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In Francia e nel Regno Unito la sinistra può ancora essere protagonista del cambiamento. Perché in Italia, invece, i promotori del “Manifesto per la sovranità costituzionale” se ne separano nettamente. Un antidoto al pessimismo della volontà. Un primo passo, al quale devono seguirne altri.
Alla
sinistra francese la chance
di
interpretare il “momento Polanyi”,1
in ambito nazionale ed in Europa, è data dalla preponderante
presenza al suo interno di France
insoumise
e dalla concomitante crisi del partito socialista.
Una
crisi che pur abbattendosi su tutta la socialdemocrazia europea, ad
eccezione del Labour di Geremy Corbyn [vedi
riquadro qui sotto],
si è fatta particolarmente sentire oltralpe.
Il
Labour britannico fa eccezione
perché
la nuova segreteria di Corbyn, storico rappresentante della hard left
(sinistra dura), ha segnato un netto distacco dalla precedente linea
liberista di Tony Blair e Gordon Brown. Lo stesso Corbyn è accusato
di “euroscettismo”, giacché, pur avendo a suo tempo optato per
il Remain nella Ue, non contrasta l'esito del referendum popolare
favorevole alla Brexit, come vorrebbero i fautori del ricorso ad un
secondo referendum. Corbyn tenta di agganciare quella parte di
classe lavoratrice non qualificata che, non riconoscendosi negli
interessi della City londinese, ha votato per la Brexit ed ora viene
disprezzata dagli “istruiti di Eton” (la famosa scuola superiore
privata del Berkshire, da cui proviene la élite intellettuale del
Regno Unito). È
consapevole che, senza il consenso di tutta la working class, non ha
alcuna possibilità di prevalere sulle forze conservatrici.
Alle
ultime presidenziali francesi la candidatura socialista di Benoît
Hamon
ha assolto all'unica funzione di sbarrare la strada per il secondo
turno di ballottaggio a Jean-Luc Mélenchon, spianandola a Emmanuel
Macron.2
Del
dibattito interno alla sinistra francese ho dato conto nel mio ultimo
Post di marzo. Va messo a confronto con quello che si tiene in
Italia, considerando la diversità delle situazioni. Nella sinistra
politica italiana prevale una sorta di nostalgia dei bei tempi
andati, che nel breve si traduce nella speranza di ripristinare il
bipolarismo centro-destra/centro-sinistra. Sicché la Lega viene
spinta a riabbracciare Forza Italia e Fratelli d'Italia e tutti si
adoperano per eliminare, o addomesticare, il M5S, considerato una
pericolosa anomalia.
Coloro
che vogliono “rifare la sinistra” italiana, a livello
continentale aspirano a “rifare l'Unione europea”,3
finendo nel fronte antisovranista ed antipopulista. Al di là delle
intenzioni e dei distinguo, ciò significa rientrare nell'arco di
forze che, secondo i piani del nuovo segretario del PD Zingaretti,
dovrebbe comprendere “da Macron a Tsipras”. Un insieme che,
tuttalpiù, riformerebbe quanto basta per conservare i principali
istituti dell'Europa attuale, se non crearne di peggiori.
Sia
pure con variazioni di programma atte a raccogliere nelle urne ogni
minuta “sensibilità” particolare, tutte le liste elettorali in
via di definizione – a marzo ne annoveravo già quattro di
centro-sinistra e sinistra - appartengono a quel fronte unico in cui
anche Macron “ci può stare” (ma Tsipras può stare con Macron?),
opposto alla tendenza prevalente nella sinistra francese.
Toccatemi
tutto, ma non le banche!
Mentre
in Francia abbiamo assistito alla ribellione dei gilets jaunes
contro il presidente Macron, nel nostro Paese governa una coalizione
giallo-verde, di M5S e Lega, la quale trova cemento nella
contestazione degli attuali assetti europei, in particolare
finanziari. Si tratta di una coalizione attraversata da molti pesanti
contrasti. Registra non solo la difficile convivenza tra i due
partiti firmatari del “Contratto per il governo del cambiamento”,
ma il latente conflitto con una terza componente interna, imposta dal
presidente Sergio Mattarella in cambio del suo assenso al varo del
governo Conte.
Al
presidente della Repubblica spetta il diritto, una volta conferito
l'incarico, di avallare o meno la compagine governativa risultante da
quell'incarico. Per rifiutarne la prima versione, con Paolo Savona
ministro dell'Economia, Mattarella si era attestato sulla difesa
della Costituzione, congiungendo:
a)
i vincoli derivanti dai Trattati internazionali sottoscritti -
fissati nel 1948, sui quali tornerò dopo -;
b)
all'“obbligo del pareggio di bilancio”, il famigerato articolo
81, riscritto nel 2012 per aderire al fiscal
compact
europeo di stampo ordo-liberista.
Non
potendo sostituirsi al corpo elettorale, Mattarella per concedere il
suo placet
ottenne
di inserire a sua garanzia alcuni ministri in dicasteri chiave. É
oramai di pubblico dominio che il ministro Giovanni Tria,
all'Economia e Finanze, sia il principale rappresentante della terza
componente presidenziale extraparlamentare.
Il
professor Tria, allorché divampava la discussione sul TAV, prese
posizione a favore di quella inutile ed ingente spesa. In seguito,
però, ha posto ostacoli tecnici di compatibilità europea alla spesa
per ristorare i risparmiatori truffati dalle banche. Al di là della
soluzione trovata dal governo, va registrato che in sua difesa si è
immediatamente schierato tutto il vecchio establishment,
ivi
compresa la Commissione europea per bocca di Pierre Moscovici
e Valdis Dombrovskis.
Per
parte sua, Mattarella, quando ha promulgato la legge che istituisce
la commissione d'inchiesta sulle banche, trasmettendo a corredo una
lettera monito al parlamento (in stile Giorgio Napolitano), ha inteso
fissare dei “paletti di garanzia” a protezione della supposta
indipendenza di Bankitalia e dell'attuale sistema creditizio
italo-europeo. L'inchiesta potrebbe evidenziare non solo le
connivenze della vigilanza, ma mettere in discussione la commistione
bancaria tra attività d'investimento ed attività commerciale.
Mentre
una terza recessione incombe sull'intera Europa, lo svolgimento del
conflitto sugli assetti finanziari nazionali e continentali con la
terza componente, come quello tra M5S e Lega, è rimandato a dopo le
elezioni europee.
Tuttavia,
la questione di fondo costituzionale, inerente alla nostra sovranità
di bilancio, finanziaria e monetaria, con le sue dirette implicazioni
sociali ed economiche, si è ancora una volta riproposta come
dirimente, cardine di una scelta politica di più lunga durata.
In
questo senso pongo all'attenzione l'unico evento che, a mio parere,
si distingue come fatto nuovo nel panorama politico italiano.
Mi
riferisco al “Manifesto per la sovranità costituzionale”,
presentato al Teatro dei servi di Roma, lo scorso 9 marzo.
Esso
rompe gli indugi, si dichiara estraneo ad «una sinistra che si è
fatta destra», raccontando controcorrente la storia del nostro Paese
e del mondo, con uno spirito che mostra di non abbandonarsi al
desolante pessimismo in cui sono caduti alcuni maîtres
à penser della
sinistra italiana.
Pessimismi
Aleggia
tra gli intellettuali principi della
sinistra italiana uno sconfortante pessimismo. Si direbbe per
“ragioni storiche”.
Mario
Tronti, uno dei maître
à penser,
ha cercato di spiegare il popolo perduto dalla sinistra e, nel suo
libro,4
con amarezza, ha scritto:
«Il
dramma, almeno per me insopportabile, è una sinistra di benpensanti
e una destra di nullatenenti» è
«stare con chi alle nove entra all'Auditorium contro quelli che alle
sei escono di casa.»
Alberto
Asor Rosa [vedi
“Alberto Asor Rosa, il popolo e la sinistra”, nella finestra in
pagina] ha
dovuto tornare a Machiavelli per capire l'endemica crisi italiana,
alla quale riconduce quella della sinistra.
Alberto
Asor Rosa
(1933),
di formazione marxista, vicino alle posizioni operaiste di Mario
Tronti, collaborò alle riviste Quaderni
rossi,
Classe
operaia,
Laboratorio
politico
e Mondo
Nuovo.
Fu direttore della rivista Contropiano
(1968) e, dal 1990, del settimanale del PCI Rinascita.
Ha progettato e diretto per Einaudi la collana Letteratura
Italiana.
Nel
1965, col saggio Scrittori
e popolo,
sottopone a critica quello che egli ritiene il filone populista
presente nella letteratura italiana contemporanea, criticando, tra
gli altri, il romanzo di Pier Paolo Pasolini, Ragazzi
di vita.
Deputato per il PCI dal 1979 al 1980, è stato ed è docente
universitario di Letteratura italiana. Dal 2003 svolge l'attività
didattica presso la Sapienza a titolo gratuito.
Alberto
Asor Rosa, il popolo e la sinistra
«Il
popolo è un organismo dotato di una sua molteplice identità che non
esclude una conflittuale unità. Nel popolo c'è la borghesia, la
piccola borghesia, il proletariato di fabbrica, i contadini e così
via: le diverse parti sono in conflitto, ma l'insieme è identitario.
La mia tesi è che questa cosa sia venuta meno: ciò con cui abbiamo
a che fare è piuttosto un insieme di individui che si riconoscono
per macro-forme di identificazione ed interessi. Ovviamente la massa
ha un rapporto sommario e primitivo con l'idea di nazione e può
essere governata con approssimazioni ideologiche che a queste idee si
riferiscono, ma in realtà ne prescindono.» (...)
«Restando
alla formula gramsciana, in Italia la Resistenza costruisce una
realtà politica unitaria al cui centro sono i grandi partiti,
moderno principe. Questa funzione viene meno nel corso degli anni 80
e 90 quando i partiti popolari, per motivi che sarebbe lungo
spiegare, escono di scena e si affermano forze fondate sulla
disunione e sull'affermazione del capo.» (…)
«(...)
se la sinistra rimane questa è quasi naturale che resista solo nei
ceti abbienti.» «(...) esiste una dimensione dell'interesse
economico che la sinistra ha messo tra parentesi. (…) è il sociale
che va affrontato di nuovo economicamente, culturalmente e, se posso
dire così, antropologicamente.»
«Bisognerebbe
che gli uomini della sinistra assomigliassero di più ai loro
interlocutori popolari, invece ne sono così diversi come cliché
umano che è difficile pensare che riescano a superare questa
barriera. Ma li guardi: come si muovono, come parlano...»
Passi
tratti dall'intervista di Marco Palombi ad Alberto Asor Rosa, “Sono
dovuto tornare a Machiavelli per capire l'endemica crisi italiana”,
il Fatto Quotidiano, 31/03/19.
Machiavelli
visse a cavallo tra il Quattrocento ed il Cinquecento, periodo in cui
il nostro Paese, sino ad allora diviso ma indipendente, divenne,
proprio a causa della sue divisioni, terra di conquista degli Stati
europei più potenti. Gran parte della sua opera fu dedicata al come
superare, in base a quale modo di intendere la politica, lo Stato e
l'azione del Principe, la disunione italiana, per non cadere nella
sottomissione che, poi, durò tre secoli e mezzo, sino al
Risorgimento. Delle vicende storiche che condussero alla “schiavitù
d'Italia” e di Niccolò Machiavelli, i manuali scolastici sono
pieni e molti libri sono stati scritti. Perché allora ritornare su
di lui, da parte di Asor Rosa, eminente storico della letteratura
italiana?
Per
darci, tramite il resoconto di una passata disfatta,5
una interpretazione del presente che la ripropone: Asor Rosa racconta
la disfatta di una generazione, come Machiavelli raccontò la sua.
Da
disunione e dipendenza il popolo italiano si liberò solo in due
momenti storici: il Risorgimento e la Resistenza. Ora, a suo modo di
vedere, “il popolo” come costruzione politica nazionale e
popolare, non c'è più, sicché il pessimismo troverebbe fondamento
e ragione. Ma dell'ottimismo della volontà di Antonio Gramsci, al
quale Alberto Asor Rosa pur dice di richiamarsi, non c'è più
traccia.
Come
mai?
Perché
il popolo si è fatto “massa” di individui, presi, di volta in
volta, “da macro-forme di identificazione ed interessi”, con un
“rapporto sommario” con la “idea di nazione”. Sicché, usciti
di scena i partiti popolari della prima Repubblica, si sono affermate
le forze della disunione che arridono al “capo”. Sottoposta
(coinvolta?) a questa trasformazione, la sinistra resiste solo nei
“ceti abbienti”.
Eppure,
cosa impedisce agli uomini della sinistra di connettersi con i loro
”interlocutori popolari”?
Se,
come sostiene, “il sociale” e la “dimensione dell'interesse
economico” fossero stati semplicemente “messi tra parentesi”,
basterebbe toglierli da quelle parentesi e rimetterli al centro del
proprio operato. Asor Rosa non ammette che ciò non può accadere,
giacché la sinistra ha aderito ad un'altra “dimensione
dell'interesse economico”, quello avverso alle classi sociali
subalterne, verso le quali ha eretto una “barriera”. Ecco perché
ha assunto una diversità “antropologica”, visibile persino nel
loro “cliché
umano”.
Se
l'intelligenza non si contrappone a quella delle classi dominanti,
come può la ragione della volontà sollevarsi a favore di quelle
subalterne?
La
diagnosticata “mutazione antropologica” della sinistra andrebbe
spiegata con una lettura storica più radicale, nel senso di “andare
alle radici” del rapporto tra “questione nazionale” e
“questione sociale”. Nel qual caso la Storia sarebbe meno
matrigna e ci offrirebbe, magari attraverso una più concreta
comprensione della globalizzazione capitalistica e delle divisioni
del mondo, Europa inclusa, prospettive meno anguste del continuo
inesorabile “vichiano” ripetersi della disunione e della
sottomissione dell'Italia.
Completa
rottura
Rimane
il fatto che, mentre un altro intellettuale pessimista, Massimo
Cacciari, pensa di superare l'assenza di religio
civis nazionale,
alla quale attribuisce l'endemica crisi italiana, restando aggrappati
all'Unione europea (accarezzando l'idea di condidarsi con il PD di
Zingaretti), dal pessimismo si divincolano i promotori del “Manifesto
per la sovranità costituzionale”,
i quali annunciano una alternativa di sistema.
Auspicandone
la lettura,6
ne riprendo alcuni contenuti attraverso l'introduzione all'assemblea
di Carlo Formenti7
[vedi
finestra dedicata, in pagina]
ed avvalendomi di quello successivo di Mimmo Porcaro8
[vedi
finestra dedicata, nell'ultimo paragrafo].
Carlo
Formenti (1947),
Laureato in Scienze Politiche a Padova, di formazione marxista,
negli anni 1970 milita nel Gruppo Gramsci, nato dalla disgregazione
del Pcd'I.
Dal 1970 al 1974 lavora come operatore sindacale della Federazione
dei Lavoratori Metalmeccanici, responsabile provinciale per gli
impiegati e i tecnici. Dopo lo scioglimento del Gruppo Gramsci,
partecipa alla fase iniziale dell'esperienza della “Autonomia
Operaia”, ma nella seconda metà degli anni settanta se ne
allontana progressivamente.
Giornalista
professionista, ha lavorato in Alfabeta
e all'Europeo,
collabora
nel settore cultura con il Corriere
della Sera.
Docente
di Teoria e tecnica dei nuovi media all'Università del Salento, è
autore di numerosi libri, tra i quali:
“Oligarchi
e plebei
– diario di un conflitto globale”, Mimesis, 2018;
“La
variante populista
– lotta di classe nel neoliberismo”, DeriveApprodi, 2016;
“Utopie
letali”,
Joca Book, 2013;
“Felici
e sfruttati
– Capitalismo digitale ed eclissi del lavoro”, EGEA, 2011.
Per
Formenti:
«Andare
oltre la dicotomia destra/sinistra significa andare oltre il
paradigma politico, sociale, economico e culturale di cui questi
termini sono espressione.»
Non
solo «la sinistra si è fatta destra» ed ha sposato l'ideologia
neoliberista contrapponendosi agli interessi popolari, ma non
rappresenta più una speranza di cambio sistemico e di civiltà.
Una
più chiara spiegazione di questa “rottura” la offre Mimmo
Porcaro nel suo intervento teletrasmesso, proposto in occasione del 9
marzo:
«Quando
e se la sinistra è stata qualcos’altro, quando e se ha saputo
connettersi, identificarsi con le classi subalterne, ciò è accaduto
per l’intreccio tra essa e qualcosa di diverso: il movimento
operaio socialista e comunista.»
Dichiarando
finita la storia di quel movimento e data per morta l'idea stessa di
socialismo, la sinistra è ritornata al suo passato “pre-socialista”,
aderendo pienamente al capitalismo presente: «La
sinistra è questo: capitalismo, parlamentarismo, guerra; quando
serve, suffragio universale, quando invece il voto è d’ostacolo,
governo dei tecnici.»
Inevitabilmente
un giudizio così drastico porta alla «completa
rottura, culturale prima ancora che politica, con la sinistra
italiana.»
Rottura posta da Mimmo Porcaro quale prima
condizione
affinché si possano realizzare le promesse contenute nel “Manifesto
per la sovranità costituzionale”.
Riandando
alla storia del Novecento, mi pare utile evidenziare la doppia
parabola della socialdemocrazia tedesca che tanto peso ha avuto nella
sinistra europea, “intrecciata” prima e “distaccata” poi dal
movimento operaio.
Agli
albori dello scorso secolo, essa era di gran lunga quella più forte
ed influente nel movimento operaio. Subì la sua prima caduta quando
sposò l'entrata in guerra della Germania e del suo imperialismo,
causando la rottura internazionale con l'ala comunista contraria
alla guerra, capeggiata da Lenin.
Nel
secondo dopoguerra riprese ruolo e consistenza, quando negò
l'originaria matrice marxista (Programma di Bad Godesberg, 1959), per
porsi, in Germania come in altri Paesi europei, a mediazione-difesa
degli interessi operai e popolari, all'interno di un “capitalismo
controllato” che si sentiva minacciato sul piano internazionale dal
“vento dell'Est” e dalle liberazioni nazionali del Sud del mondo,
nonché, su quello interno, da forti organizzazioni operaie e
social-comuniste.
Quel
periodo post-bellico (1945-1975) venne denominato dagli economisti il
“trentennio glorioso”, caratterizzato da una ineguagliata
crescita economica.
Negli
anni Ottanta, venuta meno l'incombente minaccia del comunismo, il
capitalismo dei Paesi ricchi d'Occidente, a guida statunitense, si è
sentito libero di ritornare ad essere se stesso, senza i freni
politici ed economico-finanziari imposti dal precedente stato di
necessità.
Fu
reintrodotto il liberismo economico e si diede inizio ad una nuova
fase di globalizzazione, con l'intento di superare la crisi
strutturale manifestatasi già dalla seconda metà degli anni
Settanta. Benché il tutto fosse presentato come “nuovo”, ed in
qualche modo lo era, si trattava pur sempre di una restaurazione9
politica, sociale e culturale.
La
socialdemocrazia e le sinistre europee, ivi compreso il Partito
Democratico della Sinistra nato dallo scioglimento del PCI alla
“svolta della Bolognina” (1991), avendo via via e pienamente
aderito al liberalismo, alla restaurazione ed alla globalizzazione,
con lo scoppio della epocale crisi del 2007-2008 si sono trovate
totalmente “spiazzate”. Non erano più né portatrici di un
cambio di civiltà socialista rispetto al capitalismo, né mediatrici
delle contraddizioni di classe all'interno del capitalismo stesso.
Da
qui la seconda parabola discendente, evidenziata dagli insuccessi
elettorali patiti dai partiti socialisti in tutto il vecchio
continente.
Alla
caduta del muro di Berlino il gruppo dirigente del PCI ha badato
innanzitutto alla propria auto-conservazione. Ha creduto di salvare
la propria funzione politica, aderendo al “nuovo” capitalismo ed
alle sue logiche. Di conseguenza anche i successori di quel gruppo si
ritrovano nella condizione di condividere la parabola discendente
poc'anzi, per sommi capi, descritta. Queste scelte spiegano il motivo
per cui le menti più illuminate della sinistra patiscono sconsolate
la propria disfatta, come fosse quella di una intera generazione.
Indomiti
italiani
Non
temono gli anatemi di coloro che, in Francia, Frédéric Lordon
chiama la “classe borghese istruita”, già pronta in Italia a
scagliarsi contro i nuovi “sovranisti-populisti-nazionalisti”,
tramite i veicoli giornalistici e televisivi di cui ampiamente
dispone.
Offrono
una visione controcorrente della realtà.
Sostiene
Formenti:
«Nel
mondo è in corso una guerra fra centri e periferie sia a livello
nazionale che a livello globale.»
Sul
piano nazionale, esiste un popolo delle periferie territoriali e
sociali, accomunato dal vivere sulla propria pelle gli effetti della
globalizzazione. Riunisce categorie fino a ieri in disaccordo:
«giovani,
lavoratori, pensionati, impiegati, disoccupati e sottoccupati,
dipendenti pubblici, agricoltori, piccoli imprenditori» ed
altri ancora.
«Non
nutrono una coscienza di classe tradizionalmente intesa»,
ma si trovano in opposizione ad una élite
di ricchissimi,
«sostenuta dai settori neoborghesi che gestiscono i settori del
terziario avanzato (comunicazione, finanza, industrie digitali,
spettacolo, ecc.) i quali occupano il centro delle grandi
concentrazioni urbane ad alto tasso di gentrificazione10».
Sul
piano globale «assistiamo
alle guerre scatenate dalle potenze occidentali per conservare il
dominio neocoloniale sui popoli del Medioriente, dell'Africa e
dell'America Latina.»
Gli
Stati Uniti cercano di difendere il loro traballante impero dalla
emergente potenza cinese, dalla Russia e da altre potenze regionali,
in un contesto che vede riproporsi il ruolo dello Stato-nazione sia
nei conflitti tra capitalismi nazionali, sia «come
terreno strategico del conflitto sociale, e quindi come cornice in
cui i popoli possono far valere i propri interessi e riconquistare
spazi di democrazia.»
Questi
passaggi mi sembrano fondamentali.
In
primo luogo, perché assumono la contraddizione tra Centro e
Periferie, prima adottata da molti analisti per interpretare le
grandi divisioni del mondo, anche per spiegare il principale
diaframma sociale interno alla nazione.
In
secondo luogo, perché la globalizzazione nella crisi ha rimesso in
gioco lo Stato-nazione, dato per scomparso o in via di sparizione.
Più
da vicino, osservando attentamente il modo in cui si è formata
l'Europa attuale, troviamo che lo Stato-nazione è andato
depotenziandosi non i tutti i Paesi ed in differente misura da Paese
a Paese, benché in ciascuno di essi abbia prevalso la rivalsa
sociale e politica contro le classi popolari. L'Europa attuale è la
realizzazione su scala continentale della globalizzazione liberista,
divisa in un Centro a trazione tedesca e differenziate Periferie, sia
in seno che attorno all'Unione. L'affermarsi del Centro non può
essere letto come una semplice conseguenza dell'andamento economico,
giacché le regolazioni ordinative (ordoliberiste) del mercato
appartengono ad una costruzione politicamente architettata, seppure
in
itinere:
imposta da alcuni Stati-nazione e subita, in modo più o meno
“pesante”, da altri. Vi si scorge una dinamica nella quale gli
Stati-nazione più forti hanno agito a detrimento della sovranità
nazionale degli altri, affermando di fatto il proprio nazionalismo e
dissimulandolo sotto la retorica europeista.
Sovranità
ed Exit
Se
ciò è vero, e se è altrettanto vero che, come sostiene Formenti,
la
sovranità popolare non può essere disgiunta dalla sovranità
nazionale,
come luogo in cui qui e subito può-deve esercitarsi la riconquista
di spazi di democrazia per le classi subalterne, ne consegue che la
loro congiunta riaffermazione entra in contraddizione con il
nazionalismo degli Stati del Centro, solo in apparenza abbandonato ma
sempre praticato. Come dimostra la crisi greca, “risolta” a
favore della finanza tedesca e francese, sequestrando a quel Paese
sia la sovranità nazionale che quella democratica.
L'establishment
vuole
presentare lo scontro in atto come uno scontro tra
nazionalisti-sovranisti fascistizzanti ed Europa sovranazionale della
convivenza pacifica tra i suoi popoli.
A
tal fine avvolge nell'oblio e non di rado censura la storia più
recente: dalla guerra nella ex-Jugoslavia, sospinta dai
riconoscimenti delle patrie etnico-confessionali, a quella
“umanitaria” contro la Serbia per staccarne il Kosovo, alla
guerra ancora in corso in Ucraina ai confini con la Russia. Tace di
avere utilizzato i più deleteri nazionalismi dell'Est europeo per
espandere il capitalismo occidentale in quei territori, salvo dirsi
“preoccupata” della loro presenza anche ai vertici degli Stati
inglobati o in via di inglobamento nell'Unione e gridare al pericolo
nazionalista e fascista da loro rappresentato.
D'altro
canto la stessa guerra in Libia, come ebbe ad affermare Prodi, fu
scatenata dalla Francia contro Mu'ammar Gheddafi per colpire, per
interposta persona, gli “interessi italiani”. E, come dimostrano
gli sviluppi più recenti, Macron non molla la presa.
In
questa trappola ideologica, negazionista storica, sono cadute anche
le forze della sinistra radicale.
In
questa trappola mostrano di non cadere i promotori del “Manifesto
per la sovranità costituzionale”, ancorando (Formenti) la
rivendicazione di sovranità al recupero di un concetto di patria
fondato su «un'unità
frutto di costruzione politica e non di ancestrale retaggio di
sangue. Un patriottismo la cui parola d'ordine non è prima l'Italia
ma prima il popolo e la Costituzione italiani. La sovranità
nazionale non è infatti per noi fine a se stessa bensì
il mezzo
per realizzare i valori e i principi di quella Costituzione del 48
tuttora in larga parte inattuati e che le élite mondiali e la nostra
borghesia nazionale vogliono affossare.»
Per
Mimmo Porcaro (seconda
condizione)
va segnato un ulteriore distacco, «l'allontanamento
da quello che io chiamo “sovranismo storico”, ossia da un
atteggiamento culturale e politico che meritoriamente sottolinea e
ribadisce il carattere antipopolare dell'Ue e dell'Uem (ndr
Unione europea monetaria),
ma proprio per questo tende, pur quando non vuole, a fare dell'exit e
del recupero della sovranità nazionale un fine in sé e non un mezzo
(…). Non si può costruire un partito sull'uscita dall'euro e sulla
rottura con l'Unione. Non si costruisce un partito con un largo
seguito popolare su una serie di negazioni.»
Bisogna
altresì muovere dalle esigenze positive, tornando a “fare società”
e a fare politica.
Rispetto
all'Europa: «Si
tratta di non presentare l'exit come programma immediato, di avere
per ogni evenienza un programma di governo sic stantibus rebus, e di
definire contemporaneamente un piano A di uscita negoziata e di
apertura ad una ricostruzione dell'Ue su basi confederali, ed un
piano B di uscita unilaterale in risposta al precipitare di una crisi
non altrimenti gestibile. (…) Non
esiste nessuna possibilità di uscita negoziata se gli interlocutori
non percepiscono che l'Italia ha elaborato e un programma di exit
unilaterale credibile e dotato di sostegno popolare.»
Come
appare evidente, pur con articolazione diversa delle possibili
soluzioni, questa impostazione è piuttosto in sintonia con quella di
Thomas
Guénolé di France
insoumise,
di cui ho trattato nel precedente Post di marzo, a proposito del
dibattito nella sinistra francese.
Il
dato è tratto?
Un
nuovo percorso è iniziato. Mi pare opportuno avanzare qualche
considerazione in vista di ulteriori approfondimenti. Comincio da due
punti salienti: la nostra Costituzione ed il rapporto con la Lega ed
il M5S, oggi al governo giallo-verde.
La
nostra Costituzione
Il
patriottismo costituzionale italiano si differenzia dal patriottismo
costituzionale europeo, a suo tempo preconizzato da Jürgen Habermas,
per un fatto sostanziale: la
nostra Carta del 1948 fu frutto di un reale processo di unificazione
politica nazionale e popolare che in Europa non si è mai realizzato.
Per molti motivi, tra i quali figura proprio il modo in cui è stata
ordinata l'Unione.
L'ancoraggio
alla nostra Carta permette di sviluppare un discorso solido sul piano
sociale, sulla funzione pubblica in economia, sulla pace e
cooperazione tra i popoli, sui Trattati,11
capace di fermentare una ampia unità popolare. Non è poca cosa
avere alle spalle il responso di due referendum popolari, uno voluto
dal centro-destra e uno dal centro-sinistra, che ne hanno impedito lo
stravolgimento.
Benché
la condotta del presidente Mattarella, ricordata all'inizio, sia in
conflitto con la ratio
del dettato costituzionale (da cui è estraneo l'art. 81 sul
“pareggio di bilancio”), non di meno viene esercitata sulla base
di un vincolo: esso attiene non tanto al rispetto dei Trattati
internazionali sottoscritti dall'Italia, quanto all'esclusione di
qualsivoglia pronunciamento popolare diretto, a convalida o rifiuto,
di tali Trattati.
È
un nodo che rimanda al 1948, quando l'Italia, Paese sconfitto ed
occupato, doveva rientrare forzatamente nell'Occidente atlantico. La
sua sovranità doveva essere e fu limitata.
Questa
limitazione di sovranità post-bellica è stata utilizzata anche in
rapporto alla costruzione dell'Europa dopo il muro, allorché - si
era già alla fine degli anni Ottanta – salvo non poche
“perplessità”, l'intero establishment
italiano la condivise, intendendo mettere sotto chiave, a futura
memoria, questa decisione a(nti)democratica.
Se,
per fare un esempio di attualità, i popoli del Regno Unito hanno
potuto pronunciarsi prima (1975) sull'adesione alla Comunità europea
e poi (2016) sulla permanenza nell'Ue, ciò è dovuto all'esercizio
della piena sovranità britannica. Una sovranità esercitata dai
francesi e dagli olandesi quando (2005) hanno respinto la cosiddetta
Costituzione europea.
Stante
questo vulnus
storico, il nostro Paese si ritrova ora nella condizione di dover
riconquistare la propria piena sovranità, navigando nelle
contraddizioni sia con la Nato e gli Usa, sia con l'Unione europea,
sia tra Ue e Stati Uniti. Un compito difficile, se solo pensiamo alle
polemiche scatenate dalla recente firma dell'accordo commerciale con
la Cina e dalla scelta del governo giallo-verde di non allinearsi con
gli Stati Uniti nel riconoscimento dell'autoproclamato presidente
Guaidó in Venezuela. Tutte occasioni nelle quali la Lega di Salvini
si è prontamente allineata a Washington.
Un
compito che richiede una articolata strategia di politica estera,
senza la quale anche il confronto con le forze politiche oggi al
governo rischia di rimanere inefficace.
Lega
e M5S
Ho
riportato per intero la terza
condizione
posta da Porcaro [vedi
nella finestra in pagina],
in quanto essa contiene importanti indicazioni di metodo e, al tempo
stesso, lascia in sospeso temi sui quali, e Porcaro mostra di esserne
consapevole, sarà indispensabile l'approfondimento.
Mimmo
Porcaro
è
autore di:
“I
difficili inizi di Karl Marx.
Contro chi e per che cosa leggere Il Capitale oggi”, Dedalo, 1986;
“Metamorfosi
del partito politico.
Associarsi contro il capitale”, Punto Rosso, 2000;
“Tendenzen
des Sozialismus im 21. Jahrhundert:
Beiträge zur kritischen Transformationsforschung 4. Eine
Veröffentlichung der Rosa-Luxemburg-Stiftung”,
VSA, 2015;
“L'invenzione
della politica.
Movimenti e potere”, (con Stefano Calzolari), Punto Rosso, 2017.
Ai
frequentatori dei dibattiti sul Web, è noto per il “dialogo” con
Alberto Bagnai, il quale, nonostante le riflessioni sugli argomenti
portati da Porcaro, scelse di aderire alla Lega, venendo eletto
senatore.
Nel
maggio del 2018, insieme a Carlo Formenti e Ugo Borghetta, Mimmo
Porcaro crea “Rinascita! Per un'Italia sovrana e socialista”.
Mimmo
Porcaro,
nel suo intervento all'assemblea di presentazione del “Manifesto
per la sovranità costituzionale” indica 3
condizioni affinché
le promesse ivi contenute possano realizzarsi.
Di
seguito, in versione integrale, la terza condizione:
«Dobbiamo
avere la capacità di connetterci immediatamente ad ogni movimento
sociale in cui si esprima il disagio popolare. Anche quando si tratta
(come è oggi inevitabile) di movimenti spuri ed ambigui. Ma prima
ancora dobbiamo costruire un’organizzazione politica che sia
espressione di quel popolo: un partito i cui aderenti e dirigenti
provengano soprattutto dalle fila del precariato, del lavoro
malpagato, dell’immigrazione; un partito in cui si possa creare
l’abbozzo di quell’alleanza tra lavoro più e lavoro meno
qualificato la cui mancanza condanna tutti i lavoratori alla
subalternità. E una tale organizzazione deve, appunto, fare
politica. Intendo con ciò qualcosa di diverso dalla semplice
rivendicazione della propria identità e dalla circolazione di tale
identità nell’universo mediatico: quella sorta di “selfie di
massa” a cui si è ridotta oggi la politica della sinistra. Intendo
piuttosto la capacità di intervenire sempre, in ogni congiuntura
determinata, con proposte che tendano a spostare i rapporti di forza
a nostro favore e a favore delle classi subalterne. Ad esempio sottolineare le manchevolezze del M5S e contrapporvi la nostra più
lucida e completa analisi è un’operazione identitaria; individuare
le contraddizioni nel M5S e avanzare proposte precise che ne
accentuino la dialettica interna è fare politica. La prassi
identitaria è inevitabile, e in certi momenti è l’unica che ci è
concessa. Ma bisogna sempre avere presente la differenza.»
La
situazione italiana si differenzia da quella francese, oltre per la
rottura necessaria con la sinistra qual è a casa nostra, per il
fatto che il “momento Polanyi”, di rifiuto sociale dei disastri
prodotti dalla globalizzazione liberista, è stato già raccolto,
seppur in modo parziale e contraddittorio, dalle due forze
parlamentari oggi alleate al governo.
A
mio avviso, l'invito ad accentuare la dialettica interna al M5S
andrebbe estesa anche alla Lega, giacché non è affatto scontato che
il suo popolo digerisca tutte le piroette politiche del suo capo, in
particolare nel rapporto affatto sovrano con l'impero degli Stati
Uniti d'America.
Per
agire con incisività sulle contraddizioni materiali e politiche,
gioverebbe comprendere meglio il latente contrasto tra il capitale
finanziarizzato italiano, accorpatosi “senza se e senza ma” tanto
all'Unione europea quanto alla globalizzazione, ed il capitale delle
produzioni di merci e servizi (la cosiddetta economia reale) legato
sì all'export ma soprattutto al mercato interno. Questo capitale è
composto da una miriade di piccole-medie imprese, alle quali il
vecchio regime non sa offrire prospettive. Una adeguata ripresa del
ruolo pubblico nella grande impresa, nonché piani di riassetto del
nostro disastrato territorio nazionale e del welfare,
a partire dalla sanità e da scuola-università-ricerca, potrebbe
offrire loro uno sbocco, che va condizionato alla rivalorizzazione
del lavoro dipendente ed autonomo. Sarebbe un modo, se connesso alle
nuove tecnologie, per staccare dal carro della neo-borghesia tutti
coloro i quali, pur lavorando nei settori del terziario avanzato,
sono avvolti dalla sua nube ideologica, ma rimangono sfruttati e
precari al pari e più di altri settori, come pure sostiene Carlo
Formenti nelle sue recenti pubblicazioni.
Perciò
è oltremodo condivisibile proporsi con un atteggiamento che eviti il
più possibile la “prassi identitaria”, preferendole “proposte
precise” sulle quali confrontarsi.
Anche
perché molti dei promotori del Manifesto non vengono dal nulla e
sconteranno sicuramente il ritardo col quale sono arrivati alle
odierne scelte.
Ciò
chiama in causa aspetti dell'agire politico e della forma
organizzativa di questo agire.
Se
è piuttosto facile mettere alla berlina il “selfie di massa” a
cui si è ridotta la sinistra, non altrettanto si può dire dello
sforzo di usare le possibilità, offerte dalle nuove tecnologie
comunicative, di connettere in rete la partecipazione politica,
nonché della risposta da dare al diffuso rigetto del “professionismo
politico” di chi s'insedia nelle istituzioni per decenni.
Non
appare ancora chiaro, quale forma debba assumere il “nuovo
partito”, così come non si comprende chi e con quali mezzi debba
connettersi con i movimenti sociali, dando per scontato che si tratti
di movimenti spuri ed ambigui, con i quali occorre collegarsi non
temendo, coraggiosamente, di “sporcarsi le mani”.
In
particolare vanno chiariti i rapporti tra movimenti ed
organizzazione, nonché tra questi e gli eletti nelle assemblee
istituzionali.
La
società nella quale viviamo ha visto mutare la vita quotidiana,
fatta di tempi e luoghi di lavoro, di studio-formazione, che hanno
magari dilatato un frammentato “tempo libero” nel generale
contrarsi di un effettivo “tempo liberato”. Comunicazione e
cultura in questo contesto sono immersi.
L'esperienza
del M5S va attentamente compresa, senza supponenze, perché essere
consapevoli dei suoi limiti e delle sue contraddizioni, del rischio
che venga isolata e condannata alla sconfitta, o peggio
all'addomesticamento, non
ci esime ma ci impone
di affrontare i problemi che ha posto all'agire politico di chi vuole
cominciare un nuovo percorso d'impegno e di lotta dalla parte delle
classi subalterne.
Note
1
Per “momento Polanyi” s'intende quel passaggio, analizzato agli
inizi degli anni quaranta del '900 dallo studioso Karl Polanyi, per
cui al movimento della finanziarizzazione segue il rigetto (il
Contromovimento) dell'insieme sociale che non ne accetta le
devastanti conseguenze.
2
Al primo turno delle elezioni presidenziali del 2017, Jean-Luc
Mélenchon raccolse
il 19,58% dei suffragi, distanziando di molti punti il candidato
socialista,
Benoît
Hamon,
fermo al 6,36%. I candidati che passarono al secondo turno furono
Emmanuel Macron (En marche!)
con il 24,01% e Marine Le Pen (Front
National) con il 21,30%.
3
Come ad esempio vorrebbero i promotori (Punto Rosso, Fondazione
Sabattini e Fiom-CGIL Milano) dell'assemblea convocata presso la
Camera del Lavoro di Milano per il 15 aprile. Previsti interventi di
Luciana Castellina, Rosa Fioravanti, Matteo Gaddi, Gianni Rinaldini.
Coordina Roberta Turi.
4
Mario Tronti e Andrea Bianchi, “Il popolo perduto – Per una
critica della sinistra”, Nutrimenti, 2019.
5
Alberto Asor Rosa, “Machiavelli e l'Italia – Resoconto di una
disfatta”, Einaudi, 2019.
9
Luciano Gallino ha scritto di “Colpo di Stato di banche e governi
– L'attacco alla democrazia europea”, Einaudi, 2013.
10
Gentrificazione: trasformazione
di un quartiere popolare in zona abitativa di pregio, con
conseguente cambiamento della composizione sociale e dei prezzi
delle abitazioni.
11
Vedi anche: di Luciano Barra Caracciolo: ”Euro e (o?) democrazia
costituzionale – La convivenza impossibile tra Costituzione e
Trattati europei”, Dike, 2013; “La Costituzione nella palude –
Indagine su trattati al di sotto di ogni sospetto”, Imprimatur,
2015; di Vladimiro Giacché, “Costituzione italiana contro
Trattati europei – Il conflitto inevitabile”, Imprimatur, 2015.
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