sabato 29 dicembre 2018

Patimenti senza pentimento

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Patimenti senza pentimento

Prodi in ansia per l'Italia esposta agli esiti della globalizzazione liberista giunta agli sgoccioli. Privatizzazioni e liberalizzazioni: scelte strategiche al check point della storia che ritorna. Nessun cenno autocritico, anzi.
Romano Prodi non è un “liberale”, nel senso che la parola ha assunto nella tradizione politica nazionale. Tuttavia, avendo aderito alla globalizzazione liberista ed alla rivoluzione liberale europea del dopo-muro, appartiene in pieno alla componente di sinistra e progressista del liberalismo, come viene comunemente inteso a livello internazionale.
Posto di fronte sia alla crisi della globalizzazione sia ai palesi fallimenti dell'Unione europea, costruita dalla rivoluzione liberale, ci si aspetterebbe se non un'autocritica complessiva, almeno qualche cenno di operoso ravvedimento. Al contrario, Prodi rivendica le scelte politiche compiute e si limita ad esprimere le proprie ansie per il futuro di declino al quale il Paese sembra destinato.
Come se fossimo a cospetto dell'alterna fortuna delle umane sorti, ad un giro di dadi della storia.
Romano Prodi visto da "Il Sole 24 Ore"

Le ansie di Romano Prodi
In una intervista rilasciata a Il Sole 24 Ore1 [vedi estratto nella finestra “L'Italia rischia grosso”] del 2 dicembre 2018, Prodi lancia un allarme: se la globalizzazione va in crisi, il made in Italy crolla.

L'Italia rischia grosso

Nella rimodulazione degli equilibri mondiali, Romano Prodi scorge due fenomeni:
«Il primo fenomeno è il desiderio di autorità che si è propagato nel mondo, con il popolo che vuole una autorità forte senza enti intermedi: la Cina e gli Stati Uniti, ma anche la Russia, l’Ungheria, il Brasile, le Filippine e la nostra Italia. (…) Il secondo fenomeno è l’attuale inedita fase di prevalenza della politica sulla economia: il che, con caratteri diversi, accade sia in Cina che negli Stati Uniti. 
«In Cina, questa prevalenza è naturale ma ha assunto contorni nuovi. Xi Jinping ha definito le linee di concentrazione e di espansione interna e all’estero delle grandi imprese cinesi, elaborando una strategia precisa e lucida e sottolineando il loro legame e la loro dipendenza dal potere politico nel rapporto con il governo, il partito e l’esercito. (…) Xi Jinping ha iniziato una nuova fase: non più una Cina all’inseguimento ma un modello che, per i suoi successi, diventa attrattivo, sottraendo il ruolo ai sistemi democratici. Questa tendenza ha come contraltare Donald Trump che con l’America First, pur in maniera diversa, influenza il comportamento delle imprese americane con decisioni sorprendenti e senza precedenti.
«La globalizzazione ha fatto una selezione dura e dolorosa, ma ha anche plasmato e migliorato il tessuto produttivo italiano. Il cuore del nostro capitalismo sono le 2.500 medie imprese molte delle quali, pur essendo modeste di dimensioni, si sono globalizzate attraverso una specializzazione spinta. La loro capacità di combinare innovazione di prodotto e di processo, il loro saper fare quasi artigianale, ma molto raffinato e tecnologicamente complesso, è impareggiabile. La loro forza, che è la nostra forza, è quella di operare nelle nicchie e di rimanere agganciate alle catene globali del valore. Se l’organizzazione del mondo cambia, anche le cose per noi cambiano. E non in meglio.
«(...) penso ogni tanto ai miei imprenditori delle piastrelle, che hanno accompagnato e hanno attraversato la nostra storia fin dal Boom economico. Hanno dominato a lungo il mondo. Poi è arrivata la globalizzazione. Adesso, hanno meno del 4% del mercato internazionale. La Cina ha il 48 per cento. Soltanto che i cinesi vendono a meno di 3 euro al metro quadro. E noi a 14 euro.»
Romano Prodi
intervistato da Paolo Bricco, Il Sole 24 Ore, 2/12/2018

Secondo Prodi l'adesione alla globalizzazione ha comportato una «selezione dura e dolorosa» che, tuttavia, «ha plasmato e migliorato il tessuto produttivo italiano», ora in pericolo a causa:
  • del diffuso desiderio dei popoli di una «autorità forte senza corpi intermedi»;
  • della «inedita fase di prevalenza della politica sulla economia», per cui le grandi imprese cinesi e («pur in maniera diversa») statunitensi agiscono in strategica «dipendenza dal potere politico».
Per l'ex premier gli attuali rivolgimenti degli equilibri mondiali «potrebbero presto presentare il conto», mentre ci sarebbe bisogno di una Unione europea in grado di mediare nel conflitto politico ed economico fra Stati Uniti e Cina, «sui problemi del commercio internazionale, sui brevetti e sulla proprietà intellettuale».
Più che di crisi l'intervistatore Paolo Bricco scrive, senza mezzi termini, di «fine della età aurea della globalizzazione». Nel nostro Paese non ci sarebbe coscienza di quanti danni questa fine potrebbe arrecare al nostro sistema industriale, «in assenza di una costellazione di grandi imprese». A rischiare sarebbe il cuore produttivo dell'Italia, quello dei territori organizzati in distretti industriali, delle piccole-medie imprese che si sono specializzate nelle catene globali, poste in seria e crescente difficoltà dai mutamenti in atto.
Tuttavia, chiamare in causa i nazionalismi significa parlare anche dell'Unione europea, che doveva farci comune scudo ed invece si presenta divisa ed inerte. Si è costruita nella globalizzazione, ma posta al cospetto dei suoi effetti postumi, al suo final outcome, non sembra in grado nemmeno di frapporsi tra Stati Uniti e Cina per mediare (a proprio vantaggio, ça va sans dire) sui più immediati problemi del commercio internazionale.
Dura e dolorosa
Alcune domande sorgono spontanee: per chi è stata dura e dolorosa la “selezione”? Tanto dolore e tanta durezza erano così ineluttabili? Infine: chi e quali scelte di politica economica portano il peso della conseguente situazione in cui ci troviamo? In base a quali idee, poste alla verifica della pratica?
Domande affatto retoriche, giacché solo rispondendo ad esse possiamo trovare il bandolo della ingarbugliata matassa internazionale nella quale ci siamo avvolti.
Le modalità di “selezione” non erano scritte nei vangeli, ma dall'agenda neoliberista della globalizzazione contemporanea avviata agli inizi degli anni '80. Obiettivo cardine dell'agenda: la circolazione transnazionale dei capitali, liberi di allocarsi ovunque potessero meglio “valorizzarsi”, ossia realizzare il massimo profitto.
Pure il mercato europeo doveva rendersi conforme. Doveva aprirsi ai grandi gruppi capitalistici privati, ai loro investimenti, alle loro lucrose mediazioni e chiudere il pluridecennale periodo dello Stato imprenditore, che controllava il sistema finanziario interno, tramite le banche, e mediava i conflitti sociali attraverso il welfare. Sicché, per aderire a quel “mercato conforme”, liberalizzato, furono decise le privatizzazioni delle imprese pubbliche italiane che erano state la spina dorsale della industrializzazione nel nostro secondo dopoguerra. In attesa di poter fare altrettanto nel campo della sanità, dell'assistenza, delle pensioni, dei trasporti e quant'altro riguardasse la cosa pubblica ed il sociale.
Quando nel 1992 il Parlamento italiano diede via libera alle privatizzazioni, tre furono gli obiettivi prioritari fissati: ridurre il debito pubblico (al tempo di 795 miliardi di euro); costruire dei “campioni nazionali” in grado di reggere l'agone mondiale; salvare l'occupazione.
A decenni di distanza, possiamo trarre un bilancio: quali obiettivi sono stati raggiunti?
Il debito pubblico è quasi triplicato (lo scorso ottobre ammontava a 2.334 miliardi di euro); i campioni rimasti “nazionali”, dopo la “selezione”, sono rari e tra essi annoveriamo Telecom, subissata dai debiti, Autostrade per l'Italia, emblema dei “prenditori” alla Benetton,2 ed Alitalia malridotta dai “capitani coraggiosi”; quanto all'occupazione...
Certo, non tutto è dovuto alle privatizzazioni ed al modo in cui furono condotte,3 ma dobbiamo a quella scelta strategica se ci ritroviamo deboli, con poche grandi imprese a rendere sufficientemente solido un tessuto produttivo in prevalenza costituito da piccole-medie aziende, le quali, lasciate pressoché sole, per quanto migliorate siano ed abbiano dato vita ai famosi distretti integrati territorialmente, appaiono ora in grave difficoltà per fronteggiare la crisi della globalizzazione, in funzione della quale fu abbracciato il modello esportativo.
Come se nel mondo, a dispetto delle più elementari leggi economiche, tutti potessero godere contemporaneamente di un surplus commerciale!
Per di più con un lascito interno gravoso: una rete di telecomunicazioni arretrata, ponti autostradali che crollano, un territorio dissestato e, soprattutto, uno Stato democratico depotenziato e menomato nella sovranità.
Fatto tanto più grave se consideriamo che Germania e Francia si guardarono bene dal seguire la via che caldamente indicavano agli altri partners europei. Viceversa, la finanza francese approfittò, insieme a quella anglo-americana, della gentile disponibilità (a nostre spese) loro concessa dai governi e dal top management italiani per fare shopping a prezzi di saldo.
Perché, va ribadito, si trattò di una svendita come dimostrano i conti,4 in questo caso opportunamente ignorati da quei puntigliosi contabili, economisti alla Cottarelli, che scambiano l'economia di uno Stato reale per quella di un'azienda ideale.
Tra i protagonisti di quella stagione di privatizzazioni spiccano le figure di Romano Prodi, prima da presidente dell'IRI, richiamato in servizio dopo il lungo mandato iniziale (1982-1989), poi da premier, e quella di Mario Draghi, ora governatore della Bce ed allora direttore generale del Tesoro, nonché relatore sulle intenzioni del governo italiano alla platea di “cointeressati”, invitati sul panfilo Britannia [vedi “Breve e pittoresca fu la crociera”, nella finestra in pagina].
Breve e pittoresca
fu la crociera

1992. Nell'anno della firma del trattato di Maastricht, l'Italia si apprestò a massicce privatizzazioni delle partecipazioni statali. Perciò da un gruppo di imprese finanziarie britanniche (oggi International Financial Services) nacque l'iniziativa di affittare il panfilo Britannia, di proprietà reale, per offrire i propri servizi al Gotha dell'imprenditoria italiana, pubblica e privata, ed all'alta finanza internazionale.
Toccò a Mario Draghi, allora direttore generale del Tesoro, illustrare alle parti convenute le intenzioni del governo Amato. In altri termini: le occasioni d'investimento e di connesse lucrose percentuali per gli eventuali servizi resi nelle transazioni.
Prima che la nave salpasse per l'Argentario, Draghi scese a terra: aveva dato l'input necessario, ora toccava ai “seminaristi”.
Sergio Romano, rispondendo ad un lettore, ha scritto sul “Corriere della Sera” del 16 giugno 2009:
«La crociera fu breve e pittoresca, con una orchestrina della Royal Navy che suonava canzoni nostalgiche degli anni Trenta e un lancio di paracadutisti da aerei britannici che si staccarono in volo da un incrociatore e scesero come stelle filanti intorno al panfilo di Sua Maestà. Fu anche utile? È difficile fare i conti. Ma non c’è privatizzazione italiana degli anni seguenti in cui la finanza anglo- americana non abbia svolto un ruolo importante.»
Tuttavia, sarebbe superficiale un giudizio su quelle scelte politiche che non prendesse in esame anche il quadro politico europeo del tempo. Il 1992 è anche l'anno del Trattato di Maastricht (febbraio) e dell'attacco alla lira (settembre) di cui fu protagonista lo speculatore umanitario George Soros.
1992
Negli anni che precedettero Maastricht, il cancelliere tedesco Helmut Kohl non era favorevole ad abbandonare il marco a favore della moneta unica, voluta invece dal presidente francese François Mitterrand.
Mitterand, per acconsentire alla riunificazione tedesca, aveva chiesto in cambio a Kohl la rinuncia al marco e l'adesione all'euro, nella convinzione che in tale modo la Germania si sarebbe talmente europeizzata da assorbirne la propensione egemonica fino a neutralizzarla.
Il peso economico-finanziario di quello che Vladimiro Giacché definirà l'Anschluß,5 l'annessione della DDR alla Repubblica Federale, era enorme. Nel 2014 il settimanale Der Spiegel lo quantificherà in circa 2.000 miliardi di euro. Mentre questo peso gravava sulle finanza federali, le resistenze tedesche, di contro, insistevano sul pericolo costituito dal forte debito pubblico italiano e sulle difficoltà della lira, che avrebbero esposto la futura moneta unica a rischi comuni.
Cosa spinse alfine Berlino a “gettare il cuore” oltre ogni ostacolo?
  1. In primo luogo un trattato, sottoscritto a Maastricht, di stretta salvaguardia nazionalistica nella futura Eurozona della posizione della Germania, alla quale, a futura memoria, non si sarebbe potuto chiedere la condivisione dei rischi connessi alla condivisione della moneta;
  2. in subordine, un calcolo di pura convenienza nazionalistica, in linea con la vocazione tedesca ad accumulare un surplus esportativo anche a danno dei partners.
L'uno e l'altro configurarono una Unione europea che anteponeva l'unione economica, monetaria e finanziaria al processo d'unificazione politica,6 affidato ad un successivo “trattato costituzionale”,7 malamente abortito in seguito ai referendum olandese e francese (2005), e gettava le basi della divergenza economica, sociale e territoriale che si sarebbe palesata al sopravvenire di uno schock, il crollo finanziario del 2007-2008.
Sull'altare dell'accordo tra Parigi e Berlino, a fungere da prima vittima sacrificale fu l'Italia, nella quale si nutrivano da tempo forti ansie proprio attorno alla riunificazione tedesca. A tale proposito, con ironica lungimiranza, Giulio Andreotti giunse a dire: «Amo tanto la Germania che preferisco averne due».
In preda alla sindrome d'impotenza, corrispondente alla propria incapacità di governare i conflitti sociali e politici del nostro Paese, l'establishment italiano si convinse che la sola via d'uscita fosse assoggettarsi ad un “vincolo esterno”, cioè a farsi imporre dall'Europa i comportamenti economici e monetari ritenuti più “virtuosi”. Nonostante fosse ben consapevole che tale assoggettamento avrebbe comportato la cessione di una quota rilevante di sovranità nazionale e, inevitabilmente, uno “svincolo” dalla democrazia interna.
In base a questa disponibilità italiana, equivalente ad una resa di responsabilità, sancita a Maastricht, il successivo passo fu quello di privatizzare, insieme al patrimonio immobiliare,8 il capitale industriale e finanziario dello Stato che innervava il sistema produttivo del Paese.
Da segnalare una conseguenza non secondaria della privatizzazione delle banche pubbliche. La Banca d'Italia veniva de facto privatizzata, sottratta al controllo del potere politico ma non del neocostituito board finanziario, nel quale vengono a prevalere non più i rappresentanti delle imprese statali, bensì quelli delle imprese private. Aspetto piuttosto inquietante, se consideriamo che le banche “emettono moneta” sotto forma di credito e Bankitalia è stata chiamata a far parte della Banca centrale europea (anch'essa formalmente “indipendente”), posta a governo del sistema a moneta unica.
È impensabile
Benché le partecipazioni statali siano sorte per ricostruire sulle macerie del capitalismo privato, da cui IRI (Istituto di Ricostruzione Industriale), ed abbiano operato in funzione di quel capitalismo nelle scelte dei settori da privilegiare, esse avevano dimostrato una grande validità e vitalità nel panorama industriale italiano. Soprattutto se poste a confronto con la grande imprenditoria privata.9
Pertanto, la decisione di liquidarne la funzione corrisponde ad una rinuncia a presidiare gli interessi del Paese, facendo esclusivo affidamento sulla integrazione europea, ossia su un processo che doveva renderci più forti insieme agli altri partners, per affrontare la globalizzazione vista come competizione mondiale.
In fondo a questo tragitto, ma solo quando si manifesta la crisi della globalizzazione, Prodi scopre che vengono a prevalere i “nazionalismi” e, a livello mondiale, “la politica sull'economia”, mentre i popoli vogliono un'autorità forte “senza corpi intermedi”.10
È impensabile che un maître à penser, come lui, non abbia visto quanto gli scorreva sotto gli occhi, per giunta dall'alto della vetta in cui si ritrovava.
Si è detto che delle privatizzazioni-liberalizzazioni fu diretto protagonista. Di quanto racconta Vincenzo Visco sui maneggi, ai danni del Paese, di Parigi e Berlino intorno alla riunificazione tedesca ed al varo della moneta unica, era di certo a conoscenza [vedi “Agnus Dei”, nella finestra in pagina]. Non può sostenere che, alla radice dei nazionalismi palesi attuali, non vi siano stati i nazionalismi egemonici intra-europei, per quanto mascherati.
Agnus Dei
«Ma se questi episodi illustrano con chiarezza il valore delle concessioni che Parigi ottiene da Kohl, è importante anche comprendere per quali ragioni il cancelliere trova conveniente farle. E in questo caso, la risposta ce la fornisce Vincenzo Visco, ministro delle Finanze al momento dell'esordio dell'euro, con questa dichiarazione rilasciata a la Repubblica: “Un'Italia fuori dall'euro, visto il nostro apparato industriale, poteva far paura a molti, incluse Francia e Germania, che temevano le nostre esportazioni prezzate in lire. Ma Berlino ha consapevolmente gestito la globalizzazione: le serviva un euro deprezzato, così oggi è in surplus nei confronti di tutti i Paesi, tranne la Russia da cui compra l'energia. Era un disegno razionale, serviva l'Italia dentro la moneta unica proprio perché era debole. In cambio di questo vantaggio sull'export la Germania avrebbe dovuto pensare al bene della zona euro nel suo complesso”.
«Dunque, pur essendo evidente che in quel momento Berlino non può che acconsentire alla richiesta francese, è anche vero che porta a casa qualcosa di importante. Non solo ottiene da Mitterrand la garanzia che la nuova moneta nascerà sul modello del marco e avrà la stabilità come valore portante. Ma, per quanto riguarda l'Italia – questo il sospetto che si fa strada in quei giorni e che si diffonde velocemente in molte cancellerie -, guadagna il sì francese a un progetto comune, ovviamente non reso esplicito, di deindustrializzazione del nostro Paese. Pertanto, forse è dovuto anche a questa circostanza se, nel '92, su forti pressioni esterne e dopo la mini crociera del Britannia tra le acque di Civitavecchia e dell'Argentario (…), il governo Amato varerà un imponente piano di privatizzazioni di molti gioielli dello Stato: Iri, Eni, Ina, Comit eccetera.»
Da Angelo Polimeno, “Non chiamatelo euro”,
Mondadori, 2015, pagg. 26-27.
Come non gli sarà sfuggito che gran parte dell'espansione verso l'Est dell'Europa occidentale e dei suoi capitali, a costruire l'odierna Unione, sia stata realizzata facendo cinicamente leva sul peggior nazionalismo, a base etnica e confessionale. Anche a costo di riportare la guerra nel vecchio continente, come è successo nella ex-Jugoslavia ed in Ucraina.
Nemmeno è pensabile che il trattamento disumano ed antisociale riservato alla Grecia, non l'abbia indotto ad una riflessione analitica sulla reale origine e sulle vere finalità dei processi di divergenza in atto tra Centro europeo a guida teutonica e periferie mediterranee, di cui l'Italia nonostante tutto fa parte.
Quanto alla prevalenza della politica sull'economia, appare sorprendente che reputi inedita l'America first di Donald Trump, a meno che gli interventi bellici nord-americani in Medio Oriente siano da considerare la “continuazione dell'economia con altri mezzi”. O che la fine degli esorbitanti vantaggi, conseguiti dagli Stati Uniti nella prima fase della globalizzazione, non potesse condurre alla risposta di fare affidamento unilaterale sulla propria potenza politica (e forza militare), per ricostituire una leadership in decadenza mondiale. Non è la prima volta nella storia che un tale fenomeno si presenta.
Forse, a bendargli gli occhi, è stata una ideologia, dalla quale i fautori della globalizzazione e della Rivoluzione liberale europea “post-ideologica” si sentivano perfettamente esenti. Una ideologia fondata sulla fede nella potenza universale del free trade, del business che penetra ovunque, vincendo ogni autodifesa sociale, nazionale e territoriale. Fede nell'economia che vince sulla politica, sulla società, mandando in soffitta il conflitto di classe.
Di conseguenza, non può ammettere che l'economia non possa non solo disgiungersi dalla politica, ma dipenderne. Che la macro-economia sia un'invenzione ad hoc, su misura del capitalismo, per eludere le verità dell'economica politica. Non può neppure ammettere il fallimento della rivoluzione liberale, benché sia evidente la disfatta dell'Europa costruita con quella rivoluzione.
Per un cattolico, qual è il Padre dell'Ulivo, il preludio all'autocritica è il pentimento, senza il quale le ansie rimangono vuoto stato d'animo ed inerte patimento.
Note
1 http://www.romanoprodi.it/strillo/con-la-fine-della-globalizzazione-e-il-ritorno-dei-nazionalismi-litalia-rischia-grosso_15417.html
2 I Benetton sono tra i campioni dei nostri “prenditori”. Il loro gruppo si aggiudica GS Autogrill per 470 miliardi e lo gira alla francese Carrefour GS per 10 volte tanto. Poi, usando la “leva finanziaria”, si impossessa di gran parte della rete autostradale pubblica, scaricando il debito contratto per acquistarla sulla società acquistata. Mantiene bassi i livelli delle manutenzioni e, grazie alla compiacenza governativa, alti i pedaggi, tanto da permettersi acquisizioni di imprese del settore sui mercati internazionali.
3 In un rapporto la Corte dei Conti ha evidenziato «una serie di importanti criticità, che vanno dall'elevato livello dei costi sostenuti e dal loro incerto monitoraggio, alla scarsa trasparenza connaturata ad alcune delle procedure utilizzate in una serie di operazioni, dalla scarsa chiarezza del quadro della ripartizione delle responsabilità fra amministrazione, contractors ed organismi di consulenza al non sempre immediato impiego dei proventi nella riduzione del debito».
4 Loretta Napoleoni, “Privatizzazione, quando e come è iniziata la (s)vendita del patrimonio pubblico”, il Fatto Quotidiano, 18 agosto 2018.
5 Vladimiro Giacché, Anschluss. L'annessione. L'unificazione della Germania e il futuro dell'Europa”, Imprimatur, 2013.
6 Si parlò allora del “carro posto davanti ai buoi”.
7 Si trattava di un ossimoro, perché un trattato internazionale non può essere Costituzione. Infatti non lo fu.
8 Più tardi Goldman Sachs, della quale divenne vicepresidente per l'Europa Mario Draghi e di cui sono stati consulenti importanti globalizzatori italiani, si è appropriata del patrimonio immobiliare dell'Eni.
9 A questo proposito vedasi, di Massimo Mucchetti, “Licenziare i padroni?”, Feltrinelli, 2003.
10 Il tema dei corpi intermedi merita uno specifico approfondimento che farò a breve.

sabato 15 dicembre 2018

Il dilemma dell'aiuto umanitario

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In questione non è tanto il dilettantismo dell'aiuto, quanto l'imposizione di modelli di sviluppo della globalizzazione. L'Africa di Thomas Sankara. Contraddizioni e limiti delle ONG. La neutralità nella crisi dell'era umanitaria globale. Necessità di un nuovo internazionalismo politico.
Massimo Fini da Il Fatto Quotidiano,1 ha lanciato un appello che ha il sapore di una sfida:
«Il solo modo per aiutare l'Africa Nera è che noi ci togliamo dai piedi.»
Il ragionamento di Fini prende spunto da un discorso di Thomas Sankara [il passo citato è qui sotto riportato nel riquadro “Tecnici dell'aiuto umanitario”], presidente di uno dei Paesi più poveri del mondo, il Burkina Faso ex Alto Volta, tenuto nel 1987 all'assemblea dei Paesi non allineati della Organizzazione dell'Unità Africana. Dopo quattro anni di riforme per uno sviluppo indipendente, contro il neocolonialismo del debito e degli aiuti, quel discorso gli costò la vita. Nel colpo di Stato, durante il quale fu assassinato, risultarono coinvolti Francia, Inghilterra e Stati Uniti.
Scrive Fini:
«Sankara, a differenza di Gheddafi, centra l'autentico nocciolo della questione: le devastazioni economiche, sociali, ambientali provocate nell'Africa Nera, spesso col pretesto di aiutarla, del nostro modello di sviluppo. Ecco perché bisogna stare molto attenti quando, con parole pietistiche, si parla di “aiuti all'Africa”.»
L'articolo si conclude in aperta polemica con i cosiddetti “dilettanti allo sbaraglio”2 italiani, che, a parere di Fini, finiscono per procurare danni, anche mortali, laddove si erano proposti di portare testimonianza e soprattutto soccorso solidale.
Di pressante interesse, al di là del giudizio perentorio sui casi specifici, è il continuo riproporsi del dilemma dell'aiuto umanitario, in un tempo storico denominato “era umanitaria”.

Tecnici
dell'aiuto umanitario
«Il debito è la nuova forma di colonialismo. I vecchi colonizzatori si sono trasformati in tecnici dell'aiuto umanitario, ma sarebbe meglio chiamarli tecnici dell'assassinio. Sono stati loro a proporci i canali del finanziamento, i finanziatori, dicendoci che erano cose giuste da fare per far decollare lo sviluppo del nostro Paese, la crescita del nostro popolo e il suo benessere... Hanno fatto in modo che l'Africa, il suo sviluppo e la sua crescita obbediscano a delle norme, a degli interessi che le sono totalmente estranei. Hanno fatto in modo che ciascuno di noi sia, oggi e domani, uno schiavo finanziario.»
Thomas Sankara
Thomas Sankara fu leader dell'Africa sub-sahariana. Combatté la povertà tagliando sprechi statali e sopprimendo privilegi delle classi agiate. Finanziò un ampio sistema di riforme sociali incentrato sulla costruzione di scuole, ospedali e case per la popolazione estremamente povera, oltre a un'importante lotta alla desertificazione con il piantamento di milioni di alberi nel Sahel.
Il suo rifiuto di pagare il debito estero di epoca coloniale, insieme al tentativo di rendere il Burkina autosufficiente e libero da importazioni forzate, gli attirò le antipatie di USA, Francia ed Inghilterra. Con la loro complicità fu ordito un colpo di Stato (15 ottobre 1987) dal suo vice, Blaise Compaoré, durante il quale venne assassinato all'età di 38 anni. Figura carismatica e iconica per milioni di africani, è comunemente indicato come “Che Guevara africano” e “Presidente ribelle”.


Il mercato della solidarietà
In genere coloro che sostengono con lavoro volontario e danaro l'aiuto umanitario nelle diverse situazioni, dalle zone di guerra ai progetti di cooperazione contro il sottosviluppo e la povertà, sono animati da un reale spirito di solidarietà.
In discussione non è la loro intenzione, ma “l'industria” e il relativo “mercato” nella cui logica si immettono. In discussione non sono gli atti di donazione ed il loro valore morale, ma l'indirizzo politico e le strategie degli enti “raccoglitori e canalizzatori” privati o pubblici che siano.
Ogni anno migliaia donne e uomini dei Paesi ricchi sono spinti con spirito umanitario all'impegno diretto. Si tratta di un fenomeno rilevante anche dal punto vista occupazionale. Prescindendo dai risultati concreti raggiunti dalla miriade di “missioni” laiche o religiose, questo movimento arricchisce di esperienze e conoscenze chi vi partecipa e, di conseguenza, il Paese da cui provengono.
Tuttavia, non ci si può esimere dal considerare altri aspetti che finiscono per connotare il movimento solidaristico, oramai ampiamente e globalmente organizzato. Tra questi, quello dei “dilettanti allo sbaraglio” non è la manifestazione prevalente, sebbene le cosiddette MONGO3 siano andate rafforzandosi.
Proprio dalle parole di Thomas Sankara, comprendiamo che in gioco c'è il concetto stesso di sviluppo dei Paesi poveri, Africa in primis, e del ruolo in esso svolto dall'apporto esterno, proveniente per lo più dagli stessi Paesi che furono protagonisti del colonialismo ed ora lo sono degli aiuti umanitari. Aiuti che intervengono sia nelle situazioni di endemica povertà, attraverso i piani di “cooperazione allo sviluppo”, sia in quelle di emergenza, sopravvenute in seguito a calamità “naturali” o a guerre.
Dobbiamo a due autrici la diffusione della conoscenza di quali meccanismi vengano attivati in caso di disastri umanitari, generati da guerre ed eventi “naturali”, i quali quasi sempre si sovrappongono alla povertà strutturale nei Paesi coinvolti.
Naomi Klein4 ha denunciato il sistema neoliberista che sfrutta lo shock del disastro per affermare il capitalismo di conquista a scapito di intere società.
La meno conosciuta Linda Polman5 ci ha raccontato, anche in virtù delle proprie dirette esperienze, di come le ONG, nate all'insegna della neutralità, siano sempre più coinvolte nelle strategie belliche e nei tipici meccanismi del mercato globale, per reggere le sorti di una industria della solidarietà vieppiù basata sulla “visibilità mediatica” per sollecitare ed incanalare fondi a proprio favore.
Centrale è il suo richiamo al dilemma che sorse sin dagli albori nel campo del soccorso umanitario, tra lo svizzero Henry Dunant, che dopo la Battaglia di Solferino (1859) diede vita alla Croce Rossa Internazionale, e l'inglese Florence Nightingale, considerata la fondatrice dell'assistenza infermieristica moderna.
Nightingale si pose a capo di una pattuglia di 38 infermiere volontarie, che curarono i soldati malati e feriti del Regno Unito nella guerra di Crimea (1853-1854). Salvarono molti soldati da morte certa, ma che poi un gran numero tra loro, rimandati prontamente al fronte, vi perirono.
Florence Nightingale
«Senza il suo aiuto, pensò Florence Nightingale, la guerra sarebbe finita prima.»6
In conclusione, i “salvati” furono presto in gran parte “sommersi”, con una paradossale aggravante: le cure prestate erano risultate congeniali ai piani dei comandi militari e del governo di prosecuzione della guerra e, di conseguenza, portarono ad un maggiore spargimento di sangue...
Quel dilemma si ripropone oggi, mutatis mutandis, qualora considerassimo l'aiuto umanitario nel contesto della globalizzazione e nei meccanismi strutturali in cui esso avviene, nonché dalle logiche politiche e belliche che insieme indirizzano al risultato ed al “bilancio” finali.
Usi ed abusi
A febbraio è stato presentato da Agire, un network delle ONG, un Rapporto7 secondo il quale gli aiuti all'assistenza umanitaria globale hanno raggiunto nel 2016 la cifra record di 27,26 miliardi di dollari (di cui 6,92 da privati), con un incremento del 6% rispetto all'anno precedente [vedi grafico “Assistenza umanitaria globale”]. Solo nel 2012 ammontavano a 16,10 miliardi di dollari, di cui 4,35 da privati. Tale somma è ritenuta comunque insufficiente a coprire il 40% dei bisogni delle popolazioni colpite da conflitti e catastrofi naturali. Paragonata alla spesa militare mondiale, stimata in 1.686 miliardi di dollari annui, il valore dell'assistenza umanitaria equivale a circa un sessantesimo.

Le ONG si dicono piuttosto preoccupate dall'annunciata intenzione di Donald Trump di tagliare i contributi degli Stati Uniti che, con 6,32 miliardi di dollari, è il maggior governo donatore.
A prescindere dalle intenzioni poco umanitarie del presidente di America first, da anni è in corso una discussione pubblica sull'uso da parte delle ONG delle ingenti risorse di cui sono affidatarie. Sotto esame sono stati messi sia i comportamenti, sia il conto economico, dato dal rapporto tra risorse raccolte e loro arrivo a buon fine.
Che la raccolta di fondi sia minacciata in base ad attacchi denigratori, non deve indurre a considerare acriticamente quanto sino ad ora è stato fatto. Semmai il contrario.
In merito ai comportamenti, faccio un esempio: lo “scandalo sessuale” che ha investito i vertici di Oxfam, multinazionale della beneficienza, che ottiene donazioni dall'Unione europea e dal governo britannico. Venuto alla luce nel febbraio del 2018, riguarda abusi accaduti in anni precedenti.8
La vicenda ricorda da vicino gli abusi sessuali sia di prelati e sacerdoti, coperti per tanti anni dalla Chiesa Cattolica e non più tollerati da papa Francesco, sia delle truppe ONU stanziate nelle zone di crisi, benevolmente tollerati dai comandi militari.
In questo caso i vertici di Oxfam hanno mostrato di rispondere ad un riflesso condizionato, proprio di chi mette al primo posto la difesa della propria organizzazione (o crede di difenderla insabbiando), rispetto alle dichiarate finalità della stessa.
Tuttavia, non si può trascurare il fatto che tale abusi avvengono nelle aree di crisi umanitaria, perché in esse vengono a riprodursi situazioni tipiche della condizione coloniale, ossia di profonda disparità tra popolazione locale in assoluta povertà e stranieri “ricchi”, convinti di poter comprare ogni “cosa”.
Sul rapporto tra risorse raccolte e loro effettiva destinazione, assistiamo ad un dibattito pubblico teso a distinguere le ONG “buone” da quelle “cattive”, ingenerato dal sospetto che le donazioni servano più al loro mantenimento piuttosto che ai destinatari, in favore dei quali dicono di agire.
Poiché qualsiasi organizzazione corre il pericolo di cadere nella propria “auto-referenzialità”, anche quella umanitaria è chiamata a porsi seriamente il problema. Degli ingenti fondi raccolti da enti privati e pubblici,9 quanto arriva a buon fine e, viceversa, quanto è sottratto per l'auto-mantenimento delle organizzazioni stesse?
Le informazioni di cui disponiamo dipingono un quadro contraddittorio.
In senso positivo, tra le top ten italiane da 500 milioni di entrate, Emergency fondata da Gino Strada, primeggia “per importo destinato e per scelte”.10
All'opposto, qualche anno fa, ha gettato scalpore l'abbandono dell'incarico di testimonial della fondazione inglese Halo Trust da parte della star del cinema Angelina Jolie, quando è venuta a conoscenza dei compensi stellari percepiti dei vertici di quella ONG no-profit.
Pertanto, se le prima citate MONGO possono essere accusate giustamente di deleteria improvvisazione e di “dilettantismo”, il movimento controcorrente, di critica al “professionismo” umanitario, non è per niente privo di fondate ragioni. Le ONG “più qualificate” assomigliano spesso alle grandi imprese a scopo di lucro, assai prodighe verso i loro top managers.11 Ma, d'altro canto, come viene trattato il personale impiegato nei progetti operativi dislocati nel mondo bisognoso di aiuti?
Ben prima che il dibattito sulle ONG investisse il nostro politico quotidiano, in seguito ai salvataggi in mare nei pressi delle coste libiche, sono comparse sulla stampa quotidiana dichiarazioni di operatori umanitari sul campo, i quali si auto-raffiguravano in “condizioni operative” tutt'altro che disagiate.12
Di contro, ciascuno di noi conosce generosi volontari che vengono spesati ed assistiti al minimo, benché i funzionari stabili delle organizzazioni che li arruolano ricevano ben più sostanziosi compensi.
Se ne ricava l'impressione che a fare la differenza di trattamento sia l'appartenenza più o meno fissa alla struttura e la dimensione raggiunta dalla organizzazione, tanto più se quest'ultima appartiene o meno al top delle ONG “accreditate” presso i governi erogatori di fondi pubblici e le più dotate, finanziariamente, fondazioni private mondiali.
Una difficile neutralità
Il principio di neutralità delle organizzazioni umanitarie è messo seriamente in forse tanto dalle condizioni pratiche in cui si trovano ad intervenire, quanto dalla dinamica insita nel rapporto tra i popoli dei Paesi poveri e gli aiuti erogati secondo i modelli di sviluppo dei Paesi aiutanti.
In un'area bellica la neutralità è resa assai difficile dalla “guerra asimmetrica” contemporanea.
Nel 2007 Emergency vede sequestrate le proprie strutture ospedaliere da parte del governo di Kabul.13 Gino Strada dichiarerà: «Hanno fatto di tutto per cacciarci.» Va notata la lingua biforcuta dell'establishment nazionale: in patria canta sovente le lodi di Emergency, mentre in Afghanistan continua a sostenere l'impegno militare dell'Italia a fianco del governo di Kabul in quella “guerra asimmetrica”.
Laddove avviene un conflitto tra un esercito organizzato, magari sorretto da una potente coalizione internazionale, dotato della migliore moderna strumentazione ed organizzazione, ivi compresa quella della cura dei propri feriti, ed una guerriglia locale che ne è priva, il soccorso ospedaliero finisce inevitabilmente per sopperire alle mancanze di quest'ultima, “avvantaggiandola”. L'esercito “regolare”, pertanto, ostacolerà in ogni modo l'attività degli ospedali che accolgono chiunque ne abbia bisogno, perché esso non ne ha bisogno, al contrario dei combattenti “irregolari”. E l'ostruzionismo si tramuterà facilmente in sabotaggio, rendendo la vita impossibile alle organizzazioni umanitarie neutrali per spingerle all'abbandono.
D'altronde, poiché il principale governo donatore mondiale è anche il più armato ed interventista, non può gettare meraviglia che elabori e pratichi strategie nelle quali l'aiuto umanitario è embedded, ossia condizionato al pari di quei giornalisti che raccontano la guerra in Iraq al seguito del loro esercito occupante. Così come non si potrà pretendere verità dal “giornalista al seguito” dell'esercito occupante, non potrà esserci neutralità nell'aiuto umanitario prestato dal suo governo, bensì, fuori da ogni illusione, subalternità e funzionalità.14
Accreditamenti e consenso
In questi giorni la ONG Medici Senza Frontiere ha annunciato pubblicamente di avere temporaneamente rinunciato alla missione di salvataggio nel Mediterraneo, paragonando questo abbandono a quello degli ospedali da campo, resosi necessario in alcune aree di guerre. Il loro portavoce ha accusato l'Unione europea di esserne la principale responsabile.
Qui è la questione migratoria ad aprire la contraddizione.
Sul problema migratorio, benché ne abbia già scritto più volte,15 credo necessario riprendere alcuni punti di sintesi:
  • l'imposizione del modello di sviluppo dell'occidente capitalistico in Africa ha accompagnato la globalizzazione liberista e conduce allo spopolamento delle campagne, con il trasferimento degli esclusi dalla terra nelle immense bidonvilles che vanno formando le megalopoli del continente [vedi la finestra "AFRICA"].
  • ciò spinge una parte delle popolazioni coinvolte all'emigrazione verso le più vicine aree ricche del pianeta, alla ricerca di lavoro e di condizioni di vita migliori;
  • gli stessi Paesi che dominano i processi di globalizzazione, avvantaggiandosi sia del sistema agro-alimentare imposto, sia delle importazioni di materie prime a basso costo, tendono a selezionare la nuova offerta di mano d'opera immigrata, integrando solo quella qualificata e di fatto emarginando quella generica;
  • i Paesi di partenza quando cedono le loro risorse umane più istruite, perdono anche le basi umane indispensabili al loro possibile decollo;
  • nei Paesi di arrivo gli immigrati, tanto più se privi di specifica professionalità, vanno ad ingrossare l'esercito di riserva disponibile, così contribuendo al degrado dei rapporti di lavoro in atto da trent'anni.

        AFRICA
      Megalopoli
      Attualmente l'Africa è il continente meno inurbato (40%), pur annoverando alcune città superiori ai 10 milioni di abitanti, quali Il Cairo (oltre 15mil) e Lagos (oltre 16mil). Stando ad uno studio ONU, la popolazione delle città africane passerà dagli attuali 395 milioni, registrati nel 2009, ad un miliardo e 230 milioni nel 2050.
      Seguendo il modello agricolo ed economico occidentale ed in base al trend demografico, l'inurbamento (negli USA si è già a quasi l'80%) porterà nel prossimo futuro l'Africa ad avere le città più popolose al mondo.
      Povertà
      Fin dall’inaugurazione delle prime politiche di cooperazione allo sviluppo, a livello internazionale e nazionale, sono stati trasferiti in Africa circa mille miliardi di dollari, sotto diverse forme. Nel periodo di massima concentrazione degli aiuti (il ventennio 1970-1990), la percentuale di popolazione povera che viveva nel continente africano è passata tuttavia dall’11% al 66%. L’aumento di circa 50 punti percentuali non è dovuto solamente ad un aumento della povertà in termini assoluti, ma gran parte è dovuta alla crescita economica imponente che hanno registrato diversi Paesi in via di sviluppo, soprattutto asiatici. Ci si riferisce, quindi, ad una aumento della povertà in termini relativi. 


Pertanto, lo stesso sistema: riduce in povertà intere popolazioni, africane e non; produce i flussi migratori e sfrutta i migranti nei luoghi d'arrivo; li contrappone alla parte più povera dei già residenti tramite la “concorrenza” nell'accesso al lavoro e nella fruizione di un welfare ampiamente rimaneggiato.
Come meravigliarsi che un simile sistema generi poi conflitti sull'accoglienza umanitaria?
E che forze politiche del più deleterio nazionalismo16 ne approfittino per alimentare campagne di odio xenofobo e misure di restrizione dell'accoglienza umanitaria?
Grande è l'ipocrisia delle forze economiche e politiche che hanno condiviso e condividono la globalizzazione. Sono responsabili del sottosviluppo africano, dell'aumento della povertà e dei derivanti flussi migratori, eppure vestono i panni umanitari verso i migranti emarginati, “facendo la morale” ai residenti impoveriti. Soprattutto in un momento in cui l'Europa, da loro architettata, stringe i Paesi mediterranei, primo approdo dei migranti africani, nella morsa degli interessi sul debito pubblico e dell'austerità.
Le ONG, quando sostengono varianti cosmopolite della globalizzazione e linee no borders, perdono consenso popolare e credibilità nei Paesi di approdo, deputati all'accoglienza. Non possono accreditarsi presso le oligarchie della globalizzazione e, al contempo, ottenere credito dai popoli che ne sono impoveriti.
La neutralità impossibile
I meccanismi strutturali, le logiche economiche e politiche che prevalgono negli aiuti umanitari, come all'inizio dell'articolo ci ricordava Thomas Sankara, sono ancor più attivi quando tali aiuti si ammantano di umanitarismo e pretendono di sollevare dalla povertà da sottosviluppo, in particolare nei Paesi in cui singoli eventi disastrosi vanno a peggiorarla.
La cosiddetta ”era umanitaria” globale è subentrata quando i grandi movimenti di liberazione nazionale hanno subito una pesante sconfitta, insieme al loro entroterra strategico, costituito dal socialismo fino ad allora realizzato.
Molti, soprattutto nei Paesi del primo mondo ricco, si sono sentiti comunque in dovere di sopperire, attraverso l'azione umanitaria, alla perdita di una politica internazionalista no global che andasse alle radici della povertà e delle diseguaglianze, combattendo le nuove forme dello sfruttamento e dell'egemonismo (neo-imperialismo?) mascherato. Il danno immediato è stato ridotto, ma non quello “successivo” e complessivo. Occorre prendere atto, questo è il punto cruciale, che l'aiuto umanitario, il quale già portava in seno un dilemma originario, è stato vieppiù assoggettato di fatto dai soverchianti meccanismi, non solo finanziari, della globalizzazione contemporanea.
Ora, con la crisi della globalizzazione emergono tutti i limiti e le contraddizioni dell'umanitarismo che si è infine proposto di porre rimedio ai mali della globalizzazione stessa, supponendo di poter connotare i propri interventi come sempre neutrali.
È questa crisi a porre all'ordine del giorno, oltre ad un critico bilancio degli aiuti umanitari – qui solo brevemente tratteggiato - la ripresa indispensabile di un internazionalismo politico, che così come non può per sua natura essere neutrale, deve poter contare sullo spirito e delle energie di chi in buona fede ha creduto nell'umanitarismo.
Note
1 Massimo Fini, “Per aiutare l'Africa andiamocene da lì”, il Fatto Quotidiano, 29 novembre 2018.
2 Tra i “dilettanti allo sbaraglio” il giornalista inserisce le cooperanti onlus Silvia Romano (oggi prigioniera in Kenia), Simona Torretta e Simona Pari, le “due Simone”, e la inviata de il Manifesto Giuliana Sgrena.
3 In opposizione alle organizzazioni umanitarie “istituzionalizzate”, con il loro pesante bagaglio di burocrazia ed interessi, sono sorte le MONGO (da “My Own NGO”) ad opera di persone convinte di poter risolvere i problemi nelle zone di crisi meglio e con costi minori. Vedi Linda Polman, “L'industria della solidarietà”, Bruno Mondadori, 2009, pagg. 43-55.
4 Naomi Klein, “Shock economy. L'ascesa del capitalismo dei disastri”, Rizzoli, 2008.
5 Linda Polman, “L'industria della solidarietà. Aiuti umanitari nelle zone di guerra”, Bruno Mondadori, 2009.
6 Linda Polman, ibidem, pag. 6.
8 https://www.corriere.it/esteri/18_febbraio_13/scandalo-oxfam-sotto-accusa-numero-della-ong-mark-goldring-f9c8f3b0-10a3-11e8-ae74-6fc70a32f18b.shtml
9 https://www.ilblogdellestelle.it/2017/05/alle_ong_vanno_12_miliardi_di_euro_annui_dai_cittadini.html
10 https://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2017-07-31/ong-top-ten-500-milioni-entrate-211523.shtml?uuid=AEEmha6B
11 Ad esempio, a Irene Khan, ex segretario di Amnesty International, è stata versata una buonuscita di 500mila sterline.
12 http://www.dagospia.com/rubrica-4/business/beneficenza-maleficenza-intero-business-fondazioni-ong-onlus-s-ed-49008.htm
13 http://it.peacereporter.net/articolo/7903/Requisiti+gli+ospedali+afgani+di+Emergency
14 Vedi a questo proposito: http://www.studiperlapace.it/view_news_html? news_id=20051231053055
15 Nel Blog vedi:” Immigrazione”, ottobre 2014; “Immigrazione: una risposta”, febbraio 2015; “Nuove frontiere”, settembre 2015; “Minniti d'oltremare” settembre 2017; “Aiutarli a casa loro?”, settembre 2018.
16 Vedi nel Blog “Il tabù della nazione”, novembre 2018.