La
mappa del voto referendario, specchio del disagio diffuso.
Crescono
povertà e divaricazione sociale, in un Paese sempre più spinto
alla periferia d'Europa.
Un'intera
“classe dirigente” è posta di fronte ai suoi fallimenti.
Alla
ricerca delle motivazioni della schiacciante vittoria del No nel
referendum costituzionale, può servire un rapido sguardo alla
distribuzione geografica e generazionale del voto.
Dove
è più alto il disagio popolare ha prevalso più nettamente il
rifiuto, mentre ovunque si
è resa esplicita la disillusione giovanile verso lo stato di
cose presente. Di contro, dai quartieri metropolitani abitati dalle
classi ad alto reddito e ricchezza, è venuto il più elevato
consenso alle scelte ed alle riforme governative.
Non
si tratta solo e tanto della conferma di espressioni politiche già
presenti alle ultime amministrative, quanto e soprattutto del
riproporsi della questione sociale.
Interno Italia
Interno Italia
Sapevamo che negli ultimi
anni in
Italia la povertà era aumentata. Una ulteriore conferma ci è venuta
dal rapporto annuale del Censis1
[riquadro "Il rapporto 2016 del Censis"]
che,
insieme
alla più recente foto dell'ISTAT [riquadro "La fotografia ISTAT"],
ci
offrono elementi per interpretare i fenomeni oltre i dati e le
osservazioni fatte dai ricercatori.
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Il
rapporto 2016 del Censis
Secondo
il Censis in
Italia sono in condizioni di “deprivazione materiale grave” 6,9
milioni di persone (dati del 2014), 2,6 milioni in più rispetto al
2010.
Rispetto
ai coetanei di 25 anni fa, chi è nato dopo il 1980 dispone di un
reddito inferiore del 26,5%, mentre quello degli over 65 è cresciuto
del 24,3%. Molti giovani emigrano.
In
un Paese primo nell'Unione Europea per quota di ragazzi che non
studiano né lavorano (dati Istat), l'aspettativa generale è al
peggioramento,
sicché solo il 22% degli italiani intende fare investimenti, mentre
il 56,7% punta a risparmiare ed il 51,7% vuol tagliare ancora le
spese.
Tra
gli italiani che contano su rendite le aspettative sono piatte o
negative. Il 60,2% dei benestanti è impaurito dal “downsizing*
generazionale”.
Rispetto
all'inizio della crisi del 2007 la liquidità aggiuntiva ha raggiunto
la notevole cifra di 114,3
miliardi di euro
“un
valore superiore al Pil di un Paese intero come l’Ungheria”.
Insomma, l’Italia
rentier “si
limita a utilizzare le risorse di cui dispone senza
proiezione sul futuro,
con il rischio di svendere
pezzo
a pezzo l’argenteria di famiglia”.
Poiché
si tende ad andare in pensione più tardi, per effetto di carriere
contributive più lunghe, il reddito medio del totale delle pensioni
è aumentato, dal 2008 al 2014, del 5,3%.
Per
7,8 milioni di famiglie i trasferimenti pensionistici formano oltre
il 75% del reddito disponibile, mentre per 3,3 milioni sono l'unico
reddito familiare. Nondimeno sono stimati in
1,7 milioni i pensionati che hanno ricevuto un aiuto economico da
parenti e amici. Ma i pensionati non possono essere considerati solo
come recettori passivi di risorse e servizi di welfare,
perché sono anche protagonisti di una redistribuzione
orizzontale di
risorse economiche: sono 4,1 milioni quelli che hanno prestato ad
altri un aiuto economico.
http://www.censis.it/9
*Traducibile
in: ridimensionamento.
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Il rapporto Censis fa tabula
rasa della rappresentazione mass-mediale del giovane “mammone”
che non se ne va a vivere per conto proprio e, “schizzinoso”
(choosy, secondo la
Fornero), non accetta i lavori disponibili, preferendo campare sulle
spalle dei genitori. Mostra una realtà di costrizione, all'interno
della quale, tuttavia, non compare la viva esperienza umana di troppi
giovani, anche tra i “fortunati” occupati stabili, i cui rapporti
di lavoro sono tornati al tempo dei “padroni delle ferriere”.
Indubitabilmente in Italia
alle carenze del welfare state, inadeguato verso i senza
lavoro né reddito, ha cercato di porre rimedio una sorta di welfare
familiare, reso possibile da una cultura cattolica nazionale, a suo
modo solidale.
Nelle famiglie delle fasce
sociali più deboli, talvolta con disabili a carico, i figli e
nipoti, disoccupati precari2
sottopagati, vengono sostenuti, con diversa disponibilità economica,
fino a:
- sprofondare tutti insieme in grave deprivazione materiale;
- indurre anche minimi risparmi di spesa per accantonamenti cautelativi in vista di tempi peggiori;
- erodere sensibilmente risparmi e piccole proprietà accumulati nei decenni precedenti.
Coloro
che si trovano nella fascia sociale appena superiore, nella quale i
giovani dispongono di redditi sufficienti per sposarsi ed avere dei
bambini, le famiglie d'origine comunque solidalmente risparmiano,
perché percepiscono il pericolo derivante dal fatto che tali giovani
sovente sono con “negozi in avviamento” o “partite IVA” o
“privi di articolo 18” e con un mutuo casa da pagare.
Parimenti
si risparmia nelle famiglie in cui s'è puntato ad una elevata
formazione professionale dei figli, poiché per loro non ci sono
all'orizzonte ritorni ripaganti e rassicuranti.
Se,
come indicano i dati sui consumi, così ampie fasce di popolazione
non comprano perché già in difficoltà o percepiscono difficoltà e
minacce dietro l'angolo, il contenimento della spesa di queste fasce
si traduce in fuga dagli investimenti per produrre merci e servizi
loro destinati.
E qui
arrivano gli accantonamenti degli strati più ricchi, collocati nel
collo ristretto della “pera sociale”, immagine contemporanea
della distribuzione di redditi e ricchezza, in cui la stragrande
maggioranza, comprese le classi medie di consumo, è schiacciata
verso il basso. I ceti situati nel collo della “pera”, pur
nutrendo il florido mercato del lusso, accumulano in posizione di
reali rentiers. Come le
altre componenti sociali mancano della famosa “fiducia”, ma nel
loro caso questa mancanza li spinge ad una comoda surplace, in
attesa di tempi meno rischiosi.
In
sintesi, l'aspettativa al peggioramento è stata tanto generale da
determinare, dal 2007 ad oggi, una montagna di risparmio aggiuntivo
che ha superato i 114 miliardi
di euro.
Il
rapporto del Censis chiarisce anche l'effettivo stato in cui versano
i pensionati, dipinti spesso come una massa di privilegiati e
contrapposti, per tagliare indistintamente le loro “rendite”, ai
giovani.
Tra i
pensionati più poveri, una parte significativa tira avanti con
l'aiuto di parenti ed amici. Un'altra, in posizione medio-bassa e
media, regge la protezione del welfare familiare prima
accennato.
Solo
quella in alto è in attesa di investire, quando i rischi si
ridurranno.
L'andamento
dell'indice Gini, che misura le diseguaglianze di reddito, è
inequivocabile, in particolare se paragonato ad altri Paesi
euro-mediterranei.
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La fotografia ISTAT
Rispetto al 2014, nel 2015 i residenti a rischio povertà o esclusione sociale passano dal 28,3% al 28,7%. Il rischio riguarda il 46,7 della popolazione meridionale, contro il 24% al Centro ed il 17,4% al Nord.
Sul reddito equivalente totale il 20% più ricco delle famiglie percepisce il 37,3%, il 20% più povero solo il 7,7%.
Dal 2009 al 2014 il reddito in termini reali cala più per le famiglie appartenenti al 20% più povero, ampliando la distanza dalle famiglie più ricche il cui reddito passa da 4,6 a 4,9 volte quello delle più povere.
L'indice Gini, che misura la diseguaglianza di distribuzione del reddito, colloca l'Italia (0,324) tra i Paesi UE del Mediterraneo appena prima di Cipro (0,336), Portogallo (0,340), Grecia (0,342) e Spagna (0,346).
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Interno
Europa
L'Osservatorio
Minghetti dell'Istituto milanese Bruno Leoni aggiorna periodicamente
un suo indicatore sintetico (Super-indice) a misura del
divario dell’economia italiana rispetto ad altri Paesi comparabili
nell’Unione Europea.
Tale
misura è basata su alcune importanti dimensioni macroeconomiche:
- tasso di crescita del PIL in termini reali;
- tasso di disoccupazione;
- rapporto tra deficit del bilancio statale e PIL;
- rapporto tra debito pubblico e PIL;
- rapporto delle partite correnti rispetto al PIL.
Al
di là di ogni critica alla composizione del Super-indice Minghetti,
dobbiamo prendere atto che
i fautori del “libero mercato” dell'Istituto Leoni qualcosa di
rilevante ci dicono.
Attestano
che l'economia italiana diverge strutturalmente sempre più dagli
altri Paesi della zona euro e tende a sprofondare nelle differenziate
periferie d'Europa [grafico "Indicatore della distanza macroeconomica: Italia-Eurozona"].
Sorprende,
ma non troppo, che pure la Francia, la quale supponeva di appartenere
stabilmente all'asse centrale dell'Eurozona, tenda a seguire
l'Italia.
Nell'aggiornamento
del 21 novembre3
gli osservatori sintetizzano:
«Dopo
essersi notevolmente ridotto negli anni che precedettero la crisi
finanziaria del 2008, il grado di divergenza fra le economie
dell’area dell’Euro ha raggiunto e superato nell’anno in corso
i livelli precedenti all’introduzione della moneta unica.»
Se
l'euro si proponeva l'obbiettivo di conseguire una maggiore
convergenza, il suo fallimento è conclamato e riguarda il 48% della
popolazione dell'Eurozona, mentre ai “Paesi convergenti”,
Germania in testa, appartiene solo il 29% della popolazione dell'area
euro.
Ne
deriva una semplice inevitabile constatazione:
«Il
tema della incompatibilità fra il grado di disomogeneità
dell’Eurozona e il funzionamento ordinato di un’area valutaria
peculiare come l’area dell’Euro rimane dunque al centro delle
questioni europee.»
Persino
la tanto lodata immissione di denaro, il Quantitative
Easing di Mario Draghi e della Banca
Centrale Europea (Bce), si è risolta, secondo l'analista Marcello
Minenna4,
fresco dimissionario dalla giunta di Virginia Raggi al Comune di
Roma, nel far crescere il divario tra Germania ed Italia grazie
all'andamento dei tassi di interesse reali [grafico "Un divario che cresce"].
Scrive
Minenna:
«(...)
in Germania i tassi stanno sì salendo ma con molta moderazione
mentre l'inflazione è cresciuta significativamente; dunque i tassi
reali sono diventati negativi, quasi al -1%! Questo implica che
investire in Bund è più costoso di quello che sembra, mentre il
governo tedesco ringrazia per via della svalutazione del debito
dovuta alla più alta inflazione. Quindi non solo Berlino beneficia
dei tassi nominali negativi sui Bund fino a oltre gli 8 anni, ma
riceve anche un aiuto dall'inflazione.»
In Italia, invece, il tasso nominale dei buoni al 2% si somma alla deflazione (inflazione al negativo) a -0,1%, sicché il risultato è un tasso reale più elevato che fa costare il debito “sovrano” quanto nel 2012.
Nelle
condizioni date, in cui le due economie continuano a divergere, la
Germania può permettersi di opporsi all'estensione a tutto il 2017
del Quantitative Easing5,
pur guadagnandoci, per mantenere in sospeso sulla testa del nostro
Paese la spada di Damocle dell'esplosione dello spread6
e dell'intervento della Troika,
qualora l'Italia entro l'anno prossimo non adempia agli obblighi
prestabiliti in sede europea.
Ce
n'est qu'un début
Per
l'Istituto Leoni e per la corrente politica liberista la soluzione
consiste nell'attuazione delle famigerate “riforme di struttura”,
essendo la divergenza di tipo strutturale. Il governo “tecnico”
di Monti (novembre 2011 – aprile 2013) agì seccamente in tale
direzione, ma la sua pretesa “austerità espansiva” ottenne
risultati recessivi: il Pil nel 2012 scese del 2,3%.
Per i
social-liberisti, nella congiuntura attuale segnata dalla troppo
bassa inflazione interna, con punte di deflazione, e dal ristagno
economico, occorre procedere sì alle suddette “riforme
strutturali”, ma in parallelo disporre di una maggiore flessibilità
di spesa pubblica in deroga alle “compatibilità di bilancio”
fissate dai Trattati. Il governo Renzi ha agito su questa linea
ambigua e di piccolo cabotaggio, combinando misure strutturali come
il Jobs Act e bonus per il rilancio dei consumi. Ma la
ripresa si è impantanata in insignificanti zero virgola, mentre
crescevano povertà e divaricazioni in Italia e tra Paesi
dell'Eurozona.
Non
disponendo delle leve macroeconomiche di autogoverno (le potestà
monetaria, valutaria e di bilancio) e
continuando a soffrire nell'euro e nel “rispetto” dei Trattati,
l'Italia appare risucchiata in una palude ristagnante: i più vengono
“sommersi” o minacciati di sprofondare verso il basso, allorché
tra i “salvati” un ristretto numero continua a trarne vantaggio.
Il No
popolare ha messo in chiaro che con l'austerità dichiarata, o di
mezza misura retorica, la maggioranza non vuole andare avanti.
Ma
l'ammissione della sconfitta del governo Renzi non contempla
l'ammissione del fallimento delle politiche che ne sono alla fonte e
di un'intera “classe dirigente”, la quale da anni agisce in
sintonia d'interessi con le oligarchie economico-finanziarie e con i
poteri accentrati in Europa.
Conforta
il fatto che, nel difficile momento, continueremo a disporre della
Costituzione del 1948. Un ambito più propizio per risolvere la lotta
in corso a favore della democrazia e delle classi popolari, senza le
quali essa non esiste e non può vivere.
Note
1
Censis, Centro Studi Investimenti
Sociali, 50° Rapporto sulla situazione sociale del Paese/2016.
2
Tra loro il “popolo dei vouchers”
che comprende un milione e 400 mila persone, in maggioranza sotto i
35 anni.
3
http://www.brunoleoni.it/superindice-ibl-%E2%80%93-nota-di-aggiornamento-n-5.
4
Marcello Minenna, “Perché siamo tornati a fare i conti con lo
spread”, Corriere Economia, 28 novembre 2016.
5
Il
capo della Bundesbank, Jens
Weidmann,
ha votato contro l'estensione del Quantitative
Easing
deciso dalla Bce il 9/11/2016.
6
Differenza
o “allargamento” (spread
in
inglese) di rendimento tra i titoli di Stato (come i BTP) italiani e
quelli tedeschi (“Bund”)
giudicati tra i più affidabili. Al rialzo dello spread
corrisponde una maggiore spesa per interessi sul debito pubblico.