e soprattutto di quelle economiche di
maggior peso.
In
questo diaframma sarebbe incappata anche la costruzione europea, con
l'adozione dell'ordoliberismo di matrice mittel-europea e dei
«meccanismi di funzionamento dell'area euro».
Per
un ceto politico esperto e pragmatico, quale si ritiene quello della
sinistra di governo, non vedere il “verme” dell'egemonismo
nazionalistico nelle modalità dell'affermazione planetaria del
neoliberismo e, a maggior ragione, nella sua declinazione
ordo-liberista europea, perché sprofondati in un sonno illusorio, è
più di un pacchiano errore.
Per
restare all'ambito continentale, la rinuncia all'autodifesa
nazionale, della propria sovranità nelle interdipendenze, non è
avvenuta inconsapevolmente. Quando il carro monetario e finanziario
fu posto “davanti ai buoi” della integrazione politica, erano
chiare le implicazioni. Infatti, sia i socialisti che i comunisti
italiani, e pure molti democristiani, vi opposero una iniziale
resistenza. Perché fu vinta?
Non
si trova risposta plausibile se si trascurano le forze materiali,
economiche e sociali, che vollero ed imposero quella scelta, alle
quali la sinistra di governo non solo si piegò, ma si accorpò.
Rinunciare
alla elasticità del cambio della lira nell'ambito della
privatizzazione finanziaria, significava voler reggere la concorrenza
internazionale scaricandone tutto il peso sui lavoratori. Ne
derivarono maggiore disoccupazione e dilagante precariato,
abbattimento delle remunerazioni del lavoro dipendente e di quello
“autonomo”.
Vanamente
si cercherà nel discorso di D'Alema un accenno di analisi delle
classi, le quali si sono certamente trasformate ma affatto estinte, e
del capitalismo italiano, nonché delle sue irrefrenabili pulsioni a
fare tutt'uno con la finanza del Centro a discapito delle Periferie
mediterranee. Laddove questione sociale e questione nazionale si
incontrano. Lamentarsi delle diseguaglianze, dell'impoverimento di
una parte a favore dell'arricchimento di una sparuta minoranza,
appartiene al bagaglio di chi, alla Piketty,
vede il capitale della fortune,
la
sua ineguale distribuzione, non i rapporti che la generano.
Per
farlo occorrerebbe una “revisione della revisione”, togliere
dalla soffitta Carlo Marx e non basterebbe...
Nel
desolante quadro, rimarrebbe, tuttavia, un dato di consolazione: «In
fondo la visione intergovernativa dell'Europa che ha prevalso in
questi anni può consentire un riequilibrio che non metta in
discussione l'Unione ma ne ridimensioni drasticamente le ambizioni
politiche e il respiro ideale.»
Sempreché
non vi voglia dare vita nel vecchio continente ad «un progetto
radicale di democratizzazione e da un indirizzo nuovo di politiche
economiche e sociali che comprenda la necessità di una revisione del
fiscal compact e più in generale dei meccanismi di funzionamento
dell'area euro.» Ecco la via maestra che indica D'Alema per
riabilitare e ricollocare la sinistra.
Forse
troppo tardi per evitare che
la disgregazione abbia il sopravvento, confinando l'Unione europea in
un inutile limbo. Certamente troppo
poco per costruire l'auspicato radicale cambiamento, che
coniughi socializzazione e democratizzazione, abbandonando la
rivoluzione liberale al suo conclamato e storico fallimento.
Note