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Quando
disuguaglianza e povertà vengono indagate alla radice si svela il
mistero... Anche l'eclettismo più audace del pensiero globale
“accreditato” si autoimpone un limite critico da non valicare,
che infine lo costringe ad un riformismo tanto inconsistente quanto
improbabile. Un confronto con le idee di Milanovic, Piketty e Lordon.
Puntualmente
ogni anno a gennaio, alla vigilia del World
Economic Forum
di Davos, dove si riuniscono leaders politici ed aziendali a livello
internazionale, Oxam lancia allarmi sulla povertà e sulla
disuguaglianza. Dopodiché, altrettanto puntualmente, i convenuti nel
mitico villaggio tra i monti della pacifica Svizzera vanno comunque
per la loro strada: tanto preoccupati di proiettare di sé una buona
immagine, quanto sostanzialmente tesi a preservare un
mondo-che-poi-non-è-tanto-male-nonostante-tutto.
Sostiene
Oxam che la ricchezza si concentra in poche mani e la forbice tra
ricchi e poveri si amplia:
«Lo
scorso anno le fortune dei super-ricchi sono aumentate del 12%, al
ritmo di 2,5 miliardi di dollari al giorno, mentre 3,8 miliardi di
persone, la metà più povera dell’umanità, hanno visto diminuire
quel che avevano dell’11%. In
Italia, a metà 2018, il 20% più ricco dei nostri connazionali
possedeva circa il 72% dell’intera ricchezza nazionale.
E il 5% più ricco degli italiani possedeva da solo la stessa quota
di ricchezza del 90% più povero.»1
La
tendenza sarebbe imputabile alla evasione ed elusione fiscale delle
grandi imprese e dei più ricchi, sicché la riduzione della povertà
estrema subisce rallentamenti ed aumentano i dislivelli sociali.
Fenomeni ai quali si potrebbe iniziare a porre rimedio, se venissero
recuperate le risorse necessarie tramite una più giusta ed adeguata
imposizione fiscale.
L'attenzione
è posta soprattutto sulla polarizzazione dei redditi e della
ricchezza posseduta. Rimane tuttavia un mistero di come tale
polarizzazione sia continuamente e sistematicamente generata,
riproponendo l'edificio stratificato delle ineguaglianze, con alla
base l'immancabile interrato della povertà.
Negli
ultimi anni, pubblicazioni di autori come Thomas Piketty e Branko
Milanovic hanno cercato delle spiegazioni ed avanzato proposte. Con
significativi approfondimenti ed analisi diversamente svolte.
Seppure
in modo sintetico e focalizzando alcuni argomenti, vale la pena
riprenderle.
Classe
media, quo vadis?
Branko
Milanovic è ritenuto uno dei più grandi economisti oggi al lavoro
sulla disuguaglianza globale. [Vedi
“Un economista globale” nella finestra in pagina.]
Poiché
nel secondo periodo post-bellico, i paesi ricchi d'Occidente hanno
basato successo, stabilità ed attrattiva sull'ampliamento della
classe media di reddito e consumi, che inglobava parti cospicue di
lavoro salariato, il fatto che essa si stia assottigliando ed
impoverendo,2
è motivo di grande allarme.
Un
economista globale
Branko
Milanovic
(Belgrado, 1953) è considerato uno dei più grandi economisti oggi
all'opera sul tema delle disuguaglianze. È dal
gennaio 2014 visiting
professor
presso il City University of New York Graduate Center e uno studioso
associato presso il Luxembourg Income Study. Precedentemente era
stato il principale
economista nel dipartimento di ricerca della Banca Mondiale,
visiting
professor
alla Università del Maryland e alla Johns Hopkins University. Tra il
2003 e il 2005 è stato associato senior presso Carnagie Endowment
for International Peace a Washington. Ha fatto il suo dottorato di
ricerca all'Università di Belgrado nel 1987 con la dissertazione
(pubblicata come un libro nel 1990) sulla disuguaglianza economica in
Jugoslavia, utilizzando per la prima volta i microdati dalle indagini
sulle famiglie jugoslave.
“Ingiustizia
globale. Migrazioni, disuguaglianze e futuro della classe media”,
Luiss, 2017 (titolo originario: Global Inequality. A New Approach
for the Age of Globalization, 2016) è il libro di Milanovic dal
quale sono tratte tutte le citazioni che in questo articolo lo
riguardano.
Di
contro, le dotazioni di ricchezza, redditi e potere mostrano di
concentrarsi su un numero di individui sempre più ristretto, dando
origine ad una sorta di “plutocrazia”. L'insieme minaccerebbe le
fondamenta stesse della liberal-democrazia occidentale.
Tra
il 1988 e il 2008, infatti, la globalizzazione ha consentito l'ascesa
della “classe media globale” in Cina e nell'”Asia rinascente”,
comportando, di converso, «la stagnazione, nel mondo ricco, dei
gruppi che a livello globale sono benestanti, ma a livello nazionale
appartengono alla classe media inferiore e media».
Nel
periodo tra la caduta del muro di Berlino e lo scoppio della crisi
finanziaria: «i grandi vincitori sono stati i poveri e le classi
medie asiatiche; i grandi perdenti, la classe media inferiore del
mondo ricco.»
Mentre
nel mondo ricco la classe media inferiore perdeva, in quel mondo
vinceva però l'1%, giacché il più ricco 1% a livello globale per
metà appartiene agli Stati Uniti e, a seguire, in prevalenza
all'Europa occidentale, al Giappone e all'Oceania. Residuale la
presenza di paperoni in Brasile, Sudafrica e Russia.3
Qualora,
invece del cambiamento relativo in percentuale, osserviamo il
cambiamento in guadagni di reddito assoluti (in dollari) la
prospettiva muta.
«(...)
il 44 per cento del guadagno assoluto finisce nelle mani del più
ricco 5 per cento globale, e quasi un quinto dell'incremento totale
lo riceve il più ricco 1 per cento. Al contrario, gli individui che
abbiamo definito i principali
beneficiari dell'attuale èra della globalizzazione, la “classe
media globale emergente” hanno ricevuto solo (per ventili) tra il 2
e il 4 per cento dell'aumento della torta globale, o in totale
circa il 12-13 per cento.»
In
termini assoluti, i maggiori frutti sono andati ai “plutocrati”
occidentali, che sono tali perché la loro enorme ricchezza li rende
fortemente “influenti” sulla vita politica e sociale dei Paesi ai
quali appartengono e non solo su di essi.
D'altro
canto: «non dovremmo accorpare le classi medie provenienti dalle
economie di mercato emergenti (individui con un reddito pro capite
che si aggira intorno ai 1000$ e meno di 2000$ all'anno) con le
classi medie inferiori del mondo ricco (individui con un reddito al
netto delle tasse tra i 5000$ e i 10.000$ circa l'anno; tutto in
dollari internazionali 2005).»
Insomma,
il paese nel quale si nasce e risiede non
ha perso importanza. Tanto più se teniamo conto del PIL
procapite, registrato nel 2013, distribuito in base alla popolazione
mondiale paese per paese: a farla da padroni sono ancora USA,
Germania, Canada, quasi tutta l'Europa occidentale ed il Giappone.
Benché nel periodo immediatamente successivo al crack finanziario
(2008-2011) risulti «una continuazione e persino una accelerazione
delle tendenze della globalizzazione» in atto nel periodo
precedente.
A
causa della crisi finanziaria, l'1% più ricco a livello globale (in
cui figura ben il 12% dei nordamericani più ricchi) ha visto le
proprie fortune adombrarsi, concentrandole però nelle mani di un
piccolo selezionato gruppo, 1 centesimo dell'1% globale.
Questo
gruppuscolo possiede due volte la ricchezza esistente in tutta
l'Africa.
Il
politico e l'economico
Sia
Thomas Piketty4
che Milanovic trattano delle disuguaglianze ed elaborano teorie per
spiegare la storia economica.
Per
Piketty la disuguaglianza si è ridotta dagli anni trenta del
Novecento fino agli anni settanta, tornando poi ad aumentare sino ai
livelli prodotti dalla Rivoluzione Industriale. Ne consegue che la
teoria di Kuznets,5
secondo la quale la disuguaglianza aumenta nei periodi di sviluppo,
per ridursi in seguito all'acquisita maturità economica, è
smentita. Solo eventi esogeni, quali le due guerre mondiali e la
forza di partiti politici (socialisti e comunisti), sono intervenuti
per correggere l'andamento dell'economia dall'esterno. Questo perché
gli alti livelli di disparità sociale sono connaturati alle moderne
economie.
A
questa visione di Thomas Piketty, Branko Milanovic contrappone un
singolare quanto inatteso recupero teorico sia di Marx che di Lenin.
Nell'Ottocento
la differenza era di classe, tra ricchi e poveri, universalmente
preponderante e presente in ciascun paese. Al tempo in cui vive Marx
“il proletariato non ha nazione”. Nel Novecento prevale la
disuguaglianza tra nazioni, che portò John Hobson e Vladimir Lenin
ad analizzare l'imperialismo. L'ultima globalizzazione riduce le
differenze tra nazioni, ma non le supera, riportando a galla la
contraddizione intra-nazionale di classe. Benché quest'ultima si
differenzi da quella ottocentesca.
Il
recupero di un bagaglio teorico, complessivamente avverso alle
convinzioni liberal-democratiche di Milanovic, è reso possibile
dalla sua specifica provenienza culturale.6
Testimonia del suo eclettismo anche l'opporsi alla separazione tra
economia e politica, tanto in voga negli ultimi decenni liberisti. A
sostegno della sua tesi torna ad una interpretazione meno recente
dello scoppio della Prima guerra mondiale.
«(...)
la guerra origina da una rivalità imperialista, integrata nelle
condizioni interne all'epoca: una disuguaglianza di reddito e
ricchezza molto elevata, nutriti risparmi delle classi alte,
un'insufficiente domanda aggregata interna ai paesi, e la necessità
da parte dei capitalisti di trovare usi redditizi fuori dal loro
paese per l'eccedenza di risparmi.» Sicché la guerra, come la
politica della quale è continuazione “con altri mezzi”, non è
esterna (esogena) all'economia, o, usando il linguaggio corrente,
alla macro-economia.
Potremmo
aggiungere, ma a tal punto Milanovic non giunge, che l'economia a sé
stante non esiste: esistono l'economia politica e la politica
economica. Rimane da capire se, persistendo oggi la disuguaglianza
tra nazioni, pur accompagnata dal risorgere di forti diaframmi
interni nazionali tra le classi, la categoria dell'imperialismo possa
essere considerata obsoleta. Oppure solo da aggiornare, in base alle
dinamiche della globalizzazione contemporanea.7
Non
è questa la sede appropriata per discutere della dell'andamento
delle “curve di Kuznets”, su cui molto si spende Milanovic.
Importa qui porre l'attenzione sull'insegnamento generale al quale
l'economista serbo perviene e che non può riferirsi unicamente al
Novecento: «Un livello di
disuguaglianza molto elevato alla fine diventa insostenibile, ma non
si abbassa da solo; genera piuttosto processi che portano la sua
diminuzione, processi come le guerre, i conflitti sociali e le
rivoluzioni.»
Una
diversa critica a Piketty
Quando
“Le capital au XXIe siècle”8
di Piketty raggiunse il massimo successo,
Frédéric Lordon, dalle colonne di Le
Monde diplomatique,9
gli rivolse fondate critiche che si distinguono da quelle avanzate
da Branko Milanovic.
Frédéric
Lordon
economista
e filosofo, docente all'Istituto di studi politici di Parigi, è
autore di “La
Malfaçon
monnaie
européenne et souveraineté democratique”,
Le liens qui libèrent, 2014.
Lordon
imputa Piketty di nutrire un pensiero economicistico, il quale
immagina di poter «rinchiudere il corso del capitalismo dentro leggi
invarianti e trans-storiche.» Nell'analisi di Piketty «non c'è
tanto il capitalismo, quanto la successione delle sue attuazioni
storiche», incapace di «mostrare cosa ci sia di prettamente
politico nella [sua] dinamica storica». Per Lordon, essa viene
scandita «da singolari configurazioni istituzionali, la cui
successione è da attribuirsi per lo più a processi politici;
inoltre, ognuna trae specifiche proprietà dalle forme di servitù
che il capitale – e non la ricchezza – impone al lavoro.»
Ecco
il punto: il capitale, non la ricchezza.
Per
Piketty il capitale è la ricchezza dei ricchi, mentre per Lordon,
con Marx, il capitale è un modello produttivo, ossia un rapporto
sociale che implica il lavoro salariato.
Ciò
lo distingue dalle semplici economie commerciali, alle quali si
aggiunge.
Disuguaglianza
e povertà sono fenomeni visibili in superficie, lo “scandalo del
nostro tempo”, eppure le loro radici affondano nel divenire storico
del modello produttivo, nei suoi sistemi di sfruttamento interni (tra
classi) ed internazionali (tra nazioni), da non confondere con la
ripartizione dei benefici di reddito e patrimoniali a cui danno di
volta in volta origine.
Disuguaglianza
e povertà non cadono dal cielo; la loro origine non è un mistero.
Inoltre,
se nella storia dei due conflitti mondiali, e dei relativi periodi
post-bellici, il capitale è stato «ricondotto a un po' più di
decenza», lo si deve alle lotte politiche ed alle rivoluzioni.10
L'interpretazione
del capitale come ricchezza porta Piketty a dover tacere su molti
aspetti del presente. Ad esempio: sul libero scambio e le sue
devastazioni, sulla tirannia del valore azionario, sulla crisi
finanziaria del 2007-2008 e, dulcis
in fundo,
sulle ragioni della crisi europea e sul “malfatto” della moneta
unica.
Non
meravigli, dunque, che l'approdo di Piketty sia la “regolazione del
capitale”, la quale, essendo la ricchezza dei ricchi, equivale...
alla loro tassazione.
Date le premesse, non può certo pervenire alla messa in discussione
delle strutture odierne sulle quali è impiantato il capitalismo
della mondializzazione.
Nella
“tassazione-rimedio” rintracciamo quanto sostenuto da Oxfam e
riportato nell'introduzione. Non trovate strano che una Ong
umanitaria alimenti le stesse posizioni politiche di un membro della
«gilda degli esperti dal cappello a punta» (Lordon), promossi dai
media dell'establishment al rango di massimi intellettuali del
nostro tempo?
Anche
la proposta riformatrice di Milanovic, come vedremo, non riesce a
staccarsi da quella che in genere viene spesso definita un'ottica
meramente “re-distributiva”, nel suo caso in gran parte
“pre-distributiva”.
Tuttavia,
di nuovo il suo eclettismo ci riserva qualche interessante spunto
conoscitivo e, visto in controluce, di contraddittoria fecondità.
Cina
all'apice
In
base ai dati disponibili, Milanovic constata: «Non solo la
convergenza ponderata sulla popolazione è un fenomeno asiatico, lo è
anche la convergenza non ponderata: sono solo i paesi asiatici a
raggiungere il mondo ricco.»
In
particolare, a divergere è l'Africa, il continente più
povero:«(...) il PIL pro capite reale africano nel 2000 è 20 per
cento più basso del suo livello nel 1980.» L'Africa rimane il cuore
del 3° Mondo.
Oltre
ai cambiamenti tra nazioni, considerare quelli interni alle nazioni,
della Cina da un lato e degli Stati Uniti dall'altro, può essere
assai istruttivo perché essi sono i leaders rispettivamente del 2°
e 1° Mondo.11
Secondo
dati e studi degli ultimi anni, la Cina è sul punto di superare
l'apice della disuguaglianza, iniziando la fase del riequilibrio.
Ma forze contrarie potrebbero frapporsi, quali la corruzione ed il
sistema politico che esso genera a libello regionale. La
«disuguaglianza tra le provincie marittime e quelle
dell'entroterra»12
sono di per sé uno dei principali fattori di divergenza.
In
controtendenza potrebbe intervenire anche la forte concentrazione
della proprietà di capitale che indirizza la relativa quota di
reddito.
Sino
ad ora le condizioni brutali di sfruttamento hanno provocato una
«epidemia di scioperi e proteste locali» rivolte contro le autorità
più vicine, ma nulla garantisce che esse non possano investire il
centro di un «sistema politico [che] ha una struttura piramidale
molto simile a quella della Cina imperiale, con all'apice la
burocrazia comunista invece che quella imperiale».
«Questo
porterebbe ad una dissoluzione formale o informale del paese (...)»
Stati
Uniti senza riequilibrio
Le
forze di riequilibrio presenti in Cina, non sembrano esistere negli
Stati Uniti.
Milanovic
vede l'avvicinarsi di una “tempesta perfetta”. Cinque i temi su
cui si sofferma [vedi nella finestra “5
motivi per una Plutocrazia”].
5
motivi per una Plutocrazia
«-
Maggiore elasticità di sostituzione tra capitale e lavoro, di fronte
ad una maggiore intensità di capitale di produzione, manterrà alta
la quota del reddito nazionale che proviene dai proprietari di
capitale.
-
I redditi da capitale rimarranno altamente concentrati, conducendo
così a una elevata disuguaglianza interpersonale di reddito.
-
Grandi percettori di reddito da capitale e da lavoro potrebbero
essere sempre più gli stessi individui, esacerbando così
ulteriormente la disuguaglianza di reddito generale.
-
Individui molto qualificati che sono ricchi sia per lavoro sia per
capitale tenderanno a sposarsi tra loro.
-La
concentrazione del reddito rafforzerà il potere politico dei ricchi
e renderà anche meno probabili di prima i cambiamenti di linee
politiche che siano a favore dei poveri in ambito di fisco,
finanziamenti dell'istruzione pubblica, e spesa per le
infrastrutture.»
da
Branko Milanovic,
Ingiustizia globale”, Luiss 2017 (2016), dal paragrafo “Gli
Stati Uniti: una 'tempesta perfetta' di disuguaglianza?”
(pagg. 169-170).
È
manifesta la tendenza alla sostituzione del lavoro con macchinari di
nuova tecnologia, cioè con capitale (direbbe Marx: di capitale
variabile con capitale costante) che è sempre più concentrato in
poche mani nella forma finanziaria. Un aumento della quota di redditi
da capitale si traduce direttamente in una maggiore concentrazione
dei ricchezza e reddito generale.
In
parallelo è documentata la crescente tendenza dei redditi più
elevati da lavoro a concentrarsi sugli stessi individui percettori
dei redditi da capitale. Milanovic
ne trae una conclusione: «È nato così un nuovo capitalismo, molto
diverso da quello classico basato sulla divisione tra capitale e
lavoro incarnato da individui diversi.» Questi individui «hanno
un'istruzione superiore, lavorano sodo ed hanno una carriera di
successo. La disuguaglianza appare così adornata di meritocrazia.»
In
più questi individui tendono a sposarsi tra loro, in quello che è
chiamato “accoppiamento assortativo”.
Se
consideriamo che il danaro riveste crescente importanza nelle vicende
elettorali ed il divario rilevato nell'influenza sul ceto politico
gioca a sfavore non solo dei poveri ma pure della classe media: «Così
nasce una plutocrazia.»
Pericoli che incombono
A
questo punto la pur puntigliosa disamina della disuguaglianza e della
povertà mostra, per così dire, la corda. Il ritorno al locale che
comprometterebbe la divisione internazionale del lavoro, «fattore
chiave della crescita economica», non può essere liquidato con il
solito allarme sul “populismo” e le sue derive.
Trump
viene eletto nel novembre del 2016. Tra i suoi votanti figurano
segmenti di classe operaia e di classe media impoverita, ma riscuote
l'appoggio di settori di capitalismo nord-americano ai quali non
manca il denaro per esercitare l'influenza politica. Vi si può
intravvedere una forte propensione a privilegiare gli interessi del
capitalismo USA impegnato sul suolo nazionale, ma non a tralasciare
quello che si è diramato in tutto il mondo. Quest'ultimo può
dividersi su quale strategia sia migliore, se quella free trade
di Obama-Clinton o quella di Trump, dei dazi e degli accordi
bilaterali per riequilibrare la propria bilancia commerciale.
Ma,
come dimostra anche l'unità politica interna raggiunta sulla crisi
venezuelana, non rinuncia sicuramente a tentare di esercitare il
primato globale, né ad agitare il manganello militare.
Può
sembrare paradossale, ma le “chiusure” dell'attuale
amministrazione di Washington convergono oggettivamente sulla
medesima necessità evidenziata da Milanovic: impedire che
“l'assottigliamento” della middle class proceda e si
tramuti in instabilità politico-sociale interna, in misura tale da
minare alla base nazionale la potenza americana.
Ciò
sta pure a significare che:
- il conflitto tra le classi interno alla nazione, seppur inespresso nella forma classica, non è estinto dal confluire sugli stessi individui dei redditi più elevati da lavoro e di quelli da capitale concentrato e finanziario (processo in corso);
- il conflitto tra nazioni e Stati-nazione vive un passaggio assai difficile, perché gli Stati Uniti non abbandonano la propria vocazione imperialista e, al contempo, non si riconoscono in coincidenza d'interessi con i tradizionali alleati occidentali (Unione europea e Germania in particolare);
- sicché con la Cina e col secondo mondo emergente preferiscono sbrigarsela da soli, detenendo ancora il primato militare mondiale (la cui struttura economica non è disgiungibile dalla politica di potenza).
D'altro
canto, quando Milanovic afferma che la disuguaglianza tra nazioni (e
tanto più nella ripresa delle disuguaglianze interne alle nazioni)
non è cessata, dovrebbe ammettere che la
globalizzazione liberista di questi ultimi decenni ci consegna, in
mutate condizioni, conseguenze analoghe a quelle che precedettero lo
scoppio del primo conflitto mondiale.
In
altre parole, per capire veramente il prossimo futuro, vanno indagate
quelle “mutate condizioni”.
Improbabili
rimedi
Milanovic
pensa possibile una regolazione del capitale nel contesto
dell'attuale globalizzazione.
A
differenza di Piketty, il suo diverso approccio lo porta a
focalizzare le “dotazioni di partenza”, in aggiunta
all'imposizione fiscale.
Come
ottenere un «riequilibrio delle dotazioni?»
«Anche
qui, come in passato, il ruolo dei governi è cruciale, sebbene in
questo caso non operino sui redditi attuali (tassandoli e
ridistribuendoli) quanto piuttosto, più sul lungo periodo, verso
un riequilibrio delle proprietà di capitali e dell'istruzione.
Le politiche che opererebbero in favore di questo riequilibrio
comprendono (1) imposte di successione più elevate (come chiede
Piketty) che non permetterebbero ai genitori di trasferire nutriti
beni patrimoniali ai propri figli, (2) politiche per imposte sul
reddito delle società che stimolerebbero le aziende a distribuire
quote ai lavoratori (spostandosi verso un sistema di capitalismo a
responsabilità dei lavoratori) e (3) politiche fiscali e
amministrative che permetterebbero ai poveri e alle classi medie di
possedere e mantenere beni finanziari.»
«Ma
queste politiche non basterebbero. (…) Per
ridurre la disuguaglianza delle dotazioni devono unirsi una proprietà
più diffusa del capitale e una distribuzione più uguale
dell'istruzione. (…) Per andare in questa direzione è
necessaria una nuova enfasi sull'istruzione finanziata dallo Stato.
(…) L'unico modo sensato che rimane per riequilibrare le dotazioni
dell'istruzione è quello di rendere l'accesso alle scuole migliori
più o meno uguale a prescindere dal reddito dei genitori e, aspetto
anche più importante, di riequilibrare la qualità dell'istruzione
tra le varie scuole. Questo può essere conseguito soltanto con
investimenti statali e sostegni finanziari.»
In
un contesto di potere internazionale della finanza, come quello oggi
dominante, che i governi si accordino sulle imposte di successione
appare alquanto inverosimile.
Cosa
impedirebbe, nell'attuale forma “liquida”, ai patrimoni
finanziari di trasferirsi con un semplice “invio” sulla tastiera
del proprio computer? Non è già operativa su larga scala l'elusione
fiscale con “trasferimenti” nei paradisi predisposti a questo
scopo?
Dovremmo
mettere la museruola ai capitali in libera circolazione, alla bisca
delle borse, alla finanza onnipotente, magari reintroducendo in
ambito nazionale la separazione bancaria, come fatto da Franklin D.
Roosevelt con lo Glass-Steagall
Act
(1933)
abolito da Bill Clinton (1999). In
buona sostanza: attaccare le strutture finanziarie del terzo
capitalismo. Un attacco destinato a coinvolgere, inevitabilmente, il
governo delle monete e dei cambi, il ruolo del dollaro...
Dovremmo
tassare rendite e redditi elevati in misura tale da disporre dei
finanziamenti statali per elevare la qualità pubblica di tutta
l'istruzione, la cui effettiva fruizione non è pensabile senza un
più complessivo potenziamento del malandato welfare
state, tanto
della sanità a partire dall'infanzia, quanto del sostegno a salari e
disoccupati delle famiglie spinte in povertà.
Tutte
misure inattuabili senza poter contare su governi indipendenti da
quella prepotente “plutocrazia”, dalla quale, a detta di
Milanovic, non si scampa.
E
quali forze sono in grado di dare sovranità democratica a tali
governi?
Non
certo il vecchio establishment
politico-culturale
che difende a denti stretti gli attuali assetti oligarchici. Le forze
del cambiamento vanno trovate all'interno del contro-movimento verso
la finanza e la sua globalizzazione.
Qualificare
per intero e senza distinzioni il contro-movimento della società, la
“ribellione populista”, nonostante sia agitata da mille
contraddittorie pulsioni e da diverse anime politiche, come
senz'altro reazionaria e regressiva, equivale a volerla consegnare
esattamente al destino che si dice ipocritamente di voler osteggiare.
Non
è strano che, nella pratica sia storica recente sia attuale, di
fronte ad ogni scelta cruciale le oligarchie economico-finanziarie ed
il loro establishment scelgano di appoggiarsi alle forze più
retrive del nazionalismo e della xenofobia che a parole paventano?
A
meno di gentili concessioni dall'alto, sulle quali sembrano alfine
confidare i nostri cauti riformatori, il cambiamento sarà possibile
solo grazie alla parte migliore di questo contro-movimento.
E
perché mai, in tal caso, invece di investire le stesse strutture che
producono sistematicamente povertà ed ineguaglianze di così grave
portata, esso dovrebbe limitarsi ad un “riequilibrio delle
dotazioni”?
Note
1
https://www.oxfamitalia.org/davos-2019/.
2
In Italia la quota di lavoratori dipendenti ridotti in povertà ha
superato il 9%.
3
Se ne desume che l'appellativo di “oligarchi”, riservato dai
mass-media ai ricconi russi, è un modo per “additare l'albero
(altrui) e nascondere la (propria) foresta”.
4
Thomas Piketty, “Il Capitale nel XXI secolo”, Bompiani 2014
(2013).
5
Simon Smith
Kuznets, economista statunitense, vinse il premio Nobel per
l'economia nel 1971.
6
Ex-jugoslavo, è nato nel 1953 e cresciuto a Belgrado.
7
Di questo avviso è Domenico Moro, “Globalizzazione e decadenza
industriale”, Imprimatur, 2015,
8
“Il Capitale nel XXI secolo”di Thomas Piketty è edito in Italia
da Bompiani, 2014 (edizione francese 2013).
9
Frédéric Lordon, “Con Thomas Piketty, il Capitale del XXI secolo
non corre pericoli”, Le Monde diplomatique-il Manifesto, aprile
2015.
10
Al di là dell'enfasi, derivante dalla appartenenza politica, in
definitiva l'analisi di Lordon coincide, almeno in questo, con
quella di Milanovic.
11
Come questa tripartizione si sia trasformata, varrà la pena
ritornare prossimamente.
12
Con questa osservazione Milanovic “recupera” pure il Mao
tse-tung dei “Dieci grandi rapporti”. Vedasi “Sur les dix
grands rapports (25 avril 1956), Oeuvres choisies, Tome V, Éditions
en langues étrangeres, Pekin, 1977.