L'euro ed i sinistri della sinistra.
L'economista
Giorgio Lunghini prevede disastri futuri,
in caso di uscita dell'Italia dall'euro, ed accende aspre polemiche.
Di fronte ai disastri attuali di cui è coautrice, la sinistra si divide tra chi persevera e chi chiede scusa...
Secessione
della plebe
La
raffigurazione geometrica della politica, laddove trovavano senso
“destra” e “sinistra”, è palesemente in crisi. Forse perché
stare a sinistra nell'emiciclo parlamentare non corrisponde più, da
decenni, alla rappresentanza degli interessi materiali e politici
delle parti sociali di storico riferimento.
Se
oggi nelle urne, un po' ovunque, si manifesta la secessio plebis
dalle “forze democratiche e socialdemocratiche”1,
ciò non può derivare unicamente da una loro cattiva interpretazione
dei fenomeni del nostro tempo: di mezzo ci sono stati radicali
passaggi “di campo” in tempi diversi.
Il
più noto dei quali fu la partecipazione della sinistra, anche se non
tutta, alle politiche liberiste correlate alla globalizzazione, fino
a sposare il prevalente capitale finanziario. Non meno importante è
stata la sua adesione, in questo caso più compatta, alla moneta
unica ed all'Unione economica e monetaria europea (Uem). Tuttora la
si esalta, facendo risalire alla cattiva gestione successiva i
problemi che ha generato, mentre al liberismo si riserva una larvata
critica, rifiutandosi di vederne l'implicito devastante impianto
politico.
Euro
di governo
Con
queste premesse, gran parte della sinistra non riesce a discostarsi
granché dalla linea del governo Renzi che rispetto all'Europa
predica ad un tempo:
- di restare in regime di moneta unica, rispettare regole e vincoli sottoscritti nei Trattati, chiedendo però, per non venirne schiacciato e reso oltremodo periferico, continue deroghe e margini di flessibilità (per aumentare il nostro stesso debito “sovrano”!);
- il ritorno provvidenziale della Politica, con la 'P' maiuscola2, per disincagliare l'Unione, condividere i “rischi” (ovvero i debiti nazionali), accantonare l'austerità e ridare vigore a sviluppo ed occupazione.
Dati
i rapporti di potere interni all'Europa e mancando pure di idee-forza
per avviarne il mutamento, Renzi si riduce a “fare la voce grossa”
con Bruxelles sulla spesa per terremoti, migranti e sicurezza degli
edifici scolastici, condendo la querelle di retorica
“populista” ed esibendo un nazionalismo ai limiti del tanto
deprecato “euro-scetticismo”.
Ma
sono diversivi di fronte all'insuccesso: disoccupazione, precariato
permanente, deflazione salariale e stagnazione economica. Questo è
il quadro a quasi tre anni dall'insediamento di un esecutivo
sedicente rapido e performante; nonostante abbia goduto di
contingenze “esterne” particolarmente favorevoli: il quantitative
easing della Bce di Mario Draghi ed un prezzo del barile sotto i
50 dollari.
René Magritte |
Dietro
al referendum
Al
momento attuale il Paese è fermo al referendum costituzionale. Il
suo esito potrebbe dipendere dalla scelta di quattro milioni di
italiani all'estero, i quali, a prescindere da possibili brogli,
subiranno solo le lontane conseguenze delle loro decisioni. Non sarà
così per chi vive in Italia e magari “nativo” non ha diritto di
voto. Pure in occasione dell'approvazione della legge Tremaglia3
quasi tutta la sinistra si accodò ad una concezione della
cittadinanza per “diritto di sangue” estranea alla nostra
Costituzione, che difatti dovette essere emendata (art. 48) per
istituire la circoscrizione Estero.
Di
recente l'opposizione interna al PD, per decidere come votare al
referendum, si è divisa tra chi si fida e chi non si fida della
promessa di una “correzione” della legge elettorale detta
Italicum già approvata. Se passerà il Sì, le eventuali modifiche
all'Italicum saranno stabilite secondo le convenienze del governo in
carica e verranno colate nello stampo di una Costituzione
revisionata allo scopo di accentrare i poteri della Repubblica nelle
mani dell'esecutivo e del suo capo.
Ad
ogni modo si continua a trascurare l'intento dichiarato dai fautori
delle riforme istituzionali4,
ovvero il rafforzamento “funzionale” dell'esecutivo italiano da
far valere nei vertici tra “i governi che contano”, a lato delle
riunioni ufficiali del Consiglio europeo e del Consiglio dell'UE. Un
modo verticistico ed oligarchico di intendere e costruire l'Europa
che, nell'esperienza italiana, non rappresenta una novità ed è
stato fonte delle peggiori decisioni, prese in ristrette cerchie e
mai sottoposte a pubblica e democratica scelta.
Di
contro, coloro che difendono la Costituzione italiana
democrazia-lavoro, in quale prospettiva politica si inseriscono
rispetto all'Unione e all'Unione economico-monetaria che ne è il
perno?
Non
desti sorpresa, dunque, se dietro la scena occupata dal referendum,
divampi la disputa sull'euro e sull'Europa.
Sul
finire del mese di settembre, ad infiammare le polemiche è stato un
articolo dell'economista Giorgio Lunghini, pubblicato da Il
Manifesto
e subito rilanciato dal Blog di Rifondazione Comunista.
Ad
esso sono seguiti numerosi altri interventi [vedi
riquadro “Il dibattito sull'uscita dall'euro”]
alla cui lettura rimando il lettore interessato. Per quanto concerne
la “stima” dei disastri derivanti da un'uscita unilaterale
dell'Italia dall'euro, propongo [in
appendice]
un confronto tra la posizione di Lunghini e quella opposta di
Leonardo Mazzei, focalizzata sul rapporto svalutazione-inflazione e
sulla caduta del Pil.
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Il
dibattito sull'uscita dall'euro
Giorgio
Lunghini
Leonardo
Mazzei
Sergio
Cesarotto, Massimo D'Antoni, Vladimiro Giacché. Mario Nuti, Paolo
Pini, Antonella Stirati
http://ilmanifesto.info/se-e-leuro-la-causa-dei-tanti-populismi-europei/
Alberto
Bagnai e Jens Nordvig
http://goofynomics.blogspot.it/2013/05/manifesto-di-solidarieta-europea.html
“Euro-exit
e catastrofisti. Qualche dato sul debito”, Il Fatto Economico, 19
ottobre 2016.
Leonardo
Becchetti, Mauro Gallegati, Guido Iodice, Daniela Palma, Francesco
Saraceno, Leonello Tronti
“Via
dall'euro non significa uscire dal liberismo”, Il Manifesto, 7
ottobre 2016.
“L'uscita
dall'euro? Una Lehman Brothers elevata al quadrato”, Il Fatto
Economico, 2 novembre 2016.
Piergiorgio
Gawronski
“Uscire
dall'euro non è impossibile ma è molto difficile farlo bene”, Il
Fatto Economico, 9 novembre 2016.
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Populismo
Il
linguaggio non è mai neutrale. Quando la sinistra adotta l'etichetta
accusatrice di “populismo” si omologa all'establishment
politico-mediato ed agli interessi dominanti. In Europa, nel medesimo
sacco “populista” vengono regolarmente infilate sia forze
xenofobe, nazionalistiche e neo-fasciste, sia forze democratiche e
dichiaratamente di sinistra. Infatti il senatore a vita Mario Monti
nella “fattispecie” fece rientrare tutti
i britannici che si espressero per la Brexit, il M5S in Italia,
Podemos in Spagna e Syriza in Grecia (forse oggi depennerebbe
quest'ultima dall'elenco).
Se
poi consideriamo che nell'immaginario alla “democratica” Hillary
Clinton venne opposto il “populista” Donald Trump, l'effetto
fuorviante di questo linguaggio risulta più che evidente. Si dà il
caso che nel ribollire delle insoddisfazioni operaie e popolari degli
States
dell'interno, decisivi nella contesa presidenziale nord-americana, il
“populista” sia stato assai più perspicace della pletora di
saccenti analisti comodamente sdraiati nei loro studi di New York e
Washington. E, dopo lo sconquasso, alcuni di questi pateticamente si
chiedono come mai il partito democratico statunitense abbia preferito
la candidatura “debole” della Clinton a quella più “forte”
di Bernie Sanders, anch'egli in odore di “populismo”.
Per
capire bisogna avere uno sguardo disinibito. Non mi pare affatto
casuale che ad interpretare più a fondo la realtà degli Usa,
prevedendone gli sviluppi, sia stato un comico come Michael Moore.
Altri comici italiani, sulla nostra situazione, gli hanno fatto
compagnia e tra essi un impareggiabile giullare5
diede alla parola “populista” il suo significato.
Flagelli
al quadrato
Ritornando
al dibattito sull'euro, la preoccupazione da cui muovono Lunghini ed
altri studiosi va oltre la stretta sostanza “scientifica” sulle
previsioni. Il nocciolo della questione è piuttosto questo: quale
strategia opporre alle “destre populiste”?
A
tal fine potrà essere utile «aprire
a sinistra un dibattito basato su fondamenta analitiche e fattuali
più solide», come sostiene il gruppo di Sergio
Cesarotto, ma non sarà sufficiente.
Secondo
Lunghini l'abbandono della moneta unica provocherebbe
comunque una crisi di cui si avvantaggerebbe solo la “destra
populista”.
Rimane
in sospeso, innanzitutto, come l'arroccamento a difesa dell'euro,
perno di questa Europa, possa disgiungersi
da deflazione salariale, disoccupazione, precariato e generale
peggioramento delle condizioni materiali di vita degli strati
popolari più esposti; senza mettere in conto la concomitante
divaricazione tra Centro e differenziate Periferie d'Europa.
Nelle
condizioni di progressiva sottrazione di sovranità democratica,
insistere nel remain
nell'euro non farà che consentire alle formazioni xenofobe,
nazionalistiche e neo-fasciste di appropriarsi del campo dell'exit.
Ad impedire loro di intestarsi gli interessi popolari non basterà di
certo la pur insistita denuncia verbale della loro attitudine
demagogica.
Insistere
sugli eventuali
flagelli derivanti dall'uscita dall'euro, paragonati ad una Lehman
Brothers al quadrato, dimenticando quelli in atto qui
ed ora
a causa dell'euro, equivale a rimandare
la soluzione del problema ad un ipotetico futuro in cui, come
ironizzò Keynes, “saremo tutti morti”.
Alberto
Bagnai e Jens Nordvig non possono essere pienamente esaustivi quando
portano a sostegno dell'exit dalla moneta unica ben 69 casi
precedenti. È vero che tali casi coinvolsero Paesi “irrilevanti”
sul piano globale, mentre il crack dell'euro investirebbe il 20% del
Pil mondiale. Ma questi sono gli elementi di conoscenza di cui
disponiamo. Il resto è “stima” spesso sconfinante in un
terrorismo paralizzante che, peraltro, non si misura né con
l'incalzare degli svolgimenti politici, né con la crisi di una
globalizzazione che non ha estinto gli Stati.
Più
precisamente riscontro una contraddizione. Quando le banche erano
“troppo grandi per fallire”, si chiamò in causa l'intervento
soccorritore dello Stato: nel caso in cui sia l'euro ad essere too
big to fail, perché mai gli Stati partecipi di questa moneta
dovrebbero scomparire dalla scena provvidenziale? È così assodato
che di fronte ai ricatti del capitale finanziario non dispongano
della minima capacità dissuasiva e persuasiva?
D'altro
canto, tutti i governi dispongono nel cassetto di un piano B6,
poiché è risaputo che il Titanic euro potrebbe incontrare in
qualsiasi momento il suo fatale iceberg.
Ovviamente
nessuno si augura che si arrivi a questi limiti estremi, ma questa è
la gabbia in cui ci ritroviamo. A maggior ragione occorre capire
quale uscita sia preferibile perseguire.
Giuseppe Maiorana |
Nella
gabbia
Il
ragionamento dei sostenitori del remain in eurozona è così
sintetizzabile: stante l'insieme dei meccanismi sottostanti e
sovrastanti la moneta unica, dato il peso dell'euro nel mondo e la
reattività di coloro che determinano i mercati finanziari, per
evitare una crisi come quella del 2007-2008 con effetti al quadrato,
le sole opzioni non-avventuristiche sarebbero due: “cambiare
dall'interno” o sperare nella “uscita dall'alto” della
Germania.
La
prima opzione mi pare coincida, salvo scostamenti marginali, con
quella perorata del governo italiano attuale e ricordata all'inizio
di questo articolo. Prevedibilmente con risultati analoghi.
In
via subordinata, “per cambiare dall'interno”, dovremmo
considerare realistica una generale sollevazione pan-europea, una
palingenesi simultanea dal Baltico al Mediterraneo, capace di rompere
con il liberismo ed il dominio del capitale finanziario sui mercati,
rendendo secondario ed addomesticato, intra moenia, il
problema della moneta unica. Ma invocare un preliminare cambiamento
più radicale ed assai futuribile, equivale al solito modo di
smarcarsi da ogni iniziativa concreta nel presente per poi, dicendosi
“più a sinistra”, continuare a recitare il consueto ruolo di
coda della sinistra governativa europea.
La
seconda opzione consiste nello sperare (pregare?) in un atto
liberatorio motu
proprio di
Frau
Merkel o, ma non bisogna dirlo, nella vittoria di Alternative
für Deutschland in
Germania.
In
quest'ultimo caso si verificherebbe proprio la vittoria della “destra
populista” paventata da Lunghini, non già come conseguenza della
fine dell'euro, bensì al contrario come premessa della sua fine.
Ad
ogni buon conto, la moneta unica, che doveva contenere la potenza
della riunificata Germania, è diventata una gabbia per tutti, con un
particolare non previsto dai suoi fautori: la chiave per uscirne
indenni, o quasi, è tenuta nelle mani dalla Germania medesima! Dalla
qual cosa si può agevolmente giungere alla conclusione che lo
spolpamento delle economie dei Paesi periferici europei e dei popoli
continuerà, finché non si manifesteranno i primi pesanti danni
boomerang
verso la stessa Germania, derivanti dalla incapacità dei partners
di
pagare le sue esportazioni ed i propri debiti. Evento paventato anche
da coloro per i quali la Germania può “fare a meno dell'euro”.
Autocritica
In
controtendenza rispetto ad una sinistra che non ammette i propri
“errori”, è intervenuta nel frattempo la presa di posizione di
Alfredo D'Attorre7
, deputato di Sinistra Italiana (SI), nata dall'incontro di Sel con
alcuni fuoriusciti dal PD, tra cui Stefano Fassina.
«Noi
di sinistra dobbiamo chiedere scusa per l'euro»,
scrive D'Attorre, che prosegue:
«Il
punto è semplice: può un qualsiasi schieramento progressista
riproporsi credibilmente alla guida del Paese senza fare un bilancio
onesto degli effetti sulla società italiana della scelta più
importante che il centrosinistra ha compiuto nell'ultimo ventennio,
ossia l'adesione incondizionata al vincolo esterno europeo e al
progetto dell'euro?»
Egli
considera aperta la discussione “scientifica” su come uscire
dalla moneta unica, ma chiusa quella sulle “evidenze empiriche”
innegabilmente negative, per come è stata costruita e per i suoi
effetti dicotomici sull'Europa ed in particolare sull'Italia.
Di
conseguenza chiedere scusa si tradurrebbe in
«un
atto politico in grado di riaprire un rapporto con settori della
società italiana un tempo vicini alla sinistra e che oggi rischiano
di essere consegnati irreversibilmente alla destra xenofoba o
all'avventurismo del M5S.»
L'altro
e connesso aspetto della riflessione autocritica di D'Attorre chiama
in causa l'incompatibilità tra il modello economico disegnato dalla
prima parte della nostra Costituzione e quello imposto dalla moneta
unica, dai Trattati europei e dalle riforme strutturali.
Austerità,
disoccupazione, deflazione salariale
«non
sono una condizione transitoria legata ad una fase di crisi, ma il
presupposto per mantenere le economie di quei Paesi [periferici] su
una linea di galleggiamento dentro la moneta unica, in una situazione
in cui essi hanno rinunciato al controllo delle leva fiscale e di
quella monetaria.»
Poiché
protestare contro la svalutazione del lavoro ed chiedere il ritorno
di significativi investimenti pubblici, mantenendoci dentro ai
vincoli dell'euro, è come “abbaiare alla luna”, uscirne, per
quanto difficile e rischioso, non può essere considerato un tabù.
Inoltre,
l'eventuale vittoria del No al referendum potrebbe offrire ulteriori
spazi ad una strategia di resistenza costituzionale in difesa della
sovranità democratica nazionale contro i “poteri tecnocratici
europei”.
Si
apra, dunque, la discussione su come liberarci dall'euro, subendone
il minor danno...
Implicazioni
Nell'apprezzabile
approdo autocritico di D'Attorre non mancano punti controversi.
Innanzitutto
andrebbe chiarito che il distacco della sinistra e del centrosinistra
dagli interessi popolari e dalla sovranità democratica nazionale non
è la conseguenza dell'adesione ai Trattati ed alla moneta unica,
bensì il contrario. Non di meno, mettere in discussione l'Europa
attuale è indispensabile per cominciare, nella pratica politica, a
riaffermare quegli interessi e quella sovranità.
Sul
piano più immediato, non mi pare una prova di onesta autocritica, a
cui gioverebbe l'abbandono di ogni supponenza intellettuale, arrivare
buoni ultimi nella comprensione di un fenomeno ed etichettare chi ti
ha preceduto di “avventurismo”, come D'Attore fa con il M5S.
Tanto più se, qualunque sia l'esito referendario di dicembre, è con
questi “avventuristi” che questa parte della sinistra deve
confrontarsi/accompagnarsi.
A
sinistra il ruolo positivo del M5S comincia ad essere piuttosto
riconosciuto.8
Per
uscire dall'euro ma non dall'Unione, il M5S chiede un referendum
consultivo. Il ricorso al pronunciamento democratico degli italiani
sarebbe in sé una svolta storica rispetto a tutte le passate
decisioni, prese sulla nostra testa. Ma il percorso non si prospetta
per niente lineare.
Qualora
la maggioranza degli italiani si dicesse favorevole all'uscita
dall'euro, si dovrebbe avviare una trattativa con gli altri Paesi
aderenti alla moneta unica per una soluzione concordata.
Non
ritengo soddisfacente la “soluzione dei due euro”, uno per i
Paesi centrali ed uno per quelli periferici, perché riprodurrebbe su
una scala minore gli stessi squilibri sperimentati su scala maggiore.
La
moneta unica è un prodotto artificiale e con adeguati artifici
andrebbe smontata, pervenendo ad uno scioglimento “paracadutato”
ed un ritorno scaglionato e programmato alle monete nazionali.
Per
evitare, tuttavia, che il negoziato venga o rifiutato o tirato
all'infinito, l'Italia deve dirsi disposta ad utilizzare l'art. 50
del Trattato di Lisbona che attiva l'uscita dall'Unione. Non va
dimenticata l'esperienza della Grecia all'indomani del suo
referendum.
Dev'essere
chiaro che l'Unione Europea o diventa paritaria, cominciando dallo
scioglimento della moneta unica, o non può avere un futuro
accettabile.
Ma,
forse, gli sviluppi politici continentali bruceranno i tempi e non
lasceranno spazio a tranquille soluzioni passo dopo passo...
Note
1
Massimo Cacciari, “Senza più la sinistra, contro la destra non
resta che Grillo”, intervista al Fatto Quotidiano, 10 novembre
2016.
2
In questo Blog “Politica con la P maiuscola”, luglio 2015.
3
La Legge n.
459/2001, detta Tremaglia, permette di votare a chi,
residente all'estero, dimostri di avere avuto anche solo un nonno
italiano. Fu approvata col voto contrario di Rifondazione e dei
Comunisti italiani.
4
In questo Blog, “Una cambiale in bianco”, luglio 2016.
5
Dario Fo, “Io, populista e me ne vanto”, L'espresso, 13 agosto
2016.
6
Vedi Paolo Savona,
http://www.vita.it/it/article/2015/07/13/paolo-savona-la-germania-e-il-vero-paese-inaffidabile/135908/
7
Alfredo D'Attorre, “Noi di sinistra dobbiamo chiedere scusa per
l'euro”, Il Fatto economico, 26 ottobre 2016-
8
Dopo che da mesi Barbara Spinelli s'è presa questa
“responsabilità”, anche Cacciari, nella già citata intervista,
si mostra dello stesso parere.
Appendice
Giorgio Lunghini
Le conseguenze di un'uscita dall'euro
«Vi
è oggi un consenso unanime circa l’inadeguatezza dell’assetto
istituzionale dell’Unione economica e monetaria (Uem), e
soprattutto vi è una unanime e severa e fondata critica del suo
armamentario di politica economica (…) Differenti sono invece le
valutazioni circa le conseguenze economiche e sociali di una
eventuale uscita unilaterale dell’Italia dalla Uem (...).»
«(...)
il primo effetto sarebbe la svalutazione della nuova moneta
nazionale. La perdita di competitività nei confronti della Germania
è ora del 30%, e questa sarebbe la soglia minima; tuttavia i
movimenti valutari potrebbero determinare una svalutazione del
50-60%. La conseguenza immediata sull’inflazione sarebbe di circa
il 15%, e si innescherebbe una rincorsa salari-prezzi-cambio: con un
tasso di inflazione nell’ordine del 20% l’anno e con una perdita
salariale insopportabile.»
«Con
una svalutazione del 50% salirebbe nella stessa misura il valore del
debito pubblico in mano a investitori stranieri (più del 35% del
totale), con fughe di capitali e default dello Stato italiano,
incapace di fare fronte alle richieste di rimborso. Il valore reale
del debito interno in cinque anni sarebbe dimezzato: con una perdita
per le famiglie che possiedono titoli di 110 miliardi di euro, pari
all’11% del loro reddito disponibile. Per le banche e le
istituzioni finanziarie, che possiedono circa la metà del debito,
le conseguenze sui bilanci sarebbero tragiche, (…). Oltre alla
necessità di ricapitalizzazione da parte dello Stato, sarebbe
necessario impedire la corsa agli sportelli dei depositanti.»
«Sarebbero
inoltre necessarie misure di limitazione alla detenzione di valuta
estera e di prelievo sui depositi bancari (come in Argentina con il
corralito), nonché di controllo sui movimenti di capitale. I tassi
di interesse salirebbero alle stelle, sia per la maggiore inflazione,
sia per la crisi valutaria e bancaria, sia per il default statale
(…).»
«(...) e non è detto
che della svalutazione le esportazioni si avvantaggerebbero di molto
(…).»
«In presenza di una
svalutazione iniziale del 50%, e di una conseguente inflazione media
annua del 20%, sarebbero gravissime le conseguenze sui salari reali.
(…) la perdita media annua di reddito sarebbe del 10%, che si
aggiungerebbe a quella sulla ricchezza mobiliare determinata dagli
effetti della inflazione sui titoli di stato; e con una inflazione
così elevata aumenterebbero ulteriormente le disuguaglianze nella
distribuzione del reddito e della ricchezza tra lavoratori dipendenti
e autonomi e tra creditori e debitori. Come conseguenza di tutto
ciò, la caduta del Pil dell’Italia sarebbe pari a circa il 40%
nel primo anno e al 15% negli anni successivi per almeno un
triennio.»
«Costi enormi, che
genererebbero disordini civili e rivolte popolari, e la storia
dell’Europa insegna che da crisi di questa portata si esce a
destra. In breve, (...) forse sarebbe stato meglio non entrare, ma
una volta dentro è impossibile uscire.»
23 settembre 2016
Leonardo Mazzei
FESSERIE DI UN ECONOMISTA
(Risposta
critica qui ristretta ai due effetti principali previsti da
Lunghini.)
1)
Inflazione.
Mazzei osserva che il gap competitivo rispetto alla Germania dato al
30%, da cui deriverebbe l'inflazione al 20% per un numero di anni
imprecisato, non è estendibile all'intera area euro, e «non
si capisce da cosa spunti fuori il 20% di inflazione, se non dal
manifesto desiderio di terrorizzare i lettori.» In
proposito ricorda due eventi:
«Il
primo è quello della famosa svalutazione della lira rispetto al
marco (...) del settembre 1992. Quella svalutazione finì per
attestarsi proprio sul temuto 30% di cui ci parla oggi Lunghini.
Bene. Quale fu l'effetto sull'inflazione di quella svalutazione?
L'inflazione media del triennio successivo (1993-1995) fu del 4,6%.
(…) l'inflazione media del triennio precedente a tassi fissi
(1990-1992) era stata del 5,9%! (…) E il confronto con la Germania?
Uno si aspetterebbe l'esplosione del differenziale di inflazione dopo
il 1992. E invece quel differenziale, che era pari al 2,7% nel
triennio 1990-1992 (quello precedente la svalutazione), scende
sorprendentemente all'1,6% nel triennio post-svalutazione (1993-1995)
nel quale la lira arriva a deprezzarsi fino al 50% sul marco
(esattamente il picco che Lunghini ipotizza oggi uscendo dall'euro),
per poi scendere all'1,2% nel triennio successivo (1996-1998) quando
la lira prende a rivalutarsi.»
Il
secondo riguarda la recentissima svalutazione dell'euro che, in due
anni, è stata del 20% sul dollaro. «Se
il Nostro avesse ragione, e tenendo conto della maggiore importanza
della valuta americana, con la quale si effettuano i pagamenti delle
principali materie prime importate, dovremmo avere un'inflazione a
due cifre. E invece siamo a zero.»
2)
Pil.
A conti fatti per Lunghini il Pil cadrebbe dell'85% in quattro anni.
Di
fronte a questa enormità, Mazzei porta il caso argentino, da molti
reputato il peggiore.
«Nel
2002, anno in cui (a gennaio) viene abbandonato il cambio fisso con
il dollaro, ed il peso inizia a fluttuare, il Pil cala del 14,7%. Un
calo drammatico e con gravissime conseguenze sociali, prima tra tutte
la disoccupazione. Il calo, peraltro, fu anche il frutto del
precipitare di una recessione già iniziata (proprio a causa del
cambio fisso) nel 1999. In ogni caso drammatico, ma parliamo di un
14,7% in un paese con un'economia assai più debole di quella
italiana, non certo dell'assurdo 40% che spara Lunghini per il nostro
paese. (…) E in Argentina, cosa successe al Pil negli anni
successivi al divorzio con il dollaro? E' presto detto: +8,7% nel
2003, +8,3% nel 2004, +9,2% nel 2005, +8,5% nel 2006, +8,7% nel 2007.
Detto in altri termini: in due anni si è più che recuperata la
perdita del 2002, mentre nei cinque anni successivi allo sganciamento
dal dollaro la crescita cumulata è stata del 51,6%. (…) In Italia
invece, rimanendo nell'euro, abbiamo un Pil inferiore dell'8% a
quello dei livelli pre-crisi del 2007. Ecco le virtù della moneta
unica!»
26
settembre 2016
http://sollevazione.blogspot.it/2016/09/fesserie-di-un-economista-di-leonardo.html