lunedì 12 dicembre 2016

La pera sociale

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La mappa del voto referendario, specchio del disagio diffuso.
Crescono povertà e divaricazione sociale, in un Paese sempre più spinto alla periferia d'Europa.
Un'intera “classe dirigente” è posta di fronte ai suoi fallimenti.

Alla ricerca delle motivazioni della schiacciante vittoria del No nel referendum costituzionale, può servire un rapido sguardo alla distribuzione geografica e generazionale del voto.
Dove è più alto il disagio popolare ha prevalso più nettamente il rifiuto, mentre ovunque si è resa esplicita la disillusione giovanile verso lo stato di cose presente. Di contro, dai quartieri metropolitani abitati dalle classi ad alto reddito e ricchezza, è venuto il più elevato consenso alle scelte ed alle riforme governative.
Non si tratta solo e tanto della conferma di espressioni politiche già presenti alle ultime amministrative, quanto e soprattutto del riproporsi della questione sociale.
Interno Italia
Sapevamo che negli ultimi anni in Italia la povertà era aumentata. Una ulteriore conferma ci è venuta dal rapporto annuale del Censis1 [riquadro "Il rapporto 2016 del Censis"] che, insieme alla più recente foto dell'ISTAT [riquadro "La fotografia ISTAT"], ci offrono elementi per interpretare i fenomeni oltre i dati e le osservazioni fatte dai ricercatori.

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Il rapporto 2016 del Censis
Secondo il Censis in Italia sono in condizioni di “deprivazione materiale grave” 6,9 milioni di persone (dati del 2014), 2,6 milioni in più rispetto al 2010.
Rispetto ai coetanei di 25 anni fa, chi è nato dopo il 1980 dispone di un reddito inferiore del 26,5%, mentre quello degli over 65 è cresciuto del 24,3%. Molti giovani emigrano.
In un Paese primo nell'Unione Europea per quota di ragazzi che non studiano né lavorano (dati Istat), l'aspettativa generale è al peggioramento, sicché solo il 22% degli italiani intende fare investimenti, mentre il 56,7% punta a risparmiare ed il 51,7% vuol tagliare ancora le spese.
Tra gli italiani che contano su rendite le aspettative sono piatte o negative. Il 60,2% dei benestanti è impaurito dal downsizing* generazionale”.
Rispetto all'inizio della crisi del 2007 la liquidità aggiuntiva ha raggiunto la notevole cifra di 114,3 miliardi di euro “un valore superiore al Pil di un Paese intero come l’Ungheria”. Insomma, l’Italia rentier “si limita a utilizzare le risorse di cui dispone senza proiezione sul futuro, con il rischio di svendere pezzo a pezzo l’argenteria di famiglia”.
Poiché si tende ad andare in pensione più tardi, per effetto di carriere contributive più lunghe, il reddito medio del totale delle pensioni è aumentato, dal 2008 al 2014, del 5,3%.
Per 7,8 milioni di famiglie i trasferimenti pensionistici formano oltre il 75% del reddito disponibile, mentre per 3,3 milioni sono l'unico reddito familiare. Nondimeno sono stimati in 1,7 milioni i pensionati che hanno ricevuto un aiuto economico da parenti e amici. Ma i pensionati non possono essere considerati solo come recettori passivi di risorse e servizi di welfare, perché sono anche protagonisti di una redistribuzione orizzontale di risorse economiche: sono 4,1 milioni quelli che hanno prestato ad altri un aiuto economico.
http://www.censis.it/9
*Traducibile in: ridimensionamento.
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Il rapporto Censis fa tabula rasa della rappresentazione mass-mediale del giovane “mammone” che non se ne va a vivere per conto proprio e, “schizzinoso” (choosy, secondo la Fornero), non accetta i lavori disponibili, preferendo campare sulle spalle dei genitori. Mostra una realtà di costrizione, all'interno della quale, tuttavia, non compare la viva esperienza umana di troppi giovani, anche tra i “fortunati” occupati stabili, i cui rapporti di lavoro sono tornati al tempo dei “padroni delle ferriere”.
Indubitabilmente in Italia alle carenze del welfare state, inadeguato verso i senza lavoro né reddito, ha cercato di porre rimedio una sorta di welfare familiare, reso possibile da una cultura cattolica nazionale, a suo modo solidale.
Nelle famiglie delle fasce sociali più deboli, talvolta con disabili a carico, i figli e nipoti, disoccupati precari2 sottopagati, vengono sostenuti, con diversa disponibilità economica, fino a:
  • sprofondare tutti insieme in grave deprivazione materiale;
  • indurre anche minimi risparmi di spesa per accantonamenti cautelativi in vista di tempi peggiori;
  • erodere sensibilmente risparmi e piccole proprietà accumulati nei decenni precedenti.
Coloro che si trovano nella fascia sociale appena superiore, nella quale i giovani dispongono di redditi sufficienti per sposarsi ed avere dei bambini, le famiglie d'origine comunque solidalmente risparmiano, perché percepiscono il pericolo derivante dal fatto che tali giovani sovente sono con “negozi in avviamento” o “partite IVA” o “privi di articolo 18” e con un mutuo casa da pagare.
Parimenti si risparmia nelle famiglie in cui s'è puntato ad una elevata formazione professionale dei figli, poiché per loro non ci sono all'orizzonte ritorni ripaganti e rassicuranti.
Se, come indicano i dati sui consumi, così ampie fasce di popolazione non comprano perché già in difficoltà o percepiscono difficoltà e minacce dietro l'angolo, il contenimento della spesa di queste fasce si traduce in fuga dagli investimenti per produrre merci e servizi loro destinati.
E qui arrivano gli accantonamenti degli strati più ricchi, collocati nel collo ristretto della “pera sociale”, immagine contemporanea della distribuzione di redditi e ricchezza, in cui la stragrande maggioranza, comprese le classi medie di consumo, è schiacciata verso il basso. I ceti situati nel collo della “pera”, pur nutrendo il florido mercato del lusso, accumulano in posizione di reali rentiers. Come le altre componenti sociali mancano della famosa “fiducia”, ma nel loro caso questa mancanza li spinge ad una comoda surplace, in attesa di tempi meno rischiosi.
In sintesi, l'aspettativa al peggioramento è stata tanto generale da determinare, dal 2007 ad oggi, una montagna di risparmio aggiuntivo che ha superato i 114 miliardi di euro.
Il rapporto del Censis chiarisce anche l'effettivo stato in cui versano i pensionati, dipinti spesso come una massa di privilegiati e contrapposti, per tagliare indistintamente le loro “rendite”, ai giovani.
Tra i pensionati più poveri, una parte significativa tira avanti con l'aiuto di parenti ed amici. Un'altra, in posizione medio-bassa e media, regge la protezione del welfare familiare prima accennato.
Solo quella in alto è in attesa di investire, quando i rischi si ridurranno.
L'andamento dell'indice Gini, che misura le diseguaglianze di reddito, è inequivocabile, in particolare se paragonato ad altri Paesi euro-mediterranei.
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La fotografia ISTAT


Rispetto al 2014, nel 2015 i residenti a rischio povertà o esclusione sociale passano dal 28,3% al 28,7%. Il rischio riguarda il 46,7 della popolazione meridionale, contro il 24% al Centro ed il 17,4% al Nord.
Sul reddito equivalente totale il 20% più ricco delle famiglie percepisce il 37,3%, il 20% più povero solo il 7,7%.
Dal 2009 al 2014 il reddito in termini reali cala più per le famiglie appartenenti al 20% più povero, ampliando la distanza dalle famiglie più ricche il cui reddito passa da 4,6 a 4,9 volte quello delle più povere.
L'indice Gini, che misura la diseguaglianza di distribuzione del reddito, colloca l'Italia (0,324) tra i Paesi UE del Mediterraneo appena prima di Cipro (0,336), Portogallo (0,340), Grecia (0,342) e Spagna (0,346).

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Interno Europa
L'Osservatorio Minghetti dell'Istituto milanese Bruno Leoni aggiorna periodicamente un suo indicatore sintetico (Super-indice) a misura del divario dell’economia italiana rispetto ad altri Paesi comparabili nell’Unione Europea.
Tale misura è basata su alcune importanti dimensioni macroeconomiche:
  • tasso di crescita del PIL in termini reali;
  • tasso di disoccupazione;
  • rapporto tra deficit del bilancio statale e PIL;
  • rapporto tra debito pubblico e PIL;
  • rapporto delle partite correnti rispetto al PIL.
Al di là di ogni critica alla composizione del Super-indice Minghetti, dobbiamo prendere atto che i fautori del “libero mercato” dell'Istituto Leoni qualcosa di rilevante ci dicono.
Attestano che l'economia italiana diverge strutturalmente sempre più dagli altri Paesi della zona euro e tende a sprofondare nelle differenziate periferie d'Europa [grafico "Indicatore della distanza macroeconomica: Italia-Eurozona"].

Sorprende, ma non troppo, che pure la Francia, la quale supponeva di appartenere stabilmente all'asse centrale dell'Eurozona, tenda a seguire l'Italia.
Nell'aggiornamento del 21 novembre3 gli osservatori sintetizzano:
«Dopo essersi notevolmente ridotto negli anni che precedettero la crisi finanziaria del 2008, il grado di divergenza fra le economie dell’area dell’Euro ha raggiunto e superato nell’anno in corso i livelli precedenti all’introduzione della moneta unica
Se l'euro si proponeva l'obbiettivo di conseguire una maggiore convergenza, il suo fallimento è conclamato e riguarda il 48% della popolazione dell'Eurozona, mentre ai “Paesi convergenti”, Germania in testa, appartiene solo il 29% della popolazione dell'area euro.
Ne deriva una semplice inevitabile constatazione:
«Il tema della incompatibilità fra il grado di disomogeneità dell’Eurozona e il funzionamento ordinato di un’area valutaria peculiare come l’area dell’Euro rimane dunque al centro delle questioni europee
Persino la tanto lodata immissione di denaro, il Quantitative Easing di Mario Draghi e della Banca Centrale Europea (Bce), si è risolta, secondo l'analista Marcello Minenna4, fresco dimissionario dalla giunta di Virginia Raggi al Comune di Roma, nel far crescere il divario tra Germania ed Italia grazie all'andamento dei tassi di interesse reali [grafico "Un divario che cresce"].
Scrive Minenna:
«(...) in Germania i tassi stanno sì salendo ma con molta moderazione mentre l'inflazione è cresciuta significativamente; dunque i tassi reali sono diventati negativi, quasi al -1%! Questo implica che investire in Bund è più costoso di quello che sembra, mentre il governo tedesco ringrazia per via della svalutazione del debito dovuta alla più alta inflazione. Quindi non solo Berlino beneficia dei tassi nominali negativi sui Bund fino a oltre gli 8 anni, ma riceve anche un aiuto dall'inflazione.»

In Italia, invece, il tasso nominale dei buoni al 2% si somma alla deflazione (inflazione al negativo) a -0,1%, sicché il risultato è un tasso reale più elevato che fa costare il debito “sovrano” quanto nel 2012.
Nelle condizioni date, in cui le due economie continuano a divergere, la Germania può permettersi di opporsi all'estensione a tutto il 2017 del Quantitative Easing5, pur guadagnandoci, per mantenere in sospeso sulla testa del nostro Paese la spada di Damocle dell'esplosione dello spread6 e dell'intervento della Troika, qualora l'Italia entro l'anno prossimo non adempia agli obblighi prestabiliti in sede europea.
Ce n'est qu'un début
Per l'Istituto Leoni e per la corrente politica liberista la soluzione consiste nell'attuazione delle famigerate “riforme di struttura”, essendo la divergenza di tipo strutturale. Il governo “tecnico” di Monti (novembre 2011 – aprile 2013) agì seccamente in tale direzione, ma la sua pretesa “austerità espansiva” ottenne risultati recessivi: il Pil nel 2012 scese del 2,3%.
Per i social-liberisti, nella congiuntura attuale segnata dalla troppo bassa inflazione interna, con punte di deflazione, e dal ristagno economico, occorre procedere sì alle suddette “riforme strutturali”, ma in parallelo disporre di una maggiore flessibilità di spesa pubblica in deroga alle “compatibilità di bilancio” fissate dai Trattati. Il governo Renzi ha agito su questa linea ambigua e di piccolo cabotaggio, combinando misure strutturali come il Jobs Act e bonus per il rilancio dei consumi. Ma la ripresa si è impantanata in insignificanti zero virgola, mentre crescevano povertà e divaricazioni in Italia e tra Paesi dell'Eurozona.
Non disponendo delle leve macroeconomiche di autogoverno (le potestà monetaria, valutaria e di bilancio) e continuando a soffrire nell'euro e nel “rispetto” dei Trattati, l'Italia appare risucchiata in una palude ristagnante: i più vengono “sommersi” o minacciati di sprofondare verso il basso, allorché tra i “salvati” un ristretto numero continua a trarne vantaggio.
Il No popolare ha messo in chiaro che con l'austerità dichiarata, o di mezza misura retorica, la maggioranza non vuole andare avanti.
Ma l'ammissione della sconfitta del governo Renzi non contempla l'ammissione del fallimento delle politiche che ne sono alla fonte e di un'intera “classe dirigente”, la quale da anni agisce in sintonia d'interessi con le oligarchie economico-finanziarie e con i poteri accentrati in Europa.
Conforta il fatto che, nel difficile momento, continueremo a disporre della Costituzione del 1948. Un ambito più propizio per risolvere la lotta in corso a favore della democrazia e delle classi popolari, senza le quali essa non esiste e non può vivere.
Note
1 Censis, Centro Studi Investimenti Sociali, 50° Rapporto sulla situazione sociale del Paese/2016.
2 Tra loro il “popolo dei vouchers” che comprende un milione e 400 mila persone, in maggioranza sotto i 35 anni.
3 http://www.brunoleoni.it/superindice-ibl-%E2%80%93-nota-di-aggiornamento-n-5.
4 Marcello Minenna, “Perché siamo tornati a fare i conti con lo spread”, Corriere Economia, 28 novembre 2016.
5 Il capo della Bundesbank, Jens Weidmann, ha votato contro l'estensione del Quantitative Easing deciso dalla Bce il 9/11/2016.
6 Differenza o “allargamento” (spread in inglese) di rendimento tra i titoli di Stato (come i BTP) italiani e quelli tedeschi (“Bund”) giudicati tra i più affidabili. Al rialzo dello spread corrisponde una maggiore spesa per interessi sul debito pubblico.

sabato 3 dicembre 2016

Comunque vada

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Potestà cedute
Roberto Scarpinato, attuale procuratore generale presso la Corte d'Appello di Palermo, il 22 novembre scorso in un seminario [vedi riquadro in fondo] sulla riforma costituzionale, ha mostrato una bella lucidità.
Dalla sua critica non emerge solo una circostanziata ricostruzione dei complicati meccanismi tecnico-giuridici, attraverso i quali la riforma Boschi peggiora democrazia e rappresentanza. Egli svela la finalità politica non dichiarata ed indicibile che sostanzia il “combinato disposto” (riforma costituzionale + legge elettorale Italicum).
Portando in chiaro innumerevoli fatti, Scarpinato dimostra che non è certo la Costituzione ad impedire l'efficienza dell'azione di governo contro il ristagno economico, il declino industriale ed il regresso sociale. E si chiede:
«Quali sono dunque le reali cause che ostacolano la governabilità nel nuovo scenario macro politico e macroeconomico venutosi a creare nella Seconda Repubblica per fattori nazionali ed internazionali verificatisi dalla seconda metà degli anni Novanta del secolo scorso?»
La risposta è netta: la rinuncia ad alcune prerogative essenziali per l'esercizio di sovranità.
Con i trattati europei firmati dal 1992 in poi, tre potestà essenziali, monetaria valutaria e di bilancio, non sono più nella disponibilità nazionale. Sono state delocalizzate, cedute a Commissione europea, Bce (e Fondo monetario internazionale), organi privi di legittimazione democratica, disconnessi dalla sovranità popolare ma fortemente connessi ai grandi centri di potere economico-finanziario. Pertanto, l'esecutivo non dispone delle indispensabili leve per governare la politica economica del Paese.
Invece di trarre ispirazione dalla Costituzione del 1948 per riprendere vitalità democratica e rappresentativa, la scelta di revisione va nella direzione esattamente opposta, quella voluta dai “mercati finanziari”.
Illuminante il riferimento1 alla relazione che accompagna il disegno di riforma costituzionale, laddove afferma esplicitamente che essa risolverà i problemi del Paese, rimediando
«l'esigenza di adeguare l'ordinamento interno alla recente evoluzione della governance economica europea e alle relative stringenti regole di bilancio».
Seguendo il ragionamento di Scarpinato possiamo arrivare ad ulteriori considerazioni circa il nostro prossimo futuro.
Scelte inevitabili
Secondo Scarpinato, l'arretramento istituzionale consentirebbe a ristrette cerchie di consolidare un regime oligarchico paragonabile a quello vigente agli inizi dello scorso secolo. Con tutta evidenza, tuttavia, non si tratterebbe di un “ricorso storico”, secondo la celebre teoria di Giambattista Vico, bensì di un corso inedito e persino peggiorativo. Rispetto a quel periodo interviene una decisiva differenza: la subalternità nazionale a poteri oligarchici sovranazionali.
Comunque vada il referendum, il governo del Paese sarà di fronte a determinate scelte:
    1) mantenendosi nell'obbligo dei patti sottoscritti in Europa, dovrà eseguire i compiti2 dettati dalle “potestà” delocalizzate a Bruxelles-Francoforte (e Berlino);
    2) alle prese con continue querelles e rimpalli di responsabilità su muri, migranti e margini di flessibilità di bilancio, potrebbe imboccare la via delle recriminazioni nazionalistiche (come già oggi fa) e prendere le distanze dall'Unione non portandoci tuttavia fuori dal guado, sicché continueremmo a sprofondare inermi nella stagnazione periferica;
    3) andando l'euro e l'Unione in ulteriore crisi per l'accentuarsi delle note dicotomie strutturali, potrebbe essere costretto a prenderne atto e ritrovarsi a fare da sé, a doversi riprendere le potestà cedute;
    4) rimettere in discussione i patti e uscire da incertezze ed ambiguità, senza attendere passivamente eventi più dirompenti, e sganciarsi dall'euro cercando di ri-contrattare la partecipazione all'Unione.
L'attuale linea governativa, di “navigare bordeggiando” tra le prime due opzioni, è precaria, ci condanna ad una instabilità di base, sistemica, a cui vuole sovrapporre una gabbia istituzionale per preservare l'establishment politico-economico. Salvo miracoli, è destinata a divenire sempre più antipopolare ed impopolare. L'accentramento di poteri in capo al partito-governo, consentito dal prevalere del Sì, si tradurrebbe nell'impotenza verso l'esterno Paese e, sul piano interno, in un maggior potere unicamente rivolto ad imporre alla maggioranza degli italiani medicine che aggraverebbero la malattia.
Solo poco tempo guadagnato, di fronte alle restanti due opzioni, che richiederanno proprio quella ripresa di vitalità di democrazia e rappresentanza che la riforma Boschi nega, in mancanza della quale saremo maggiormente esposti all'avventurismo politico.
Note
1 Nella sintesi in riquadro a pag. 2 questo riferimento alla relazione di accompagnamento, presente nell'intervento di Scarpinato, è stato omesso per evitare inutili ripetizioni.

2 Nell'ottobre 2011 Renzi disse al Sole-24ore: “Mi ritrovo nella lettera della Bce. E non condivido l'atteggiamento prevalente del Pd che evoca l'Europa quando conviene e ne prende le distanze se propone riforme scomode.” Erano le riforme poi realizzate dal cosiddetto governo tecnico di Mario Monti, ora sconfessate per demagogia elettorale referendaria.

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Roberto Scarpinato
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Sostiene Scarpinato

«(...) questa riforma non è affatto una revisione della Costituzione vigente, (…), ma (…) una diversa Costituzione, alternativa e antagonista nel suo disegno globale a quella vigente, mutando in profondità l’organizzazione dello Stato, i rapporti tra i poteri ed il rapporto tra il potere ed i cittadini.»
Viene abrogato il diritto di eleggere direttamente i senatori, sicché alla crisi di democrazia e rappresentanza, i riformatori rispondono restringendo gli spazi di democrazia e di rappresentanza.
Dopo aver indicato al nocciolo in cosa consista il superamento del bicameralismo paritario, con riferimento alla legge elettorale detta Italicum, prosegue:
«Alla sostanziale desovranizzazione del popolo, alla disattivazione della separazione tra potere esecutivo e potere legislativo e, quindi, del ruolo di controllo di quest’ultimo sul primo, si somma poi la disattivazione del ruolo delle minoranze che, sempre grazie all’Italicum, sono condannate per tutta la legislatura alla più totale impotenza, avendo a disposizione in totale solo 290 deputati rispetto ai 340 della maggioranza governativa.» Nonostante le minoranze siano in realtà la maggioranza reale del Paese.
Nelle mani del governo si verrebbe, pertanto, a concentrare un potere di supremazia sugli tutti gli apparati in cui si articola lo Stato (Rai, Partecipate pubbliche, enti economici pubblici, varie Autority, vertici di polizia e servizi segreti).
Ma altro è il punto centrale del suo ragionamento critico.
« (…) se le ragioni della riforma dichiarate non sono radicate nella realtà, se ne deve dedurre che vi sono altre ragioni che non si ritiene politicamente pagante esplicitare. (…) Quali sono dunque le reali cause che ostacolano la governabilità nel nuovo scenario macro politico e macroeconomico venutosi a creare nella seconda repubblica per fattori nazionali e internazionali verificatisi dalla seconda metà degli anni Novanta del secolo scorso?»
Gli strumenti indispensabili per governare la politica economica di un Paese sono essenzialmente tre:
«La potestà valutaria, cioè il potere di svalutare la moneta nazionale in modo da fare recuperare margini di competitività all’economia nazionale nei periodi di crisi. La potestà di bilancio, cioè il potere di finanziare il rilancio dell’economia mediante spesa pubblica in deficit, senza attenersi alla regola del pareggio tra entrate ed uscite.»
«(...) il governo non ha potuto azionare quelle leve per un deficit di governabilità nazionale determinato non dalla Costituzione del 1948, come sostengono i fautori del Si, ma dai trattati europei firmati dal 1992 in poi. Il deficit di governabilità così venutosi a determinare è a sua volta il frutto di un grave deficit di democrazia. Infatti le leve fondamentali per governare la politica economica nazionale, non sono state cedute al Parlamento europeo o ad altro organo espressione della sovranità popolare, ma sono state cedute agli organi prima menzionati – la Commissione europea, la Bce (e per certi versi il Fondo monetario internazionale) – privi di legittimazione e rappresentanza democratica, disconnessi dalla sovranità popolare ma fortemente connessi invece ai grandi centri del potere economico e finanziario.»
Nonostante i riformatori affermino di essere proiettati al futuro: «a me sembra che con questa riforma si rischi di riportare indietro l’orologio della Storia all’epoca del primo Novecento quando prima dell’avvento della Costituzione del 1948, il potere politico era concentrato nelle mani di ristrette oligarchie, le stesse che detenevano il potere economico.»

Riassunto e passi citati da:
Roberto Scarpinato, incontro seminariale “Il referendum sulla Costituzione: sì e no a confronto”, Palermo, Palazzo di Giustizia, 22/11/2016.
Testo intero: http://temi.repubblica.it/micromega-online/scarpinato-%E2%80%9Ctutte-le-ragioni-per-votare-no-a-una-riforma-oligarchica-e-antipopolare%E2%80%9D/

giovedì 17 novembre 2016

Eurosinistri

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L'euro ed i sinistri della sinistra.

L'economista Giorgio Lunghini prevede disastri futuri, in caso di uscita dell'Italia dall'euro, ed accende aspre polemiche.

Di fronte ai disastri attuali di cui è coautrice, la sinistra si divide tra chi persevera e chi chiede scusa...


Secessione della plebe
La raffigurazione geometrica della politica, laddove trovavano senso “destra” e “sinistra”, è palesemente in crisi. Forse perché stare a sinistra nell'emiciclo parlamentare non corrisponde più, da decenni, alla rappresentanza degli interessi materiali e politici delle parti sociali di storico riferimento.
Se oggi nelle urne, un po' ovunque, si manifesta la secessio plebis dalle “forze democratiche e socialdemocratiche”1, ciò non può derivare unicamente da una loro cattiva interpretazione dei fenomeni del nostro tempo: di mezzo ci sono stati radicali passaggi “di campo” in tempi diversi.
Il più noto dei quali fu la partecipazione della sinistra, anche se non tutta, alle politiche liberiste correlate alla globalizzazione, fino a sposare il prevalente capitale finanziario. Non meno importante è stata la sua adesione, in questo caso più compatta, alla moneta unica ed all'Unione economica e monetaria europea (Uem). Tuttora la si esalta, facendo risalire alla cattiva gestione successiva i problemi che ha generato, mentre al liberismo si riserva una larvata critica, rifiutandosi di vederne l'implicito devastante impianto politico.
Euro di governo
Con queste premesse, gran parte della sinistra non riesce a discostarsi granché dalla linea del governo Renzi che rispetto all'Europa predica ad un tempo:
  1. di restare in regime di moneta unica, rispettare regole e vincoli sottoscritti nei Trattati, chiedendo però, per non venirne schiacciato e reso oltremodo periferico, continue deroghe e margini di flessibilità (per aumentare il nostro stesso debito “sovrano”!);
  2. il ritorno provvidenziale della Politica, con la 'P' maiuscola2, per disincagliare l'Unione, condividere i “rischi” (ovvero i debiti nazionali), accantonare l'austerità e ridare vigore a sviluppo ed occupazione.
Dati i rapporti di potere interni all'Europa e mancando pure di idee-forza per avviarne il mutamento, Renzi si riduce a “fare la voce grossa” con Bruxelles sulla spesa per terremoti, migranti e sicurezza degli edifici scolastici, condendo la querelle di retorica “populista” ed esibendo un nazionalismo ai limiti del tanto deprecato “euro-scetticismo”.
Ma sono diversivi di fronte all'insuccesso: disoccupazione, precariato permanente, deflazione salariale e stagnazione economica. Questo è il quadro a quasi tre anni dall'insediamento di un esecutivo sedicente rapido e performante; nonostante abbia goduto di contingenze “esterne” particolarmente favorevoli: il quantitative easing della Bce di Mario Draghi ed un prezzo del barile sotto i 50 dollari.
René Magritte
Dietro al referendum
Al momento attuale il Paese è fermo al referendum costituzionale. Il suo esito potrebbe dipendere dalla scelta di quattro milioni di italiani all'estero, i quali, a prescindere da possibili brogli, subiranno solo le lontane conseguenze delle loro decisioni. Non sarà così per chi vive in Italia e magari “nativo” non ha diritto di voto. Pure in occasione dell'approvazione della legge Tremaglia3 quasi tutta la sinistra si accodò ad una concezione della cittadinanza per “diritto di sangue” estranea alla nostra Costituzione, che difatti dovette essere emendata (art. 48) per istituire la circoscrizione Estero.
Di recente l'opposizione interna al PD, per decidere come votare al referendum, si è divisa tra chi si fida e chi non si fida della promessa di una “correzione” della legge elettorale detta Italicum già approvata. Se passerà il Sì, le eventuali modifiche all'Italicum saranno stabilite secondo le convenienze del governo in carica e verranno colate nello stampo di una Costituzione revisionata allo scopo di accentrare i poteri della Repubblica nelle mani dell'esecutivo e del suo capo.
Ad ogni modo si continua a trascurare l'intento dichiarato dai fautori delle riforme istituzionali4, ovvero il rafforzamento “funzionale” dell'esecutivo italiano da far valere nei vertici tra “i governi che contano”, a lato delle riunioni ufficiali del Consiglio europeo e del Consiglio dell'UE. Un modo verticistico ed oligarchico di intendere e costruire l'Europa che, nell'esperienza italiana, non rappresenta una novità ed è stato fonte delle peggiori decisioni, prese in ristrette cerchie e mai sottoposte a pubblica e democratica scelta.
Di contro, coloro che difendono la Costituzione italiana democrazia-lavoro, in quale prospettiva politica si inseriscono rispetto all'Unione e all'Unione economico-monetaria che ne è il perno?
Non desti sorpresa, dunque, se dietro la scena occupata dal referendum, divampi la disputa sull'euro e sull'Europa.
Sul finire del mese di settembre, ad infiammare le polemiche è stato un articolo dell'economista Giorgio Lunghini, pubblicato da Il Manifesto e subito rilanciato dal Blog di Rifondazione Comunista.
Ad esso sono seguiti numerosi altri interventi [vedi riquadro “Il dibattito sull'uscita dall'euro”] alla cui lettura rimando il lettore interessato. Per quanto concerne la “stima” dei disastri derivanti da un'uscita unilaterale dell'Italia dall'euro, propongo [in appendice] un confronto tra la posizione di Lunghini e quella opposta di Leonardo Mazzei, focalizzata sul rapporto svalutazione-inflazione e sulla caduta del Pil.
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Il dibattito sull'uscita dall'euro
Giorgio Lunghini
Leonardo Mazzei
Sergio Cesarotto, Massimo D'Antoni, Vladimiro Giacché. Mario Nuti, Paolo Pini, Antonella Stirati
http://ilmanifesto.info/se-e-leuro-la-causa-dei-tanti-populismi-europei/
Alberto Bagnai e Jens Nordvig
http://goofynomics.blogspot.it/2013/05/manifesto-di-solidarieta-europea.html
Euro-exit e catastrofisti. Qualche dato sul debito”, Il Fatto Economico, 19 ottobre 2016.
Leonardo Becchetti, Mauro Gallegati, Guido Iodice, Daniela Palma, Francesco Saraceno, Leonello Tronti
Via dall'euro non significa uscire dal liberismo”, Il Manifesto, 7 ottobre 2016.
L'uscita dall'euro? Una Lehman Brothers elevata al quadrato”, Il Fatto Economico, 2 novembre 2016.
Piergiorgio Gawronski
Uscire dall'euro non è impossibile ma è molto difficile farlo bene”, Il Fatto Economico, 9 novembre 2016.
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Populismo
Il linguaggio non è mai neutrale. Quando la sinistra adotta l'etichetta accusatrice di “populismo” si omologa all'establishment politico-mediato ed agli interessi dominanti. In Europa, nel medesimo sacco “populista” vengono regolarmente infilate sia forze xenofobe, nazionalistiche e neo-fasciste, sia forze democratiche e dichiaratamente di sinistra. Infatti il senatore a vita Mario Monti nella “fattispecie” fece rientrare tutti i britannici che si espressero per la Brexit, il M5S in Italia, Podemos in Spagna e Syriza in Grecia (forse oggi depennerebbe quest'ultima dall'elenco).
Se poi consideriamo che nell'immaginario alla “democratica” Hillary Clinton venne opposto il “populista” Donald Trump, l'effetto fuorviante di questo linguaggio risulta più che evidente. Si dà il caso che nel ribollire delle insoddisfazioni operaie e popolari degli States dell'interno, decisivi nella contesa presidenziale nord-americana, il “populista” sia stato assai più perspicace della pletora di saccenti analisti comodamente sdraiati nei loro studi di New York e Washington. E, dopo lo sconquasso, alcuni di questi pateticamente si chiedono come mai il partito democratico statunitense abbia preferito la candidatura “debole” della Clinton a quella più “forte” di Bernie Sanders, anch'egli in odore di “populismo”.
Per capire bisogna avere uno sguardo disinibito. Non mi pare affatto casuale che ad interpretare più a fondo la realtà degli Usa, prevedendone gli sviluppi, sia stato un comico come Michael Moore. Altri comici italiani, sulla nostra situazione, gli hanno fatto compagnia e tra essi un impareggiabile giullare5 diede alla parola “populista” il suo significato.
Flagelli al quadrato
Ritornando al dibattito sull'euro, la preoccupazione da cui muovono Lunghini ed altri studiosi va oltre la stretta sostanza “scientifica” sulle previsioni. Il nocciolo della questione è piuttosto questo: quale strategia opporre alle “destre populiste”?
A tal fine potrà essere utile «aprire a sinistra un dibattito basato su fondamenta analitiche e fattuali più solide», come sostiene il gruppo di Sergio Cesarotto, ma non sarà sufficiente.
Secondo Lunghini l'abbandono della moneta unica provocherebbe comunque una crisi di cui si avvantaggerebbe solo la “destra populista”.
Rimane in sospeso, innanzitutto, come l'arroccamento a difesa dell'euro, perno di questa Europa, possa disgiungersi da deflazione salariale, disoccupazione, precariato e generale peggioramento delle condizioni materiali di vita degli strati popolari più esposti; senza mettere in conto la concomitante divaricazione tra Centro e differenziate Periferie d'Europa.
Nelle condizioni di progressiva sottrazione di sovranità democratica, insistere nel remain nell'euro non farà che consentire alle formazioni xenofobe, nazionalistiche e neo-fasciste di appropriarsi del campo dell'exit. Ad impedire loro di intestarsi gli interessi popolari non basterà di certo la pur insistita denuncia verbale della loro attitudine demagogica.
Insistere sugli eventuali flagelli derivanti dall'uscita dall'euro, paragonati ad una Lehman Brothers al quadrato, dimenticando quelli in atto qui ed ora a causa dell'euro, equivale a rimandare la soluzione del problema ad un ipotetico futuro in cui, come ironizzò Keynes, “saremo tutti morti”.
Alberto Bagnai e Jens Nordvig non possono essere pienamente esaustivi quando portano a sostegno dell'exit dalla moneta unica ben 69 casi precedenti. È vero che tali casi coinvolsero Paesi “irrilevanti” sul piano globale, mentre il crack dell'euro investirebbe il 20% del Pil mondiale. Ma questi sono gli elementi di conoscenza di cui disponiamo. Il resto è “stima” spesso sconfinante in un terrorismo paralizzante che, peraltro, non si misura né con l'incalzare degli svolgimenti politici, né con la crisi di una globalizzazione che non ha estinto gli Stati.
Più precisamente riscontro una contraddizione. Quando le banche erano “troppo grandi per fallire”, si chiamò in causa l'intervento soccorritore dello Stato: nel caso in cui sia l'euro ad essere too big to fail, perché mai gli Stati partecipi di questa moneta dovrebbero scomparire dalla scena provvidenziale? È così assodato che di fronte ai ricatti del capitale finanziario non dispongano della minima capacità dissuasiva e persuasiva?
D'altro canto, tutti i governi dispongono nel cassetto di un piano B6, poiché è risaputo che il Titanic euro potrebbe incontrare in qualsiasi momento il suo fatale iceberg.
Ovviamente nessuno si augura che si arrivi a questi limiti estremi, ma questa è la gabbia in cui ci ritroviamo. A maggior ragione occorre capire quale uscita sia preferibile perseguire.
Giuseppe Maiorana
Nella gabbia
Il ragionamento dei sostenitori del remain in eurozona è così sintetizzabile: stante l'insieme dei meccanismi sottostanti e sovrastanti la moneta unica, dato il peso dell'euro nel mondo e la reattività di coloro che determinano i mercati finanziari, per evitare una crisi come quella del 2007-2008 con effetti al quadrato, le sole opzioni non-avventuristiche sarebbero due: “cambiare dall'interno” o sperare nella “uscita dall'alto” della Germania.
La prima opzione mi pare coincida, salvo scostamenti marginali, con quella perorata del governo italiano attuale e ricordata all'inizio di questo articolo. Prevedibilmente con risultati analoghi.
In via subordinata, “per cambiare dall'interno”, dovremmo considerare realistica una generale sollevazione pan-europea, una palingenesi simultanea dal Baltico al Mediterraneo, capace di rompere con il liberismo ed il dominio del capitale finanziario sui mercati, rendendo secondario ed addomesticato, intra moenia, il problema della moneta unica. Ma invocare un preliminare cambiamento più radicale ed assai futuribile, equivale al solito modo di smarcarsi da ogni iniziativa concreta nel presente per poi, dicendosi “più a sinistra”, continuare a recitare il consueto ruolo di coda della sinistra governativa europea.
La seconda opzione consiste nello sperare (pregare?) in un atto liberatorio motu proprio di Frau Merkel o, ma non bisogna dirlo, nella vittoria di Alternative für Deutschland in Germania.
In quest'ultimo caso si verificherebbe proprio la vittoria della “destra populista” paventata da Lunghini, non già come conseguenza della fine dell'euro, bensì al contrario come premessa della sua fine.
Ad ogni buon conto, la moneta unica, che doveva contenere la potenza della riunificata Germania, è diventata una gabbia per tutti, con un particolare non previsto dai suoi fautori: la chiave per uscirne indenni, o quasi, è tenuta nelle mani dalla Germania medesima! Dalla qual cosa si può agevolmente giungere alla conclusione che lo spolpamento delle economie dei Paesi periferici europei e dei popoli continuerà, finché non si manifesteranno i primi pesanti danni boomerang verso la stessa Germania, derivanti dalla incapacità dei partners di pagare le sue esportazioni ed i propri debiti. Evento paventato anche da coloro per i quali la Germania può “fare a meno dell'euro”.
Autocritica
In controtendenza rispetto ad una sinistra che non ammette i propri “errori”, è intervenuta nel frattempo la presa di posizione di Alfredo D'Attorre7 , deputato di Sinistra Italiana (SI), nata dall'incontro di Sel con alcuni fuoriusciti dal PD, tra cui Stefano Fassina.
«Noi di sinistra dobbiamo chiedere scusa per l'euro», scrive D'Attorre, che prosegue:
«Il punto è semplice: può un qualsiasi schieramento progressista riproporsi credibilmente alla guida del Paese senza fare un bilancio onesto degli effetti sulla società italiana della scelta più importante che il centrosinistra ha compiuto nell'ultimo ventennio, ossia l'adesione incondizionata al vincolo esterno europeo e al progetto dell'euro?»
Egli considera aperta la discussione “scientifica” su come uscire dalla moneta unica, ma chiusa quella sulle “evidenze empiriche” innegabilmente negative, per come è stata costruita e per i suoi effetti dicotomici sull'Europa ed in particolare sull'Italia.
Di conseguenza chiedere scusa si tradurrebbe in
«un atto politico in grado di riaprire un rapporto con settori della società italiana un tempo vicini alla sinistra e che oggi rischiano di essere consegnati irreversibilmente alla destra xenofoba o all'avventurismo del M5S.»
L'altro e connesso aspetto della riflessione autocritica di D'Attorre chiama in causa l'incompatibilità tra il modello economico disegnato dalla prima parte della nostra Costituzione e quello imposto dalla moneta unica, dai Trattati europei e dalle riforme strutturali.
Austerità, disoccupazione, deflazione salariale
«non sono una condizione transitoria legata ad una fase di crisi, ma il presupposto per mantenere le economie di quei Paesi [periferici] su una linea di galleggiamento dentro la moneta unica, in una situazione in cui essi hanno rinunciato al controllo delle leva fiscale e di quella monetaria.»
Poiché protestare contro la svalutazione del lavoro ed chiedere il ritorno di significativi investimenti pubblici, mantenendoci dentro ai vincoli dell'euro, è come “abbaiare alla luna”, uscirne, per quanto difficile e rischioso, non può essere considerato un tabù.
Inoltre, l'eventuale vittoria del No al referendum potrebbe offrire ulteriori spazi ad una strategia di resistenza costituzionale in difesa della sovranità democratica nazionale contro i “poteri tecnocratici europei”.
Si apra, dunque, la discussione su come liberarci dall'euro, subendone il minor danno...
Implicazioni
Nell'apprezzabile approdo autocritico di D'Attorre non mancano punti controversi.
Innanzitutto andrebbe chiarito che il distacco della sinistra e del centrosinistra dagli interessi popolari e dalla sovranità democratica nazionale non è la conseguenza dell'adesione ai Trattati ed alla moneta unica, bensì il contrario. Non di meno, mettere in discussione l'Europa attuale è indispensabile per cominciare, nella pratica politica, a riaffermare quegli interessi e quella sovranità.
Sul piano più immediato, non mi pare una prova di onesta autocritica, a cui gioverebbe l'abbandono di ogni supponenza intellettuale, arrivare buoni ultimi nella comprensione di un fenomeno ed etichettare chi ti ha preceduto di “avventurismo”, come D'Attore fa con il M5S. Tanto più se, qualunque sia l'esito referendario di dicembre, è con questi “avventuristi” che questa parte della sinistra deve confrontarsi/accompagnarsi.
A sinistra il ruolo positivo del M5S comincia ad essere piuttosto riconosciuto.8
Per uscire dall'euro ma non dall'Unione, il M5S chiede un referendum consultivo. Il ricorso al pronunciamento democratico degli italiani sarebbe in sé una svolta storica rispetto a tutte le passate decisioni, prese sulla nostra testa. Ma il percorso non si prospetta per niente lineare.

Qualora la maggioranza degli italiani si dicesse favorevole all'uscita dall'euro, si dovrebbe avviare una trattativa con gli altri Paesi aderenti alla moneta unica per una soluzione concordata.
Non ritengo soddisfacente la “soluzione dei due euro”, uno per i Paesi centrali ed uno per quelli periferici, perché riprodurrebbe su una scala minore gli stessi squilibri sperimentati su scala maggiore.
La moneta unica è un prodotto artificiale e con adeguati artifici andrebbe smontata, pervenendo ad uno scioglimento “paracadutato” ed un ritorno scaglionato e programmato alle monete nazionali.
Per evitare, tuttavia, che il negoziato venga o rifiutato o tirato all'infinito, l'Italia deve dirsi disposta ad utilizzare l'art. 50 del Trattato di Lisbona che attiva l'uscita dall'Unione. Non va dimenticata l'esperienza della Grecia all'indomani del suo referendum.
Dev'essere chiaro che l'Unione Europea o diventa paritaria, cominciando dallo scioglimento della moneta unica, o non può avere un futuro accettabile.
Ma, forse, gli sviluppi politici continentali bruceranno i tempi e non lasceranno spazio a tranquille soluzioni passo dopo passo...

Note
1 Massimo Cacciari, “Senza più la sinistra, contro la destra non resta che Grillo”, intervista al Fatto Quotidiano, 10 novembre 2016.
2 In questo Blog “Politica con la P maiuscola”, luglio 2015.
3 La Legge n. 459/2001, detta Tremaglia, permette di votare a chi, residente all'estero, dimostri di avere avuto anche solo un nonno italiano. Fu approvata col voto contrario di Rifondazione e dei Comunisti italiani.
4 In questo Blog, “Una cambiale in bianco”, luglio 2016.
5 Dario Fo, “Io, populista e me ne vanto”, L'espresso, 13 agosto 2016.
6 Vedi Paolo Savona, http://www.vita.it/it/article/2015/07/13/paolo-savona-la-germania-e-il-vero-paese-inaffidabile/135908/
7 Alfredo D'Attorre, “Noi di sinistra dobbiamo chiedere scusa per l'euro”, Il Fatto economico, 26 ottobre 2016-
8 Dopo che da mesi Barbara Spinelli s'è presa questa “responsabilità”, anche Cacciari, nella già citata intervista, si mostra dello stesso parere.

Appendice
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Giorgio Lunghini

Le conseguenze di un'uscita dall'euro

«Vi è oggi un consenso unanime circa l’inadeguatezza dell’assetto istituzionale dell’Unione economica e monetaria (Uem), e soprattutto vi è una unanime e severa e fondata critica del suo armamentario di politica economica (…) Differenti sono invece le valutazioni circa le conseguenze economiche e sociali di una eventuale uscita unilaterale dell’Italia dalla Uem (...).»
«(...) il primo effetto sarebbe la svalutazione della nuova moneta nazionale. La perdita di competitività nei confronti della Germania è ora del 30%, e questa sarebbe la soglia minima; tuttavia i movimenti valutari potrebbero determinare una svalutazione del 50-60%. La conseguenza immediata sull’inflazione sarebbe di circa il 15%, e si innescherebbe una rincorsa salari-prezzi-cambio: con un tasso di inflazione nell’ordine del 20% l’anno e con una perdita salariale insopportabile.»
«Con una svalutazione del 50% salirebbe nella stessa misura il valore del debito pubblico in mano a investitori stranieri (più del 35% del totale), con fughe di capitali e default dello Stato italiano, incapace di fare fronte alle richieste di rimborso. Il valore reale del debito interno in cinque anni sarebbe dimezzato: con una perdita per le famiglie che possiedono titoli di 110 miliardi di euro, pari all’11% del loro reddito disponibile. Per le banche e le istituzioni finanziarie, che possiedono circa la metà del debito, le conseguenze sui bilanci sarebbero tragiche, (…). Oltre alla necessità di ricapitalizzazione da parte dello Stato, sarebbe necessario impedire la corsa agli sportelli dei depositanti.»
«Sarebbero inoltre necessarie misure di limitazione alla detenzione di valuta estera e di prelievo sui depositi bancari (come in Argentina con il corralito), nonché di controllo sui movimenti di capitale. I tassi di interesse salirebbero alle stelle, sia per la maggiore inflazione, sia per la crisi valutaria e bancaria, sia per il default statale (…).»
«(...) e non è detto che della svalutazione le esportazioni si avvantaggerebbero di molto (…).»
«In presenza di una svalutazione iniziale del 50%, e di una conseguente inflazione media annua del 20%, sarebbero gravissime le conseguenze sui salari reali. (…) la perdita media annua di reddito sarebbe del 10%, che si aggiungerebbe a quella sulla ricchezza mobiliare determinata dagli effetti della inflazione sui titoli di stato; e con una inflazione così elevata aumenterebbero ulteriormente le disuguaglianze nella distribuzione del reddito e della ricchezza tra lavoratori dipendenti e autonomi e tra creditori e debitori. Come conseguenza di tutto ciò, la caduta del Pil dell’Italia sarebbe pari a circa il 40% nel primo anno e al 15% negli anni successivi per almeno un triennio.»
«Costi enormi, che genererebbero disordini civili e rivolte popolari, e la storia dell’Europa insegna che da crisi di questa portata si esce a destra. In breve, (...) forse sarebbe stato meglio non entrare, ma una volta dentro è impossibile uscire.»
23 settembre 2016

Leonardo Mazzei


FESSERIE DI UN ECONOMISTA

(Risposta critica qui ristretta ai due effetti principali previsti da Lunghini.)
1) Inflazione. Mazzei osserva che il gap competitivo rispetto alla Germania dato al 30%, da cui deriverebbe l'inflazione al 20% per un numero di anni imprecisato, non è estendibile all'intera area euro, e «non si capisce da cosa spunti fuori il 20% di inflazione, se non dal manifesto desiderio di terrorizzare i lettori.» In proposito ricorda due eventi:
«Il primo è quello della famosa svalutazione della lira rispetto al marco (...) del settembre 1992. Quella svalutazione finì per attestarsi proprio sul temuto 30% di cui ci parla oggi Lunghini. Bene. Quale fu l'effetto sull'inflazione di quella svalutazione? L'inflazione media del triennio successivo (1993-1995) fu del 4,6%. (…) l'inflazione media del triennio precedente a tassi fissi (1990-1992) era stata del 5,9%! (…) E il confronto con la Germania? Uno si aspetterebbe l'esplosione del differenziale di inflazione dopo il 1992. E invece quel differenziale, che era pari al 2,7% nel triennio 1990-1992 (quello precedente la svalutazione), scende sorprendentemente all'1,6% nel triennio post-svalutazione (1993-1995) nel quale la lira arriva a deprezzarsi fino al 50% sul marco (esattamente il picco che Lunghini ipotizza oggi uscendo dall'euro), per poi scendere all'1,2% nel triennio successivo (1996-1998) quando la lira prende a rivalutarsi.»
Il secondo riguarda la recentissima svalutazione dell'euro che, in due anni, è stata del 20% sul dollaro. «Se il Nostro avesse ragione, e tenendo conto della maggiore importanza della valuta americana, con la quale si effettuano i pagamenti delle principali materie prime importate, dovremmo avere un'inflazione a due cifre. E invece siamo a zero.»
2) Pil. A conti fatti per Lunghini il Pil cadrebbe dell'85% in quattro anni.
Di fronte a questa enormità, Mazzei porta il caso argentino, da molti reputato il peggiore.
«Nel 2002, anno in cui (a gennaio) viene abbandonato il cambio fisso con il dollaro, ed il peso inizia a fluttuare, il Pil cala del 14,7%. Un calo drammatico e con gravissime conseguenze sociali, prima tra tutte la disoccupazione. Il calo, peraltro, fu anche il frutto del precipitare di una recessione già iniziata (proprio a causa del cambio fisso) nel 1999. In ogni caso drammatico, ma parliamo di un 14,7% in un paese con un'economia assai più debole di quella italiana, non certo dell'assurdo 40% che spara Lunghini per il nostro paese. (…) E in Argentina, cosa successe al Pil negli anni successivi al divorzio con il dollaro? E' presto detto: +8,7% nel 2003, +8,3% nel 2004, +9,2% nel 2005, +8,5% nel 2006, +8,7% nel 2007. Detto in altri termini: in due anni si è più che recuperata la perdita del 2002, mentre nei cinque anni successivi allo sganciamento dal dollaro la crescita cumulata è stata del 51,6%. (…) In Italia invece, rimanendo nell'euro, abbiamo un Pil inferiore dell'8% a quello dei livelli pre-crisi del 2007. Ecco le virtù della moneta unica!»
26 settembre 2016
http://sollevazione.blogspot.it/2016/09/fesserie-di-un-economista-di-leonardo.html