lunedì 15 aprile 2019

Italia, sinistra addio

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In Francia e nel Regno Unito la sinistra può ancora essere protagonista del cambiamento. Perché in Italia, invece, i promotori del “Manifesto per la sovranità costituzionale” se ne separano nettamente. Un antidoto al pessimismo della volontà. Un primo passo, al quale devono seguirne altri.

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Alla sinistra francese la chance di interpretare il “momento Polanyi”,1 in ambito nazionale ed in Europa, è data dalla preponderante presenza al suo interno di France insoumise e dalla concomitante crisi del partito socialista. Una crisi che pur abbattendosi su tutta la socialdemocrazia europea, ad eccezione del Labour di Geremy Corbyn [vedi riquadro qui sotto], si è fatta particolarmente sentire oltralpe.
Il Labour britannico fa eccezione perché la nuova segreteria di Corbyn, storico rappresentante della hard left (sinistra dura), ha segnato un netto distacco dalla precedente linea liberista di Tony Blair e Gordon Brown. Lo stesso Corbyn è accusato di “euroscettismo”, giacché, pur avendo a suo tempo optato per il Remain nella Ue, non contrasta l'esito del referendum popolare favorevole alla Brexit, come vorrebbero i fautori del ricorso ad un secondo referendum. Corbyn tenta di agganciare quella parte di classe lavoratrice non qualificata che, non riconoscendosi negli interessi della City londinese, ha votato per la Brexit ed ora viene disprezzata dagli “istruiti di Eton” (la famosa scuola superiore privata del Berkshire, da cui proviene la élite intellettuale del Regno Unito). È consapevole che, senza il consenso di tutta la working class, non ha alcuna possibilità di prevalere sulle forze conservatrici.
Alle ultime presidenziali francesi la candidatura socialista di Benoît Hamon ha assolto all'unica funzione di sbarrare la strada per il secondo turno di ballottaggio a Jean-Luc Mélenchon, spianandola a Emmanuel Macron.2
Del dibattito interno alla sinistra francese ho dato conto nel mio ultimo Post di marzo. Va messo a confronto con quello che si tiene in Italia, considerando la diversità delle situazioni. Nella sinistra politica italiana prevale una sorta di nostalgia dei bei tempi andati, che nel breve si traduce nella speranza di ripristinare il bipolarismo centro-destra/centro-sinistra. Sicché la Lega viene spinta a riabbracciare Forza Italia e Fratelli d'Italia e tutti si adoperano per eliminare, o addomesticare, il M5S, considerato una pericolosa anomalia.
Coloro che vogliono “rifare la sinistra” italiana, a livello continentale aspirano a “rifare l'Unione europea”,3 finendo nel fronte antisovranista ed antipopulista. Al di là delle intenzioni e dei distinguo, ciò significa rientrare nell'arco di forze che, secondo i piani del nuovo segretario del PD Zingaretti, dovrebbe comprendere “da Macron a Tsipras”. Un insieme che, tuttalpiù, riformerebbe quanto basta per conservare i principali istituti dell'Europa attuale, se non crearne di peggiori.
Sia pure con variazioni di programma atte a raccogliere nelle urne ogni minuta “sensibilità” particolare, tutte le liste elettorali in via di definizione – a marzo ne annoveravo già quattro di centro-sinistra e sinistra - appartengono a quel fronte unico in cui anche Macron “ci può stare” (ma Tsipras può stare con Macron?), opposto alla tendenza prevalente nella sinistra francese.
Toccatemi tutto, ma non le banche!
Mentre in Francia abbiamo assistito alla ribellione dei gilets jaunes contro il presidente Macron, nel nostro Paese governa una coalizione giallo-verde, di M5S e Lega, la quale trova cemento nella contestazione degli attuali assetti europei, in particolare finanziari. Si tratta di una coalizione attraversata da molti pesanti contrasti. Registra non solo la difficile convivenza tra i due partiti firmatari del “Contratto per il governo del cambiamento”, ma il latente conflitto con una terza componente interna, imposta dal presidente Sergio Mattarella in cambio del suo assenso al varo del governo Conte.
Al presidente della Repubblica spetta il diritto, una volta conferito l'incarico, di avallare o meno la compagine governativa risultante da quell'incarico. Per rifiutarne la prima versione, con Paolo Savona ministro dell'Economia, Mattarella si era attestato sulla difesa della Costituzione, congiungendo:
a) i vincoli derivanti dai Trattati internazionali sottoscritti - fissati nel 1948, sui quali tornerò dopo -;
b) all'“obbligo del pareggio di bilancio”, il famigerato articolo 81, riscritto nel 2012 per aderire al fiscal compact europeo di stampo ordo-liberista.
Non potendo sostituirsi al corpo elettorale, Mattarella per concedere il suo placet ottenne di inserire a sua garanzia alcuni ministri in dicasteri chiave. É oramai di pubblico dominio che il ministro Giovanni Tria, all'Economia e Finanze, sia il principale rappresentante della terza componente presidenziale extraparlamentare.
Il professor Tria, allorché divampava la discussione sul TAV, prese posizione a favore di quella inutile ed ingente spesa. In seguito, però, ha posto ostacoli tecnici di compatibilità europea alla spesa per ristorare i risparmiatori truffati dalle banche. Al di là della soluzione trovata dal governo, va registrato che in sua difesa si è immediatamente schierato tutto il vecchio establishment, ivi compresa la Commissione europea per bocca di Pierre Moscovici e Valdis Dombrovskis.
Per parte sua, Mattarella, quando ha promulgato la legge che istituisce la commissione d'inchiesta sulle banche, trasmettendo a corredo una lettera monito al parlamento (in stile Giorgio Napolitano), ha inteso fissare dei “paletti di garanzia” a protezione della supposta indipendenza di Bankitalia e dell'attuale sistema creditizio italo-europeo. L'inchiesta potrebbe evidenziare non solo le connivenze della vigilanza, ma mettere in discussione la commistione bancaria tra attività d'investimento ed attività commerciale.
Mentre una terza recessione incombe sull'intera Europa, lo svolgimento del conflitto sugli assetti finanziari nazionali e continentali con la terza componente, come quello tra M5S e Lega, è rimandato a dopo le elezioni europee.
Tuttavia, la questione di fondo costituzionale, inerente alla nostra sovranità di bilancio, finanziaria e monetaria, con le sue dirette implicazioni sociali ed economiche, si è ancora una volta riproposta come dirimente, cardine di una scelta politica di più lunga durata.
In questo senso pongo all'attenzione l'unico evento che, a mio parere, si distingue come fatto nuovo nel panorama politico italiano.
Mi riferisco al “Manifesto per la sovranità costituzionale”, presentato al Teatro dei servi di Roma, lo scorso 9 marzo.
Esso rompe gli indugi, si dichiara estraneo ad «una sinistra che si è fatta destra», raccontando controcorrente la storia del nostro Paese e del mondo, con uno spirito che mostra di non abbandonarsi al desolante pessimismo in cui sono caduti alcuni maîtres à penser della sinistra italiana.

Pessimismi
Aleggia tra gli intellettuali principi della sinistra italiana uno sconfortante pessimismo. Si direbbe per “ragioni storiche”.
Mario Tronti, uno dei maître à penser, ha cercato di spiegare il popolo perduto dalla sinistra e, nel suo libro,4 con amarezza, ha scritto:
«Il dramma, almeno per me insopportabile, è una sinistra di benpensanti e una destra di nullatenenti» è «stare con chi alle nove entra all'Auditorium contro quelli che alle sei escono di casa.»
Alberto Asor Rosa [vedi “Alberto Asor Rosa, il popolo e la sinistra”, nella finestra in pagina] ha dovuto tornare a Machiavelli per capire l'endemica crisi italiana, alla quale riconduce quella della sinistra.
Alberto Asor Rosa (1933), di formazione marxista, vicino alle posizioni operaiste di Mario Tronti, collaborò alle riviste Quaderni rossi, Classe operaia, Laboratorio politico e Mondo Nuovo. Fu direttore della rivista Contropiano (1968) e, dal 1990, del settimanale del PCI Rinascita. Ha progettato e diretto per Einaudi la collana Letteratura Italiana.
Nel 1965, col saggio Scrittori e popolo, sottopone a critica quello che egli ritiene il filone populista presente nella letteratura italiana contemporanea, criticando, tra gli altri, il romanzo di Pier Paolo Pasolini, Ragazzi di vita. Deputato per il PCI dal 1979 al 1980, è stato ed è docente universitario di Letteratura italiana. Dal 2003 svolge l'attività didattica presso la Sapienza a titolo gratuito.
Alberto Asor Rosa, il popolo e la sinistra
«Il popolo è un organismo dotato di una sua molteplice identità che non esclude una conflittuale unità. Nel popolo c'è la borghesia, la piccola borghesia, il proletariato di fabbrica, i contadini e così via: le diverse parti sono in conflitto, ma l'insieme è identitario. La mia tesi è che questa cosa sia venuta meno: ciò con cui abbiamo a che fare è piuttosto un insieme di individui che si riconoscono per macro-forme di identificazione ed interessi. Ovviamente la massa ha un rapporto sommario e primitivo con l'idea di nazione e può essere governata con approssimazioni ideologiche che a queste idee si riferiscono, ma in realtà ne prescindono.» (...)
«Restando alla formula gramsciana, in Italia la Resistenza costruisce una realtà politica unitaria al cui centro sono i grandi partiti, moderno principe. Questa funzione viene meno nel corso degli anni 80 e 90 quando i partiti popolari, per motivi che sarebbe lungo spiegare, escono di scena e si affermano forze fondate sulla disunione e sull'affermazione del capo.» (…)
«(...) se la sinistra rimane questa è quasi naturale che resista solo nei ceti abbienti.» «(...) esiste una dimensione dell'interesse economico che la sinistra ha messo tra parentesi. (…) è il sociale che va affrontato di nuovo economicamente, culturalmente e, se posso dire così, antropologicamente.»
«Bisognerebbe che gli uomini della sinistra assomigliassero di più ai loro interlocutori popolari, invece ne sono così diversi come cliché umano che è difficile pensare che riescano a superare questa barriera. Ma li guardi: come si muovono, come parlano...»
Passi tratti dall'intervista di Marco Palombi ad Alberto Asor Rosa, “Sono dovuto tornare a Machiavelli per capire l'endemica crisi italiana”, il Fatto Quotidiano, 31/03/19.
Machiavelli visse a cavallo tra il Quattrocento ed il Cinquecento, periodo in cui il nostro Paese, sino ad allora diviso ma indipendente, divenne, proprio a causa della sue divisioni, terra di conquista degli Stati europei più potenti. Gran parte della sua opera fu dedicata al come superare, in base a quale modo di intendere la politica, lo Stato e l'azione del Principe, la disunione italiana, per non cadere nella sottomissione che, poi, durò tre secoli e mezzo, sino al Risorgimento. Delle vicende storiche che condussero alla “schiavitù d'Italia” e di Niccolò Machiavelli, i manuali scolastici sono pieni e molti libri sono stati scritti. Perché allora ritornare su di lui, da parte di Asor Rosa, eminente storico della letteratura italiana?
Per darci, tramite il resoconto di una passata disfatta,5 una interpretazione del presente che la ripropone: Asor Rosa racconta la disfatta di una generazione, come Machiavelli raccontò la sua.
Da disunione e dipendenza il popolo italiano si liberò solo in due momenti storici: il Risorgimento e la Resistenza. Ora, a suo modo di vedere, “il popolo” come costruzione politica nazionale e popolare, non c'è più, sicché il pessimismo troverebbe fondamento e ragione. Ma dell'ottimismo della volontà di Antonio Gramsci, al quale Alberto Asor Rosa pur dice di richiamarsi, non c'è più traccia.
Come mai?
Perché il popolo si è fatto “massa” di individui, presi, di volta in volta, “da macro-forme di identificazione ed interessi”, con un “rapporto sommario” con la “idea di nazione”. Sicché, usciti di scena i partiti popolari della prima Repubblica, si sono affermate le forze della disunione che arridono al “capo”. Sottoposta (coinvolta?) a questa trasformazione, la sinistra resiste solo nei “ceti abbienti”.
Eppure, cosa impedisce agli uomini della sinistra di connettersi con i loro ”interlocutori popolari”?
Se, come sostiene, “il sociale” e la “dimensione dell'interesse economico” fossero stati semplicemente “messi tra parentesi”, basterebbe toglierli da quelle parentesi e rimetterli al centro del proprio operato. Asor Rosa non ammette che ciò non può accadere, giacché la sinistra ha aderito ad un'altra “dimensione dell'interesse economico”, quello avverso alle classi sociali subalterne, verso le quali ha eretto una “barriera”. Ecco perché ha assunto una diversità “antropologica”, visibile persino nel loro “cliché umano”.
Se l'intelligenza non si contrappone a quella delle classi dominanti, come può la ragione della volontà sollevarsi a favore di quelle subalterne?
La diagnosticata “mutazione antropologica” della sinistra andrebbe spiegata con una lettura storica più radicale, nel senso di “andare alle radici” del rapporto tra “questione nazionale” e “questione sociale”. Nel qual caso la Storia sarebbe meno matrigna e ci offrirebbe, magari attraverso una più concreta comprensione della globalizzazione capitalistica e delle divisioni del mondo, Europa inclusa, prospettive meno anguste del continuo inesorabile “vichiano” ripetersi della disunione e della sottomissione dell'Italia.
Completa rottura
Rimane il fatto che, mentre un altro intellettuale pessimista, Massimo Cacciari, pensa di superare l'assenza di religio civis nazionale, alla quale attribuisce l'endemica crisi italiana, restando aggrappati all'Unione europea (accarezzando l'idea di condidarsi con il PD di Zingaretti), dal pessimismo si divincolano i promotori del “Manifesto per la sovranità costituzionale”, i quali annunciano una alternativa di sistema.
Auspicandone la lettura,6 ne riprendo alcuni contenuti attraverso l'introduzione all'assemblea di Carlo Formenti7 [vedi finestra dedicata, in pagina] ed avvalendomi di quello successivo di Mimmo Porcaro8 [vedi finestra dedicata, nell'ultimo paragrafo].
Carlo Formenti (1947), Laureato in Scienze Politiche a Padova, di formazione marxista, negli anni 1970 milita nel Gruppo Gramsci, nato dalla disgregazione del Pcd'I. Dal 1970 al 1974 lavora come operatore sindacale della Federazione dei Lavoratori Metalmeccanici, responsabile provinciale per gli impiegati e i tecnici. Dopo lo scioglimento del Gruppo Gramsci, partecipa alla fase iniziale dell'esperienza della “Autonomia Operaia”, ma nella seconda metà degli anni settanta se ne allontana progressivamente.
Giornalista professionista, ha lavorato in Alfabeta e all'Europeo, collabora nel settore cultura con il Corriere della Sera.
Docente di Teoria e tecnica dei nuovi media all'Università del Salento, è autore di numerosi libri, tra i quali:
Oligarchi e plebei – diario di un conflitto globale”, Mimesis, 2018;
La variante populista – lotta di classe nel neoliberismo”, DeriveApprodi, 2016;
Utopie letali”, Joca Book, 2013;
Felici e sfruttati – Capitalismo digitale ed eclissi del lavoro”, EGEA, 2011.
Per Formenti:
«Andare oltre la dicotomia destra/sinistra significa andare oltre il paradigma politico, sociale, economico e culturale di cui questi termini sono espressione.»
Non solo «la sinistra si è fatta destra» ed ha sposato l'ideologia neoliberista contrapponendosi agli interessi popolari, ma non rappresenta più una speranza di cambio sistemico e di civiltà.
Una più chiara spiegazione di questa “rottura” la offre Mimmo Porcaro nel suo intervento teletrasmesso, proposto in occasione del 9 marzo:
«Quando e se la sinistra è stata qualcos’altro, quando e se ha saputo connettersi, identificarsi con le classi subalterne, ciò è accaduto per l’intreccio tra essa e qualcosa di diverso: il movimento operaio socialista e comunista.»
Dichiarando finita la storia di quel movimento e data per morta l'idea stessa di socialismo, la sinistra è ritornata al suo passato “pre-socialista”, aderendo pienamente al capitalismo presente: «La sinistra è questo: capitalismo, parlamentarismo, guerra; quando serve, suffragio universale, quando invece il voto è d’ostacolo, governo dei tecnici.»
Inevitabilmente un giudizio così drastico porta alla «completa rottura, culturale prima ancora che politica, con la sinistra italiana.» Rottura posta da Mimmo Porcaro quale prima condizione affinché si possano realizzare le promesse contenute nel “Manifesto per la sovranità costituzionale”.
Riandando alla storia del Novecento, mi pare utile evidenziare la doppia parabola della socialdemocrazia tedesca che tanto peso ha avuto nella sinistra europea, “intrecciata” prima e “distaccata” poi dal movimento operaio.
Agli albori dello scorso secolo, essa era di gran lunga quella più forte ed influente nel movimento operaio. Subì la sua prima caduta quando sposò l'entrata in guerra della Germania e del suo imperialismo, causando la rottura internazionale con l'ala comunista contraria alla guerra, capeggiata da Lenin.
Nel secondo dopoguerra riprese ruolo e consistenza, quando negò l'originaria matrice marxista (Programma di Bad Godesberg, 1959), per porsi, in Germania come in altri Paesi europei, a mediazione-difesa degli interessi operai e popolari, all'interno di un “capitalismo controllato” che si sentiva minacciato sul piano internazionale dal “vento dell'Est” e dalle liberazioni nazionali del Sud del mondo, nonché, su quello interno, da forti organizzazioni operaie e social-comuniste.
Quel periodo post-bellico (1945-1975) venne denominato dagli economisti il “trentennio glorioso”, caratterizzato da una ineguagliata crescita economica.
Negli anni Ottanta, venuta meno l'incombente minaccia del comunismo, il capitalismo dei Paesi ricchi d'Occidente, a guida statunitense, si è sentito libero di ritornare ad essere se stesso, senza i freni politici ed economico-finanziari imposti dal precedente stato di necessità.
Fu reintrodotto il liberismo economico e si diede inizio ad una nuova fase di globalizzazione, con l'intento di superare la crisi strutturale manifestatasi già dalla seconda metà degli anni Settanta. Benché il tutto fosse presentato come “nuovo”, ed in qualche modo lo era, si trattava pur sempre di una restaurazione9 politica, sociale e culturale.
La socialdemocrazia e le sinistre europee, ivi compreso il Partito Democratico della Sinistra nato dallo scioglimento del PCI alla “svolta della Bolognina” (1991), avendo via via e pienamente aderito al liberalismo, alla restaurazione ed alla globalizzazione, con lo scoppio della epocale crisi del 2007-2008 si sono trovate totalmente “spiazzate”. Non erano più né portatrici di un cambio di civiltà socialista rispetto al capitalismo, né mediatrici delle contraddizioni di classe all'interno del capitalismo stesso.

Da qui la seconda parabola discendente, evidenziata dagli insuccessi elettorali patiti dai partiti socialisti in tutto il vecchio continente.
Alla caduta del muro di Berlino il gruppo dirigente del PCI ha badato innanzitutto alla propria auto-conservazione. Ha creduto di salvare la propria funzione politica, aderendo al “nuovo” capitalismo ed alle sue logiche. Di conseguenza anche i successori di quel gruppo si ritrovano nella condizione di condividere la parabola discendente poc'anzi, per sommi capi, descritta. Queste scelte spiegano il motivo per cui le menti più illuminate della sinistra patiscono sconsolate la propria disfatta, come fosse quella di una intera generazione.
Indomiti italiani
Non temono gli anatemi di coloro che, in Francia, Frédéric Lordon chiama la “classe borghese istruita”, già pronta in Italia a scagliarsi contro i nuovi “sovranisti-populisti-nazionalisti”, tramite i veicoli giornalistici e televisivi di cui ampiamente dispone.
Offrono una visione controcorrente della realtà.
Sostiene Formenti:
«Nel mondo è in corso una guerra fra centri e periferie sia a livello nazionale che a livello globale.»
Sul piano nazionale, esiste un popolo delle periferie territoriali e sociali, accomunato dal vivere sulla propria pelle gli effetti della globalizzazione. Riunisce categorie fino a ieri in disaccordo: «giovani, lavoratori, pensionati, impiegati, disoccupati e sottoccupati, dipendenti pubblici, agricoltori, piccoli imprenditori» ed altri ancora.
«Non nutrono una coscienza di classe tradizionalmente intesa», ma si trovano in opposizione ad una élite di ricchissimi, «sostenuta dai settori neoborghesi che gestiscono i settori del terziario avanzato (comunicazione, finanza, industrie digitali, spettacolo, ecc.) i quali occupano il centro delle grandi concentrazioni urbane ad alto tasso di gentrificazione10».
Sul piano globale «assistiamo alle guerre scatenate dalle potenze occidentali per conservare il dominio neocoloniale sui popoli del Medioriente, dell'Africa e dell'America Latina.»
Gli Stati Uniti cercano di difendere il loro traballante impero dalla emergente potenza cinese, dalla Russia e da altre potenze regionali, in un contesto che vede riproporsi il ruolo dello Stato-nazione sia nei conflitti tra capitalismi nazionali, sia «come terreno strategico del conflitto sociale, e quindi come cornice in cui i popoli possono far valere i propri interessi e riconquistare spazi di democrazia.»
Questi passaggi mi sembrano fondamentali.
In primo luogo, perché assumono la contraddizione tra Centro e Periferie, prima adottata da molti analisti per interpretare le grandi divisioni del mondo, anche per spiegare il principale diaframma sociale interno alla nazione.
In secondo luogo, perché la globalizzazione nella crisi ha rimesso in gioco lo Stato-nazione, dato per scomparso o in via di sparizione.
Più da vicino, osservando attentamente il modo in cui si è formata l'Europa attuale, troviamo che lo Stato-nazione è andato depotenziandosi non i tutti i Paesi ed in differente misura da Paese a Paese, benché in ciascuno di essi abbia prevalso la rivalsa sociale e politica contro le classi popolari. L'Europa attuale è la realizzazione su scala continentale della globalizzazione liberista, divisa in un Centro a trazione tedesca e differenziate Periferie, sia in seno che attorno all'Unione. L'affermarsi del Centro non può essere letto come una semplice conseguenza dell'andamento economico, giacché le regolazioni ordinative (ordoliberiste) del mercato appartengono ad una costruzione politicamente architettata, seppure in itinere: imposta da alcuni Stati-nazione e subita, in modo più o meno “pesante”, da altri. Vi si scorge una dinamica nella quale gli Stati-nazione più forti hanno agito a detrimento della sovranità nazionale degli altri, affermando di fatto il proprio nazionalismo e dissimulandolo sotto la retorica europeista.
Sovranità ed Exit
Se ciò è vero, e se è altrettanto vero che, come sostiene Formenti, la sovranità popolare non può essere disgiunta dalla sovranità nazionale, come luogo in cui qui e subito può-deve esercitarsi la riconquista di spazi di democrazia per le classi subalterne, ne consegue che la loro congiunta riaffermazione entra in contraddizione con il nazionalismo degli Stati del Centro, solo in apparenza abbandonato ma sempre praticato. Come dimostra la crisi greca, “risolta” a favore della finanza tedesca e francese, sequestrando a quel Paese sia la sovranità nazionale che quella democratica.
L'establishment vuole presentare lo scontro in atto come uno scontro tra nazionalisti-sovranisti fascistizzanti ed Europa sovranazionale della convivenza pacifica tra i suoi popoli.
A tal fine avvolge nell'oblio e non di rado censura la storia più recente: dalla guerra nella ex-Jugoslavia, sospinta dai riconoscimenti delle patrie etnico-confessionali, a quella “umanitaria” contro la Serbia per staccarne il Kosovo, alla guerra ancora in corso in Ucraina ai confini con la Russia. Tace di avere utilizzato i più deleteri nazionalismi dell'Est europeo per espandere il capitalismo occidentale in quei territori, salvo dirsi “preoccupata” della loro presenza anche ai vertici degli Stati inglobati o in via di inglobamento nell'Unione e gridare al pericolo nazionalista e fascista da loro rappresentato.
D'altro canto la stessa guerra in Libia, come ebbe ad affermare Prodi, fu scatenata dalla Francia contro Mu'ammar Gheddafi per colpire, per interposta persona, gli “interessi italiani”. E, come dimostrano gli sviluppi più recenti, Macron non molla la presa.
In questa trappola ideologica, negazionista storica, sono cadute anche le forze della sinistra radicale.
In questa trappola mostrano di non cadere i promotori del “Manifesto per la sovranità costituzionale”, ancorando (Formenti) la rivendicazione di sovranità al recupero di un concetto di patria fondato su «un'unità frutto di costruzione politica e non di ancestrale retaggio di sangue. Un patriottismo la cui parola d'ordine non è prima l'Italia ma prima il popolo e la Costituzione italiani. La sovranità nazionale non è infatti per noi fine a se stessa bensì il mezzo per realizzare i valori e i principi di quella Costituzione del 48 tuttora in larga parte inattuati e che le élite mondiali e la nostra borghesia nazionale vogliono affossare.»
Per Mimmo Porcaro (seconda condizione) va segnato un ulteriore distacco, «l'allontanamento da quello che io chiamo “sovranismo storico”, ossia da un atteggiamento culturale e politico che meritoriamente sottolinea e ribadisce il carattere antipopolare dell'Ue e dell'Uem (ndr Unione europea monetaria), ma proprio per questo tende, pur quando non vuole, a fare dell'exit e del recupero della sovranità nazionale un fine in sé e non un mezzo (…). Non si può costruire un partito sull'uscita dall'euro e sulla rottura con l'Unione. Non si costruisce un partito con un largo seguito popolare su una serie di negazioni.»
Bisogna altresì muovere dalle esigenze positive, tornando a “fare società” e a fare politica.
Rispetto all'Europa: «Si tratta di non presentare l'exit come programma immediato, di avere per ogni evenienza un programma di governo sic stantibus rebus, e di definire contemporaneamente un piano A di uscita negoziata e di apertura ad una ricostruzione dell'Ue su basi confederali, ed un piano B di uscita unilaterale in risposta al precipitare di una crisi non altrimenti gestibile. (…) Non esiste nessuna possibilità di uscita negoziata se gli interlocutori non percepiscono che l'Italia ha elaborato e un programma di exit unilaterale credibile e dotato di sostegno popolare.»
Come appare evidente, pur con articolazione diversa delle possibili soluzioni, questa impostazione è piuttosto in sintonia con quella di Thomas Guénolé di France insoumise, di cui ho trattato nel precedente Post di marzo, a proposito del dibattito nella sinistra francese.

Il dato è tratto?
Un nuovo percorso è iniziato. Mi pare opportuno avanzare qualche considerazione in vista di ulteriori approfondimenti. Comincio da due punti salienti: la nostra Costituzione ed il rapporto con la Lega ed il M5S, oggi al governo giallo-verde.
La nostra Costituzione
Il patriottismo costituzionale italiano si differenzia dal patriottismo costituzionale europeo, a suo tempo preconizzato da Jürgen Habermas, per un fatto sostanziale: la nostra Carta del 1948 fu frutto di un reale processo di unificazione politica nazionale e popolare che in Europa non si è mai realizzato. Per molti motivi, tra i quali figura proprio il modo in cui è stata ordinata l'Unione.
L'ancoraggio alla nostra Carta permette di sviluppare un discorso solido sul piano sociale, sulla funzione pubblica in economia, sulla pace e cooperazione tra i popoli, sui Trattati,11 capace di fermentare una ampia unità popolare. Non è poca cosa avere alle spalle il responso di due referendum popolari, uno voluto dal centro-destra e uno dal centro-sinistra, che ne hanno impedito lo stravolgimento.
Benché la condotta del presidente Mattarella, ricordata all'inizio, sia in conflitto con la ratio del dettato costituzionale (da cui è estraneo l'art. 81 sul “pareggio di bilancio”), non di meno viene esercitata sulla base di un vincolo: esso attiene non tanto al rispetto dei Trattati internazionali sottoscritti dall'Italia, quanto all'esclusione di qualsivoglia pronunciamento popolare diretto, a convalida o rifiuto, di tali Trattati.
È un nodo che rimanda al 1948, quando l'Italia, Paese sconfitto ed occupato, doveva rientrare forzatamente nell'Occidente atlantico. La sua sovranità doveva essere e fu limitata.
Questa limitazione di sovranità post-bellica è stata utilizzata anche in rapporto alla costruzione dell'Europa dopo il muro, allorché - si era già alla fine degli anni Ottanta – salvo non poche “perplessità”, l'intero establishment italiano la condivise, intendendo mettere sotto chiave, a futura memoria, questa decisione a(nti)democratica.
Se, per fare un esempio di attualità, i popoli del Regno Unito hanno potuto pronunciarsi prima (1975) sull'adesione alla Comunità europea e poi (2016) sulla permanenza nell'Ue, ciò è dovuto all'esercizio della piena sovranità britannica. Una sovranità esercitata dai francesi e dagli olandesi quando (2005) hanno respinto la cosiddetta Costituzione europea.
Stante questo vulnus storico, il nostro Paese si ritrova ora nella condizione di dover riconquistare la propria piena sovranità, navigando nelle contraddizioni sia con la Nato e gli Usa, sia con l'Unione europea, sia tra Ue e Stati Uniti. Un compito difficile, se solo pensiamo alle polemiche scatenate dalla recente firma dell'accordo commerciale con la Cina e dalla scelta del governo giallo-verde di non allinearsi con gli Stati Uniti nel riconoscimento dell'autoproclamato presidente Guaidó in Venezuela. Tutte occasioni nelle quali la Lega di Salvini si è prontamente allineata a Washington.
Un compito che richiede una articolata strategia di politica estera, senza la quale anche il confronto con le forze politiche oggi al governo rischia di rimanere inefficace.
Lega e M5S
Ho riportato per intero la terza condizione posta da Porcaro [vedi nella finestra in pagina], in quanto essa contiene importanti indicazioni di metodo e, al tempo stesso, lascia in sospeso temi sui quali, e Porcaro mostra di esserne consapevole, sarà indispensabile l'approfondimento.
Mimmo Porcaro
è autore di:
I difficili inizi di Karl Marx. Contro chi e per che cosa leggere Il Capitale oggi”, Dedalo, 1986;
Metamorfosi del partito politico. Associarsi contro il capitale”, Punto Rosso, 2000;
Tendenzen des Sozialismus im 21. Jahrhundert: Beiträge zur kritischen Transformationsforschung 4. Eine Veröffentlichung der Rosa-Luxemburg-Stiftung”, VSA, 2015;
L'invenzione della politica. Movimenti e potere”, (con Stefano Calzolari), Punto Rosso, 2017.
Ai frequentatori dei dibattiti sul Web, è noto per il “dialogo” con Alberto Bagnai, il quale, nonostante le riflessioni sugli argomenti portati da Porcaro, scelse di aderire alla Lega, venendo eletto senatore.
Nel maggio del 2018, insieme a Carlo Formenti e Ugo Borghetta, Mimmo Porcaro crea “Rinascita! Per un'Italia sovrana e socialista”.
Mimmo Porcaro, nel suo intervento all'assemblea di presentazione del “Manifesto per la sovranità costituzionale” indica 3 condizioni affinché le promesse ivi contenute possano realizzarsi.
Di seguito, in versione integrale, la terza condizione:
«Dobbiamo avere la capacità di connetterci immediatamente ad ogni movimento sociale in cui si esprima il disagio popolare. Anche quando si tratta (come è oggi inevitabile) di movimenti spuri ed ambigui. Ma prima ancora dobbiamo costruire un’organizzazione politica che sia espressione di quel popolo: un partito i cui aderenti e dirigenti provengano soprattutto dalle fila del precariato, del lavoro malpagato, dell’immigrazione; un partito in cui si possa creare l’abbozzo di quell’alleanza tra lavoro più e lavoro meno qualificato la cui mancanza condanna tutti i lavoratori alla subalternità. E una tale organizzazione deve, appunto, fare politica. Intendo con ciò qualcosa di diverso dalla semplice rivendicazione della propria identità e dalla circolazione di tale identità nell’universo mediatico: quella sorta di “selfie di massa” a cui si è ridotta oggi la politica della sinistra. Intendo piuttosto la capacità di intervenire sempre, in ogni congiuntura determinata, con proposte che tendano a spostare i rapporti di forza a nostro favore e a favore delle classi subalterne. Ad esempio sottolineare le manchevolezze del M5S e contrapporvi la nostra più lucida e completa analisi è un’operazione identitaria; individuare le contraddizioni nel M5S e avanzare proposte precise che ne accentuino la dialettica interna è fare politica. La prassi identitaria è inevitabile, e in certi momenti è l’unica che ci è concessa. Ma bisogna sempre avere presente la differenza.»
La situazione italiana si differenzia da quella francese, oltre per la rottura necessaria con la sinistra qual è a casa nostra, per il fatto che il “momento Polanyi”, di rifiuto sociale dei disastri prodotti dalla globalizzazione liberista, è stato già raccolto, seppur in modo parziale e contraddittorio, dalle due forze parlamentari oggi alleate al governo.
A mio avviso, l'invito ad accentuare la dialettica interna al M5S andrebbe estesa anche alla Lega, giacché non è affatto scontato che il suo popolo digerisca tutte le piroette politiche del suo capo, in particolare nel rapporto affatto sovrano con l'impero degli Stati Uniti d'America.
Per agire con incisività sulle contraddizioni materiali e politiche, gioverebbe comprendere meglio il latente contrasto tra il capitale finanziarizzato italiano, accorpatosi “senza se e senza ma” tanto all'Unione europea quanto alla globalizzazione, ed il capitale delle produzioni di merci e servizi (la cosiddetta economia reale) legato sì all'export ma soprattutto al mercato interno. Questo capitale è composto da una miriade di piccole-medie imprese, alle quali il vecchio regime non sa offrire prospettive. Una adeguata ripresa del ruolo pubblico nella grande impresa, nonché piani di riassetto del nostro disastrato territorio nazionale e del welfare, a partire dalla sanità e da scuola-università-ricerca, potrebbe offrire loro uno sbocco, che va condizionato alla rivalorizzazione del lavoro dipendente ed autonomo. Sarebbe un modo, se connesso alle nuove tecnologie, per staccare dal carro della neo-borghesia tutti coloro i quali, pur lavorando nei settori del terziario avanzato, sono avvolti dalla sua nube ideologica, ma rimangono sfruttati e precari al pari e più di altri settori, come pure sostiene Carlo Formenti nelle sue recenti pubblicazioni.
Perciò è oltremodo condivisibile proporsi con un atteggiamento che eviti il più possibile la “prassi identitaria”, preferendole “proposte precise” sulle quali confrontarsi.
Anche perché molti dei promotori del Manifesto non vengono dal nulla e sconteranno sicuramente il ritardo col quale sono arrivati alle odierne scelte.
Ciò chiama in causa aspetti dell'agire politico e della forma organizzativa di questo agire.
Se è piuttosto facile mettere alla berlina il “selfie di massa” a cui si è ridotta la sinistra, non altrettanto si può dire dello sforzo di usare le possibilità, offerte dalle nuove tecnologie comunicative, di connettere in rete la partecipazione politica, nonché della risposta da dare al diffuso rigetto del “professionismo politico” di chi s'insedia nelle istituzioni per decenni.
Non appare ancora chiaro, quale forma debba assumere il “nuovo partito”, così come non si comprende chi e con quali mezzi debba connettersi con i movimenti sociali, dando per scontato che si tratti di movimenti spuri ed ambigui, con i quali occorre collegarsi non temendo, coraggiosamente, di “sporcarsi le mani”.
In particolare vanno chiariti i rapporti tra movimenti ed organizzazione, nonché tra questi e gli eletti nelle assemblee istituzionali.
La società nella quale viviamo ha visto mutare la vita quotidiana, fatta di tempi e luoghi di lavoro, di studio-formazione, che hanno magari dilatato un frammentato “tempo libero” nel generale contrarsi di un effettivo “tempo liberato”. Comunicazione e cultura in questo contesto sono immersi.
L'esperienza del M5S va attentamente compresa, senza supponenze, perché essere consapevoli dei suoi limiti e delle sue contraddizioni, del rischio che venga isolata e condannata alla sconfitta, o peggio all'addomesticamento, non ci esime ma ci impone di affrontare i problemi che ha posto all'agire politico di chi vuole cominciare un nuovo percorso d'impegno e di lotta dalla parte delle classi subalterne.

Note
1 Per “momento Polanyi” s'intende quel passaggio, analizzato agli inizi degli anni quaranta del '900 dallo studioso Karl Polanyi, per cui al movimento della finanziarizzazione segue il rigetto (il Contromovimento) dell'insieme sociale che non ne accetta le devastanti conseguenze.
2 Al primo turno delle elezioni presidenziali del 2017, Jean-Luc Mélenchon raccolse il 19,58% dei suffragi, distanziando di molti punti il candidato socialista, Benoît Hamon, fermo al 6,36%. I candidati che passarono al secondo turno furono Emmanuel Macron (En marche!) con il 24,01% e Marine Le Pen (Front National) con il 21,30%.
3 Come ad esempio vorrebbero i promotori (Punto Rosso, Fondazione Sabattini e Fiom-CGIL Milano) dell'assemblea convocata presso la Camera del Lavoro di Milano per il 15 aprile. Previsti interventi di Luciana Castellina, Rosa Fioravanti, Matteo Gaddi, Gianni Rinaldini. Coordina Roberta Turi.
4 Mario Tronti e Andrea Bianchi, “Il popolo perduto – Per una critica della sinistra”, Nutrimenti, 2019.
5 Alberto Asor Rosa, “Machiavelli e l'Italia – Resoconto di una disfatta”, Einaudi, 2019.
9 Luciano Gallino ha scritto di “Colpo di Stato di banche e governi – L'attacco alla democrazia europea”, Einaudi, 2013.
10 Gentrificazione: trasformazione di un quartiere popolare in zona abitativa di pregio, con conseguente cambiamento della composizione sociale e dei prezzi delle abitazioni.
11 Vedi anche: di Luciano Barra Caracciolo: ”Euro e (o?) democrazia costituzionale – La convivenza impossibile tra Costituzione e Trattati europei”, Dike, 2013; “La Costituzione nella palude – Indagine su trattati al di sotto di ogni sospetto”, Imprimatur, 2015; di Vladimiro Giacché, “Costituzione italiana contro Trattati europei – Il conflitto inevitabile”, Imprimatur, 2015.


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