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Superindice:
le economie dell'Eurozona divergono. Peggio che a fine anni Novanta.
Il fenomeno interpretato dal modello Frenkel. Risk
sharing, Spread e Risk weighting. Sono
i nomi dei crescenti contrasti politici. La retorica renziana alla
prova dei fatti.
- Grazie
ad un suo Superindice, l'Istituto Bruno Leoni scopre l'acqua calda:
le economie dei Paesi europei tendono a divergere! Le distanze tra
loro sono tornate ai livelli precedenti la moneta unica.
- Incuranti
delle cause del fenomeno e degli effetti delle cure già
somministrate in massicce dosi, i liberisti italiani ripropongono
all'interno nazionale ciò per cui gli ordoliberisti tedeschi si
battono per l'insieme europeo: il varo di nuove e più stringenti
“riforme strutturali”.
- Alla
ricerca del tempo perduto, il nostro governo chiede una condivisione
dei rischi (risk sharing) sulle ricadute delle decisioni condivise.
Con quali possibilità di successo?
- La
retorica della “voce grossa” si ridurrà a contrattare qualche
margine di flessibilità temporanea ad uso elettorale?
Sensibilità
Da
quando la finanza nostrana si sente toccata sul vivo, ovvero nella
tasca, unica sua parte realmente sensibile, ha scoperto una propria
insospettata vocazione critica verso l'Eurozona, prima bandita nel
ghetto “populista” dei soliti petulanti “euroscettici”, o,
altrimenti, lasciata nei ristretti spazi mediatici delle “analisi”
di qualche commentatore, tenuto come cavallo di scorta dai
caporedattori (non si sa mai...).
Accade
che il Corriere
Economia,
nello stesso supplemento del lunedì del Corriere
della Sera,
dia notizia di un intuitivo Superindice1
elaborato dall'Istituto Leoni di Milano, noto think
tank
e faro del liberismo italiano, e pubblichi, nella pagina a fianco,
una “analisi” di Marcello Minenna2
sulla necessità di un risk
sharing
europeo, con annesso plauso alla relativa proposta del ministro
Padoan.
Intuitivo,
Watson!
I
curatori del Superindice dell'Istituto Leoni-Osservatorio Minghetti
sono gli economisti Nicola Rossi e Paolo Belardinelli.
Bruno Leoni (1913-1967) |
Riporto
alcuni passi di Giuditta Marvelli che, a sua volta, cita la lettera
accompagnatoria.
«Ma
come viene costruito il Superindice? Nell'indicatore troviamo il
tasso di crescita del Pil in termini reali, tasso di disoccupazione e
tre indicatori dello stato delle finanze pubbliche a cui fanno sempre
riferimento le regole fiscali europee: il rapporto tra deficit e
Prodotto interno lordo e il rapporto tra debito e Pil, oltre al
rapporto tra la bilancia dei conti correnti e il Pil.»
«(...)
calcolando la media ponderata dei 19 Superindici dell'Unione
monetaria si può avere “una misura immediata ed intuitiva
dell'evoluzione dei processi di divergenza e convergenza presenti al
suo interno”.»
«Nelle edizioni precedenti i numeri lasciavano aperta la porta di un miglioramento possibile nel nostro Paese, anche alla luce degli effetti delle riforme messe in campo dal governo. Adesso la situazione dell'Italia “non consente eccessive speranze – dice l'analisi -. Al contrario suggerisce che il processo riformatore possa essere stato molto più lento.” Quello che l'Italia riesce a fare, insomma, è insufficiente se viene paragonato a quanto è stato fatto in altri Paesi, spiega Rossi.»
Ridotta la distanza prima del 2008, ora sta tornando ai livelli precedenti l'introduzione della moneta unica, con un avvertimento di Rossi: «“le differenze sono simili a quelle di fine anni Novanta, ma i fattori determinanti sono molto più critici”, poiché “le tendenze centrifughe vengono da Italia e Francia, (...)”.»
Nonostante la composizione del Superindice faccia peno sulle regole fiscali europee e non misuri altro di “sgradito”, né ci si possa aspettare dal think tank milanese l'individuazione di un colpevole che non sia la “spesa pubblica” e la cinica riproposizione di già sperimentati rimedi “strutturali”, rimarchiamo che anch'esso rileva persistenti sviluppi europei divergenti e centrifughi. Non più provenienti solo da piccoli Paesi, ma da Francia ed Italia.
Ecco, non avevamo bisogno dell'Istituto Leoni per saperlo, ma se serviva una ulteriore conferma...
Tendenze centrifughe
«Nelle edizioni precedenti i numeri lasciavano aperta la porta di un miglioramento possibile nel nostro Paese, anche alla luce degli effetti delle riforme messe in campo dal governo. Adesso la situazione dell'Italia “non consente eccessive speranze – dice l'analisi -. Al contrario suggerisce che il processo riformatore possa essere stato molto più lento.” Quello che l'Italia riesce a fare, insomma, è insufficiente se viene paragonato a quanto è stato fatto in altri Paesi, spiega Rossi.»
Ridotta la distanza prima del 2008, ora sta tornando ai livelli precedenti l'introduzione della moneta unica, con un avvertimento di Rossi: «“le differenze sono simili a quelle di fine anni Novanta, ma i fattori determinanti sono molto più critici”, poiché “le tendenze centrifughe vengono da Italia e Francia, (...)”.»
Nonostante la composizione del Superindice faccia peno sulle regole fiscali europee e non misuri altro di “sgradito”, né ci si possa aspettare dal think tank milanese l'individuazione di un colpevole che non sia la “spesa pubblica” e la cinica riproposizione di già sperimentati rimedi “strutturali”, rimarchiamo che anch'esso rileva persistenti sviluppi europei divergenti e centrifughi. Non più provenienti solo da piccoli Paesi, ma da Francia ed Italia.
Ecco, non avevamo bisogno dell'Istituto Leoni per saperlo, ma se serviva una ulteriore conferma...
Tendenze centrifughe
Allorché
economie disomogenee vengono costrette nell'alveo di cambi fissi, o
inquadrate in una moneta unica, gli scompensi di partenza, invece di
ridursi, tendono ad accentuarsi. Anche se, all'inizio di un dato
ciclo economico, l'apparenza può indurre all'inganno.
In
tal senso si sono espressi importanti economisti, dando luogo ad un
acceso dibattito internazionale, di cui in Italia s'è persa traccia.
In controtendenza, Alberto Bagnai, ne Il tramonto dell'euro (2012), rintracciava l'origine della crisi europea negli squilibri di scambio con l'estero e nell'insolvenza dei debitori privati verso creditori esteri. Prima che essi potessero ricadere sul debito pubblico, aggravandolo, e sul rapporto Debito/Pil.
Nei particolari, la dinamica di ciclo [vedi nel riquadro “Il ciclo di Frenkel”] veniva descritta sulla scorta delle ricerche di Roberto Frenkel e Martin Rapetti dell'Università di Amherst nel Massachussets.
In controtendenza, Alberto Bagnai, ne Il tramonto dell'euro (2012), rintracciava l'origine della crisi europea negli squilibri di scambio con l'estero e nell'insolvenza dei debitori privati verso creditori esteri. Prima che essi potessero ricadere sul debito pubblico, aggravandolo, e sul rapporto Debito/Pil.
Nei particolari, la dinamica di ciclo [vedi nel riquadro “Il ciclo di Frenkel”] veniva descritta sulla scorta delle ricerche di Roberto Frenkel e Martin Rapetti dell'Università di Amherst nel Massachussets.
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Il ciclo Frenkel
registra
6 fasi e viene qui posto in relazione con l'Eurozona
Sintesi
estrema dal ben argomentato testo di Bagnai* a cui rimando il lettore
più interessato.
1.
L'innesco.
Adozione di un tasso di cambio nominale “credibile” o “fisso”
rispetto al Paese centrale; liberalizzazione dei mercati finanziari
interni e dei movimenti internazionali dei capitali.
«Questo
è proprio il percorso seguito in Europa, prima con la vicenda dello
Sme credibile (l'irrigidimento degli accordi di cambio a partire dal
1987), e poi con L'Eurozona. Due irrigidimenti del cambio cui
seguirono due diversi cicli di turbolenza finanziaria: quello del
1992-93 e quello odierno.»
«La
liberalizzazione dei mercati finanziari interni prese le mosse in
Italia dal “divorzio” tra Tesoro e Banca d'Italia nel 1981,
seguita dal vincolo di portafoglio e del massimale sugli impieghi
nel 1983. La liberalizzazione dei movimenti internazionali di
capitali faceva parte dell'agenda dell'Unione europea, venne avviata
nel 1985 e compiuta nel 1990 (…).»
2.
Esplode
il debito estero.
«(...)
in periferia i tassi [ndr d'interesse] sono più alti e quindi i
capitali cominciano ad affluire dal centro verso di essa.» Con
riferimento all'economia italiana (2005-2008): «aumentano gli
afflussi di capitale dall'estero, mentre il deficit pubblico si
riduce,
e quello privato aumenta.
(…) i soldi che vengono dall'estero stanno andando al settore
privato.»
«Il
settore pubblico invece passa addirittura in surplus, nel 2005:
l'economia privata, drogata dal capitale estero, “tira”, e gli
introiti fiscali aumentano.»
3.
L'economia
periferica si surriscalda.
«Gli
afflussi di capitali esteri portano a un aumento della liquidità
interna, e quindi del credito al settore privato, che a sua volta
determina:
-
la discesa dei tassi di interesse interni (e quindi dello spread);
-
la crescita di prodotto interno e occupazione;
-
la crescita dei prezzi.
I
primi due fattori determinano un miglioramento del bilancio
pubblico.»
Sicché:
«La stabilità che l'euro ci ha regalato non è quella dei prezzi,
ma quella dei differenziali di inflazione, che hanno fatto
peggiorare la nostra competitività.» Piccoli scarti, non
compensati da variazioni di cambio, generatori in un decennio di
gravi peggioramenti.
4.
La
competitività peggiora, si gonfiano le bolle.
«La
crescita dei prezzi della periferia, indotta dall'inflazione
creditizia (pressione della domanda finanziata a credito)
determina un apprezzamento del
tasso di cambio reale nella periferia. Nel caso dell'Eurozona questo
fenomeno è esacerbato dal comportamento del centro, che viceversa
mantiene sistematicamente la crescita dei prezzi al di sotto
dell'obiettivo stabilito dalla Banca centrale (e quindi svaluta in
termini reali).
Queste
due forze si sommano e avviano un processo cumulativo di
indebitamento estero (della periferia) e accreditamento estero (del
centro) (…).»
«
(…) in periferia il peggioramento del saldo commerciale porta a un
deficit delle partite correnti e quindi a ulteriori afflussi di
capitali; (…) gli afflussi di capitali sono alimentati dall'attesa
di guadagni in conto capitale sulle attività interne.» Guadagni
attesi nella logica finanziaria tipica delle “bolle”, di cui
l'Europa non ha l'esclusiva.
5.
Arresto
improvviso (sudden
stop)
dei finanziamenti esteri e scoppio della crisi.
Gli
agenti economici fuggono dal rischio e riducono la propria
esposizione sul mercato periferico. Ne deriva un sudden
stop
e addirittura un reversal,
un deflusso dei flussi di capitali esteri. Come nei casi di Italia
e, ancor più, della Spagna. Peraltro, la dinamica specifica europea
viene ad interagire con il crack finanziario dagli Stati Uniti.
«Il
colpo di grazia, però, arriva verso la fine del 2010, quando la
Commissione europea (…) definisce le linee guida di una riforma
del Patto di stabilità e crescita che sarà poi incorporata a fine
marzo 2011 nel cosiddetto Six Pact, e, poi, il primo marzo 2012, nel
Trattato di stabilità (…).» Così viene imposta ulteriore
austerità, invece del rilancio della domanda interna, nella
prospettiva di un tetto del 60% al rapporto debito/Pil. Peggiora il
debito pubblico ed esplode lo spread.
6.
Decollo dello spread e “pubblicizzazione” del
debito.
Mancando
di una Banca centrale nazionale e di una autonoma capacità di
governare i tassi d'interesse, il “rischio Paese” si scarica
sullo spread, in un circuito vizioso.
Lo
Stato può intervenire solo “a valle”, ricapitalizzando le
banche in crisi, assorbendo la caduta degli introiti fiscali
derivanti dai fallimenti di imprese e famiglie, aumentando la spesa
per sostenere redditi ed occupazione. In tal modo, il debito
pubblico, che «ben poco c'entra nella genesi della crisi», finisce
per “pagare” il debito privato.
*
Alberto
Bagnai, Il tramonto dell'euro, Imprimatur 2012, pagg. 134-164.
--------------------------------------------------------------------------------------Altrove
ho argomentato i motivi, non solo attinenti l'economia, della crisi
europea. Un impasto di volute disgregazioni (e guerre), in nome di
piccole patrie etnico-confessionali, e di una espansione dell'Unione
in chiave “economicista”, per affermare la supremazia, ad un
tempo, di ristrette oligarchie
politico-finanziarie e della Germania unificata nell'Anschluß
della DDR. Il risultato è un'Europa divisa tra un Centro e
differenziate
Periferie, entrate o in anticamera, che non è improprio definire ad
immagine e somiglianza delle più vaste dicotomie globali.
Con
l'avvertenza, affatto marginale, che, nel mondo globale, tale
polarizzazione è messa in discussione dal prorompere degli
“emergenti”, consapevoli della traballante capacità di
leadership
e di dominio dei Paesi centrali (Usa, Ue e Giappone), proprio nel
mentre nel vecchio continente viene riprodotta su scala interna.
In questo contesto europeo si situa la forza interpretativa del modello di Frenkel-Rapetti, elaborato per spiegare altre dinamiche “monetarie” tra Centro e Periferia nel mondo degli ultimi trent'anni.
Tra le 6 fasi in successione, particolarmente significativa è quella dell'indebitamento verso l'estero (fase 2), pure connessa all'afflusso di capitali esteri.
Giusto per ricordare che tale afflusso, tanto invocato anche dal nostro governo, non è senza costi successivi. Tanto più se, nell'analizzare i contributi alla crescita del Pil italiano nel 2015 (+0,8%), rintracciamo un incremento dell'import di +1,6% rispetto all'export di +1,3% ed un saldo negativo di -0,3%.
Il bilancio del movimento divergente è allarmante: dal 2007 in Pil italiano è diminuito dell'8,3%, mentre quello tedesco è aumentato del 7,1%.3
Buba non ama il risk sharing
Marcello Minenna non è nuovo ad esami critici della situazione europea.
Nel già citato articolo che, per inciso, riporta al suo interno un grafico sulle previsioni dei deficit pubblici europei per il 2016, dal significativo titolo “Solo la Germania sorride”, muove da una premessa sul dover essere: «Un'unione monetaria può avere una chance di funzionare solo attraverso una piena condivisione dei rischi, sia in ambito finanziario, sia sul piano delle politiche per la crescita e l'occupazione.» Ovvero con l'adozione del risk sharing, che Mario Draghi «si è limitato a definirlo “non fondamentale” e, infatti, tutta l'impalcatura del quantitative easing è stata costruita sull'idea che ogni Paese si tiene i rischi dei titoli governativi in casa propria (…).»
Dopo aver evidenziato i limiti dell'operato della Bce, passa alla critica delle riforme di struttura della zona euro, le quali sarebbero il veicolo «di un'integrazione “per sottrazione”, tesa inesorabilmente alla sottrazione di poteri e competenze dalle autorità nazionali verso organismi sovranazionali e non rappresentativi (…).» Come nel caso della proposta di Jens Weidmann, presidente della Deutsche Bundesbank (in gergo “BuBa”), per «la ristrutturazione automatica dei titoli di Stato dei Paesi in difficoltà: un bail-in sul debito governativo insomma, dove pagano gli investitori e non il Fondo salva-Stati.»
Una riforma palesemente ostile verso la mutualizzazione a livello europeo dei rischi sui titoli di Stato, in aggiunta al bail-in sui debiti bancari. E sintetizza: «Si tratta dunque di riforme volte a consolidare lo status-quo, che vede un'Unione monetaria a trazione tedesca che trasferisce in maniera molto efficiente risorse economiche dalla periferia al centro, (…).»
Fin qui nulla di nuovo, giacché era nota l'intenzione tedesca di estendere il bail-in dalle crisi bancarie al debito governativo.4
Padoan il Temerario
La novità, se così possiamo definirla, sta tutta nella recente proposta del nostro ministro Padoan, la quale riceve il giudizio positivo di Minenna, nonostante sia sommamente tardiva, pure nel richiamo ad aspetti sociali sinora negati (ossia che la disoccupazione abbia origine nelle politiche europee e dall'Europa debba venire supportata).
Essa contiene: «Dall'idea di uno schema comunitario di assicurazione contro la disoccupazione, alla garanzia unica sui depositi fino alla temeraria richiesta di una più rigida applicazione delle procedure di infrazione nei confronti dei Paesi in surplus commerciale (…). Meritevole di menzione è anche il riferimento ad una garanzia comune per il neonato Fondo unico di risoluzione bancaria, che potrebbe trovarsi a non avere le risorse necessarie per gestire le crisi. Ipotesi non campata in aria, se si considera che alcuni analisti hanno stimato che sarebbero serviti fino a 100 miliardi per affrontare la crisi del 2008.»
Non sappiamo se Minenna avesse intenzioni ironiche o sarcastiche, ma l'effetto è questo. Dopo anni ed anni di surplus commerciali della Germania, il governo italiano “scopre” che dovrebbero essere oggetto non di immediate misure di riequilibrio, bensì di “procedure d'infrazione”!
Appare inutile soffermarci sulla probabilità che il temerario Padoan abbia successo (non è un problema di “ragioni”, ma di forza), importa piuttosto sottolineare che la crisi tuttora in corso deve generare mal di pancia inconfessati, se tanto si insiste sulle dotazioni del Fondo unico di risoluzione bancaria.
Dulcis in fundo
Almeno sullo spread5, però, dovremmo dormire sonni tranquilli... Nient'affatto: è lo stesso Minenna, una settimana dopo, a svegliarci.6 Ritorno al 2011?
«Nel 2011 lo spread raggiungeva picchi di oltre il 5%, mentre adesso ci muoviamo nell'ordine del 1,2%; all'epoca non erano attivi fondamentali strumenti di salvaguardia (…). Nel 2011 c'era quasi il 3% di inflazione; oggi siamo sotto zero. Ma, depurato lo spread dall'inflazione, si capisce che in fondo non c'è molta differenza tra il 2011 e oggi in termini di apprezzamento del rischio-Italia da parte dei mercati.»
Al diluvio di liquidità della Bce contro deflazione e credit crunch7, fanno da contraltare le misure varate sul bail-in bancario e, ora, l'applicazione del principio di “ponderazione per il rischio” (risk weighting) per cui i titoli di Stato dovrebbero essere «discriminati sulla base della salute finanziaria del Paese.»
Rischierebbe di saltare il fragile equilibrio patrimoniale delle banche italiane, da tutti i governi vantate come “molto solide”.
Altro che condivisione dei rischi: l'Europa a trazione (?) tedesca vuole andare esattamente nella direzione opposta.
«Antonio Guglielmi stima che i requisiti di capitale sarebbero così onerosi che le banche italiane sarebbero costrette a vendere 150 miliardi di Btp, mentre quelle spagnole oltre 130 miliardi di Bonos. (…) Con il risk weighting sarà in seguito molto difficile collocare a costi accessibili il proprio debito.»
Per Minenna, in definitiva:«Senza una Bce libera da condizionamenti mai come ora le chiacchiere stanno a zero.» Ma non aveva scritto, la settima prima, che per lo stesso Mario Draghi il risk sharing non era “fondamentale”?
Matteo Renzi “sfida l'Europa”
Puntando a rilanciare l'economia nazionale con un abbassamento della pressione fiscale8 (diminuzione dell'Ires per le imprese e dell'Irpef per i cittadini dal 2017), deve fare i conti, letteralmente, con il triangolo Bruxelles-Francoforte-Berlino.
Forte è il sospetto che, quando addita il mancato rispetto da parte della Germania dei limiti europei sul surplus commerciale (tramite Padoan), Renzi miri in realtà a contrattare una qualche flessibilità sugli sforamenti di deficit nei bilanci annuali. Aveva promesso di chiudere il 2016 portandolo dal previsto 2,4% all'1,1%, ma sulla base di una stima di incremento del Pil dell'1,6%. Dati ottimistici, rispetto a quelli invernali resi pubblici proprio dalla Commissione Ue [vedi grafici "PIL" e "DEFICIT" 9].
Non è escluso che qualche risultato possa raggiungerlo, soprattutto spendibile nei prossimi impegni elettorali.
Tuttavia, la politica degli zero virgola, pur perseguita con la retorica della “voce grossa”, non muterà il quadro dei fondamentali e non ci tirerà fuori dai guai.
In questo contesto europeo si situa la forza interpretativa del modello di Frenkel-Rapetti, elaborato per spiegare altre dinamiche “monetarie” tra Centro e Periferia nel mondo degli ultimi trent'anni.
Tra le 6 fasi in successione, particolarmente significativa è quella dell'indebitamento verso l'estero (fase 2), pure connessa all'afflusso di capitali esteri.
Giusto per ricordare che tale afflusso, tanto invocato anche dal nostro governo, non è senza costi successivi. Tanto più se, nell'analizzare i contributi alla crescita del Pil italiano nel 2015 (+0,8%), rintracciamo un incremento dell'import di +1,6% rispetto all'export di +1,3% ed un saldo negativo di -0,3%.
Il bilancio del movimento divergente è allarmante: dal 2007 in Pil italiano è diminuito dell'8,3%, mentre quello tedesco è aumentato del 7,1%.3
Buba non ama il risk sharing
Marcello Minenna non è nuovo ad esami critici della situazione europea.
Nel già citato articolo che, per inciso, riporta al suo interno un grafico sulle previsioni dei deficit pubblici europei per il 2016, dal significativo titolo “Solo la Germania sorride”, muove da una premessa sul dover essere: «Un'unione monetaria può avere una chance di funzionare solo attraverso una piena condivisione dei rischi, sia in ambito finanziario, sia sul piano delle politiche per la crescita e l'occupazione.» Ovvero con l'adozione del risk sharing, che Mario Draghi «si è limitato a definirlo “non fondamentale” e, infatti, tutta l'impalcatura del quantitative easing è stata costruita sull'idea che ogni Paese si tiene i rischi dei titoli governativi in casa propria (…).»
Jens Weidmann |
Dopo aver evidenziato i limiti dell'operato della Bce, passa alla critica delle riforme di struttura della zona euro, le quali sarebbero il veicolo «di un'integrazione “per sottrazione”, tesa inesorabilmente alla sottrazione di poteri e competenze dalle autorità nazionali verso organismi sovranazionali e non rappresentativi (…).» Come nel caso della proposta di Jens Weidmann, presidente della Deutsche Bundesbank (in gergo “BuBa”), per «la ristrutturazione automatica dei titoli di Stato dei Paesi in difficoltà: un bail-in sul debito governativo insomma, dove pagano gli investitori e non il Fondo salva-Stati.»
Una riforma palesemente ostile verso la mutualizzazione a livello europeo dei rischi sui titoli di Stato, in aggiunta al bail-in sui debiti bancari. E sintetizza: «Si tratta dunque di riforme volte a consolidare lo status-quo, che vede un'Unione monetaria a trazione tedesca che trasferisce in maniera molto efficiente risorse economiche dalla periferia al centro, (…).»
Fin qui nulla di nuovo, giacché era nota l'intenzione tedesca di estendere il bail-in dalle crisi bancarie al debito governativo.4
Padoan il Temerario
La novità, se così possiamo definirla, sta tutta nella recente proposta del nostro ministro Padoan, la quale riceve il giudizio positivo di Minenna, nonostante sia sommamente tardiva, pure nel richiamo ad aspetti sociali sinora negati (ossia che la disoccupazione abbia origine nelle politiche europee e dall'Europa debba venire supportata).
Essa contiene: «Dall'idea di uno schema comunitario di assicurazione contro la disoccupazione, alla garanzia unica sui depositi fino alla temeraria richiesta di una più rigida applicazione delle procedure di infrazione nei confronti dei Paesi in surplus commerciale (…). Meritevole di menzione è anche il riferimento ad una garanzia comune per il neonato Fondo unico di risoluzione bancaria, che potrebbe trovarsi a non avere le risorse necessarie per gestire le crisi. Ipotesi non campata in aria, se si considera che alcuni analisti hanno stimato che sarebbero serviti fino a 100 miliardi per affrontare la crisi del 2008.»
Non sappiamo se Minenna avesse intenzioni ironiche o sarcastiche, ma l'effetto è questo. Dopo anni ed anni di surplus commerciali della Germania, il governo italiano “scopre” che dovrebbero essere oggetto non di immediate misure di riequilibrio, bensì di “procedure d'infrazione”!
Appare inutile soffermarci sulla probabilità che il temerario Padoan abbia successo (non è un problema di “ragioni”, ma di forza), importa piuttosto sottolineare che la crisi tuttora in corso deve generare mal di pancia inconfessati, se tanto si insiste sulle dotazioni del Fondo unico di risoluzione bancaria.
Dulcis in fundo
Almeno sullo spread5, però, dovremmo dormire sonni tranquilli... Nient'affatto: è lo stesso Minenna, una settimana dopo, a svegliarci.6 Ritorno al 2011?
«Nel 2011 lo spread raggiungeva picchi di oltre il 5%, mentre adesso ci muoviamo nell'ordine del 1,2%; all'epoca non erano attivi fondamentali strumenti di salvaguardia (…). Nel 2011 c'era quasi il 3% di inflazione; oggi siamo sotto zero. Ma, depurato lo spread dall'inflazione, si capisce che in fondo non c'è molta differenza tra il 2011 e oggi in termini di apprezzamento del rischio-Italia da parte dei mercati.»
PIL |
Al diluvio di liquidità della Bce contro deflazione e credit crunch7, fanno da contraltare le misure varate sul bail-in bancario e, ora, l'applicazione del principio di “ponderazione per il rischio” (risk weighting) per cui i titoli di Stato dovrebbero essere «discriminati sulla base della salute finanziaria del Paese.»
Rischierebbe di saltare il fragile equilibrio patrimoniale delle banche italiane, da tutti i governi vantate come “molto solide”.
Altro che condivisione dei rischi: l'Europa a trazione (?) tedesca vuole andare esattamente nella direzione opposta.
«Antonio Guglielmi stima che i requisiti di capitale sarebbero così onerosi che le banche italiane sarebbero costrette a vendere 150 miliardi di Btp, mentre quelle spagnole oltre 130 miliardi di Bonos. (…) Con il risk weighting sarà in seguito molto difficile collocare a costi accessibili il proprio debito.»
Per Minenna, in definitiva:«Senza una Bce libera da condizionamenti mai come ora le chiacchiere stanno a zero.» Ma non aveva scritto, la settima prima, che per lo stesso Mario Draghi il risk sharing non era “fondamentale”?
DEFICIT |
Matteo Renzi “sfida l'Europa”
Puntando a rilanciare l'economia nazionale con un abbassamento della pressione fiscale8 (diminuzione dell'Ires per le imprese e dell'Irpef per i cittadini dal 2017), deve fare i conti, letteralmente, con il triangolo Bruxelles-Francoforte-Berlino.
Forte è il sospetto che, quando addita il mancato rispetto da parte della Germania dei limiti europei sul surplus commerciale (tramite Padoan), Renzi miri in realtà a contrattare una qualche flessibilità sugli sforamenti di deficit nei bilanci annuali. Aveva promesso di chiudere il 2016 portandolo dal previsto 2,4% all'1,1%, ma sulla base di una stima di incremento del Pil dell'1,6%. Dati ottimistici, rispetto a quelli invernali resi pubblici proprio dalla Commissione Ue [vedi grafici "PIL" e "DEFICIT" 9].
Non è escluso che qualche risultato possa raggiungerlo, soprattutto spendibile nei prossimi impegni elettorali.
Tuttavia, la politica degli zero virgola, pur perseguita con la retorica della “voce grossa”, non muterà il quadro dei fondamentali e non ci tirerà fuori dai guai.
1
Giuditta Marvelli, “Ue – L'allarme rosso del Superindice: troppe
divergenze, così si va indietro”, Corriere Economia , 7 marzo
2016.
2
Marcello Minenna, “Europa: solo la condivisione può fare la
forza”, Corriere Economia, 7 marzo 2016.
3
Franco Mostacci, “Il Pil spiegato a tutti: cresce poco e male. E
il futuro è nero”, Il Fatto Economico, 16 marzo 2016.
4
Sull'argomento vedi in questo Blog: “Si fa presto a dire bail-in”,
febbraio 2016.
5
Traducibile in: differenziale di prezzo. Termine comunemente usato
per indicare il differenziale tra Bund decennali tedeschi e lo
stesso titolo di Stato emesso dall'Italia.
6
Marcello Minenna, “Lo spread resiste (anche con il quantitative
easing)”, Corriere Economia, 14 marzo 2016.
7
Traducibile in: stretta del credito. Con questa dicitura si
indica un calo significativo dell'offerta di credito. Il credit
crunch è una delle tipiche conseguenze della crisi finanziaria.
8
Nel 2015 si certifica una “diminuzione” della pressione fiscale,
eppure gli italiani hanno pagato 16,5 miliardi euro di tasse in più.
9 Fonte ultima: http://www.corriere.it/economia/16_febbraio_08/italia-germania-spagna-conti-deficit-debito-a0d3dd16-cea0-11e5-8ee6-9deb6cd21d82.shtml.