domenica 20 marzo 2016

Rischi divisi e soppesati

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Superindice: le economie dell'Eurozona divergono. Peggio che a fine anni Novanta. Il fenomeno interpretato dal modello Frenkel. Risk sharing, Spread e Risk weighting. Sono i nomi dei crescenti contrasti politici. La retorica renziana alla prova dei fatti.
  • Grazie ad un suo Superindice, l'Istituto Bruno Leoni scopre l'acqua calda: le economie dei Paesi europei tendono a divergere! Le distanze tra loro sono tornate ai livelli precedenti la moneta unica.
  • Incuranti delle cause del fenomeno e degli effetti delle cure già somministrate in massicce dosi, i liberisti italiani ripropongono all'interno nazionale ciò per cui gli ordoliberisti tedeschi si battono per l'insieme europeo: il varo di nuove e più stringenti “riforme strutturali”.
  • Alla ricerca del tempo perduto, il nostro governo chiede una condivisione dei rischi (risk sharing) sulle ricadute delle decisioni condivise. Con quali possibilità di successo?
  • La retorica della “voce grossa” si ridurrà a contrattare qualche margine di flessibilità temporanea ad uso elettorale?

Sensibilità
Da quando la finanza nostrana si sente toccata sul vivo, ovvero nella tasca, unica sua parte realmente sensibile, ha scoperto una propria insospettata vocazione critica verso l'Eurozona, prima bandita nel ghetto “populista” dei soliti petulanti “euroscettici”, o, altrimenti, lasciata nei ristretti spazi mediatici delle “analisi” di qualche commentatore, tenuto come cavallo di scorta dai caporedattori (non si sa mai...).
Accade che il Corriere Economia, nello stesso supplemento del lunedì del Corriere della Sera, dia notizia di un intuitivo Superindice1 elaborato dall'Istituto Leoni di Milano, noto think tank e faro del liberismo italiano, e pubblichi, nella pagina a fianco, una “analisi” di Marcello Minenna2 sulla necessità di un risk sharing europeo, con annesso plauso alla relativa proposta del ministro Padoan.
Intuitivo, Watson!
I curatori del Superindice dell'Istituto Leoni-Osservatorio Minghetti sono gli economisti Nicola Rossi e Paolo Belardinelli.
Bruno Leoni
(1913-1967)

Riporto alcuni passi di Giuditta Marvelli che, a sua volta, cita la lettera accompagnatoria.
«Ma come viene costruito il Superindice? Nell'indicatore troviamo il tasso di crescita del Pil in termini reali, tasso di disoccupazione e tre indicatori dello stato delle finanze pubbliche a cui fanno sempre riferimento le regole fiscali europee: il rapporto tra deficit e Prodotto interno lordo e il rapporto tra debito e Pil, oltre al rapporto tra la bilancia dei conti correnti e il Pil.»
«(...) calcolando la media ponderata dei 19 Superindici dell'Unione monetaria si può avere “una misura immediata ed intuitiva dell'evoluzione dei processi di divergenza e convergenza presenti al suo interno”.»
«Nelle edizioni precedenti i numeri lasciavano aperta la porta di un miglioramento possibile nel nostro Paese, anche alla luce degli effetti delle riforme messe in campo dal governo. Adesso la situazione dell'Italia “non consente eccessive speranze – dice l'analisi -. Al contrario suggerisce che il processo riformatore possa essere stato molto più lento.” Quello che l'Italia riesce a fare, insomma, è insufficiente se viene paragonato a quanto è stato fatto in altri Paesi, spiega Rossi.»
Ridotta la distanza prima del 2008, ora sta tornando ai livelli precedenti l'introduzione della moneta unica, con un avvertimento di Rossi: «“le differenze sono simili a quelle di fine anni Novanta, ma i fattori determinanti sono molto più critici”, poiché “le tendenze centrifughe vengono da Italia e Francia, (...)”.»
Nonostante la composizione del Superindice faccia peno sulle regole fiscali europee e non misuri altro di “sgradito”, né ci si possa aspettare dal think tank milanese l'individuazione di un colpevole che non sia la “spesa pubblica” e la cinica riproposizione di già sperimentati rimedi “strutturali”, rimarchiamo che anch'esso rileva persistenti sviluppi europei divergenti e centrifughi. Non più provenienti solo da piccoli Paesi, ma da Francia ed Italia.
Ecco, non avevamo bisogno dell'Istituto Leoni per saperlo, ma se serviva una ulteriore conferma...
Tendenze centrifughe
Allorché economie disomogenee vengono costrette nell'alveo di cambi fissi, o inquadrate in una moneta unica, gli scompensi di partenza, invece di ridursi, tendono ad accentuarsi. Anche se, all'inizio di un dato ciclo economico, l'apparenza può indurre all'inganno.
In tal senso si sono espressi importanti economisti, dando luogo ad un acceso dibattito internazionale, di cui in Italia s'è persa traccia.
In controtendenza, Alberto Bagnai, ne Il tramonto dell'euro (2012), rintracciava l'origine della crisi europea negli squilibri di scambio con l'estero e nell'insolvenza dei debitori privati verso creditori esteri. Prima che essi potessero ricadere sul debito pubblico, aggravandolo, e sul rapporto Debito/Pil.
Nei particolari, la dinamica di ciclo [vedi nel riquadro “Il ciclo di Frenkel”] veniva descritta sulla scorta delle ricerche di Roberto Frenkel e Martin Rapetti dell'Università di Amherst nel Massachussets.
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Il ciclo Frenkel

registra 6 fasi e viene qui posto in relazione con l'Eurozona
Sintesi estrema dal ben argomentato testo di Bagnai* a cui rimando il lettore più interessato.
    1. L'innesco. Adozione di un tasso di cambio nominale “credibile” o “fisso” rispetto al Paese centrale; liberalizzazione dei mercati finanziari interni e dei movimenti internazionali dei capitali.
    «Questo è proprio il percorso seguito in Europa, prima con la vicenda dello Sme credibile (l'irrigidimento degli accordi di cambio a partire dal 1987), e poi con L'Eurozona. Due irrigidimenti del cambio cui seguirono due diversi cicli di turbolenza finanziaria: quello del 1992-93 e quello odierno.»
    «La liberalizzazione dei mercati finanziari interni prese le mosse in Italia dal “divorzio” tra Tesoro e Banca d'Italia nel 1981, seguita dal vincolo di portafoglio e del massimale sugli impieghi nel 1983. La liberalizzazione dei movimenti internazionali di capitali faceva parte dell'agenda dell'Unione europea, venne avviata nel 1985 e compiuta nel 1990 (…).»
    2. Esplode il debito estero.
    «(...) in periferia i tassi [ndr d'interesse] sono più alti e quindi i capitali cominciano ad affluire dal centro verso di essa.» Con riferimento all'economia italiana (2005-2008): «aumentano gli afflussi di capitale dall'estero, mentre il deficit pubblico si riduce, e quello privato aumenta. (…) i soldi che vengono dall'estero stanno andando al settore privato.»
    «Il settore pubblico invece passa addirittura in surplus, nel 2005: l'economia privata, drogata dal capitale estero, “tira”, e gli introiti fiscali aumentano.»
    3. L'economia periferica si surriscalda.
    «Gli afflussi di capitali esteri portano a un aumento della liquidità interna, e quindi del credito al settore privato, che a sua volta determina:
    - la discesa dei tassi di interesse interni (e quindi dello spread);
    - la crescita di prodotto interno e occupazione;
    - la crescita dei prezzi.
    I primi due fattori determinano un miglioramento del bilancio pubblico.»
    Sicché: «La stabilità che l'euro ci ha regalato non è quella dei prezzi, ma quella dei differenziali di inflazione, che hanno fatto peggiorare la nostra competitività.» Piccoli scarti, non compensati da variazioni di cambio, generatori in un decennio di gravi peggioramenti.
    4. La competitività peggiora, si gonfiano le bolle.
    «La crescita dei prezzi della periferia, indotta dall'inflazione creditizia (pressione della domanda finanziata a credito) determina un apprezzamento del tasso di cambio reale nella periferia. Nel caso dell'Eurozona questo fenomeno è esacerbato dal comportamento del centro, che viceversa mantiene sistematicamente la crescita dei prezzi al di sotto dell'obiettivo stabilito dalla Banca centrale (e quindi svaluta in termini reali).
    Queste due forze si sommano e avviano un processo cumulativo di indebitamento estero (della periferia) e accreditamento estero (del centro) (…).»
    « (…) in periferia il peggioramento del saldo commerciale porta a un deficit delle partite correnti e quindi a ulteriori afflussi di capitali; (…) gli afflussi di capitali sono alimentati dall'attesa di guadagni in conto capitale sulle attività interne.» Guadagni attesi nella logica finanziaria tipica delle “bolle”, di cui l'Europa non ha l'esclusiva.
    5. Arresto improvviso (sudden stop) dei finanziamenti esteri e scoppio della crisi. 
    Gli agenti economici fuggono dal rischio e riducono la propria esposizione sul mercato periferico. Ne deriva un sudden stop e addirittura un reversal, un deflusso dei flussi di capitali esteri. Come nei casi di Italia e, ancor più, della Spagna. Peraltro, la dinamica specifica europea viene ad interagire con il crack finanziario dagli Stati Uniti.
    «Il colpo di grazia, però, arriva verso la fine del 2010, quando la Commissione europea (…) definisce le linee guida di una riforma del Patto di stabilità e crescita che sarà poi incorporata a fine marzo 2011 nel cosiddetto Six Pact, e, poi, il primo marzo 2012, nel Trattato di stabilità (…).» Così viene imposta ulteriore austerità, invece del rilancio della domanda interna, nella prospettiva di un tetto del 60% al rapporto debito/Pil. Peggiora il debito pubblico ed esplode lo spread.
    6. Decollo dello spread e “pubblicizzazione” del debito.
    Mancando di una Banca centrale nazionale e di una autonoma capacità di governare i tassi d'interesse, il “rischio Paese” si scarica sullo spread, in un circuito vizioso.
    Lo Stato può intervenire solo “a valle”, ricapitalizzando le banche in crisi, assorbendo la caduta degli introiti fiscali derivanti dai fallimenti di imprese e famiglie, aumentando la spesa per sostenere redditi ed occupazione. In tal modo, il debito pubblico, che «ben poco c'entra nella genesi della crisi», finisce per “pagare” il debito privato.

    * Alberto Bagnai, Il tramonto dell'euro, Imprimatur 2012, pagg. 134-164.
    --------------------------------------------------------------------------------------Altrove ho argomentato i motivi, non solo attinenti l'economia, della crisi europea. Un impasto di volute disgregazioni (e guerre), in nome di piccole patrie etnico-confessionali, e di una espansione dell'Unione in chiave “economicista”, per affermare la supremazia, ad un tempo, di ristrette oligarchie politico-finanziarie e della Germania unificata nell'Anschluß della DDR. Il risultato è un'Europa divisa tra un Centro e differenziate Periferie, entrate o in anticamera, che non è improprio definire ad immagine e somiglianza delle più vaste dicotomie globali.
Con l'avvertenza, affatto marginale, che, nel mondo globale, tale polarizzazione è messa in discussione dal prorompere degli “emergenti”, consapevoli della traballante capacità di leadership e di dominio dei Paesi centrali (Usa, Ue e Giappone), proprio nel mentre nel vecchio continente viene riprodotta su scala interna.
In questo contesto europeo si situa la forza interpretativa del modello di Frenkel-Rapetti, elaborato per spiegare altre dinamiche “monetarie” tra Centro e Periferia nel mondo degli ultimi trent'anni.
Tra le 6 fasi in successione, particolarmente significativa è quella dell'indebitamento verso l'estero (fase 2), pure connessa all'afflusso di capitali esteri.
Giusto per ricordare che tale afflusso, tanto invocato anche dal nostro governo, non è senza costi successivi. Tanto più se, nell'analizzare i contributi alla crescita del Pil italiano nel 2015 (+0,8%), rintracciamo un incremento dell'import di +1,6% rispetto all'export di +1,3% ed un saldo negativo di -0,3%.
Il bilancio del movimento divergente è allarmante: dal 2007 in Pil italiano è diminuito dell'8,3%, mentre quello tedesco è aumentato del 7,1%.3
Buba non ama il risk sharing
Marcello Minenna non è nuovo ad esami critici della situazione europea.
Nel già citato articolo che, per inciso, riporta al suo interno un grafico sulle previsioni dei deficit pubblici europei per il 2016, dal significativo titolo “Solo la Germania sorride”, muove da una premessa sul dover essere: «Un'unione monetaria può avere una chance di funzionare solo attraverso una piena condivisione dei rischi, sia in ambito finanziario, sia sul piano delle politiche per la crescita e l'occupazione.» Ovvero con l'adozione del risk sharing, che Mario Draghi «si è limitato a definirlo “non fondamentale” e, infatti, tutta l'impalcatura del quantitative easing è stata costruita sull'idea che ogni Paese si tiene i rischi dei titoli governativi in casa propria (…).»
Jens Weidmann

Dopo aver evidenziato i limiti dell'operato della Bce, passa alla critica delle riforme di struttura della zona euro, le quali sarebbero il veicolo «di un'integrazione “per sottrazione”, tesa inesorabilmente alla sottrazione di poteri e competenze dalle autorità nazionali verso organismi sovranazionali e non rappresentativi (…).» Come nel caso della proposta di Jens Weidmann, presidente della Deutsche Bundesbank (in gergo “BuBa”), per «la ristrutturazione automatica dei titoli di Stato dei Paesi in difficoltà: un bail-in sul debito governativo insomma, dove pagano gli investitori e non il Fondo salva-Stati.»
Una riforma palesemente ostile verso la mutualizzazione a livello europeo dei rischi sui titoli di Stato, in aggiunta al bail-in sui debiti bancari. E sintetizza: «Si tratta dunque di riforme volte a consolidare lo status-quo, che vede un'Unione monetaria a trazione tedesca che trasferisce in maniera molto efficiente risorse economiche dalla periferia al centro, (…).»
Fin qui nulla di nuovo, giacché era nota l'intenzione tedesca di estendere il bail-in dalle crisi bancarie al debito governativo.4
Padoan il Temerario
La novità, se così possiamo definirla, sta tutta nella recente proposta del nostro ministro Padoan, la quale riceve il giudizio positivo di Minenna, nonostante sia sommamente tardiva, pure nel richiamo ad aspetti sociali sinora negati (ossia che la disoccupazione abbia origine nelle politiche europee e dall'Europa debba venire supportata).
Essa contiene: «Dall'idea di uno schema comunitario di assicurazione contro la disoccupazione, alla garanzia unica sui depositi fino alla temeraria richiesta di una più rigida applicazione delle procedure di infrazione nei confronti dei Paesi in surplus commerciale (…). Meritevole di menzione è anche il riferimento ad una garanzia comune per il neonato Fondo unico di risoluzione bancaria, che potrebbe trovarsi a non avere le risorse necessarie per gestire le crisi. Ipotesi non campata in aria, se si considera che alcuni analisti hanno stimato che sarebbero serviti fino a 100 miliardi per affrontare la crisi del 2008.»
Non sappiamo se Minenna avesse intenzioni ironiche o sarcastiche, ma l'effetto è questo. Dopo anni ed anni di surplus commerciali della Germania, il governo italiano “scopre” che dovrebbero essere oggetto non di immediate misure di riequilibrio, bensì di “procedure d'infrazione”!
Appare inutile soffermarci sulla probabilità che il temerario Padoan abbia successo (non è un problema di “ragioni”, ma di forza), importa piuttosto sottolineare che la crisi tuttora in corso deve generare mal di pancia inconfessati, se tanto si insiste sulle dotazioni del Fondo unico di risoluzione bancaria.
Dulcis in fundo
Almeno sullo spread5, però, dovremmo dormire sonni tranquilli... Nient'affatto: è lo stesso Minenna, una settimana dopo, a svegliarci.6 Ritorno al 2011?
«Nel 2011 lo spread raggiungeva picchi di oltre il 5%, mentre adesso ci muoviamo nell'ordine del 1,2%; all'epoca non erano attivi fondamentali strumenti di salvaguardia (…). Nel 2011 c'era quasi il 3% di inflazione; oggi siamo sotto zero. Ma, depurato lo spread dall'inflazione, si capisce che in fondo non c'è molta differenza tra il 2011 e oggi in termini di apprezzamento del rischio-Italia da parte dei mercati.»

PIL


Al diluvio di liquidità della Bce contro deflazione e credit crunch7, fanno da contraltare le misure varate sul bail-in bancario e, ora, l'applicazione del principio di “ponderazione per il rischio” (risk weighting) per cui i titoli di Stato dovrebbero essere «discriminati sulla base della salute finanziaria del Paese.»
Rischierebbe di saltare il fragile equilibrio patrimoniale delle banche italiane, da tutti i governi vantate come “molto solide”.
Altro che condivisione dei rischi: l'Europa a trazione (?) tedesca vuole andare esattamente nella direzione opposta.
«Antonio Guglielmi stima che i requisiti di capitale sarebbero così onerosi che le banche italiane sarebbero costrette a vendere 150 miliardi di Btp, mentre quelle spagnole oltre 130 miliardi di Bonos. (…) Con il risk weighting sarà in seguito molto difficile collocare a costi accessibili il proprio debito.»
Per Minenna, in definitiva:«Senza una Bce libera da condizionamenti mai come ora le chiacchiere stanno a zero.» Ma non aveva scritto, la settima prima, che per lo stesso Mario Draghi il risk sharing non era “fondamentale”?
DEFICIT

Matteo Renzi “sfida l'Europa”
Puntando a rilanciare l'economia nazionale con un abbassamento della pressione fiscale8 (diminuzione dell'Ires per le imprese e dell'Irpef per i cittadini dal 2017), deve fare i conti, letteralmente, con il triangolo Bruxelles-Francoforte-Berlino.
Forte è il sospetto che, quando addita il mancato rispetto da parte della Germania dei limiti europei sul surplus commerciale (tramite Padoan), Renzi miri in realtà a contrattare una qualche flessibilità sugli sforamenti di deficit nei bilanci annuali. Aveva promesso di chiudere il 2016 portandolo dal previsto 2,4% all'1,1%, ma sulla base di una stima di incremento del Pil dell'1,6%. Dati ottimistici, rispetto a quelli invernali resi pubblici proprio dalla Commissione Ue [vedi grafici "PIL" e "DEFICIT" 9]
Non è escluso che qualche risultato possa raggiungerlo, soprattutto spendibile nei prossimi impegni elettorali.
Tuttavia, la politica degli zero virgola, pur perseguita con la retorica della “voce grossa”, non muterà il quadro dei fondamentali e non ci tirerà fuori dai guai.


1 Giuditta Marvelli, “Ue – L'allarme rosso del Superindice: troppe divergenze, così si va indietro”, Corriere Economia , 7 marzo 2016.
2 Marcello Minenna, “Europa: solo la condivisione può fare la forza”, Corriere Economia, 7 marzo 2016.
3 Franco Mostacci, “Il Pil spiegato a tutti: cresce poco e male. E il futuro è nero”, Il Fatto Economico, 16 marzo 2016.
4 Sull'argomento vedi in questo Blog: “Si fa presto a dire bail-in”, febbraio 2016.
5 Traducibile in: differenziale di prezzo. Termine comunemente usato per indicare il differenziale tra Bund decennali tedeschi e lo stesso titolo di Stato emesso dall'Italia.
6 Marcello Minenna, “Lo spread resiste (anche con il quantitative easing)”, Corriere Economia, 14 marzo 2016.
7 Traducibile in: stretta del credito. Con questa dicitura si indica un calo significativo dell'offerta di credito. Il credit crunch è una delle tipiche conseguenze della crisi finanziaria.
8 Nel 2015 si certifica una “diminuzione” della pressione fiscale, eppure gli italiani hanno pagato 16,5 miliardi euro di tasse in più.
9 Fonte ultima: http://www.corriere.it/economia/16_febbraio_08/italia-germania-spagna-conti-deficit-debito-a0d3dd16-cea0-11e5-8ee6-9deb6cd21d82.shtml.