martedì 31 dicembre 2019

Sardine in acqua dolce ed "istruiti" di sinistra



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Sardine in acqua dolce

ed “istruiti” di sinistra



Il movimento delle Sardine è insieme la sua piazza, le idee espresse da chi l'ha convocata e quelle dei partecipanti, un fenomeno politico in divenire.
Per comprenderlo non serve l'approccio “dietroquintista” che lo liquida come una subdola manovra del PD, volta a rilanciarne l'immagine elettorale, mentre trascura l'emergere di una crescente insofferenza alle manifestazioni di xenofobia e razzismo.
Gli organizzatori delle Sardine non affidano ai loro messaggi i classici “contenuti” politici, sicché, rilevandone l'assenza, alcuni hanno sentenziato la vacuità del movimento ed altri hanno chiesto una sospensione di giudizio. Il movimento sarebbe ancora troppo giovane per essere valutato politicamente e, soprattutto, animato da leaders ancora troppo giovani. Osservazione, quest'ultima, piuttosto incomprensibile se consideriamo che, sulla scena politica d'oggi, Luigi Di Maio, capo della forza di maggioranza relativa in parlamento, ha 33 anni ed il leader delle Sardine, Mattia Sartori, 32.
A mio avviso, la forma comunicativa per “valori” e l'insistente richiamo alle corrette modalità con cui il dibattito pubblico dovrebbe svolgersi, via social o tramite media tradizionali, costituiscono in sé già espliciti portati politici a cui l'analisi può fare riferimento. In parallelo, essa deve però tener conto della composizione del movimento, sia sociale che ideale.
Infine, qualora si guardi ad altri Paesi dell'Occidente ricco, il fenomeno Sardine può essere letto nel contesto di una generale tendenza alla ridefinizione della politica. In essa un ruolo particolare lo svolgono gli appartenenti ai livelli di istruzione medio-alti, abitanti nelle grandi città, non solo giovani. Proprio come i partecipanti alla piazza delle Sardine, espressione di un mondo di “istruiti” di sinistra e centro-sinistra, alla ricerca di rinnovata identità politica nel voler esserci.
Le Sardine hanno cominciato col contendere la piazza alla Lega di Salvini, nel rifiuto dell'odio e delle fake del “politicamente scorretto”. Ancora non sappiamo dove andranno, ma possiamo capire dove sono.
Per quanto riguarda le idee dei promotori, mi sono attenuto a 3 comunicazioni ufficiali [riportate integralmente qui sotto], nell'ordine:
  • Benvenuti in mare aperto”, il manifesto col quale è stata convocata la prima manifestazione di piazza a Bologna, il 21 novembre.
  • I “1o Comandamenti”, la mappa dei valori che ha chiamato alla manifestazione nazionale di Roma del 14 dicembre, a piazza SanGiovanni.
  • II “Programma in 6 punti”, elaborato dal congresso tenutosi in coda a piazza San Giovanni e presentato dal leader Mattia Sartori.
Ho cercato di leggere le 3 comunicazioni in stretta correlazione. Per poi andare al fenomeno Sardine nel suo complesso.



 “Benvenuti in mare aperto” 
Cari populisti, lo avete capito. La festa è finita.
Per troppo tempo avete tirato la corda dei nostri sentimenti. L’avete tesa troppo, e si è spezzata. Per anni avete rovesciato bugie e odio su noi e i nostri concittadini: avete unito verità e menzogne, rappresentando il loro mondo nel modo che più vi faceva comodo. Avete approfittato della nostra buona fede, delle nostre paure e difficoltà per rapire la nostra attenzione. Avete scelto di affogare i vostri contenuti politici sotto un oceano di comunicazione vuota. Di quei contenuti non è rimasto più nulla.
Per troppo tempo vi abbiamo lasciato fare.
Per troppo tempo avete ridicolizzato argomenti serissimi per proteggervi buttando tutto in caciara.
Per troppo tempo avete spinto i vostri più fedeli seguaci a insultare e distruggere la vita delle persone sulla rete.
Per troppo tempo vi abbiamo lasciato campo libero, perché eravamo stupiti, storditi, inorriditi da quanto in basso poteste arrivare.
Adesso ci avete risvegliato. E siete gli unici a dover avere paura. Siamo scesi in una piazza, ci siamo guardati negli occhi, ci siamo contati. È stata energia pura. Lo sapete cosa abbiamo capito? Che basta guardarsi attorno per scoprire che siamo tanti, e molto più forti di voi.
Siamo un popolo di persone normali, di tutte le età: amiamo le nostre case e le nostre famiglie, cerchiamo di impegnarci nel nostro lavoro, nel volontariato, nello sport, nel tempo libero. Mettiamo passione nell’aiutare gli altri, quando e come possiamo. Amiamo le cose divertenti, la bellezza, la non violenza (verbale e fisica), la creatività, l’ascolto.
Crediamo ancora nella politica e nei politici con la P maiuscola. In quelli che pur sbagliando ci provano, che pensano al proprio interesse personale solo dopo aver pensato a quello di tutti gli altri. Sono rimasti in pochi, ma ci sono. E torneremo a dargli coraggio, dicendogli grazie.

Manifesto delle Sardine del 21 novembre 2019

 10 Comandamenti 
La Mappa dei Valori delle 6.000 sardine:
Pubblicati da
Il Fatto Quotidiano,
"Il salto delle Sardine",
14 dicembre 2019.
1° I numeri valgono più della propaganda e delle fake news.
2° È possibile cambiare l’inerzia di una retorica populista, utilizzando arte, bellezza, non violenza, creatività e ascolto.
3° La testa viene prima della pancia, o meglio, le emozioni vanno allineate al pensiero critico.
4° Le persone vengono prima degli account social. Perché? Perché sappiamo di essere persone reali, con facoltà di pensiero e azione. La piazza è parte del mondo reale ed è lì che vogliamo tornare.
5° Protagonista è la piazza, non gli organizzatori. Crediamo nella partecipazione.
6° Nessuna bandiera, nessun insulto, nessuna violenza. Siamo inclusivi.
7° Non siamo soli, ma parte di relazioni umane.
8° Siamo vulnerabili e accettiamo la commozione nello spettro delle emozioni possibili, nonché necessarie. Siamo empatici.
9° Le azioni mosse da interessi sono rispettabili, quelle fondate su gratuità e generosità degne di ammirazione. Riconoscere negli occhi degli altri, in una piazza, i propri valori, è un fatto intimo ma rivoluzionario.
10° Se cambio io, non per questo cambia il mondo, ma qualcosa comincia a cambiare. Occorrono speranza e coraggio.
     Programma in 6 punti 
    elencati da Mattia Sartori dopo il congresso di San Giovanni:
    1. Pretendiamo che chi è stato eletto vada nelle sedi istituzionali a lavorare.
    2. Che chiunque ricopra la carica di ministro comunichi solamente nei canali istituzionali.
    3. Pretendiamo trasparenza dell’uso che la politica fa dei social network.
    4. Pretendiamo che il mondo dell’informazione traduca tutto questo nostro sforzo in messaggi fedeli ai fatti.
    5. Che la violenza venga esclusa dai toni della politica in ogni sua forma. La violenza verbale venga equiparata a quella fisica.
    6. Abrogare il decreto sicurezza.
Mattia Sartori
Inquietudini da social
Appare sorprendente la generale eco mass-mediale data alle Sardine, tanto da dedicare una diretta televisiva RAI alla loro prima manifestazione nazionale di Roma. Chi non è nuovo alla frequentazione dei movimenti sa quanto spesso i grandi media siano stati ostili al loro primo manifestarsi, magari oscurati o velenosamente rappresentati all'opinione pubblica.
Tuttavia, nell'occasione è emerso altro rispetto agli ordini di redazione ed agli interessi degli editori. Il “giro” degli addetti alla informazione tradizionale, reso assai inquieto dall'avanzare dei social e della comunicazione web che ne minacciano ruolo ed importanza, si è sentito in immediata consonanza di aspettative con i promotori delle Sardine che vogliono regolare i flussi delle notizie.
Un comun sentire rafforzato dal fatto che le Sardine, sorte a novembre in ribellione alle fake news dei social abbiano annunciato a dicembre il loro “Programma in 6 punti”, focalizzato proprio sulla comunicazione.
Poiché anche le Sardine si avvalgono dei social network, si introduce una distinzione implicita tra vero e falso all'interno dello stesso canale mediatico: mentre la piazza di Salvini si raduna attorno ad una retorica alimentata da menzogne fake, quella delle Sardine viene mobilitata in base alla verità. Una distinzione semplice e persino ingenua, se non fosse corredata da quanto affermato nel “Programma in 6 punti”, incentra-to sull'uso ed il controllo dei social network. Temi non ritenuti “divisivi”, benché abbiano suscitato qualche severa presa di posizione critica.1
Relazione transitiva
In particolare la critica mi pare doverosa quando i promotori delle Sardine chiedono che «La violenza verbale venga equiparata a quella fisica» (punto 5), e pretendono «trasparenza nell'uso che la politica fa dei social network» (punto 3).
Chi stabilirà dove sussista violenza verbale ed insufficiente trasparenza? Chi deciderà quali livelli di violenza verbale corrispondano a violenza fisica? E a quali livelli di violenza fisica? Con quali conseguenze, visto che la violenza fisica è punibile come reato penale?
Nell'ordinamento giuridico italiano è previsto il reato di apologia del fascismo.2 Reprime non semplicemente una violenza verbale o il ripresentarsi di tipiche forme rappresentative del fascismo, ma le associa alla ricostituzione pratica del partito fascista. Insomma, non solo parole e gesti.
Incurante della leggi italiane e del diritto internazionale, della lotta ai “fomentatori di odio” tramite social si è già fatto carico Mark Zuckerberg. Ha disposto l'oscuramento su Facebook sia di “Primato nazionale” di Casa Pound, sia delle pagine solidali con la resistenza curda, chiudendo la pagina di Al-Fatah, il partito del presidente dell'autorità palestinese Abu Mazen.
Quanto alla trasparenza ed alla connessa identificazione delle fake news, a livello europeo esistono forti spinte verso una regolamentazione, la quale, inevitabilmente, passa per la selezione di una verità ufficiale ed istituzionale alla quale attenersi...
Se violenza fisica = violenza verbale e violenza verbale = populismo, per relazione transitiva abbiamo: violenza fisica = populismo. Un approdo tutt'altro che privo di “contenuto” politico, poiché, de facto invoca una norma penale repressiva del populismo a partire dalle sue modalità comunicative. Pertanto, mettere le braghe strette alla libertà di comunicazione più o meno social, significa introdurre una censura, ponendola nelle mani di élites dominanti che non vedono l'ora.
In particolare, del citato articolo di Barbara Spinelli riporto una conclusione sul punto 6: «pretende l'abrogazione dei decreti Sicurezza. È l'unico punto sensato, ma se la pretesa sulla violenza contenuta nel numero 5 (applicata in vari ambiti: media online e offline, manifestazioni pubbliche etc.) viene inserita nei decreti riscritti, è meglio forse tenersi quelli di Salvini.»
Di contro, assistiamo ad una “strana” sottovalutazione degli effetti pratici dei decreti Sicurezza sui conflitti sociali e sindacali. I pastori sardi che protestavano contro il prezzo del latte troppo basso, si sono visti recapitare un avviso di garanzia per blocco stradale.3 A Prato, 21 lavoratori, in prevalenza pachistani, in lotta contro il lavoro nero e per essere pagati, sono stati multati di 4.000 euro ciascuno, sempre per blocco stradale.4
Nel caso di Facebook e dei decreti Sicurezza, si tratta di esempi di limitazione fascistizzante delle libertà democratiche e di pratico razzismo sociale, che mostrano preoccupanti convergenze tra protagonisti apparentemente lontani tra loro.
Roma, 14 dicembre 2019
Populista!
In barba ad ogni discussione sulla natura popolare del populismo, alla quale partecipò anche Dario Fo,5 i promotori delle Sardine sono piuttosto sbrigativi. Per loro: populismo = Lega.
Alla «retorica populista» contrappongono «arte, bellezza, non violenza, creatività ed ascolto» (2° Comandamento). Questi ultimi, agitati come valori astratti, possono bastare a «cambiare l’inerzia» di quella retorica, senza dir nulla a cosa di concreto s'appigli?
Inoltre, chi è in grado di comprendere appieno tali valori nella loro astrattezza, se non gli “istruiti” al pensiero critico?
Quanto all'ascolto, mi pare emerga piuttosto una propensione a tapparsi le orecchie, dal momento che la Lega è inascoltabile e tutte le manifestazioni di populismo vengono ricondotte alla Lega.
L'assioma di partenza “populismo = Lega”, quando il M5S ed una seppur piccola parte della fu sinistra sono definiti “populisti”, mi pare un avvilente atto di subalternità ideologica alle oligarchie dominanti italiano-europee. Riecheggia, per chi ha vissuto altre stagioni politiche, la famigerata teoria degli “opposti estremismi”, ricorrente negli oscuramenti decisi da Facebook. Racchiude una sconcertante lettura della nostra Costituzione.
Non insisterò oltre su questo profluvio di relazioni transitive. Mi limito a sottolineare quanto il linguaggio “politicamente corretto” veicoli preoccupanti incitamenti a limitare alcune libertà fondamentali.
Io “testa”, tu “pancia”
Si rivolge un’accusa a coloro che solleticano la “pancia”, invece di ragionare con la “testa” (3° Comandamento). Un’accusa da “istruiti", di chi si reputa capace, in quanto acculturato, di allineare le proprie «emozioni» «al pensiero critico», mentre invece - è sottinteso - al populismo un simile passaggio sarebbe inibito. Un atteggiamento mentale tipicamente aristocratico (l’aristocrazia degli “istruiti”), per il quale il populismo accalappia il popolo perché, ahinoi, questi “ragiona con la pancia”.
E se, invece, così si esprimesse la rabbia di tante, per così dire, "pance vuote”?
Nè sarebbe di consolazione scoprire che con rabbia non si esprimono solo gli esclusi, ma pure gli impoveriti ceti di medio reddito, nonché settori della piccola imprenditoria minacciata o declassata dalla crisi che attanaglia il BelPaese, così splendidamente immerso in arte, bellezza e creatività.
Forse varrebbe la pena di cogliere le ragioni sociali del populismo, sulle quali la retorica leghista cerca di fare leva, invece di criticarne i soli modi sguaiati, nascondendosi la realtà dietro un dito accusatore.
Si dà il caso che proprio in questi giorni le piazze di Francia siano invase da una protesta dai toni populisti in difesa delle pensioni, dopo che per mesi hanno accolto la ribellione dei gilets jaunes. Seguendo la traccia dei promotori delle Sardine, il dileggio e l'insulto dei manifestanti francesi verso il governo Macron sarebbe materia per tribunali...
Rispetto ed ammirazione
Le azioni mosse da interessi vanno guardate con rispetto, riservando l’ammirazione a quelle fondate sulla gratuità e sulla generosità (9° Comandamento).
Ma non tutti gli interessi meritano uguale rispetto. Anzi, alcuni di essi non sono degni affatto di rispetto, quando, in strettissima minoranza (1%), si avvalgono di un regime di sfruttamento architettato a loro misura per arricchirsi a sistematico detrimento degli interessi delle altre parti, la maggioranza della società. Una parte della quale è nella povertà assoluta. Possibile che i promotori delle Sardine non abbiano mai sentito parlare di Occupy Wall Street, il movimento contro le disuguaglianze sociali che nel 2011 individuò negli interessi della finanza l'avversario del 99% dell'umanità?
Di contro, gratuità e generosità non costituiscono un merito particolare, se, cullandosi nella propria illusione filantropica, non schiudono l'impegno all'empatia con le lotte contro le ineguaglianze sociali. Di ciò è consapevole anche quella parte della carità cristiana che non ritiene bastevole la rivoluzione nell'intimo personale, quando trascuri la giustizia sociale.
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Illusione filantropica
«L'altro fattore che contribuisce a legittimare i miliardari è ciò che si può chiamare “illusione filantropica”. (…) In numerosi settori, come la cultura, i media e la ricerca, ci si può inoltre disporre al ricorso a una diversità di finanziamenti, pubblici e privati, nel quadro di una struttura decentrata e partecipativa. Il problema è che il discorso filantropico è a volte messo al servizio di una ideologia anti-Stato particolarmente pericolosa. È specialmente il caso dei paesi poveri, dove la elusione dello Stato da parte della filantropia (e talvolta tramite l'aiuto allo sviluppo dei paesi ricchi) partecipa alla sua pauperizzazione. (…)
Il secondo aspetto dell'illusione filantropica è la sua debole dimensione partecipativa e democratica. In pratica, i doni sono estremamente concentrati tra i più ricchi, che beneficiano spesso di vantaggi fiscali aggiuntivi eccezionalmente importanti. Sicché di fatto le classi popolari e medie finiscono col sovvenzionare con le loro imposte le preferenze dei più ricchi. Ciò assomiglia a una nuova forma di confisca del bene pubblico e di deriva censitaria. (...)»
Thomas Piketty, “Capital et Idéologie”, Seuil, settembre 2019, pag. 832 – Traduzione mia.
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Nella città reale
Nella narrazione degli organizzatori delle Sardine, la Piazza è sospesa in una città fantasma, priva del Palazzo, senza barrio alto e barrio basso.
Intanto, nella vita della città reale, a coloro che sono già stretti nel barrio basso si chiede di stringersi ancor più nell'accoglienza per essere meritevoli d'ammirazione. Pazienza se i loro abitanti ne possono oltremodo patire, essendo la loro comunità di destino in preda a mero interesse.
Viceversa, è ricorrente che i comodi residenti nel barrio alto, nonché abitudinari del Palazzo, facciano la morale a quelli che si lamentano di vivere in troppe ristrettezze, delle quali gli accolti, nuovi arrivati, ricattati ed ancora spaesati, tutto sopportano. Salvo venire repressi quando protestano in quanto lavoratori sfruttati, come nel caso degli immigrati pachistani di Prato.
Comunque è detestabile chi, pur avendo molte e gravi ragioni per lamentarsi, lo faccia in modi così poco urbani, magari prestando orecchie alle lusinghe di cattivi consiglieri.
Sarebbe politica, con la P maiuscola, contrastare la retorica di quei portatori di discordia nel barrio basso tra già residenti e nuovi arrivati, svelando le loro vere finalità. Ma ciò comporterebbe il rischio che si faccia largo l'idea di abbattere le dorate porte del barrio alto e l'intero muro divisorio eretto in difesa dei privilegi di chi vi abita, mettendo altresì l'assedio al Palazzo della loro Ragione.
Davvero un bel problema per la P maiuscola!
Forse per le Sardine stare nella città fantasma, evitando quella reale, è solo un modo per non sentirsi né di qui né di là; un volersi ricavare un luogo intermedio, nel quale lo spettro delle relazioni umane non deve schiudersi empaticamente a quelle ampie sociali, esponendo a dura verifica la propria illusione filantropica.
La Resistenza imbalsamata
Senza dubbio il successo delle Sardine è dovuto alla convocazione di un popolo che ha conteso la piazza al pubblico plaudente ai comizi di Salvini. Ci siamo anche noi e siamo di più, slegati dalla Lega!
Al risveglio di questo popolo, di sinistra e di centro-sinistra che si mette in movimento, non possiamo che plaudire, soprattutto quando, riconoscendosi antifascista ed antirazzista, evoca la memoria della Resistenza e canta “Bella ciao” insieme all'inno nazionale di Mameli.
Un team di analisti6 ha suggerito che il richiamo alla Resistenza fa di ogni piazza delle Sardine una sorta di 25 aprile, declinato al presente politico. Un giusto suggerimento, da completare.
Nel nostro Paese i 25 aprile non hanno dato, nei decenni che ci separano dalle vicende belliche, una versione unica della Resistenza, anche perché vissuti nella stretta attualità politica. Al contrario, nei cortei e nella piazza conclusiva, si sono confrontati, talvolta aspramente, diverse visioni del fascismo e dell'antifascismo.
Per esempio, negli anni che seguirono le stragi fasciste, il palco, riservato al racconto istituzionale di quelle stragi, venne contestato da una buona parte dei manifestanti che accusavano il governo ( “Valpreda è innocente!”, “la strage è di Stato!”) di coprirne benevolmente i mandanti, utilizzando la “strategia della tensione” per fascistizzare le stesse istituzioni repubblicane e reprimere i movimenti di lotta politici e sociali. Alla faccenda, si sa, non erano estranei i servizi segreti degli alleati, che stavano behind.
D'altro canto la Resistenza fu solo l'atto finale di una lunga ed articolata lotta antifascista, affatto priva di contraddizioni. In seguito, negli anni cinquanta, l'essere stati partigiani costituiva motivo di “sospetto” ed esclusione, in un contesto di restaurazione dell'assetto economico e sociale capitalistico che del fascismo e della guerra si era nutrito...
A quali valori della Resistenza fanno riferimento le Sardine, per non disperderne la memoria?
Inoltre, cantando l'inno di Mameli, riconoscono l'esigenza di opporre al nazionalismo il patriottismo. In cosa consiste il patriottismo nell'attuale mondo globalizzato e dominato dalla finanza e dalle multinazionali?
A meno che non si voglia riproporre una Resistenza imbalsamata nella retorica delle “autorità”, queste domande esigono una risposta. Non solo perché fascismo e razzismo si inseriscono nelle spaccature sociali, facendo leva sulla disoccupazione e sulla instabilità del lavoro. Ma, primariamente, perché le forme politiche della fascistizzazione non possono essere oggi quelle vecchie e riconoscibili della camicia nera, dell'orbace e del saluto romano.
Patologie
Per non lasciare equivoci: la malattia italiana non è la Lega e la sua retorica patriottarda e razzista, bensì l'ingiustizia sociale, la povertà, la precarietà, lo sfruttamento, accompagnati dal declassamento dei ceti di medio reddito. Tutti sviluppi messi in atto dal liberalismo ed acuiti dalla insuperata crisi del 2007-2008. Sicché la lotta contro la Lega è vuoto spinto se non affronta la crisi ed il declino del BelPaese nei quali s'incista.
Poiché la Lega non ha conquistato il potere – che non è solo il governo - e, se anche ne fosse il seme, non è pianta, né fascismo compiuto, la nostra prima attenzione dovrebbe andare, qui e subito, a sottrarle il terreno sul quale prospera la sua retorica, invece di prendercela con tutte le espressioni del populismo, più o meno veicolate dai social. Ma sottrarle terreno significa entrare in collisione con i poteri oggi dominanti, l'establishment degli oligopoli finanziarizzati, sul quale le Sardine tacciono.
E questa assenza di contrasto è assai ben voluta non solo dallo stesso establishment, ma pure da quelle forze di governo della sinistra e del centro-sinistra che hanno condiviso e persino promosso il liberalismo globalizzato della diseguaglianza sociale e dell'emarginazione, sulle quali ora attecchisce il razzismo e la xenofobia.
Sardine di lago

Fino ad oggi i promotori delle Sardine sembrano preferire l'acqua dolce di un laghetto, al mare salato ed aperto al quale pur ci chiamano, non rinunciando però a bollare con durezza ogni populismo – loro effettivo bersaglio - e a voler mettere sotto controllo la comunicazione dei social, come se fosse il principale veicolo della mala informazione che infesta l'opinione pubblica.
Populisti e “istruiti”
Giunti a questo punto, per comprendere il fenomeno delle Sardine nella sua importanza,7 è necessario guardare a due aspetti interconnessi, sinora lasciati in sospeso: la composizione socio-culturale e politica dei partecipanti, ossia di coloro che si sono sentiti chiamati in causa; gli spostamenti di consenso delle parti sociali nella ridefinizione della politica in atto nel nostro Paese, come in altri dell'Occidente post-industriale.
È da escludere, anche secondo il parere di Luca Ricolfi,8 che il popolo delle Sardine rientri nella “società signorile di massa” da lui descritta, essendo questa privilegio delle classi medio-alte. Non escluderei, tuttavia, che ne sia totalmente avulso, in forza del fatto che l'accesso ai più alti livelli d'istruzione rimane una opportunità a disposizione soprattutto delle classi ricche.
Secondo la già citata ricerca dell'Istituto Noto il movimento delle Sardine è composto non solo da giovani. In prevalenza i partecipanti risiedono nelle grandi città ed appartengono ad un livello d'istruzione medio-alto. Oltre ad aver votato il PD per il 42%, il M5S per il 22% e non essersi schierato per il 15%. La motivazione a ritrovarsi «sembra il desiderio di superare tutti insieme una “crisi di identità” per prendere forza e reagire all'irrilevanza.»
Seguendo questo solco, non è fuori luogo trarre la conclusione che si tratta di una espressione della ricerca di identità di una società di “istruiti” di area progressista, ai quali viene indicato come avversario generale il populismo.
L'appello alla mobilitazione, d'altro canto e come ho evidenziato in precedenza, è rivolto: all'area progressista, in base al richiamo all'antifascismo e all'antirazzismo; alla componente sociale istruita, in base alla sua capacità non solo di distinguere il vero dal falso nella comunicazione, ma in particolare di ragionare con la “testa” invece di rimanere succube della “pancia”, nonché di comprendere bellezza-arte-creatività, allineando le emozioni al pensiero critico.
Spostamenti
La ricerca di identità avviene in un contesto di spostamenti del consenso politico, che hanno avviato una ridefinizione generale della politica pure sul piano istituzionale. Si tratta, nella fattispecie, dello spostamento di una larga fetta di operai, di lavoratori subordinati ed in generale delle classi popolari che tradizionalmente votavano a sinistra.
Thomas Piketty nel suo ultimo libro9 rende conto in molti argomentati grafici del divorzio tra una consistente parte di questa società e la sinistra istituzionale, le cui politiche hanno invece raccolto crescente consenso sia tra i più ricchi e benestanti che tra i livelli d'istruzione medio-alti, detentori di più elevato “capitale umano”.
Il fenomeno risulta evidente in Francia, negli Stati Uniti e nel Regno Unito.
In quest'ultimo Paese, alle prese con la Brexit, ne abbiamo avuto una palese dimostrazione in occasione delle recenti elezioni politiche. Il voto dei collegi della working class, tradizionalmente laburisti, a causa dell'attaccamento del Labour all'Unione europea, si è riversato sui tories di Johnson, decretandone la schiacciante vittoria. Negli Stati Uniti la candidatura di Hillary Clinton ha consegnato il voto degli Stati in crisi industriale, una volta serbatoio dei democratici, a Donald Trump. Situazione che rischia di ripetersi se il prossimo candidato dem sarà Joe Biden.
In Italia, in diversi appuntamenti elettorali, si è verificato uno spostamento nelle grandi città, con i centri votanti per il PD, divenuto minoritario nelle periferie, una volta punto di forza della sinistra. In questo panorama il M5S ha rappresentato una parziale eccezione10 nello sviluppo della tendenza. Ha temporaneamente impedito che il consenso dei più penalizzati dalla crisi e dal declino confluisse verso la destra liberista e fascistizzante, raccogliendone le istanze. Al tempo stesso ha intercettato il profondo disagio di quella parte della società istruita che appartiene al popolo delle partite IVA, al lavoro qualificato reso precario e malpagato.
A spiegare la diversità del caso italiano possono concorrere due aspetti. Per un verso, per così dire “a monte”, sull'accesso ai livelli più alti di istruzione da noi ha pesato meno, rispetto a Paesi come la Francia, gli Stati Uniti ed il Regno Unito, la pre-selezione economica e sociale derivante dalle diseguaglianze patrimoniali e reddituali di partenza. Per l'altro, per così dire a valle, la nostra più profonda crisi economico-sociale ha comportato che le stesse diseguaglianze si siano abbattute più gravemente sui laureati provenienti dalle classi medie e medio-basse, prive di “relazioni privilegiate” in grado di garantire sbocchi occupazionali stabili e ben remunerati. Il noto fenomeno della emigrazione dei “cervelli” si situa in questo contesto.
Per proseguire il suo cammino, il movimento delle Sardine dovrà darsi una struttura più ampia di quella offerta dai suoi promotori e, in qualche misura, più “autonoma” dall'input iniziale. Nel populismo potrebbe vedere delle diversità. Comunque, si troverà nella duplice condizione di spingere gli “istruiti” progressisti o al rinnovamento della politica, tramite l'ascolto ed il dialogo con le parti della società esclusa e più penalizzata, il popolo populista, o, alla spaccatura con queste parti, nel tentativo (vano?) di riconfermare la vecchia politica della seconda Repubblica.

Post scriptum
Non ho seguito l'analisi di Piketty sino ad affrontare il tema dell'ideologia meritocratica, benché in essa vi si ritrovino le categorie degli “istruiti” e del populismo. Questo per non dilatare troppo il presente articolo, coinvolgendo un argomento così complesso. Anche perché, aspetto non irrilevante, tra le Sardine l'unico riconoscimento al “merito” riguarda le azioni fondate su gratuità e generosità, in quanto degne di ammirazione.
Pertanto mi limito a portare alla riflessione del lettore lo spunto fornito dall'opera di Michael Young, brevemente ricordata nel box a seguire.
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Uno spunto di riflessione
Il sociologo britannico Michael Young ha scritto nel 1959 un libro preveggente: “1870-2013, L'Ascesa della Meritocrazia: Un saggio su Istruzione ed Uguaglianza” (The Rise of the Meritocrazy 1870-2033: An Essay on Education and Equality).*
Nel 1945 Young aveva partecipato alla redazione ed all'attuazione dell'avanzato programma sociale del Labour, partito dal quale si era allontanato negli anni '50 perché in disaccordo con le sue politiche in materia di istruzione pubblica.
Nel libro si immagina nel 2033 e, fingendosi entusiasta, ripercorre l'affermarsi nel XX secolo del principio meritocratico in ogni ambito della società, sino a stratificarla in funzione delle capacità cognitive.
In conseguenza di questa trasformazione, il partito Tory era diventato il partito dei laureati, insediato in una Camera dei Lords dal rinnovato potere.
Il Labour, invece, si era trasformato nel partito dei tecnici (techniciens), dominante alla Camera dei Comuni, ai quali si opponevano i populisti (populist), esponenti degli strati popolari resi furiosi dalla loro retrocessione socio-economica, in un mondo dove la Scienza aveva stabilito che solo un terzo della popolazione era occupabile.
Scrive Piketty che Young, essendo scomparso nel 2002, non ha potuto «constatare che la sua storia si apprestava ad essere sorpassata dalla realtà, almeno su un punto: negli anni 2000 e 2010, il Labour divenne il primo partito dei laureati, davanti ai tories.»**

* Michael Young, “L'avvento della meritocrazia”, Edizioni di Comunità, 2014 (1961).
** Thomas Piketty, “Capital et Idéologie”, Seuil, settembre 2019, pag. 832 – Traduzione mia.
Note
1 Barbara Spinelli, “Sardine, cosa non va nel programma”, il Fatto Quotidiano, 17 dicembre 2019. Spinelli si è occupata nella passata legislatura del parlamento europeo dell'uso e del controllo dei social network.
2 Art. 4 della legge Scelba, attuativa della XII disposizione transitoria e finale della Costituzione.
4 https://iltirreno.gelocal.it/prato/cronaca/2019/12/20/news/multe-ai-lavoratori-in-sciopero-protesta-il-sindacato-1.38238584
6 Sandra Cuocolo, responsabile team Analisi Politiche - Istituto Noto Sondaggi - “Più che i Girotondi evocano i cortei del 25 aprile”, il Fatto Quotidiano, 15 dicembre 2019.
7 A prescindere dalla sua “durata temporale” come singolo fenomeno.
8 Luca Ricolfi, “La società signorile di massa”, La Nave di Teseo, ottobre 2019.
9 Thomas Piketty, “Capital et idéologie”, Seuil, settembre 2019.
10 Eccezione parziale giacché anche in altri Paesi del Sud europeo sono nate nuove formazioni politiche, quali Syriza in Grecia e Podemos in Spagna, che possono essere considerate “insorgenze” analoghe al M5S.

lunedì 9 dicembre 2019

Parallele divergenti

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Parallele divergenti

Le crisi industriali italiana e tedesca, fortemente collegate, reclamano 
"cure  keynesiane” in contraddizione con i parametri di bilancio europei.

Ancora non è chiaro quale sarà lo sbocco della crisi della ex-ILVA, parte integrante della più generale crisi che coinvolge l'industria italiana.
Su scala locale e nazionale mostrano quali siano le conseguenze delle privatizzazioni e dell'abbandono del Paese al liberismo. Al contempo, evidenziano la necessità di forti investimenti pubblici in una prospettiva di sviluppo verde e sostenibile.
Non a caso pure la Germania, alle prese con una recessione industriale che mette in discussione il suo modello esportativo mercantile, si ritrova con la stessa esigenza di investimenti pubblici. È quanto sostiene anche una recente presa di posizione della Confindustria e dei sindacati tedeschi.
Sorge un problema.
Tenendo conto dei parametri dell'Unione europea, i finanziamenti in debito necessari agli investimenti, come andrebbero conteggiati? “Fuori sacco” in deroga al Patto di stabilità?
E ciò varrebbe per tutti o solo per i Paesi “diligenti” come la Germania?
Italia
Un ricatto programmato
I tavoli di crisi aziendali del Ministero dello Sviluppo Economico (MISE), a detta del ministro pentastellato Stefano Patuanelli, sono 149, attivi da parecchi anni. Alitalia compresa.
Per impatto sull'occupazione e sull'ambiente spicca il tavolo sulla ex-ILVA, affittata alla multinazionale AcelorMittal, a capitale franco-indiano.
La minacciata dismissione non è dettata dai rischi ai quali sono esposti i suoi dirigenti, privati dal parlamento di uno “scudo penale”, peraltro incostituzionale. Questo perché il piano industriale della multinazionale, oggi dato per morto, è servito essenzialmente ad aggiudicarsi la gara d'appalto, per chiudere ogni spazio alla concorrenza, seguendo la tipica logica monopolistica. Quando poi, si fosse verificato che era impossibile attuarlo, sarebbe scattato il ricatto con minaccia d'abbandono, com'è puntualmente avvenuto. Pertanto, lo scudo levato non è nemmeno un alibi, è solo un pretesto.
La furiosa ed ormai dimenticata discussione sullo scudo, se rimetterlo o meno, ha assolto ad un'unica funzione: mostrare quanto lo Stato di diritto possa venire piegato sia al diktat del più forte (la multinazionale dell'acciaio), sia ad una concezione della sovranità nazionale da Paese delle banane. Infatti, nell'occasione si sono ritrovate ancora una volta insieme gli “opposti poli” della politica nazionale, in spregio tanto della salute interna ed esterna agli stabilimenti, quanto della sovranità nazionale, proclamata a parole e piegata nei fatti alle logiche d'impresa, in un mercato che è tutto fuorché “libero”.
Così il “prima gli italiani” si conferma come un puro slogan xenofobo fascistizzante, ad uso anti-immigrati, che nasconde la sudditanza leghista al liberismo dell'impresa globalizzata. Liberismo al quale soggiace pure chi si oppone al “sovranismo”, per coprire la rinuncia alla sovranità costituzionale.

Ad AcelorMittal che attua il proprio ricatto sul breve, il governo ha risposto sul piano legale e giudiziario, con tempi però troppo lunghi per far fronte all'emergenza. Non restava che sedersi al tavolo della trattativa e rivedere il piano industriale col quale l'impresa ha vinto la gara per l'ILVA, ovvero: discutere di migliaia di esuberi;1 di uno sconto sull'affitto;2 dello scarico sullo Stato dei costi delle cosiddette “esternalità”, ossia del parallelo improcrastinabile risanamento ambientale; di finanziamenti pubblici alla riconversione produttiva interna – decarbonizzazione - con annessa partecipazione al capitale aziendale di un socio di “garanzia”.
Qualora il governo non cedesse alle pretese di AcelorMittal e, tuttavia, volesse mantenere attiva la produzione italiana di acciaio, avrebbe di fronte poche alternative alla nazionalizzazione, stante l'indisponibilità di altre imprese private a subentrare.
Con ogni probabilità, un finanziamento ad hoc, nell'ambito di una soluzione transitoria, verrebbe visto dagli occhiuti rigoristi di Bruxelles come delittuoso “aiuto di Stato”, lesiva della “libera” concorrenza del mercato unico sancito dai Trattati europei.
Tanto varrebbe mettere mano ad un più serio, fattivo ed organico ruolo dello Stato.
Un nuovo IRI
Data l'importanza dell'acciaio [vedi il riquadro dedicato a seguire] per il sistema industriale nazionale e la concomitante necessità di risolvere le altre crisi pendenti, valgano alcune osservazioni di merito.

ACCIAO

La produzione di acciaio fornisce i comparti della meccanica, così importanti per il nostro export (con un avanzo commerciale di 60,97 miliardi di euro nel 2018), degli elettrodomestici, dei veicoli, delle costruzioni e delle infrastrutture. Poiché la consegna dell'acciaio alle imprese “a valle” comporta difficoltà logistiche ed un alto costo di trasporto, non è localizzabile a grandi distanze dalle fabbriche di cui costituisce un input primario. Di contro, privarsene avrebbe pesanti conseguenze su tutto il sistema economico e chiudere Taranto aggraverebbe il disavanzo italiano nella bilancia commerciale siderurgica già di 6,76 miliardi di euro nel 2018.
Per i dati sull'avanzo ed il disavanzo commerciale vedi: https://borsaefinanza.it/i-disavanzi-commerciali-costano-allitalia-il-3-del-pil/.

Giacché di fatto lo Stato è chiamato a farsi carico del disastro ambientale e dei costi di riconversione (dal carbone) della siderurgia, per preservare la sicurezza del lavoro e l'occupazione, insieme alla salute pubblica, non può disinteressarsi delle produzioni connesse e dei relativi problemi di trasporto.
Al contrario, ha l'occasione per mettere in atto la tanto invocata economia circolare e verde, proprio a partire da una produzione che ha mostrato un così forte impatto ambientale, della quale fare a meno, parimenti, costituisce un grave vulnus all'economia locale e nazionale. In altri termini, si potrebbe dare vita ad un Nuovo Istituto di Ricostruzione Industriale (Nuovo IRI),3 facendo tesoro di pregi e difetti di quello vecchio, azzerato dalle privatizzazioni che così grave e tragico danno hanno arrecato a tutto il Paese.4

Ovviamente la scelta chiama in causa l'agibilità di una simile intrapresa in rapporto all'Unione europea, ai dispositivi del mercato unico e della moneta unica, ed ai connessi vincoli di bilancio sui finanziamenti in debito.
In buona sostanza: gli investimenti pubblici e un rinnovato ruolo dello Stato in economia entrano il collisione col perdurante liberismo e con le istituzioni dell'Eurozona e dell'Unione europea, sorte nella sua logica ed a suo presidio.
In simili circostanze, assume grande rilievo quel che accade nella ex locomotiva d'Europa.
Germania
Zero nero
Sulla scorta di uno studio dell'Istituto tedesco di economia di Colonia e dell'Istituto di ricerca macro-economica della Fondazione Boeckler, la Confindustria (BDI) ed i sindacati (DGB) germanici hanno avanzato una richiesta di investimenti pubblici per 450 miliardi di euro in 10 anni, dal 2020 al 2030. La richiesta comprende una riforma sul vincolo di pareggio di bilancio, al quale devono attenersi per legge sia il governo federale, sia i Länder ed i Comuni.5 Il cosiddetto “Die schwartze Null”, lo “Zero nero”.
Si tratta di una preoccupata reazione ad una stagnazione che va tramutandosi in recessione. Nel secondo trimestre dell'anno in corso il Pil della Germania è diminuito dello 0,1%, salendo appena dello 0,1% nel terzo trimestre.
«La produzione industriale tedesca è calata ad ottobre dell'1,7% contro una previsione di una crescita dello 0,1%. E' quanto risulta dai dati dell'ufficio di statistica tedesco. Il calo della produzione sull'anno precedente è del 5,3% contro una previsione del 3,6%.»6 [Vedi grafico qui sotto.]

A cosa è dovuta la crisi della Germania?
Dando uno sguardo all'andamento della bilancia commerciale si direbbe che il modello esportativo, su cui si basa il primato tedesco, incontri crescenti difficoltà. Nelle previsioni (ormai obsolete?) per il biennio 2019-2020 le esportazioni crescono meno delle importazioni. Inoltre incombono le conseguenze dei dazi voluti da Donald Trump, l'instabilità generata dallo scontro commerciale Usa-Cina e dalla Brexit.
Pertanto, va rilanciata la spesa pubblica ed il mercato interno.
Secondo i confindustriali tedeschi, là dove le imprese private non trovano remunerazione per i propri investimenti, dovrebbe intervenire lo Stato. In particolare con piani a lungo termine per le strutture digitali a banda larga, strade e ferrovie, la transazione energetica dal carbone, educazione e formazione.
Una richiesta di tipo “keynesiano”, avvalorata dai dati ultimi di ottobre.
Correlazioni
La locomotiva ed il vagone
Se la locomotiva Germania si ferma, o addirittura arretra, cosa può fare il vagone Italia al traino?
Dopo anni in cui ci siamo messi al seguito del modello esportativo tedesco, divenendo sempre più su-fornitori della sua macchina industriale, alla preoccupazione iniziale subentra un certo panico.
Ci si poteva vantare dei nostri semilavorati, assemblati in Germania. Ma che ce ne faremo del loro “alto valore aggiunto”, se “i cannoni” di BMW, Volkswagen, Bosch e Siemens hanno le polveri bagnate, ?
Appare a rischio il livello d'interscambio che nel 2018 aveva superato i 128 miliardi di euro. Sono coinvolti i settori dell'export italiano in Germania, quali: meccanica strumentale, metalli, mezzi di trasporto, componentistica auto, chimica farmaceutica.
Eppure l'esaltazione del nostro export “dimentica” troppo spesso un dato ulteriore. La Germania si è avvantaggiata di un tasso di cambio debole e favorevole, mentre l'Italia è stata sfavorita da un tasso di cambio forte. Nei 15 anni successivi all'introduzione dell'euro, la differenza tra export ed import nei confronti di Berlino ha raggiunto -227 miliardi dollari, quando nei precedenti 15 anni si era attestata a -69 miliardi.
Una minima riflessione su quanto ora sta accadendo a livello internazionale, dovrebbe indurre l'Italia ad adottare finalmente una politica industriale ed economica che manca da decenni. Essa dovrebbe puntare a sviluppare maggiormente il mercato interno in direzione green e delle produzioni finite, senza delegarle alla “potenza di fuoco” altrui.
Nel contempo deve evitare l'ampliarsi delle dicotomie economico-sociali in seno all'Unione europea...
Vengo anch'io... No, tu no
L'appello di Confindustria e sindacati tedeschi fa seguito ad altri inviti ad una ripresa degli investimenti pubblici e del ruolo dello Stato in economia, manifestatisi in Germania nel periodo estivo, in seguito ai primi sintomi della recessione. È sorto il problema se derogare o meno dai patti di bilancio e debito, come nella già descritta situazione italiana. A tale proposito assumono un particolare interesse le interviste di “Open.online” ad alcuni economisti, risalenti allo scorso agosto.7
Per Sergio Cesaratto: «Forse sono troppo ottimista ma questa iniziativa potrebbe rappresentare un piccolo cambiamento di mentalità in una direzione più keynesiana»; aggiungendo: «Un piccolo segno nella direzione giusta perché in Germania debito e peccato sono la stessa parola, e questo precetto dovrebbe cambiare».
Vladimiro Giacché osservava: «Questo tipo di svolta avrà delle conseguenze forti in Europa, è un cambiamento di paradigma, a questo punto chi intendesse produrre una politica di disavanzo finalizzato a investimenti pubblici avrebbe un argomento in più».
Secondo l’economista Luigi Guiso, invece, quella di intraprendere un’azione espansiva è una mossa che la Germania compie perché, a differenza di molti altri, «se lo può permettere». «Hanno le finanze pubbliche ordinate, un livello di debito contenuto e in genere loro espandono quando ne hanno bisogno, quando lo devono fare, non espandono a casaccio».
A distanza di qualche mese da queste dichiarazioni, quando ancora oggi il tema in Germania rimane aperto, tanto da indurre Confindustria e sindacati ad avanzare le specifiche richieste poc'anzi citate, il “realismo” di Giuso sembra prevalere sull'eccessivo ottimismo di Cesaratto, fermo restando la validità del giudizio espresso da Giacché.
Ursula von der Leyen
A confermare che gli investimenti statali per l'economia green non andranno computati “fuori sacco”, cioè scorporati dal debito pubblico secondo i parametri europei, è intervenuta Ursula von der Leyen, appena insediata a capo della Commissione europea: «Non sono favorevole a scomputare dal deficit gli investimenti verdi.» «Bisogna essere coerenti nel ridurre la CO2, ma credo che sia un obiettivo raggiungibile all'interno del Patto di Stabilità.»8
Se ne deduce che pure per l'ambiente, ai fleißig, i Paesi diligenti del nucleo tedesco, verranno consentite iniziative, inibite, viceversa, ai faul, i pigri e spendaccioni Paesi mediterranei.
(Le riforme del MES e dell'Unione economica e monetaria vanno valutate anche da questa angolatura.)
Note
1 Alle prime migliaia ne seguirebbero altre.
2 La proposta di affidamento della ex-ILVA alla AcelorMittal fu ufficialmente preferita alla concorrente perché, tra l'altro, offriva un maggior canone d'affitto.
3 Il 26 novembre, il ministro Patuanelli non ha escluso un nuovo IRI. A tale proposito vedi: https://www.lantidiplomatico.it/dettnews-autostrade_alitalia_e_ilva_la_necessit_di_un_nuovo_iri/11_31529/.
4 Affidare i cosiddetti “monopoli naturali” ai privati ha avuto come effetto il degrado di tutta la rete autostradale, con tragedie non solo a Genova, e la accumulazione di enormi profitti, senza rischio d'impresa, in capo alle imprese concessionarie (Gruppi Benetton, Gavio e Toto, ecc.), garantite dalle tariffe ai caselli.
5 Uski Audino, “Ossessione del debito, sindacati e aziende contro Merkel”, il Fatto Economico, 20 novembre 2019.
8 Intervista a von der Leyen: «Perché dico no allo scorporo degli investimenti verdi dal deficit», il Sole24Ore, 29 novembre 2019.