venerdì 12 maggio 2023

Due strategie

 DUE STRATEGIE

si confrontano nel mondo globalizzato


Ucraina, Taiwan, corsa agli armamenti, guerra economica, commerciale e monetaria, “disaccoppiamento” … il mondo è scosso, terremotato da una confronto politico globale.

Siamo davanti a due definite strategie in lotta tra loro?

A tutto campo

Il colpo di Stato a Kiev del febbraio 2014 ha scatenato una guerra civile interna, che l'invasione russa, otto anni dopo, ha trasformato in guerra tra Russia ed Ucraina.

La riapertura da parte statunitense della contesa su Taiwan, concomitante con il progetto di estensione della Nato dall'Europa all'Estremo Oriente, può portare ad un'altra guerra che, congiunta a quella in Ucraina, avvicinerebbe ad un conflitto militare generalizzato. Pechino ha annunciato di voler reagire con durezza alla eventuale riproduzione dello “schema ucraino” su Taiwan, ma non abbandona la via del ritorno in tempi lunghi della “provincia ribelle” in seno alla madre patria.

Dopo aver rimesso in discussione la sovranità della Cina sull'isola - da decenni le relazioni con Pechino si sono basate sul riconoscimento dell'esistenza di “una sola Cina” -, cosa possa indurre Washington a raddoppiare i fronti dello scontro militare è materia controversa. Sul punto, come su altri, persistono forti divergenze interne, che hanno impedito sinora una chiara definizione della strategia globale degli Stati Uniti.

Intanto la corsa agli armamenti riposiziona le economie del campo occidentale, favorendo il complesso militare industriale statunitense, e si acutizza la contrapposizione a tutto campo, in particolare sul lato economico-monetario.

Arroccamenti

Traballa la posizione del dollaro moneta universale, la cui difesa, per molti analisti, è stata all'origine dell'interventismo militare statunitense in Medio Oriente ed in Libia.

Inconvertibile in oro dal lontano 1971, il dollaro non è più retto dal suo netto prevalere negli scambi e nei flussi di capitale. Mano a mano che intere aree del pianeta mostrano di poterne fare a meno, la derivante rendita per gli States si riduce.

In difesa della propria supremazia monetaria, la segretaria al tesoro Janet Yellen punta su un'alleanza sistemica tra banche centrali amiche, unite nella moneta elettronica “Unicoin”.

Si tratta di un arroccamento, al quale, per avere successo, deve corrispondere una ripresa di controllo delle catene del valore in “disaccoppiamento” sia dalla Russia che dalla Cina.

Il “disaccoppiamento” (decoupling) delle catene della fornitura (supply chains), già in atto, investe le principali fonti di energia e di materie prime, i semilavorati ed i prodotti finiti.

Attuata dagli inizi degli anni Ottanta dello scorso secolo, la globalizzazione neo-liberista aveva permesso alle economie occidentali di uscire dalla stagflazione in cui si erano impantanate nei Settanta. Il coinvolgimento della Cina, tuttavia, ha consentito a quest'ultima di crescere fino a mettere in discussione i rapporti di forza preesistenti. Mentre il “Dragone” diveniva la “fabbrica del mondo”, le economie dei Paesi ricchi d'Occidente si finanziarizzavano, a scapito della propria base produttiva interna, oltre ad avvantaggiarsi di una divisione internazionale del lavoro che li poneva, oltremodo “terziarizzati”, nella fascia superiore.

Ora gli Stati Uniti adottano politiche protezionistiche, ma il loro sistema finanziarizzato entra in contraddizione con il voluto “disaccoppiamento”, che implica un riposizionamento in casa o nelle vicinanze, delle attività industriali, in tempi brevi ed in condizioni efficienti.

Da un canto, i tempi medi e lunghi del decoupling dalla Cina non coincidono con l'urgenza di varare il nuovo sistema monetario. Pur accelerata [vedi grafico a seguire] dalla interruzione delle vecchie supply chains, la ricollocazione (reshoring), anche nelle vicinanze (nearshoring), incontra forti resistenze da chi non può ricostruire rapidamente tutte le condizioni, a partire dal know how produttivo, prima dislocate altrove.


Dall'altro, il rialzo dei tassi di interesse, ancorato alle aspettative dei mercati e teso a convogliare i risparmi finanziari in titoli denominati in dollari, ha condotto a fallimenti bancari negli USA, che, da gennaio ad aprile, hanno interessato attività in valore pari a quelle del 2008. L'aumento dei rendimenti ha abbattuto il valore dei titoli di credito a reddito fisso “in pancia” di banche, assicurazioni e fondi pensione. Sono perdite, per il momento nascoste nei bilanci.

Inoltre, alcuni Paesi emergenti, che detengono riserve in buoni USA svalutati, si ritrovano a dover ricontrattare i loro debiti a condizioni più onerose.

Viceversa, la Cina deve difendere la globalizzazione di cui ha saputo trarre grande vantaggio, almeno fino a quando la sua strategia multipolare non abbia consolidato strutture alternative a quelle su cui poggia il Washington consensus.

In predicato non è una moneta nazionale (yuan o rublo) sostitutiva del dollaro, bensì una moneta internazionale, tipo il bancor proposto da Keynes a Bretton Woods nel 1944, atta a calzare un nuovo assetto multipolare. La nuova moneta sarebbe basata sul compendio tra le principali monete nazionali, su un sottostante di valori reali e sulle loro basi produttive. L'esatto contrario del fiat money illimitato, che ha inondato di dollari il mondo.

Materie prime contese

Ogni Paese detentore di materie prime tende a metterle sotto il proprio controllo sovrano.

Alla base del successo della Cina, nella mediazione tra Arabia Saudita1 e Iran, c'è la sua posizione di maggiore acquirente di petrolio per alimentare, dopo la pandemia, una forte ripresa.

La chiusura delle importazione dirette dalla Russia ha generato un “giro” di cui si avvale l'India, che acquista a buon prezzo il greggio russo per poi rivendere i prodotti raffinati sul mercato europeo. Le economie in via di sviluppo non sopportano gli alti prezzi del GLN proveniente dall'America, di cui hanno fatto incetta i Paesi europei. Pertanto il Pakistan, che ha più sofferto della carenza di gas, si è rivolto alla Russia. Con il risultato di aver vanificato, almeno in parte, le manovre che portarono alla destituzione del premier “populista” Imran Khan.

Volendo perseguire i propri piani di passaggio all'elettrico green, l'Unione europea non può fare a meno della produzioni cinesi, né dei suoi mercati di sbocco.

Grande è la debolezza della UE e dell'eurozona in particolare. Infatti a cadere in primis è l'euro, sempre più moneta subalterna al dollaro, intrappolata nel cul de sac in cui si dibattono le economie più “avanzate” del vecchio continente.

La stagnazione rischia di accompagnarsi all'inflazione, riproponendo la stagflazione.

Europa in piena crisi

Dopo il vertice con Xi Jinping, il presidente francese Macron si è detto favorevole alla “autonomia strategica” dell'Europa, per non venire coinvolto nella crisi di Taiwan, ovvero per non dover aderire alla interruzione dei canali economici con la Cina, in disastrosa ripetizione dello “schema ucraino”, che ha portato alla inibizione di quelli con la Russia. Il governo francese, peraltro, è alle prese con un fronte interno popolare tutt'altro che passivo rispetto ai tagli allo Stato sociale.

La Germania vorrebbe salvare “capre e cavoli”. Cosa comporta nel concreto dire, per bocca di Ursula von der Leyen, “no al decoupling, ma sì al derisking”? Come basare le relazioni con la Cina sulla terna “partner, concorrenti e rivali sistemici” (parole di Olaf Scholz), mentre prevale la rivalità, istigata dall'interno del suo governo dai Verdi?

Data l'instabilità del quadro internazionale, non è ancora chiaro a quali effettivi riassetti delle allocazioni produttive possa condurre, né quale sarà la posizione dell'Europa nella nuova divisione internazionale del lavoro.

La mancanza di energia a basso costo, prima proveniente dalla Russia, obbliga gli investimenti industriali del grande capitale europeo ad indirizzarsi fuori dal vecchio continente, per riguadagnare i perduti margini di profitto. Alcuni si dirigono verso gli Stati Uniti, territorio reso appetibile dalle misure fiscali del suo governo. Altri vanno a localizzarsi direttamente in Cina ed Estremo Oriente, in Paesi che fruiscono dei flussi e dei prezzi energetici prima destinati all'Europa. Incombe la minaccia di desertificazione della produzione industriale europea e delle sue catene interne di subfornitura, come quelle italiane verso la Germania, con enormi negative ricadute sull'occupazione.

Ciò nonostante la Commissione europea è pressoché la sola a seguire l'agenda di Davos, su “transizione climatica” e “'industria 4.0”, nell'illusione di farsi avanguardia tecnocratica di un mondo che non c'è più. Incurante dei cambiamenti che investono la divisione internazionale del lavoro, non più stabilmente ripartita sui prefigurati tre livelli2 e derivanti dalla sua stessa subalternità agli USA.

In aggiunta, il nuovo “patto di stabilità” non mostra di discostarsi dal precedente. Ci consegna tutti, pervicacemente, ad un austero declino, continuando a scaricare le peggiori conseguenze sui Paesi più deboli della scala gerarchica, come successe a seguito della crisi del 2007-2008.

Ai governi dell'Unione, a partire da Paesi quali l'Italia, sono e saranno richiesti ulteriori giri di vite del welfare pubblico, nonché politiche di “contenimento” dei salari per reggere la concorrenza.

Blocco contro Blocco

Benché la strategia statunitense non sia stata definita compiutamente, le decisioni tattiche prese in base al susseguirsi degli eventi, la fanno scivolare nella “trappola di Tucidide”, ossia nella contrapposizione di blocchi militari pronti alla guerra.

La dottrina Wolfowitz ha trovato terreno fertile.

Nella concezione geo-politica di Washington, l'impegno militare diretto in Ucraina della Federazione Russa, e le predisposte misure sanzionatorie di ritorsione, avrebbero condotto ad un suo forte indebolimento, se non alla crisi ed al rovesciamento del “regime di Putin”. Ciò avrebbe permesso agli Stati Uniti di concentrarsi sul nemico numero 1 - la Cina -, evitando la “simultaneità” dell'impengo nei due quadranti militari dell'Atlantico e del Pacifico, storicamente le sponde della loro disposizione geopolitica al dominio mondiale.

Sennonché le ottimistiche aspettative del gruppo Dem+Neocon,3 installatosi col presidente Joe Biden alla guida della Casa Bianca, sono andate disattese. Al contrario, la Russia si è indirizzata con successo verso Oriente. Non è stata destabilizzata né sul piano economico e commerciale, né su quello politico, mentre le relazioni bilaterali con la Cina si sono aperte ad uno sviluppo “illimitato”.

In permanenza dell'indirizzo comunque intrapreso, l'escalation del conflitto in Ucraina e l'apertura della crisi su Taiwan instradano verso la confrontation globale, come se si trattasse di combattere gli stessi nemici della vecchia Guerra Fredda, da vincere in un ideologico “scontro di civiltà”, nel quale l'Occidente è portabandiera della “democrazia” contro le “autocrazie” dei Paesi ostili.

A tal fine la Nato vorrebbe allargarsi ad Est sino ad incorporare Giappone, Corea del Sud, Filippine ed Australia, per erigere una cortina di ferro attorno a Russia, Cina e Corea del Nord. Dando per scontato che altri Paesi, geograficamente esterni alla linea definita, i non allineati in Asia, Africa e nel “cortile di casa” sudamericano, si tengano passivamente neutrali, minacciati dall'Aut-Aut “o con noi, o contro di noi” e dal sottostante ricatto tra rimanere senza energia e cibo o andare in default sul debito accumulato verso l'estero.

Multipolare contro Unipolare

A questa prospettiva strategica, di arroccamento, relativamente statica, tesa a preservare, si contrappone una strategia alquanto dinamica, volta a guadagnare consenso ed inclusione.

Per non venire intrappolata nella prevedibile logica di una Guerra Fredda 2.0, da alcuni lustri i vertici di Russia e Cina hanno intessuto relazioni diplomatiche ed economico-commerciali articolate ed a largo spettro. Ne sono frutto gli accordi BRICS, SCO, con relativa Nuova Banca per lo Sviluppo, nonché il forum di Boao, l'altra Davos.

Loro tramite hanno predisposto uno spazio di cooperazione tra Paesi neo-industriali emergenti e del Sud mondiale, che, elasticamente tenuto aperto, consente a Pechino e Mosca di non venire chiuse in un blocco pur potente, bensì di operare in allargamento, non tralasciando l'autodifesa militare.

In effetti, la postura militare di Russia e Cina tende al “bilanciamento dissuasivo” rispetto alla minaccia di una guerra generalizzata e nucleare, piuttosto che alla superiorità offensiva, spostata invece su un terreno non militare, bensì di coesistenza e sviluppo.

Il terreno strategico multipolare è retto, da un lato, dal potere derivante dal più grande detentore di materie prime, di sottosuolo e suolo, unito alla “fabbrica del mondo”, e, dall'altro, dalla forza attrattiva ed aggregativa di relazioni fondate su comuni prospettive di sviluppo, sicurezza alimentare e nazionale, tra Paesi, i quali, con reciproco vantaggio, hanno l'opportunità di crescere liberandosi dalle dipendenze, nell'ambito del rispetto delle regole sancite universalmente dall'Onu e pattuite in seno al vigente commercio internazionale.

La non intromissione negli affari interni, per cambi di regime, “rivoluzioni colorate” e guerre eterodirette, consente l'avvio di soluzioni negoziate dei conflitti locali, come nello Yemen, in forza del ristabilimento delle relazioni diplomatiche tra Arabia Saudita e Iran, mediato dalla Cina.

Alla prova dei fatti, l'offerta di un mondo multipolare “più pacifico” surclasserà l'imposizione del mondo unipolare che sospinge alla guerra?

Fenditure sistemiche

Nel sottostante agiscono fenditure sistemiche, oggetto di analisi e riflessioni.

Un certo rilievo assumono le valutazioni sul livello qualitativo dei gruppi dirigenti, laddove è persino facile scorgere, proprio in constatazione della strategia indeterminata degli uni e della definita strategia degli altri, la inadeguatezza di quelli alla guida del mondo unipolare.

Di superiore rilevanza mi paiono, tuttavia, i movimenti “tettonici”, attinenti alla grande spaccatura sistemica in due.

Mentre il sistema capeggiato dagli Stati Uniti è neo-liberista e finanziarizzato, sicché deprime le proprie interne basi produttive, quello della Cina e è basato sul controllo statale della finanza e su economie miste volte ad uno sviluppo capace di allargare il welfare pubblico ed accrescere i salari. Inoltre, come prima visto, per conservarsi nel mondo in posizione egemone deve “disaccoppiarsi” dalla Cina, negando l'asse fondamentale della globalizzazione su cui poggia l'egemonia che vorrebbe preservare.

Si può sostenere che la fase industriale vissuta dal mondo emergente si attagli “naturalmente” alla attuazione di politiche socialdemocratiche, del tipo di quelle praticate nei “trenta gloriosi” post-bellici in Occidente. Vi si può pure intravvedere una spinta ad una forma di socialismo, suffragata, verso l'esterno, dall'adozione di un modello di cooperazione, più vantaggioso per i Paesi del Sud, ora solo fornitori di materie prime e mano d'opera.

Di contro, i Paesi che hanno raggiunto uno stadio post-industriale “avanzato” non possono più contare su una prevalenza tecnologica e su livelli di sviluppo che li preservino compatti e dominanti nella nuova divisione internazionale del lavoro.


La Cina ha investito fortemente nella ricerca e sviluppo di nuove tecnologie in tutti i principali settori [vedi sopra il grafico sui brevetti]. Sebbene ciò inevitabilmente la porrà davanti alla scelta di quale indirizzo dare al “progresso tecno-scientifico” - se rivolto allo sviluppo umano o al transumano -, non è più relegabile al ruolo secondario di semplice fornitrice di prodotti industriali, pensati e commissionati da altri.

Nel contempo i livelli di crescita economica previsti [vedi sotto le previsioni Bloomberg] paiono piuttosto ottimistici per gli USA. Non tengono conto della instabilità derivante dalla mina vagante della crisi monetario-finanziaria e delle contraddizioni insite nel “disaccoppiamento”, che minacciano tutti i Paesi dell'Occidente giunti allo stadio del post-industriale “avanzato” e, comunque, non nascondono l'inesorabile perdita di posizione dell'Europa.

Contributo alla crescita economica mondiale 2023-2028 - Previsioni Bloomberg

Mentre su scala mondiale è confermato lo sviluppo ineguale, le principali economie della UE rischiano l'arretramento. Per i Paesi europei appare sempre più evidente che tale tendenza può diventare un sicuro destino, qualora non adottassero scelte politiche in accoglimento dell'emergente altro ordine mondiale. Ovvero, nuovi indirizzi politici e nuovi governi non recuperassero sovranità nazionale e democratica, poggiando sulle classi subordinate, invece di esautorarle e reprimerle.

Divenuti “anelli deboli” nella grande frattura, o degradano in difesa reazionaria delle proprie dominanti oligarchie finanziarie, o, convogliando nei BRICS ed in altre istituzioni alternative al mondo unipolare, abbracciano una ristrutturazione sistemica verso economie miste ed indipendenti, di “repressione finanziaria”, aprendosi al socialismo dell'interesse pubblico che prevale su quello privato.

Nelle presenti condizioni storiche, le classiche politiche socialdemocratiche non potranno più assolvere alla funzione di mediare le istanze delle classi subalterne, consentendo al capitalismo occidentale di reggere il confronto globale, come fu nei glorificati trenta contro il comunismo.

Solo nel cambiamento sistemico, capace di rovesciare il neo-liberalismo e, con esso, gli oligopoli finanziarizzati e le loro élites, si può riaffermare il welfare ed assicurare stabile vivibilità sociale.

Il corso della storia non può essere riavvolto come una pellicola dei vecchi film.


Note

1 Anche grazie alla Arabia Saudita, la Siria è stata reintegrata nella Lega araba, 12 anni dopo la sua espulsione.

2 Al 1° livello i Paesi post-industriali, produttori di idee; al 2° gli emergenti, produttori di beni materiali; al 3° i fornitori di materie prime e di manodopera a basso costo.

3 Rappresentato dalla triade Blinken-Sullivan-Nuland.