mercoledì 30 gennaio 2019

TAV: il dubbio di Landini

[Clicca sul titolo qui sotto se vuoi scaricare l'articolo in formato PDF]



Sul Treno ad Alta Velocità Torino-Lione è anni che si discute, persino se nominarlo al maschile o al femminile. La Grande Opera è stata analizzata, sviscerata in tutti i suoi aspetti. E ciascuna forza politica ed economica, sindacale e della società civile, ha fatto le proprie scelte: chi contro e chi a favore.
Sicché, dopo tanto dibattere, si sono formati degli schieramenti politici che ora si fronteggiano, ingaggiando battaglia. Raffigurano plasticamente lo scontro in atto nel Belpaese.
In questione non è più una singola opera, per quanto grande possa essere, bensì uno svolgimento del presente che si proietta nella visione del futuro che vogliamo. Due vie si oppongono.
Da un lato, si insiste su un modello che promette immediato sviluppo conteggiato in PIL e già pronte occasioni di lavoro, collegamenti aperti per non condannarci all'isolamento dall'Europa e non retrocedere sulla strada del progresso.
Dall'altra, si propone uno sviluppo basato sul rispetto del territorio e di chi lo abita, che privilegi le mille più urgenti necessità generate da decenni di incuria e degrado: dai trasporti per i pendolari ai ponti fatiscenti, dal dissesto idro-geologico al consumo di suolo, dall'urbanizzazione selvaggia al rischio sismico... Un elenco purtroppo ricorrente che, per non tradursi ancora una volta in sacrificio di vite umane, ha bisogno di tante e disseminate piccole opere locali, di cure manutentive ininterrotte ed attuate, però, all'interno di una risistemazione organica del territorio nazionale, sotto una pubblica regia.
Non si tratta tanto di dare la precedenza in base all'urgenza ed alla disponibilità di spesa a breve, quanto dell'indirizzo politico da intraprendere per un percorso più lungo.
Benché la maggior parte delle forze pro-TAV si dicano preoccupate del debito pubblico, l'impatto di spesa è assai elevato e concentrato, destinato a finanziare gli affidamenti a grandi imprese. L'opzione che privilegia1 l'insieme di piccole opere e la manutenzione, invece, oltre a mettere in campo un forte coordinamento pubblico, centrale e locale, alimenta un'economia di piccole-medie imprese e di lavoro più stabile, protratto nel tempo. Ragione, quest'ultima, che allarma chi vorrebbe una spesa una tantum e lavoro immediato ma pur sempre a scadenza.
Attorno al Sì-TAV si sono raggruppati Confindustria, i sindacati tradizionali, la grande stampa quotidiana, l'arco partitico della seconda Repubblica: da Forza Italia al PD.
Le manifestazioni delle madamine torinesi ha solo permesso a queste forze di presentarsi in piazza sotto mentite spoglie, nel tentativo di dar vita ad un contro-movimento privo di qualsivoglia autonomia.
Anche la Lega di Salvini al governo, come sulle trivelle in mare, mostra di voler rappresentare più gli interessi delle lobbies affaristiche petrolio-cemento, che quelle dei territori e delle persone che sopra ci vivono. Si potrebbe dire, parafrasando il suo discutibile slogan: prima gli italiani, purché (im)prenditori di grandi finanziamenti di Stato! In definitiva, nulla di nuovo rispetto alle politiche che hanno fatto la fortuna di (im)prenditori in stile Benetton.
Tra le forze del No-TAV, oltre al Movimento “sorgente” della Val di Susa, il Movimento 5 Stelle, la sinistra non coinvolta direttamente nelle passate scelte di governo, e la Fiom.
-->

Maurizio Landini sul TAV:
«Io ho i dubbi e le perplessità che ho sempre avuto, ma va tenuto conto di cosa pensa la maggioranza della Cgil.»
Senonché, fresco neo-segretario della Cgil, Maurizio Landini, interrogato sul TAV da Lucia Annunziata nella trasmissione Rai3 “Mezzora” del 27 gennaio, dichiara dubbi e perplessità, tuttavia piegandosi alla maggioranza in Cgil. Quest'ultima - è noto - sostiene che “i cantieri bloccati vanno riaperti”, come se si trattasse di salvaguardare l'occupazione contro chi la vorrebbe affossare.
Un'ottica che, sia detto per inciso, ha portato i sindacati tradizionali ad un ruolo di sostanziale condivisione del modello di sviluppo fino ad oggi prevalente. Poi ci si lamenta della decadenza di ruolo dei cosiddetti “corpi intermedi”...
In passato Landini aveva espresso un secco No al TAV ed alla grandi opere,2 sicché da parte sua recedere in perplessi dubbi non è semplicemente un “doveroso attenersi” alla democrazia interna alla Cgil: è un abbandono.
L'insorgere del dubbio rispetto al TAV fu un “alzare la testa”, da cui nacque il Movimento in Val di Susa:
«Ma d'ogni dubbio il più bello
è quando coloro che sono
senza fede, senza forza, levano il capo e
alla forza dei loro oppressori
non credono più!»
Al contrario, ricadere nel dubbio oggi ricorda un ammonimento contenuto in un passo successivo della stessa poesia di Bertold Brecht, “Lode del Dubbio”:
«Certo, se il dubbio lodate
non lodate però
quel dubbio che è disperazione!
Che giova poter dubitare, a colui
che non riesce a decidersi!
Può sbagliare ad agire
chi di motivi troppo scarsi si contenta!
Ma inattivo rimane nel pericolo
chi di troppi ha bisogno.»
Note
1 Il che non esclude qualche eventuale grande opera, attuata secondo una strategia coerente con le piccole opere.
2 https://www.ilfattoquotidiano.it/2012/03/11/susanna-camusso-apre-alla-nostra-posizione-favorevole-agli-investimenti/196597/

venerdì 18 gennaio 2019

L'autocritica di un liberale tardivo

[Clicca sul titolo qui sotto se vuoi scaricare l'articolo in formato PDF]



Nel generale arroccamento del vecchio regime, Massimo D'Alema, approdato al social-liberalismo da uomo politico già affermato, chiama la sinistra ad una ripensamento sulla “lunga fase”.
Le élites politiche ed intellettuali che hanno pensato e voluto la rivoluzione liberale e la globalizzazione liberista, indirizzando le politiche nazionali e configurando l'attuale Unione europea, poste di fronte ai loro fallimenti si arroccano e mostrano di non disdegnare intrighi e maniere forti.
Addossano ogni colpa al “male morale” che pervade le menti, rappresentato da nazionalismi, sovranismi e populismi. Incapaci di guardare autocriticamente al proprio operato e, più propriamente, al liberalismo reale, paventano il peggio: “après nous, le déluge!”, dopo di noi, il diluvio.
Tuttalpiù, come i liberali di PiùEuropa di Emma Bonino all'indomani della sconfitta elettorale del 4 marzo 2018, annunciano di voler fare «tesoro delle esperienze», senza rivedere gli obiettivi, ovviamente.
Mentre Jean-Claude Juncker piange sull'austerità imposta alla Grecia, oltralpe la protesta dei gilets jaunes fa recedere il presidente Macron da misure adottate in perfetta continuità con le passate politiche, invise alla maggioranza dei francesi. Destino beffardo per il capo di “En marche!”, costretto a rinculare in retromarcia da un movimento popolare, multistrato sul piano sociale, che si accomuna su internet nella ribellione politica e genera una mobilitazione di massa, fisica e diretta, in tutto il Paese.
Surclassati dalla in-formazione in rete, i media tradizionali si sentono impotenti ed obsoleti, e, invece di rassegnarsi alle inevitabili conseguenze del “progresso tecnologico” (come raccomandavano di fare ai lavoratori “in esubero”), militano nel partito del “cambia-niente”. I loro editori, tutt'altro che “puri”, non hanno nemmeno bisogno di richiamarli agli ordini di scuderia.
Non c'è grande testata giornalistica, di stampa e televisiva, che non ci prospetti le peggiori nequizie, puntualmente causate dal governo Conte, al quale imputano le conseguenze delle scelte stesse dei (loro) governi precedenti. Tra queste pure le tendenze recessive in gran parte della zona euro!
In mezzo a tanta pervicace e cieca arroganza, tuttavia, qualche voce comincia a dissociarsi.
È il caso di Massimo D'Alema, al quale, avendo aderito al social-liberalismo quando era uno dei leader emergente del Pci, politicamente maturo, forse è più facile qualche riflessione autocritica, sebbene condita di scusanti dovute all'imperio dei cattivi tempi con cui dovette misurarsi la sua sinistra.
Erano tempi in cui si glorificava la vittoria definitiva della democrazia dell'Occidente ricco, la rivoluzione liberale europea, le magnifiche sorti progressive dell'Europa allargata ad Est. Come se la storia si fosse completata e finalmente conclusa.
Dopo aver sperimentato di cosa è capace il capitalismo lasciato libero di esprimere tutto se stesso, all'euforia è subentrato il disinganno ed un moto contrario si è fatto prorompente in tutto il vecchio continente.
Comprendere il passaggio nel quale ci ritroviamo, per le insidie che nasconde e le opportunità che offre, significa prendersi cura della società, della democrazia e, non ultimo, della pace, in un divenire multilaterale del mondo, situato sui bordi della globalizzazione liberista ai suoi esiti finali.
Nulla è scontato: la storia non è la pellicola di un film che si lascia riavvolgere.
Guai a fare quadrato
In un suo contributo dello scorso ottobre,1 avviato l'iter congressuale del PD e vedendo finalmente schiudersi uno spazio per una riflessione sulla sconfitta elettorale e sulla perdita di consenso popolare della sinistra, Massimo D'Alema afferma:
Massino D'Alema
«Sarebbe certamente un errore limitare la riflessione critica a questi anni: c'è, lo ripeto, una lunga fase su cui tornare a riflettere con serietà.»
Parole sante. Senonché il riesame della “lunga fase” appare alquanto debole, mentre, di contro, il punto forte è rappresentato dalla svolta politica nazionale che sottende.
Per l'ex lider maximo l'idea «di fare quadrato con l'establishment europeo in difesa dello status quo contro la "barbarie sovranista" sarebbe suicida», mentre viceversa occorre «una strategia dell'attenzione, quando non sia possibile una collaborazione, nei confronti di tutti quei movimenti anti-establishment che non siano riconducibili alla destra razzista e nazionalista».
In particolare, ad ottenere attenzione dovrebbero essere: Syriza in Grecia, Podemos in Spagna, France Insoumise di Mélenchon, i Verdi tedeschi2 e, seppure con minore feeling, il M5S italiano. Sicché, se fu un grave errore non andare ad una verifica programmatica con i 5 Stelle, quando Di Maio, prima di rivolgersi alla Lega di Salvini, offrì questa opportunità al PD, la prospettiva implicita è quella, in un futuro prossimo, di concedere loro una sponda a sinistra, seppure condizionata e condizionante.
Questa strategia andrebbe a sventare la minaccia incombente, favorita dalle chiusure dal PD di Renzi, del ritorno di una Lega, confermata nelle proprie propensioni più negative, in seno alla coalizione con FI e Fd'I, che schiuderebbe le porte ad una nuova maggioranza e ad un governo di centrodestra.
Per inciso, l'analisi di D'Alema pecca di una certa sottovalutazione dell'impatto che avrebbe sulla base leghista,3 la rimessa in pista dello squalificato Berlusconi, nel frattempo accovacciato proprio nel vecchio establishment europeo, in seno al partito popolare europeo a guida tedesca. È così certo che l'elettorato di Salvini, in parte attratto dall'opposizione al TAV in val di Susa, alle trivelle in mare dei petrolieri e agli inceneritori dei prenditori-affaristi (il partito del PIL), lo seguirebbe tra le schiere del “cambia-niente”?
Pensiero debole
Qui l'acuto D'Alema sconta una prima debolezza della sua revisione storica, nella quale dimentica l'origine dello sfaldamento del consenso alla sinistra istituzionale, dovuta alla scellerata politica di austerità ante litteram perseguita dal “consociativismo” nella seconda metà degli anni settanta.4
Per alcuni lustri la Lega di Bossi poté erigersi a paladina della difesa delle pensioni ed installarsi tra i lavoratori settentrionali dell'industria abbandonati da Cgil, Cisl e Uil. Ed anche quella di Salvini, risorta dalle ceneri della seconda Repubblica grazie alla “svolta nazionale”, ha potuto affermarsi in opposizione alla legge Fornero, votata dalla maggior parte della sinistra, in appoggio al governo di Monti, “podestà straniero” da Varese, via Bruxelles.
Non è affatto scontato che la Lega possa conservarsi attrattiva verso alcuni settori popolari qualora, come vorrebbe la sua corrente interna nordista più affarista e legata al vecchio modello di sviluppo (il TAV Torino-Lione appartiene al modello petrolio-auto-cemento), giungesse ad un rieditare le disgrazie della IIa Repubblica.
A questo punto si scorge una ulteriore debolezza della riflessione sulla “lunga fase” di D'Alema: la mancanza di una visione autocritica della perdurante incomprensione, tramutatasi troppo spesso in avversione, della sinistra istituzionale verso tutti i movimenti, sin dagli anni settanta. Il Movimento 5 Stelle è solo l'ultimo di una lunga serie.
Qual è il portato di M5S al quale non ci si può sottrarre, senza perdere il segno dei tempi?
Innanzitutto, il modo di intendere: la partecipazione attiva per affermare una nuova “volontà popolare”; la democrazia della delega e della rappresentanza; l'utilizzo delle nuove tecnologie comunicative che sconquassano la politica per riappropriarsene. Una socializzazione culturale che rimette in moto i movimenti di massa (vedi gilets jaunes), un vero e proprio cambio di paradigma della democrazia politica.
Manifestazione dei gilets jaunes a Parigi
Corpi disorganici
Al contrario di quanto viene fatto credere dai media tradizionali, la crisi dei cosiddetti corpi intermedi, in primis partiti e sindacati (ma ora anche di quotidiani-partito come “la Repubblica”), non è dovuta all'insorgere dei barbari populisti e sovranisti. Semmai a trovare “risposta” nel variegato fenomeno populista è proprio la crisi di tali corpi intermedi, palesatasi già nella prima Repubblica e causa non secondaria della sua fine.
L'accesso all'alfabetizzazione primaria del saper leggere e scrivere connotò il protagonismo del movimento operaio di fine '800 ed inizio '900. Le rivoluzioni socialiste e le liberazioni nazionali imposero al mondo una superiore scolarizzazione di massa che in Italia, dalla metà dello scorso secolo, mise in crisi il ruolo degli intellettuali, non più i soli a detenere i fondamenti del sapere generale e politico. I movimenti si auto-organizzavano ed auto-gestivano senza più aver bisogno delle prestazioni dei quadri istruiti nelle scuole di partito o di sindacato.
Nel corso dell'abortita seconda Repubblica, la sinistra invece di rinnovarsi riandando alle proprie radici, si è ancor più resa “disorganica” rispetto alla working class. Arroccata su se stessa, mirando all'autoconservazione (con stucchevole richiamo a “valori” non più praticati) e, spesso mutando nome, si è riconosciuta autonoma in quanto “ceto politico” staccato dalla parte sociale di riferimento, finendo per coltivare unicamente l'ambizione del potere per sé. Così si è ritrovata via via in balia della globalizzazione liberista e, su scala europea, dell'Unione austera, sino a “farsene doverosamente carico” e contrapporsi inesorabilmente ai settori popolari, in funzione dei quali diceva di dover esistere come corpo intermedio.
Non si comprende altrimenti perché la sinistra di governo sia stata più realista del Re nell'opera di smantellamento delle conquiste sociali e del lavoro, del welfare pubblico, nella svendita delle imprese statali, nella devoluzione all'Europa della sovranità nazionale monetaria, fiscale di bilancio e persino costituzionale (art. 81). Al punto da sostenere misure del Tesoro oltremodo punitive, non richieste né dall'Europa né dalla globalizzazione, del risparmio popolare e favorevoli, via spread, alla speculazione finanziaria internazionale,5 che oggi puntualmente ci ricatta e minaccia su opportuna segnalazione della Commissione di Bruxelles.
Senza rimettere in discussione le forme-sostanza della sinistra, dalla partecipazione alla rappresentanza, dai modi dell'impegno militante alla politica come mestiere, lautamente pagato ed spesso affetto da “cleptomania”, accettando di misurarsi con i nuovi veicoli in-formativi e comunicativi, per ampliare gli spazi della democrazia a partecipazione e controllo diretti, qualsivoglia critica alle ingenuità strategiche del M5S è destinata a riproporre altere supponenze, delle quali a ragione è imputata.
Inoltre, pur prescindendo dal portato dei “grillini”, non c'è nulla da imparare dai modi in cui France Insoumise, Podemos ed i laburisti di Corbyn si sono affermati? Non c'è nulla da apprendere dai rovesci stessi che l'esperienza di Syriza ha incontrato nel corso dell'avvilente sottomissione della Grecia?
Non mettendo in discussione le forme-sostanza della sinistra, la revisione della “lunga fase”, ad un certo punto del suo discorso, viene sottratta all'analisi politica del presente e consegnata con disinvoltura da D'Alema agli... storici! Sicché, pur richiamandosi a Gramsci,6 finisce per negare il nesso proprio tra passato e presente, essenziale nel pensiero gramsciano sull'egemonia.
La via maestra
In caduta è un regime trentennale di cui la sinistra di governo è corresponsabile, non per aver coltivato illusioni riformiste, ma in quanto protagonista di contro-riforme restaurative generali.
Poteva la sinistra non abbracciare il liberalismo globalizzatore, ancorché venato di riformismo sociale?
Qui si sconta una illusione sovrastante d'impronta “cosmopolita”: l'idea di riformare, attraverso regole mondiali, il contesto internazionale, nel quale invece ha prevalso il neoliberismo a fronte di «istituzioni politiche rimaste sostanzialmente nazionali».7 Ciò sarebbe avvenuto a causa dell'orientamento prevalente delle istituzioni internazionali e soprattutto di quelle economiche di maggior peso.
In questo diaframma sarebbe incappata anche la costruzione europea, con l'adozione dell'ordoliberismo di matrice mittel-europea e dei «meccanismi di funzionamento dell'area euro».
Per un ceto politico esperto e pragmatico, quale si ritiene quello della sinistra di governo, non vedere il “verme” dell'egemonismo nazionalistico nelle modalità dell'affermazione planetaria del neoliberismo e, a maggior ragione, nella sua declinazione ordo-liberista europea, perché sprofondati in un sonno illusorio, è più di un pacchiano errore.
Per restare all'ambito continentale, la rinuncia all'autodifesa nazionale, della propria sovranità nelle interdipendenze, non è avvenuta inconsapevolmente. Quando il carro monetario e finanziario fu posto “davanti ai buoi” della integrazione politica, erano chiare le implicazioni. Infatti, sia i socialisti che i comunisti italiani, e pure molti democristiani, vi opposero una iniziale resistenza. Perché fu vinta?
Non si trova risposta plausibile se si trascurano le forze materiali, economiche e sociali, che vollero ed imposero quella scelta, alle quali la sinistra di governo non solo si piegò, ma si accorpò.
Rinunciare alla elasticità del cambio della lira nell'ambito della privatizzazione finanziaria, significava voler reggere la concorrenza internazionale scaricandone tutto il peso sui lavoratori. Ne derivarono maggiore disoccupazione e dilagante precariato, abbattimento delle remunerazioni del lavoro dipendente e di quello “autonomo”.
Vanamente si cercherà nel discorso di D'Alema un accenno di analisi delle classi, le quali si sono certamente trasformate ma affatto estinte, e del capitalismo italiano, nonché delle sue irrefrenabili pulsioni a fare tutt'uno con la finanza del Centro a discapito delle Periferie mediterranee. Laddove questione sociale e questione nazionale si incontrano. Lamentarsi delle diseguaglianze, dell'impoverimento di una parte a favore dell'arricchimento di una sparuta minoranza, appartiene al bagaglio di chi, alla Piketty,8 vede il capitale della fortune, la sua ineguale distribuzione, non i rapporti che la generano.
Per farlo occorrerebbe una “revisione della revisione”, togliere dalla soffitta Carlo Marx e non basterebbe...

Nel desolante quadro, rimarrebbe, tuttavia, un dato di consolazione: «In fondo la visione intergovernativa dell'Europa che ha prevalso in questi anni può consentire un riequilibrio che non metta in discussione l'Unione ma ne ridimensioni drasticamente le ambizioni politiche e il respiro ideale.»
Sempreché non vi voglia dare vita nel vecchio continente ad «un progetto radicale di democratizzazione e da un indirizzo nuovo di politiche economiche e sociali che comprenda la necessità di una revisione del fiscal compact e più in generale dei meccanismi di funzionamento dell'area euro.» Ecco la via maestra che indica D'Alema per riabilitare e ricollocare la sinistra.
Forse troppo tardi per evitare che la disgregazione abbia il sopravvento, confinando l'Unione europea in un inutile limbo. Certamente troppo poco per costruire l'auspicato radicale cambiamento, che coniughi socializzazione e democratizzazione, abbandonando la rivoluzione liberale al suo conclamato e storico fallimento.
Note
2 I quali in Germania si sono sottratti ai governi di grande coalizione tra democristiani (CDU-CSU) e socialisti (SPD).
3 Quanto, come sostiene Travaglio, di “bocca buona”?
4 Vedi in questo Blog: “Anno austero 1977”, dicembre 2014.
5 A questo proposito, vedi Guido Grossi, “Il furto del debito pubblico”, https://www.youtube.com/watch?v=r5fQKEPYD7A.
6 Nello scritto di D'Alema, citato a pag. 1: «Come scriveva Gramsci nell'interregno tra il vecchio che muore e il nuovo che non riesce ad affermarsi "possono nascere i fenomeni morbosi più svariati".»
7 Nello scritto di D'Alema, citato a pag. 1: «Quello che qui importa sottolineare è che questa visione liberal-socialista si è rivelata largamente illusoria e che il riformismo è rimasto schiacciato tra il peso dell'economia globale e dei mercati e la limitata possibilità di azione di istituzioni politiche rimaste sostanzialmente nazionali.»
8 Thomas Piketty, “Il capitale nel XXI secolo”, Bompiani, 2013.

-->