mercoledì 3 giugno 2020

Una esultanza sospetta

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- prepara l'assalto alla diligenza -

Fantastico! Meraviglioso! Il 28 maggio tutti i principali quotidiani esultano per il piano della Commissione europea che vara il Recovery Fund (Fondo europeo per la Ripresa). Nei titoloni,  soldi a palate.
I commenti trasudano soddisfazione: i sovranisti populisti anti-europeisti sono sconfitti. Smentiti anche i gufi: l'Unione europea è viva e lotta solidale insieme a noi!
Ma a quali finanziamenti siamo di fronte?
L'Unione cambia rotta?
Perché tanta esultanza?
Titoloni
La Repubblica: «All'Italia 172 euromiliardi». 
Le fa eco  La Stampa: «Scossa Ue, per l'Italia 172 miliardi»; in sommario: «Parla Conte: “Bene così, ma gli aiuti devono arrivare subito”. Meloni: primo passo, ora via i vincoli.»
Per il Sole24Ore, in prima: «Fondo Ue per la ripresa da 750 miliardi. All'Italia 173 miliardi, spread a quota 193».
Il Corriere della Sera non è da meno: «Maxi piano Ue, l'Italia in testa».
Rainews pone l'accento sul pugnace atteggiamento del PD in Europa: «La maggior parte dei fondi disponibili dal prossimo anno Ue, Recovery Fund: von der Leyen presenta il piano per la ripresa All'Italia 172,7 miliardi: 81 di aiuti e 90,9 come prestiti. Gentiloni: "Svolta senza precedenti". Il premier Conte: "L'Italia si faccia trovare pronta". Sassoli: "Recovery cambi l'Ue o Parlamento non lo sosterrà". Il piano dovrà poi essere discusso in Consiglio Europeo i prossimi 17 e 18 giugno.»
Gli articoli poi spiegano e non spiegano, perché prevale la volontà di esaltazione ed i numeri, stranamente uniformi, sono per lo più basati su supposizioni ed indiscrezioni. Il lettore ne ricava l'idea che l'Italia sia la principale beneficiaria di una enorme manovra, destinataria di prestiti a tassi molto vantaggiosi ed a finanziamenti talvolta definiti “aiuti” o “sussidi” e talaltra “trasferimenti”, sempre e comunque “a fondo perduto”. Soldi senza condizioni, sia per ottenerli sia sul come spenderli. Non come successe alla “povera Grecia”, qualche anno fa. Insomma: una svolta storica, qualora, avvertono i più, mostrandosi “misurati” e “responsabili”, il piano venisse varato così com'è stato proposto dalla Von der Leyen ed i cerberi “Paesi frugali” non riuscissero a sfigurarlo.
Facciamo un po' di conti 
Forse bisognerebbe rimandare ogni giudizio, soprattutto sui numeri, al piano nella sua versione definitiva. 
Tanto più che, come dimostra Thomas Fazi,[1] secondo i documenti ufficiali all’Italia spetterebbero non 172 miliardi ma 153, «una cifra comunque di tutto rispetto». Però «di quella cifra 96,3 miliardi dovranno essere contributi… dall’Italia, che dunque al netto riceverà la colossale somma di… 56,7 miliardi, pari al (tenetevi forte) 3,2% del PIL italiano, spalmati nel corso di quattro anni (0,8% del PIL all’anno). Senza parlare del fatto che solo una parte di quei 56,7 miliardi sarà a fondo perduto e che in ogni caso tutti i flussi che arriveranno dalla UE – sia sotto forma di prestito che di trasferimento – saranno soggetti a condizionalità e vincoli di destinazione.»
Qualora, invece, volessimo non attendere la versione del piano approvata dai capi di governo, nonché dare credito ai prevalenti mass-media, possiamo azzardare qualche conto.
Secondo il progetto presentato da Ursula von der Leyen, alle erogazioni del bilancio europeo ordinario di 1.100 mld, per l'esercizio settennale 2021-2027, verranno aggiunti 750 mld straordinari per il quadriennio 2021-2024. Questi 750 mld, raccolti dal Recovery Fund tramite la emissione di buoni europei, saranno: per un terzo (250 mld) concessi in prestito a tassi agevolati ed a medio-lunga restituzione; per gli altri due terzi (500 mld) destinati ai trasferimenti o agli aiuti, comunque “a fondo perduto”. 
In quanto Paese tra i più colpiti dalla emergenza da Covid-19, l'Italia dovrebbe ricevere 172,7 mld (il numero magico arrotondato, inalberato a simbolo di vittoria!), suddivisi in:
  • 90,9 mld di prestiti (parte dei 250 mld);
  • 81,8 mld di trasferimenti (parte dei 500 mld).
Quanti di questi ultimi 81,8 mld sarebbero effettivamente “a fondo perduto”, cioè finanziamenti senza obbligo, sotto qualsiasi forma, né di restituzione, né di pagamento degli interessi? 
Per saperlo bisogna fare un ulteriore conticino.
Le entrate del bilancio europeo sono alimentate dai Paesi membri, tramite contributi commisurati alla loro quota percentuale di Reddito nazionale lordo (Rnl) in rapporto al totale 100% del Rnl europeo. 
Qualora, per coprire la restituzione del debito aperto dal Recovery Fund, si facesse ricorso esclusivamente alla contribuzione nazionale, l'Italia dovrebbe sborsare circa 64 mld. Sicché, sottraendo ai quasi 82 mld i circa 64 di contributi dovuti, il reale trasferimento (sussidio) a fondo perduto si aggirerebbe, nella migliore delle ipotesi,[2] sui 18 mld! In definitiva, degli sbandierati 172 o 173 mld, solo 18 non costituirebbero debito, anche se il contributo dell'Italia al bilancio europeo, non viene formalmente considerato un debito. [Il conteggio è sintetizzato nella finestra a seguire.]
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Recovery Fund
Ai Paesi europei
In prestito: 250 mld
Trasferimenti (aiuti): 500 mld
Totale = 750 mld
All'Italia
In prestito: 90,9 mld
Trasferimenti (aiuti): 81,8 mld
Totale = 172,7
All'Italia e dall'Italia
Trasferimenti (aiuti): + 81,8 mld
Contributi al bilancio: - 64 mld
Sussidio a fondo perduto = 17,8 mld
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Le entrate di bilancio, costituite dai versamenti dei Paesi membri, potrebbero essere parzialmente sostituite da una estensione della imposizione fiscale a livello comunitario, oggi di entità residuale. A questo proposito, Ursula von der Leyen ha dichiarato che «la Commissione proporrà poi nuove forme per il recupero dei fondi, sul commercio delle emissioni o con una tassa sull’emissione di CO2 oppure pensiamo a una tassa sul digitale.»
Sulla vecchia rotta
Certamente, se consideriamo che negli ultimi anni il nostro Paese è stato contributore netto, cioè ha dato al bilancio europeo più di quanto abbia ricevuto, siamo al cospetto di un vantaggio, per quanto transitorio e ridotto nell'importo e non corrispondente al nostro attuale fabbisogno. Solo le ultime manovre del governo comportano una spesa di  80 mld.
Ma un vantaggio non è una svolta, un cambio di rotta dell'Unione europea. In aggiunta, l'eventuale estensione della imposizione fiscale europea conferirebbe alla Commissione – che dipende dal vertice dei capi di governo - un inedito e più ampio ruolo sovranazionale in politica economica. Al posto dei governi e dei parlamenti nazionali, essa programmerebbe come spendere un gettito derivante anche dalle tasche degli italiani.
Per gli “europeisti” ciò sarebbe comunque il segno di un avanzamento del progetto europeo, eppure tale avanzamento si situerebbe sulla vecchia rotta, lungo la quale negli anni sono venute accentuandosi le divaricazioni tra territori, Paesi e classi sociali. Benché proclamasse il contrario, il bilancio europeo ha contribuito al determinarsi di un Centro e di differenziate Periferie: l'Europa gerarchica.
Non a caso, Merkel e Macron il 18 maggio si sono accordati affinché i finanziamenti del RF siano condizionati all'impegno da parte dei percettori di «attuare politiche economiche sane e un programma di riforme ambiziose». Poiché veniamo da una lunga stagione di “politiche economiche sane” (austerity), la prospettiva che esse diventino per giunta “ambiziose” non è affatto rallegrante.
Il vicepresidente della Commissione, Valdis Dombrosgkis, ha poi precisato: «Le risorse saranno distribuite sulla base degli obiettivi raggiunti. Fisseremo tappe e pietre miliari in termini di riforme e il denaro verrà distribuito sulla base del raggiungimento degli obiettivi.» 
Cosa pensare di un piano che si propone di stabilire, tappa dopo tappa, come verranno spesi i soldi che ci daranno (per lo più nostri), non lasciandoci nemmeno un briciolo di sovrana discrezionalità? 
Non è un azzardo concludere che, in cambio di un temporaneo respiro, il Paese sarà schiavo di un duplice esercizio di dominio gerarchico, derivante: 1) a breve, dal Recovery Plan; 2) dal rientro in vigore dei meccanismi, per ora sospesi, del Fiscal compact, con connesso ricatto di innalzamento dello spread. 
Attenzione a quest'ultimo, perché il debito pubblico italiano aumenterà di molto rispetto al Pil. Inoltre, vista l'urgenza  italiana e le lungaggini europee, ritornerà in campo la richiesta di ricorso al MES, presentato come fosse “senza condizionalità”.
Il perché di tanta esultanza
La mediazione di Merkel e Macron - Berlino per conto dei “Paesi frugali” e di quelli dell'Est, Parigi per conto di quelli mediterranei -, poi fatta propria dalla Commissione, persegue l'obiettivo di consentire ai mercati delle periferie di assorbire i prodotti industriali della Germania, evitando che i Paesi mediterranei cadano in default o/e abbandonino l'euro. Eventi non certo desiderabili anche dai creditori finanziari, i quali piuttosto preferiscono mantenere in vita i debitori, per spolparli delle loro ricchezze, siano esse lavoro, aziende, risparmi o immobili (trattamento greco).
Come in passato, all'establishment economico-politico italiano, benché blateri di “futuro”, poco o niente importa di quali saranno le sorti del Paese. Reiterando la solita manfrina delle riforme necessarie di cui non saremmo capaci se non ce lo imponesse l'Europa (ma qualcuno dirà che “non le faremo perché ce lo dice l'Europa, ma perché le vogliamo noi”), puntano a mettere le mani sulla cassa in arrivo dall'Unione. 
Questo nasconde l'ideologia “europeista” e l'esaltazione degli “aiuti” dell'Unione: a lorsignori i soldi; al popolo italiano il debito, divenuto improvvisamente, da ossessione qual era, un problema trascurabile.
Per capirlo, basti guardare all'assalto di FCA (Agnelli-Elkann) e di Autostrade per l'Italia (Benetton), ai finanziamenti del recente Dl Rilancio, coperti da garanzia statale.
Il Sole24Ore[3] del 28 maggio, con un articolo di Andrea Carli, annunciava: «Turismo e automotive, i settori che puntano ai 172 miliardi del Recovery Fund. Il ministro dell’Economia Roberto Gualtieri ha espresso l’auspicio che questi settori possano contare sulle risorse del Fondo europeo per la ripresa.»
Così è ben chiaro, se ve ne fosse bisogno, chi politicamente spalleggia i soliti noti.

Note:
[2] Marco Palombi, “Ecco (per ora) il Recovery Plan: all'Italia 82 miliardi, 60 da ridare”, il Fatto Quotidiano, 28 maggio 2020.