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Patimenti senza pentimento
Prodi
in ansia per l'Italia esposta agli esiti della globalizzazione
liberista giunta agli sgoccioli. Privatizzazioni e liberalizzazioni:
scelte strategiche al check point della storia che ritorna.
Nessun cenno autocritico, anzi.
Romano
Prodi non è un “liberale”, nel senso che la parola ha assunto
nella tradizione politica nazionale. Tuttavia, avendo aderito alla
globalizzazione liberista ed alla rivoluzione liberale europea del
dopo-muro, appartiene in pieno alla componente di sinistra e
progressista del liberalismo, come viene comunemente inteso a livello
internazionale.
Posto
di fronte sia alla crisi della globalizzazione sia ai palesi
fallimenti dell'Unione europea, costruita dalla rivoluzione liberale,
ci si aspetterebbe se non un'autocritica complessiva, almeno qualche
cenno di operoso ravvedimento. Al contrario, Prodi rivendica le
scelte politiche compiute e si limita ad esprimere le proprie ansie
per il futuro di declino al quale il Paese sembra destinato.
Come
se fossimo a cospetto dell'alterna fortuna delle umane sorti, ad un
giro di dadi della storia.
Romano Prodi visto da "Il Sole 24 Ore" |
Le
ansie di Romano Prodi
In
una intervista rilasciata a Il
Sole 24 Ore1
[vedi
estratto nella finestra “L'Italia rischia grosso”]
del 2 dicembre 2018, Prodi lancia un allarme: se la globalizzazione
va in crisi, il made in Italy crolla.
L'Italia rischia grosso
Nella rimodulazione degli equilibri mondiali, Romano Prodi scorge due fenomeni:
«Il primo fenomeno è il desiderio di autorità che si è propagato nel mondo, con il popolo che vuole una autorità forte senza enti intermedi: la Cina e gli Stati Uniti, ma anche la Russia, l’Ungheria, il Brasile, le Filippine e la nostra Italia. (…) Il secondo fenomeno è l’attuale inedita fase di prevalenza della politica sulla economia: il che, con caratteri diversi, accade sia in Cina che negli Stati Uniti.
«In Cina, questa prevalenza è naturale ma ha assunto contorni nuovi. Xi Jinping ha definito le linee di concentrazione e di espansione interna e all’estero delle grandi imprese cinesi, elaborando una strategia precisa e lucida e sottolineando il loro legame e la loro dipendenza dal potere politico nel rapporto con il governo, il partito e l’esercito. (…) Xi Jinping ha iniziato una nuova fase: non più una Cina all’inseguimento ma un modello che, per i suoi successi, diventa attrattivo, sottraendo il ruolo ai sistemi democratici. Questa tendenza ha come contraltare Donald Trump che con l’America First, pur in maniera diversa, influenza il comportamento delle imprese americane con decisioni sorprendenti e senza precedenti.
«La globalizzazione ha fatto una selezione dura e dolorosa, ma ha anche plasmato e migliorato il tessuto produttivo italiano. Il cuore del nostro capitalismo sono le 2.500 medie imprese molte delle quali, pur essendo modeste di dimensioni, si sono globalizzate attraverso una specializzazione spinta. La loro capacità di combinare innovazione di prodotto e di processo, il loro saper fare quasi artigianale, ma molto raffinato e tecnologicamente complesso, è impareggiabile. La loro forza, che è la nostra forza, è quella di operare nelle nicchie e di rimanere agganciate alle catene globali del valore. Se l’organizzazione del mondo cambia, anche le cose per noi cambiano. E non in meglio.
«(...) penso ogni tanto ai miei imprenditori delle piastrelle, che hanno accompagnato e hanno attraversato la nostra storia fin dal Boom economico. Hanno dominato a lungo il mondo. Poi è arrivata la globalizzazione. Adesso, hanno meno del 4% del mercato internazionale. La Cina ha il 48 per cento. Soltanto che i cinesi vendono a meno di 3 euro al metro quadro. E noi a 14 euro.»
Romano
Prodi
intervistato
da Paolo Bricco, Il Sole 24 Ore, 2/12/2018
Secondo
Prodi l'adesione alla globalizzazione ha comportato una «selezione
dura e dolorosa» che, tuttavia,
«ha plasmato e migliorato il tessuto produttivo italiano», ora in
pericolo a causa:
- del diffuso desiderio dei popoli di una «autorità forte senza corpi intermedi»;
- della «inedita fase di prevalenza della politica sulla economia», per cui le grandi imprese cinesi e («pur in maniera diversa») statunitensi agiscono in strategica «dipendenza dal potere politico».
Per
l'ex premier gli attuali rivolgimenti degli equilibri mondiali
«potrebbero presto presentare il conto», mentre ci sarebbe bisogno
di una Unione europea in grado di mediare nel conflitto politico ed
economico fra Stati Uniti e Cina, «sui problemi del commercio
internazionale, sui brevetti e sulla proprietà intellettuale».
Più
che di crisi l'intervistatore Paolo Bricco scrive, senza mezzi
termini, di «fine della età aurea della globalizzazione». Nel
nostro Paese non ci sarebbe coscienza di quanti danni questa fine
potrebbe arrecare al nostro sistema industriale, «in assenza di una
costellazione di grandi imprese». A rischiare sarebbe il cuore
produttivo dell'Italia, quello dei territori organizzati in distretti
industriali, delle piccole-medie imprese che si sono specializzate
nelle catene globali, poste in seria e crescente difficoltà dai
mutamenti in atto.
Tuttavia,
chiamare in causa i nazionalismi significa parlare anche dell'Unione
europea, che doveva farci comune scudo ed invece si presenta divisa
ed inerte. Si è costruita nella globalizzazione, ma posta al
cospetto dei suoi effetti postumi, al suo final
outcome,
non sembra in grado nemmeno di frapporsi tra Stati Uniti e Cina per
mediare (a proprio vantaggio, ça
va sans dire)
sui più immediati problemi del commercio internazionale.
Dura
e dolorosa
Alcune
domande sorgono spontanee: per chi è stata dura e dolorosa la
“selezione”? Tanto dolore e tanta durezza erano così
ineluttabili? Infine: chi e quali scelte di politica economica
portano il peso della conseguente situazione in cui ci troviamo? In
base a quali idee, poste alla verifica della pratica?
Domande
affatto retoriche, giacché solo rispondendo ad esse possiamo trovare
il bandolo della ingarbugliata matassa internazionale nella quale ci
siamo avvolti.
Le
modalità di “selezione” non erano scritte nei vangeli, ma
dall'agenda neoliberista della globalizzazione contemporanea avviata
agli inizi degli anni '80. Obiettivo cardine dell'agenda: la
circolazione transnazionale dei capitali, liberi di allocarsi ovunque
potessero meglio “valorizzarsi”, ossia realizzare il massimo
profitto.
Pure
il mercato europeo doveva rendersi conforme. Doveva aprirsi ai grandi
gruppi capitalistici privati, ai loro investimenti, alle loro lucrose
mediazioni e chiudere il pluridecennale periodo dello Stato
imprenditore, che controllava il sistema finanziario interno, tramite
le banche, e mediava i conflitti sociali attraverso il welfare.
Sicché, per aderire a quel
“mercato conforme”, liberalizzato, furono decise le
privatizzazioni delle imprese pubbliche italiane che erano state la
spina dorsale della industrializzazione nel nostro secondo
dopoguerra. In attesa di poter fare altrettanto nel campo della
sanità, dell'assistenza, delle pensioni, dei trasporti e quant'altro
riguardasse la cosa pubblica ed il sociale.
Quando
nel 1992 il Parlamento italiano diede via libera alle
privatizzazioni, tre furono gli obiettivi prioritari fissati: ridurre
il debito pubblico (al tempo di 795 miliardi di euro); costruire dei
“campioni nazionali” in grado di reggere l'agone mondiale;
salvare l'occupazione.
A
decenni di distanza, possiamo trarre un bilancio: quali obiettivi
sono stati raggiunti?
Il
debito pubblico è quasi triplicato (lo scorso ottobre ammontava a
2.334 miliardi di euro); i campioni rimasti “nazionali”, dopo la
“selezione”, sono rari e tra essi annoveriamo Telecom, subissata
dai debiti, Autostrade per l'Italia, emblema dei “prenditori”
alla Benetton,2
ed Alitalia malridotta dai “capitani coraggiosi”; quanto
all'occupazione...
Certo,
non tutto è dovuto alle privatizzazioni ed al modo in cui furono
condotte,3
ma dobbiamo a quella scelta
strategica se ci ritroviamo deboli, con poche grandi imprese a
rendere sufficientemente solido un tessuto produttivo in prevalenza
costituito da piccole-medie aziende, le quali, lasciate
pressoché sole, per quanto migliorate siano ed abbiano dato vita ai
famosi distretti integrati territorialmente, appaiono ora in grave
difficoltà per fronteggiare la crisi della globalizzazione, in
funzione della quale fu abbracciato il modello esportativo.
Come
se nel mondo, a dispetto delle più elementari leggi economiche,
tutti potessero godere contemporaneamente di un surplus
commerciale!
Per
di più con un lascito interno gravoso: una rete di telecomunicazioni
arretrata, ponti autostradali che crollano, un territorio dissestato
e, soprattutto, uno Stato democratico depotenziato e menomato nella
sovranità.
Fatto
tanto più grave se consideriamo che Germania e Francia si guardarono
bene dal seguire la via che caldamente indicavano agli altri partners
europei.
Viceversa, la finanza francese approfittò, insieme a quella
anglo-americana, della gentile disponibilità (a nostre spese) loro
concessa dai governi e dal top
management
italiani per fare shopping
a prezzi di saldo.
Perché,
va ribadito, si trattò di una svendita come dimostrano i conti,4
in questo caso opportunamente ignorati da quei puntigliosi contabili,
economisti alla Cottarelli, che scambiano l'economia di uno Stato
reale per quella di un'azienda ideale.
Tra
i protagonisti di quella stagione di privatizzazioni spiccano le
figure di Romano Prodi, prima da presidente dell'IRI, richiamato in
servizio dopo il lungo mandato iniziale (1982-1989), poi da premier,
e quella di Mario Draghi, ora governatore della Bce ed allora
direttore generale del Tesoro, nonché relatore sulle intenzioni del
governo italiano alla platea di “cointeressati”, invitati sul
panfilo Britannia
[vedi
“Breve e pittoresca fu la crociera”, nella finestra in pagina].
Breve
e pittoresca
fu
la crociera
1992.
Nell'anno della firma del trattato di Maastricht, l'Italia si
apprestò a massicce privatizzazioni delle partecipazioni statali.
Perciò da un gruppo di imprese finanziarie britanniche (oggi
International
Financial Services)
nacque l'iniziativa di affittare il panfilo Britannia, di proprietà
reale, per offrire i propri servizi al Gotha
dell'imprenditoria italiana, pubblica e privata, ed all'alta finanza
internazionale.
Toccò
a Mario Draghi, allora direttore generale del Tesoro, illustrare alle
parti convenute le intenzioni del governo Amato. In altri termini: le
occasioni d'investimento e di connesse lucrose percentuali per gli
eventuali servizi resi nelle transazioni.
Prima
che la nave salpasse per l'Argentario, Draghi scese a terra: aveva
dato l'input
necessario, ora toccava ai “seminaristi”.
Sergio
Romano, rispondendo ad un lettore, ha scritto sul “Corriere della
Sera” del 16 giugno 2009:
«La
crociera fu breve e pittoresca, con una orchestrina della Royal Navy
che suonava canzoni nostalgiche degli anni Trenta e un lancio di
paracadutisti da aerei britannici che si staccarono in volo da un
incrociatore e scesero come stelle filanti intorno al panfilo di Sua
Maestà. Fu anche utile? È difficile fare i conti. Ma non c’è
privatizzazione italiana degli anni seguenti in cui la finanza anglo-
americana non abbia svolto un ruolo importante.»
Tuttavia,
sarebbe superficiale un giudizio su quelle scelte politiche che non
prendesse in esame anche il quadro politico europeo del tempo. Il
1992 è anche l'anno del Trattato di Maastricht (febbraio) e
dell'attacco alla lira (settembre) di cui fu protagonista lo
speculatore umanitario George Soros.
1992
Negli
anni che precedettero Maastricht, il cancelliere tedesco Helmut Kohl
non era favorevole ad abbandonare il marco a favore della moneta
unica, voluta invece dal presidente francese François
Mitterrand.
Mitterand,
per acconsentire alla riunificazione tedesca, aveva chiesto in cambio
a Kohl la rinuncia al marco e l'adesione all'euro, nella convinzione
che in tale modo la Germania si sarebbe talmente europeizzata da
assorbirne la propensione egemonica fino a neutralizzarla.
Il
peso economico-finanziario di quello che Vladimiro Giacché definirà
l'Anschluß,5
l'annessione
della
DDR alla Repubblica Federale, era enorme. Nel 2014 il settimanale Der
Spiegel
lo quantificherà in circa 2.000 miliardi di euro. Mentre questo peso
gravava sulle finanza federali, le resistenze tedesche, di contro,
insistevano sul pericolo costituito dal forte debito pubblico
italiano e sulle difficoltà della lira, che avrebbero esposto la
futura moneta unica a rischi comuni.
Cosa
spinse alfine Berlino a “gettare il cuore” oltre ogni ostacolo?
- In primo luogo un trattato, sottoscritto a Maastricht, di stretta salvaguardia nazionalistica nella futura Eurozona della posizione della Germania, alla quale, a futura memoria, non si sarebbe potuto chiedere la condivisione dei rischi connessi alla condivisione della moneta;
- in subordine, un calcolo di pura convenienza nazionalistica, in linea con la vocazione tedesca ad accumulare un surplus esportativo anche a danno dei partners.
L'uno
e l'altro configurarono una Unione europea che anteponeva l'unione
economica, monetaria e finanziaria al processo d'unificazione
politica,6
affidato ad un successivo “trattato costituzionale”,7
malamente abortito in seguito ai referendum olandese e francese
(2005), e gettava le basi della divergenza economica, sociale e
territoriale che si sarebbe palesata al sopravvenire di uno schock,
il crollo finanziario del 2007-2008.
Sull'altare
dell'accordo tra Parigi e Berlino, a fungere da prima vittima
sacrificale fu l'Italia, nella quale si nutrivano da tempo forti
ansie proprio attorno alla riunificazione tedesca. A tale proposito,
con ironica lungimiranza, Giulio Andreotti giunse a dire: «Amo tanto
la Germania che preferisco averne due».
In
preda alla sindrome d'impotenza, corrispondente alla propria
incapacità di governare i conflitti sociali e politici del nostro
Paese, l'establishment
italiano si convinse che la sola via d'uscita fosse assoggettarsi ad
un “vincolo
esterno”,
cioè a farsi imporre dall'Europa i comportamenti economici e
monetari ritenuti più “virtuosi”. Nonostante
fosse ben consapevole che tale assoggettamento avrebbe comportato la
cessione di una quota rilevante di sovranità nazionale e,
inevitabilmente, uno “svincolo” dalla democrazia interna.
In
base a questa disponibilità italiana, equivalente ad una resa di
responsabilità, sancita a Maastricht, il successivo passo fu quello
di privatizzare, insieme al patrimonio immobiliare,8
il capitale industriale e finanziario dello Stato che innervava il
sistema produttivo del Paese.
Da
segnalare una conseguenza non secondaria della privatizzazione delle
banche pubbliche. La Banca d'Italia veniva de facto
privatizzata, sottratta al controllo del potere politico ma non del
neocostituito board finanziario, nel quale vengono a prevalere
non più i rappresentanti delle imprese statali, bensì quelli delle
imprese private. Aspetto piuttosto inquietante, se consideriamo che
le banche “emettono moneta” sotto forma di credito e Bankitalia è
stata chiamata a far parte della Banca centrale europea (anch'essa
formalmente “indipendente”), posta a governo del sistema a moneta
unica.
È
impensabile
Benché
le partecipazioni statali siano sorte per ricostruire sulle macerie
del capitalismo privato, da cui IRI (Istituto di Ricostruzione
Industriale), ed abbiano operato in funzione di quel capitalismo
nelle scelte dei settori da privilegiare, esse avevano dimostrato una
grande validità e vitalità nel panorama industriale italiano.
Soprattutto se poste a confronto con la grande imprenditoria
privata.9
Pertanto,
la decisione di liquidarne la
funzione corrisponde ad una rinuncia a presidiare gli interessi del
Paese, facendo esclusivo affidamento sulla integrazione europea,
ossia su un processo che doveva renderci
più forti insieme agli altri partners,
per
affrontare la globalizzazione vista come competizione mondiale.
In
fondo a questo tragitto, ma solo quando si manifesta la crisi della
globalizzazione, Prodi scopre che vengono a prevalere i
“nazionalismi” e, a livello mondiale, “la politica
sull'economia”, mentre i popoli vogliono un'autorità forte “senza
corpi intermedi”.10
È
impensabile che un maître
à penser, come
lui, non abbia visto quanto gli scorreva sotto gli occhi, per giunta
dall'alto della vetta in cui si ritrovava.
Si
è detto che delle privatizzazioni-liberalizzazioni fu diretto
protagonista. Di quanto racconta Vincenzo Visco sui maneggi, ai danni
del Paese, di Parigi e Berlino intorno alla riunificazione tedesca ed
al varo della moneta unica, era di certo a conoscenza [vedi
“Agnus Dei”, nella finestra in pagina]. Non
può sostenere che, alla radice dei nazionalismi palesi attuali, non
vi siano stati i nazionalismi egemonici intra-europei, per quanto
mascherati.
Agnus
Dei
«Ma
se questi episodi illustrano con chiarezza il valore delle
concessioni che Parigi ottiene da Kohl, è importante anche
comprendere per quali ragioni il cancelliere trova conveniente farle.
E in questo caso, la risposta ce la fornisce Vincenzo
Visco,
ministro delle Finanze al momento dell'esordio dell'euro, con questa
dichiarazione rilasciata a la
Repubblica:
“Un'Italia
fuori dall'euro, visto il nostro apparato industriale, poteva far
paura a molti, incluse Francia e Germania, che temevano le nostre
esportazioni prezzate in lire. Ma Berlino ha consapevolmente gestito
la globalizzazione: le serviva un euro deprezzato, così oggi è in
surplus nei confronti di tutti i Paesi, tranne la Russia da cui
compra l'energia. Era un disegno razionale, serviva l'Italia dentro
la moneta unica proprio perché era debole. In cambio di questo
vantaggio sull'export la Germania avrebbe dovuto pensare al bene
della zona euro nel suo complesso”.
«Dunque,
pur essendo evidente che in quel momento Berlino non può che
acconsentire alla richiesta francese, è anche vero che porta a casa
qualcosa di importante. Non solo ottiene da Mitterrand la garanzia
che la nuova moneta nascerà sul modello del marco e avrà la
stabilità come valore portante. Ma, per quanto riguarda l'Italia –
questo il sospetto che si fa strada in quei giorni e che si diffonde
velocemente in molte cancellerie -, guadagna il sì francese a un
progetto comune, ovviamente non reso esplicito, di
deindustrializzazione del nostro Paese. Pertanto, forse è dovuto
anche a questa circostanza se, nel '92, su forti pressioni esterne e
dopo la mini crociera del Britannia
tra le acque di Civitavecchia e dell'Argentario (…), il governo
Amato varerà un imponente piano di privatizzazioni di molti gioielli
dello Stato: Iri, Eni, Ina, Comit eccetera.»
Da
Angelo Polimeno, “Non chiamatelo euro”,
Mondadori,
2015, pagg. 26-27.
Come
non gli sarà sfuggito che gran parte dell'espansione verso l'Est
dell'Europa occidentale e dei suoi capitali, a costruire l'odierna
Unione, sia stata realizzata facendo cinicamente leva sul peggior
nazionalismo, a base etnica e confessionale. Anche a costo di
riportare la guerra nel vecchio continente, come è successo nella
ex-Jugoslavia ed in Ucraina.
Nemmeno
è pensabile che il trattamento disumano ed antisociale riservato
alla Grecia, non l'abbia
indotto ad una riflessione analitica sulla reale origine e sulle vere
finalità dei processi di divergenza in atto tra Centro europeo a
guida teutonica e periferie mediterranee, di cui l'Italia nonostante
tutto fa parte.
Quanto
alla prevalenza della politica sull'economia, appare sorprendente che
reputi inedita l'America
first
di Donald Trump, a meno che gli interventi bellici nord-americani in
Medio Oriente siano da considerare la “continuazione dell'economia
con altri mezzi”. O che la fine degli esorbitanti vantaggi,
conseguiti dagli Stati Uniti nella prima fase della globalizzazione,
non potesse condurre alla risposta di fare affidamento unilaterale
sulla propria potenza politica (e forza militare), per ricostituire
una leadership
in decadenza mondiale. Non è la prima volta nella storia che un tale
fenomeno si presenta.
Forse,
a bendargli gli occhi, è stata una ideologia, dalla quale i fautori
della globalizzazione e della Rivoluzione liberale europea
“post-ideologica” si sentivano perfettamente esenti. Una
ideologia fondata sulla fede nella potenza universale del free
trade,
del business
che penetra ovunque, vincendo ogni autodifesa sociale, nazionale e
territoriale. Fede nell'economia che vince sulla politica, sulla
società, mandando in soffitta il conflitto di classe.
Di
conseguenza, non può ammettere che l'economia non possa non solo
disgiungersi dalla politica, ma dipenderne. Che la macro-economia sia
un'invenzione ad hoc, su misura del capitalismo, per eludere
le verità dell'economica politica. Non può neppure ammettere il
fallimento della rivoluzione liberale, benché sia evidente la
disfatta dell'Europa costruita con quella rivoluzione.
Per
un cattolico, qual è il Padre dell'Ulivo, il preludio
all'autocritica è il pentimento, senza il quale le ansie rimangono
vuoto stato d'animo ed inerte patimento.
Note
1
http://www.romanoprodi.it/strillo/con-la-fine-della-globalizzazione-e-il-ritorno-dei-nazionalismi-litalia-rischia-grosso_15417.html
2
I
Benetton sono tra i campioni dei nostri “prenditori”. Il loro
gruppo si aggiudica GS Autogrill per 470 miliardi e lo gira alla
francese Carrefour GS per 10 volte tanto. Poi, usando la “leva
finanziaria”, si impossessa di gran parte della rete autostradale
pubblica, scaricando il debito contratto per acquistarla sulla
società acquistata. Mantiene bassi i livelli delle manutenzioni e,
grazie alla compiacenza governativa, alti i pedaggi, tanto da
permettersi acquisizioni di imprese del settore sui mercati
internazionali.
3
In un rapporto la Corte dei Conti ha evidenziato «una
serie di importanti criticità, che vanno dall'elevato livello dei
costi sostenuti e dal loro incerto monitoraggio, alla scarsa
trasparenza connaturata ad alcune delle procedure utilizzate in una
serie di operazioni, dalla scarsa chiarezza del quadro della
ripartizione delle responsabilità fra amministrazione, contractors
ed organismi di consulenza al non sempre immediato impiego dei
proventi nella riduzione del debito».
4
Loretta Napoleoni, “Privatizzazione, quando e come è iniziata la
(s)vendita del patrimonio pubblico”, il Fatto Quotidiano, 18
agosto 2018.
5
Vladimiro
Giacché, “Anschluss.
L'annessione. L'unificazione della Germania e il futuro
dell'Europa”, Imprimatur, 2013.
6
Si parlò allora del “carro posto davanti ai buoi”.
7
Si trattava di un ossimoro, perché un trattato internazionale non
può essere Costituzione. Infatti non lo fu.
8
Più tardi Goldman Sachs,
della quale divenne vicepresidente per l'Europa Mario Draghi e di
cui sono stati consulenti importanti globalizzatori italiani, si è
appropriata del patrimonio immobiliare dell'Eni.
9
A questo proposito vedasi, di Massimo Mucchetti, “Licenziare i
padroni?”, Feltrinelli, 2003.
10
Il tema dei corpi intermedi merita uno specifico approfondimento che
farò a breve.