giovedì 28 febbraio 2019

Il mistero della povertà

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Quando disuguaglianza e povertà vengono indagate alla radice si svela il mistero... Anche l'eclettismo più audace del pensiero globale “accreditato” si autoimpone un limite critico da non valicare, che infine lo costringe ad un riformismo tanto inconsistente quanto improbabile. Un confronto con le idee di Milanovic, Piketty e Lordon.

Puntualmente ogni anno a gennaio, alla vigilia del World Economic Forum di Davos, dove si riuniscono leaders politici ed aziendali a livello internazionale, Oxam lancia allarmi sulla povertà e sulla disuguaglianza. Dopodiché, altrettanto puntualmente, i convenuti nel mitico villaggio tra i monti della pacifica Svizzera vanno comunque per la loro strada: tanto preoccupati di proiettare di sé una buona immagine, quanto sostanzialmente tesi a preservare un mondo-che-poi-non-è-tanto-male-nonostante-tutto.
Sostiene Oxam che la ricchezza si concentra in poche mani e la forbice tra ricchi e poveri si amplia:
«Lo scorso anno le fortune dei super-ricchi sono aumentate del 12%, al ritmo di 2,5 miliardi di dollari al giorno, mentre 3,8 miliardi di persone, la metà più povera dell’umanità, hanno visto diminuire quel che avevano dell’11%. In Italia, a metà 2018, il 20% più ricco dei nostri connazionali possedeva circa il 72% dell’intera ricchezza nazionale. E il 5% più ricco degli italiani possedeva da solo la stessa quota di ricchezza del 90% più povero.»1
La tendenza sarebbe imputabile alla evasione ed elusione fiscale delle grandi imprese e dei più ricchi, sicché la riduzione della povertà estrema subisce rallentamenti ed aumentano i dislivelli sociali. Fenomeni ai quali si potrebbe iniziare a porre rimedio, se venissero recuperate le risorse necessarie tramite una più giusta ed adeguata imposizione fiscale.
L'attenzione è posta soprattutto sulla polarizzazione dei redditi e della ricchezza posseduta. Rimane tuttavia un mistero di come tale polarizzazione sia continuamente e sistematicamente generata, riproponendo l'edificio stratificato delle ineguaglianze, con alla base l'immancabile interrato della povertà.
Negli ultimi anni, pubblicazioni di autori come Thomas Piketty e Branko Milanovic hanno cercato delle spiegazioni ed avanzato proposte. Con significativi approfondimenti ed analisi diversamente svolte.
Seppure in modo sintetico e focalizzando alcuni argomenti, vale la pena riprenderle.
Classe media, quo vadis?
Branko Milanovic è ritenuto uno dei più grandi economisti oggi al lavoro sulla disuguaglianza globale. [Vedi “Un economista globale” nella finestra in pagina.]
Poiché nel secondo periodo post-bellico, i paesi ricchi d'Occidente hanno basato successo, stabilità ed attrattiva sull'ampliamento della classe media di reddito e consumi, che inglobava parti cospicue di lavoro salariato, il fatto che essa si stia assottigliando ed impoverendo,2 è motivo di grande allarme.

Un economista globale
Branko Milanovic (Belgrado, 1953) è considerato uno dei più grandi economisti oggi all'opera sul tema delle disuguaglianze. È dal gennaio 2014 visiting professor presso il City University of New York Graduate Center e uno studioso associato presso il Luxembourg Income Study. Precedentemente era stato il principale economista nel dipartimento di ricerca della Banca Mondiale, visiting professor alla Università del Maryland e alla Johns Hopkins University. Tra il 2003 e il 2005 è stato associato senior presso Carnagie Endowment for International Peace a Washington. Ha fatto il suo dottorato di ricerca all'Università di Belgrado nel 1987 con la dissertazione (pubblicata come un libro nel 1990) sulla disuguaglianza economica in Jugoslavia, utilizzando per la prima volta i microdati dalle indagini sulle famiglie jugoslave.

Ingiustizia globale. Migrazioni, disuguaglianze e futuro della classe media”, Luiss, 2017 (titolo originario: Global Inequality. A New Approach for the Age of Globalization, 2016) è il libro di Milanovic dal quale sono tratte tutte le citazioni che in questo articolo lo riguardano.


Di contro, le dotazioni di ricchezza, redditi e potere mostrano di concentrarsi su un numero di individui sempre più ristretto, dando origine ad una sorta di “plutocrazia”. L'insieme minaccerebbe le fondamenta stesse della liberal-democrazia occidentale.
Tra il 1988 e il 2008, infatti, la globalizzazione ha consentito l'ascesa della “classe media globale” in Cina e nell'”Asia rinascente”, comportando, di converso, «la stagnazione, nel mondo ricco, dei gruppi che a livello globale sono benestanti, ma a livello nazionale appartengono alla classe media inferiore e media».
Nel periodo tra la caduta del muro di Berlino e lo scoppio della crisi finanziaria: «i grandi vincitori sono stati i poveri e le classi medie asiatiche; i grandi perdenti, la classe media inferiore del mondo ricco.»
Mentre nel mondo ricco la classe media inferiore perdeva, in quel mondo vinceva però l'1%, giacché il più ricco 1% a livello globale per metà appartiene agli Stati Uniti e, a seguire, in prevalenza all'Europa occidentale, al Giappone e all'Oceania. Residuale la presenza di paperoni in Brasile, Sudafrica e Russia.3
Qualora, invece del cambiamento relativo in percentuale, osserviamo il cambiamento in guadagni di reddito assoluti (in dollari) la prospettiva muta.
«(...) il 44 per cento del guadagno assoluto finisce nelle mani del più ricco 5 per cento globale, e quasi un quinto dell'incremento totale lo riceve il più ricco 1 per cento. Al contrario, gli individui che abbiamo definito i principali beneficiari dell'attuale èra della globalizzazione, la “classe media globale emergente” hanno ricevuto solo (per ventili) tra il 2 e il 4 per cento dell'aumento della torta globale, o in totale circa il 12-13 per cento.»
In termini assoluti, i maggiori frutti sono andati ai “plutocrati” occidentali, che sono tali perché la loro enorme ricchezza li rende fortemente “influenti” sulla vita politica e sociale dei Paesi ai quali appartengono e non solo su di essi.
D'altro canto: «non dovremmo accorpare le classi medie provenienti dalle economie di mercato emergenti (individui con un reddito pro capite che si aggira intorno ai 1000$ e meno di 2000$ all'anno) con le classi medie inferiori del mondo ricco (individui con un reddito al netto delle tasse tra i 5000$ e i 10.000$ circa l'anno; tutto in dollari internazionali 2005).»
Insomma, il paese nel quale si nasce e risiede non ha perso importanza. Tanto più se teniamo conto del PIL procapite, registrato nel 2013, distribuito in base alla popolazione mondiale paese per paese: a farla da padroni sono ancora USA, Germania, Canada, quasi tutta l'Europa occidentale ed il Giappone. Benché nel periodo immediatamente successivo al crack finanziario (2008-2011) risulti «una continuazione e persino una accelerazione delle tendenze della globalizzazione» in atto nel periodo precedente.
A causa della crisi finanziaria, l'1% più ricco a livello globale (in cui figura ben il 12% dei nordamericani più ricchi) ha visto le proprie fortune adombrarsi, concentrandole però nelle mani di un piccolo selezionato gruppo, 1 centesimo dell'1% globale.
Questo gruppuscolo possiede due volte la ricchezza esistente in tutta l'Africa.
Il politico e l'economico
Sia Thomas Piketty4 che Milanovic trattano delle disuguaglianze ed elaborano teorie per spiegare la storia economica.
Per Piketty la disuguaglianza si è ridotta dagli anni trenta del Novecento fino agli anni settanta, tornando poi ad aumentare sino ai livelli prodotti dalla Rivoluzione Industriale. Ne consegue che la teoria di Kuznets,5 secondo la quale la disuguaglianza aumenta nei periodi di sviluppo, per ridursi in seguito all'acquisita maturità economica, è smentita. Solo eventi esogeni, quali le due guerre mondiali e la forza di partiti politici (socialisti e comunisti), sono intervenuti per correggere l'andamento dell'economia dall'esterno. Questo perché gli alti livelli di disparità sociale sono connaturati alle moderne economie.
A questa visione di Thomas Piketty, Branko Milanovic contrappone un singolare quanto inatteso recupero teorico sia di Marx che di Lenin.
Nell'Ottocento la differenza era di classe, tra ricchi e poveri, universalmente preponderante e presente in ciascun paese. Al tempo in cui vive Marx “il proletariato non ha nazione”. Nel Novecento prevale la disuguaglianza tra nazioni, che portò John Hobson e Vladimir Lenin ad analizzare l'imperialismo. L'ultima globalizzazione riduce le differenze tra nazioni, ma non le supera, riportando a galla la contraddizione intra-nazionale di classe. Benché quest'ultima si differenzi da quella ottocentesca.
Il recupero di un bagaglio teorico, complessivamente avverso alle convinzioni liberal-democratiche di Milanovic, è reso possibile dalla sua specifica provenienza culturale.6 Testimonia del suo eclettismo anche l'opporsi alla separazione tra economia e politica, tanto in voga negli ultimi decenni liberisti. A sostegno della sua tesi torna ad una interpretazione meno recente dello scoppio della Prima guerra mondiale.
«(...) la guerra origina da una rivalità imperialista, integrata nelle condizioni interne all'epoca: una disuguaglianza di reddito e ricchezza molto elevata, nutriti risparmi delle classi alte, un'insufficiente domanda aggregata interna ai paesi, e la necessità da parte dei capitalisti di trovare usi redditizi fuori dal loro paese per l'eccedenza di risparmi.» Sicché la guerra, come la politica della quale è continuazione “con altri mezzi”, non è esterna (esogena) all'economia, o, usando il linguaggio corrente, alla macro-economia.
Potremmo aggiungere, ma a tal punto Milanovic non giunge, che l'economia a sé stante non esiste: esistono l'economia politica e la politica economica. Rimane da capire se, persistendo oggi la disuguaglianza tra nazioni, pur accompagnata dal risorgere di forti diaframmi interni nazionali tra le classi, la categoria dell'imperialismo possa essere considerata obsoleta. Oppure solo da aggiornare, in base alle dinamiche della globalizzazione contemporanea.7
Non è questa la sede appropriata per discutere della dell'andamento delle “curve di Kuznets”, su cui molto si spende Milanovic. Importa qui porre l'attenzione sull'insegnamento generale al quale l'economista serbo perviene e che non può riferirsi unicamente al Novecento: «Un livello di disuguaglianza molto elevato alla fine diventa insostenibile, ma non si abbassa da solo; genera piuttosto processi che portano la sua diminuzione, processi come le guerre, i conflitti sociali e le rivoluzioni.»
Una diversa critica a Piketty
Quando “Le capital au XXIe siècle”8 di Piketty raggiunse il massimo successo, Frédéric Lordon, dalle colonne di Le Monde diplomatique,9 gli rivolse fondate critiche che si distinguono da quelle avanzate da Branko Milanovic.

Frédéric Lordon
economista e filosofo, docente all'Istituto di studi politici di Parigi, è autore di “La Malfaçon monnaie européenne et souveraineté democratique”, Le liens qui libèrent, 2014.


Lordon imputa Piketty di nutrire un pensiero economicistico, il quale immagina di poter «rinchiudere il corso del capitalismo dentro leggi invarianti e trans-storiche.» Nell'analisi di Piketty «non c'è tanto il capitalismo, quanto la successione delle sue attuazioni storiche», incapace di «mostrare cosa ci sia di prettamente politico nella [sua] dinamica storica». Per Lordon, essa viene scandita «da singolari configurazioni istituzionali, la cui successione è da attribuirsi per lo più a processi politici; inoltre, ognuna trae specifiche proprietà dalle forme di servitù che il capitale – e non la ricchezza – impone al lavoro.»
Ecco il punto: il capitale, non la ricchezza.
Per Piketty il capitale è la ricchezza dei ricchi, mentre per Lordon, con Marx, il capitale è un modello produttivo, ossia un rapporto sociale che implica il lavoro salariato.
Ciò lo distingue dalle semplici economie commerciali, alle quali si aggiunge.
Disuguaglianza e povertà sono fenomeni visibili in superficie, lo “scandalo del nostro tempo”, eppure le loro radici affondano nel divenire storico del modello produttivo, nei suoi sistemi di sfruttamento interni (tra classi) ed internazionali (tra nazioni), da non confondere con la ripartizione dei benefici di reddito e patrimoniali a cui danno di volta in volta origine.
Disuguaglianza e povertà non cadono dal cielo; la loro origine non è un mistero.
Inoltre, se nella storia dei due conflitti mondiali, e dei relativi periodi post-bellici, il capitale è stato «ricondotto a un po' più di decenza», lo si deve alle lotte politiche ed alle rivoluzioni.10
L'interpretazione del capitale come ricchezza porta Piketty a dover tacere su molti aspetti del presente. Ad esempio: sul libero scambio e le sue devastazioni, sulla tirannia del valore azionario, sulla crisi finanziaria del 2007-2008 e, dulcis in fundo, sulle ragioni della crisi europea e sul “malfatto” della moneta unica.
Non meravigli, dunque, che l'approdo di Piketty sia la “regolazione del capitale”, la quale, essendo la ricchezza dei ricchi, equivale... alla loro tassazione. Date le premesse, non può certo pervenire alla messa in discussione delle strutture odierne sulle quali è impiantato il capitalismo della mondializzazione.
Nella “tassazione-rimedio” rintracciamo quanto sostenuto da Oxfam e riportato nell'introduzione. Non trovate strano che una Ong umanitaria alimenti le stesse posizioni politiche di un membro della «gilda degli esperti dal cappello a punta» (Lordon), promossi dai media dell'establishment al rango di massimi intellettuali del nostro tempo?
Anche la proposta riformatrice di Milanovic, come vedremo, non riesce a staccarsi da quella che in genere viene spesso definita un'ottica meramente “re-distributiva”, nel suo caso in gran parte “pre-distributiva”.
Tuttavia, di nuovo il suo eclettismo ci riserva qualche interessante spunto conoscitivo e, visto in controluce, di contraddittoria fecondità.
Cina all'apice
In base ai dati disponibili, Milanovic constata: «Non solo la convergenza ponderata sulla popolazione è un fenomeno asiatico, lo è anche la convergenza non ponderata: sono solo i paesi asiatici a raggiungere il mondo ricco.»
In particolare, a divergere è l'Africa, il continente più povero:«(...) il PIL pro capite reale africano nel 2000 è 20 per cento più basso del suo livello nel 1980.» L'Africa rimane il cuore del 3° Mondo.
Oltre ai cambiamenti tra nazioni, considerare quelli interni alle nazioni, della Cina da un lato e degli Stati Uniti dall'altro, può essere assai istruttivo perché essi sono i leaders rispettivamente del 2° e 1° Mondo.11
Secondo dati e studi degli ultimi anni, la Cina è sul punto di superare l'apice della disuguaglianza, iniziando la fase del riequilibrio. Ma forze contrarie potrebbero frapporsi, quali la corruzione ed il sistema politico che esso genera a libello regionale. La «disuguaglianza tra le provincie marittime e quelle dell'entroterra»12 sono di per sé uno dei principali fattori di divergenza.
In controtendenza potrebbe intervenire anche la forte concentrazione della proprietà di capitale che indirizza la relativa quota di reddito.
Sino ad ora le condizioni brutali di sfruttamento hanno provocato una «epidemia di scioperi e proteste locali» rivolte contro le autorità più vicine, ma nulla garantisce che esse non possano investire il centro di un «sistema politico [che] ha una struttura piramidale molto simile a quella della Cina imperiale, con all'apice la burocrazia comunista invece che quella imperiale».
«Questo porterebbe ad una dissoluzione formale o informale del paese (...)»
Stati Uniti senza riequilibrio
Le forze di riequilibrio presenti in Cina, non sembrano esistere negli Stati Uniti.
Milanovic vede l'avvicinarsi di una “tempesta perfetta”. Cinque i temi su cui si sofferma [vedi nella finestra “5 motivi per una Plutocrazia”].
5 motivi per una Plutocrazia
«- Maggiore elasticità di sostituzione tra capitale e lavoro, di fronte ad una maggiore intensità di capitale di produzione, manterrà alta la quota del reddito nazionale che proviene dai proprietari di capitale.
- I redditi da capitale rimarranno altamente concentrati, conducendo così a una elevata disuguaglianza interpersonale di reddito.
- Grandi percettori di reddito da capitale e da lavoro potrebbero essere sempre più gli stessi individui, esacerbando così ulteriormente la disuguaglianza di reddito generale.
- Individui molto qualificati che sono ricchi sia per lavoro sia per capitale tenderanno a sposarsi tra loro.
-La concentrazione del reddito rafforzerà il potere politico dei ricchi e renderà anche meno probabili di prima i cambiamenti di linee politiche che siano a favore dei poveri in ambito di fisco, finanziamenti dell'istruzione pubblica, e spesa per le infrastrutture.»

da Branko Milanovic, Ingiustizia globale”, Luiss 2017 (2016), dal paragrafo “Gli Stati Uniti: una 'tempesta perfetta' di disuguaglianza?” (pagg. 169-170).


È manifesta la tendenza alla sostituzione del lavoro con macchinari di nuova tecnologia, cioè con capitale (direbbe Marx: di capitale variabile con capitale costante) che è sempre più concentrato in poche mani nella forma finanziaria. Un aumento della quota di redditi da capitale si traduce direttamente in una maggiore concentrazione dei ricchezza e reddito generale.
In parallelo è documentata la crescente tendenza dei redditi più elevati da lavoro a concentrarsi sugli stessi individui percettori dei redditi da capitale. Milanovic ne trae una conclusione: «È nato così un nuovo capitalismo, molto diverso da quello classico basato sulla divisione tra capitale e lavoro incarnato da individui diversi.» Questi individui «hanno un'istruzione superiore, lavorano sodo ed hanno una carriera di successo. La disuguaglianza appare così adornata di meritocrazia.»
In più questi individui tendono a sposarsi tra loro, in quello che è chiamato “accoppiamento assortativo”.
Se consideriamo che il danaro riveste crescente importanza nelle vicende elettorali ed il divario rilevato nell'influenza sul ceto politico gioca a sfavore non solo dei poveri ma pure della classe media: «Così nasce una plutocrazia.»
Pericoli che incombono
A questo punto la pur puntigliosa disamina della disuguaglianza e della povertà mostra, per così dire, la corda. Il ritorno al locale che comprometterebbe la divisione internazionale del lavoro, «fattore chiave della crescita economica», non può essere liquidato con il solito allarme sul “populismo” e le sue derive.
Trump viene eletto nel novembre del 2016. Tra i suoi votanti figurano segmenti di classe operaia e di classe media impoverita, ma riscuote l'appoggio di settori di capitalismo nord-americano ai quali non manca il denaro per esercitare l'influenza politica. Vi si può intravvedere una forte propensione a privilegiare gli interessi del capitalismo USA impegnato sul suolo nazionale, ma non a tralasciare quello che si è diramato in tutto il mondo. Quest'ultimo può dividersi su quale strategia sia migliore, se quella free trade di Obama-Clinton o quella di Trump, dei dazi e degli accordi bilaterali per riequilibrare la propria bilancia commerciale.
Ma, come dimostra anche l'unità politica interna raggiunta sulla crisi venezuelana, non rinuncia sicuramente a tentare di esercitare il primato globale, né ad agitare il manganello militare.
Può sembrare paradossale, ma le “chiusure” dell'attuale amministrazione di Washington convergono oggettivamente sulla medesima necessità evidenziata da Milanovic: impedire che “l'assottigliamento” della middle class proceda e si tramuti in instabilità politico-sociale interna, in misura tale da minare alla base nazionale la potenza americana.
Ciò sta pure a significare che:
  • il conflitto tra le classi interno alla nazione, seppur inespresso nella forma classica, non è estinto dal confluire sugli stessi individui dei redditi più elevati da lavoro e di quelli da capitale concentrato e finanziario (processo in corso);
  • il conflitto tra nazioni e Stati-nazione vive un passaggio assai difficile, perché gli Stati Uniti non abbandonano la propria vocazione imperialista e, al contempo, non si riconoscono in coincidenza d'interessi con i tradizionali alleati occidentali (Unione europea e Germania in particolare);
  • sicché con la Cina e col secondo mondo emergente preferiscono sbrigarsela da soli, detenendo ancora il primato militare mondiale (la cui struttura economica non è disgiungibile dalla politica di potenza).
D'altro canto, quando Milanovic afferma che la disuguaglianza tra nazioni (e tanto più nella ripresa delle disuguaglianze interne alle nazioni) non è cessata, dovrebbe ammettere che la globalizzazione liberista di questi ultimi decenni ci consegna, in mutate condizioni, conseguenze analoghe a quelle che precedettero lo scoppio del primo conflitto mondiale.
In altre parole, per capire veramente il prossimo futuro, vanno indagate quelle “mutate condizioni”.
Improbabili rimedi
Milanovic pensa possibile una regolazione del capitale nel contesto dell'attuale globalizzazione.
A differenza di Piketty, il suo diverso approccio lo porta a focalizzare le “dotazioni di partenza”, in aggiunta all'imposizione fiscale.
Come ottenere un «riequilibrio delle dotazioni?»
«Anche qui, come in passato, il ruolo dei governi è cruciale, sebbene in questo caso non operino sui redditi attuali (tassandoli e ridistribuendoli) quanto piuttosto, più sul lungo periodo, verso un riequilibrio delle proprietà di capitali e dell'istruzione. Le politiche che opererebbero in favore di questo riequilibrio comprendono (1) imposte di successione più elevate (come chiede Piketty) che non permetterebbero ai genitori di trasferire nutriti beni patrimoniali ai propri figli, (2) politiche per imposte sul reddito delle società che stimolerebbero le aziende a distribuire quote ai lavoratori (spostandosi verso un sistema di capitalismo a responsabilità dei lavoratori) e (3) politiche fiscali e amministrative che permetterebbero ai poveri e alle classi medie di possedere e mantenere beni finanziari.»

«Ma queste politiche non basterebbero. (…) Per ridurre la disuguaglianza delle dotazioni devono unirsi una proprietà più diffusa del capitale e una distribuzione più uguale dell'istruzione. (…) Per andare in questa direzione è necessaria una nuova enfasi sull'istruzione finanziata dallo Stato. (…) L'unico modo sensato che rimane per riequilibrare le dotazioni dell'istruzione è quello di rendere l'accesso alle scuole migliori più o meno uguale a prescindere dal reddito dei genitori e, aspetto anche più importante, di riequilibrare la qualità dell'istruzione tra le varie scuole. Questo può essere conseguito soltanto con investimenti statali e sostegni finanziari.»
In un contesto di potere internazionale della finanza, come quello oggi dominante, che i governi si accordino sulle imposte di successione appare alquanto inverosimile.
Cosa impedirebbe, nell'attuale forma “liquida”, ai patrimoni finanziari di trasferirsi con un semplice “invio” sulla tastiera del proprio computer? Non è già operativa su larga scala l'elusione fiscale con “trasferimenti” nei paradisi predisposti a questo scopo?
Dovremmo mettere la museruola ai capitali in libera circolazione, alla bisca delle borse, alla finanza onnipotente, magari reintroducendo in ambito nazionale la separazione bancaria, come fatto da Franklin D. Roosevelt con lo Glass-Steagall Act (1933) abolito da Bill Clinton (1999). In buona sostanza: attaccare le strutture finanziarie del terzo capitalismo. Un attacco destinato a coinvolgere, inevitabilmente, il governo delle monete e dei cambi, il ruolo del dollaro...
Dovremmo tassare rendite e redditi elevati in misura tale da disporre dei finanziamenti statali per elevare la qualità pubblica di tutta l'istruzione, la cui effettiva fruizione non è pensabile senza un più complessivo potenziamento del malandato welfare state, tanto della sanità a partire dall'infanzia, quanto del sostegno a salari e disoccupati delle famiglie spinte in povertà.
Tutte misure inattuabili senza poter contare su governi indipendenti da quella prepotente “plutocrazia”, dalla quale, a detta di Milanovic, non si scampa.
E quali forze sono in grado di dare sovranità democratica a tali governi?
Non certo il vecchio establishment politico-culturale che difende a denti stretti gli attuali assetti oligarchici. Le forze del cambiamento vanno trovate all'interno del contro-movimento verso la finanza e la sua globalizzazione.
Qualificare per intero e senza distinzioni il contro-movimento della società, la “ribellione populista”, nonostante sia agitata da mille contraddittorie pulsioni e da diverse anime politiche, come senz'altro reazionaria e regressiva, equivale a volerla consegnare esattamente al destino che si dice ipocritamente di voler osteggiare.
Non è strano che, nella pratica sia storica recente sia attuale, di fronte ad ogni scelta cruciale le oligarchie economico-finanziarie ed il loro establishment scelgano di appoggiarsi alle forze più retrive del nazionalismo e della xenofobia che a parole paventano?
A meno di gentili concessioni dall'alto, sulle quali sembrano alfine confidare i nostri cauti riformatori, il cambiamento sarà possibile solo grazie alla parte migliore di questo contro-movimento.
E perché mai, in tal caso, invece di investire le stesse strutture che producono sistematicamente povertà ed ineguaglianze di così grave portata, esso dovrebbe limitarsi ad un “riequilibrio delle dotazioni”?
Note
1 https://www.oxfamitalia.org/davos-2019/.
2 In Italia la quota di lavoratori dipendenti ridotti in povertà ha superato il 9%.
3 Se ne desume che l'appellativo di “oligarchi”, riservato dai mass-media ai ricconi russi, è un modo per “additare l'albero (altrui) e nascondere la (propria) foresta”.
4 Thomas Piketty, “Il Capitale nel XXI secolo”, Bompiani 2014 (2013).
5 Simon Smith Kuznets, economista statunitense, vinse il premio Nobel per l'economia nel 1971.
6 Ex-jugoslavo, è nato nel 1953 e cresciuto a Belgrado.
7 Di questo avviso è Domenico Moro, “Globalizzazione e decadenza industriale”, Imprimatur, 2015,
8 “Il Capitale nel XXI secolo”di Thomas Piketty è edito in Italia da Bompiani, 2014 (edizione francese 2013).
9 Frédéric Lordon, “Con Thomas Piketty, il Capitale del XXI secolo non corre pericoli”, Le Monde diplomatique-il Manifesto, aprile 2015.
10 Al di là dell'enfasi, derivante dalla appartenenza politica, in definitiva l'analisi di Lordon coincide, almeno in questo, con quella di Milanovic.
11 Come questa tripartizione si sia trasformata, varrà la pena ritornare prossimamente.
12 Con questa osservazione Milanovic “recupera” pure il Mao tse-tung dei “Dieci grandi rapporti”. Vedasi “Sur les dix grands rapports (25 avril 1956), Oeuvres choisies, Tome V, Éditions en langues étrangeres, Pekin, 1977.

martedì 12 febbraio 2019

Effetti perversi

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Venti recessivi sull'Eurozona. Lo sguardo disinibito di Jan Zielonka sullo stallo della Brexit, sulla disgregazione dell'Europa e sul fallimento della “Rivoluzione liberale”. I limiti della più avanzata autocritica liberale. La spiegazione delle derive attuali nel modo in cui è stata fatta l'Unione europea e nel ruolo giocato dalle oligarchie economico-finanziarie.
Ragioni anteriori
È in corso la campagna elettorale per le europee di maggio. Lo scontro si è fatto aspro attorno alla stagnazione economica continentale, sulla quale spirano venti di recessione, investendo Germania, Francia, Spagna ed Italia [vedi grafico “Eurozone: Industrial Production”, qui a fianco].

Se in Italia, conoscendo i fatti, imputare al governo Conte la responsabilità della recessione è indice di perfetta malafede, nondimeno è fuorviante considerare il fenomeno come esclusivo prodotto delle politiche degli ultimi esecutivi. Per sostanziali ragioni di più lunga durata, nazionali ed internazionali:
  • le spinte recessive coinvolgono Paesi che, come Germania ed Italia, hanno basato da molti anni le rispettive economie sull'export e perciò sono più esposte ai rallentamenti della Cina ed alla guerra dei dazi voluta da Trump;
  • nella globalizzazione la corsa al surplus esportativo ha provocato reazioni a catena, giacché alla lunga i Paesi in deficit o si indebitano fino a diventare insolventi, o reagiscono (i più forti) in autodifesa, con misure politiche di riequilibrio a proprio favore;
  • in entrambi i casi il gioco “a scaricabarile” dei Paesi votati all'export mostra tutta la sua strutturale gracilità: le interdipendenze, che hanno consentito temporanei vantaggi, ora restituiscono effetti negativi;
  • la distribuzione dei contraccolpi recessivi sui diversi Paesi dell'Unione penalizza in misura maggiore l'Italia, sottoposta alla mannaia dello spread sugli interessi del debito pubblico, attivato da Bruxelles;
  • a questo andamento, dagli effetti perversi e disgregativi sul piano sociale e territoriale – tra Paese e Paese e in seno a ciascun Paese -, concorrono in modo decisivo le perduranti politiche di austerità che hanno depresso la domanda e le produzioni nazionali interne in funzione dell'export.1
D'altro canto, l'Europa dalla crisi finanziaria del 2007-2008 non è mai riuscita veramente ad emergere, trasformandola in crisi sociale e politica.
Pertanto, benché la manovra economica del Governo Conte sia anticiclica, potrebbe non bastare, se non vengono spese bene le ingenti disponibilità lasciate inutilizzate dai precedenti governi.2
Qualcosa di sbagliato
Anche la gestione della Brexit può contribuire a rafforzare i venti recessivi.
L'attuale leadership europea3 continua a voler usare le difficoltà di uscita dalla Ue della Gran Bretagna a mo' di spauracchio contro le forze “euroscettiche”. Ma gli effetti di tanta rigidità, nel precludere ogni alternativa all'accordo raggiunto con la premier May, potrebbero riservare ulteriori effetti perversi. Non ci andrebbe di mezzo solo l'Irlanda, sulla cui dogana con l'Ulster si è addensata la contesa, ma l'insieme dell'Europa, Gran Bretagna compresa.
Anche in questo caso l'interdipendenza conferma la sua natura ambivalente.
Jan Zielonka, con un articolo apparso sul quotidiano tedesco “Die Zeit” e su “il Fatto Quotidiano” sostiene che il vero problema della Brexit è l'Unione europea, non il Regno Unito.4
Secondo Zielonka, liberale polacco che ama definirsi intellettuale provocatore:
«C'è chiaramente qualcosa di sbagliato nel modo in cui funziona l'Ue e dobbiamo tutti affrontare la questione, invece che limitarci ad insultare quegli ingrati dei britannici e i partiti populisti.»
Quel “qualcosa” non si riferisce unicamente all'atteggiamento di Bruxelles verso il leave d'oltremanica.
«La verità è che l'Ue non è riuscita a offrire ai suoi cittadini strumenti efficaci di partecipazione. Anziché proteggere le persone dalle conseguenze della globalizzazione, l'Ue è diventata uno degli strumenti della globalizzazione stessa. Anche le economie europee più solide faticano a crescere abbastanza e i sistemi di welfare stanno collassando.»
Qualora le traballanti élites al potere, invece di riconoscere la profondità della crisi europea, continuassero nell'arroccamento sulle proprie posizioni, un ulteriore effetto perverso, secondo Zielonka, potrebbe essere il prevalere dei cosiddetti “euroscettici”, sia nel Parlamento che nella Commissione di Bruxelles.
Ravvedimenti
Nel nostro Paese viviamo giorni in cui le convinzioni del trentennio globalizzatore liberista vengono ridiscusse. Da Carlo De Benedetti ad Enrico Letta, da Alessandro Baricco a Gad Lerner è tutto un profluvio di revisioni, patimenti, pentimenti, autocritiche e penitenze (spesso addossate ad altrui colpe).
Forse ha ragione il professore Piero Ignazi, quando afferma: «Gli intellettuali ne discutono, ma le élite di pentirsi non hanno alcuna voglia, almeno in Italia.»5
Avremo tanti “ravvedimenti operosi” che pagano dazio o, piuttosto, siamo a cospetto del vecchio italico vizio del “mea culpa”, che inizia con una contrita dichiarazione autocritica e finisce puntualmente per addossare ad altri ogni effettiva responsabilità?
Per appurarlo le provocazioni di Jan Zielonka possono tornare utili. [Vedi “Un provocatore intellettuale”, nella finestra in pagina.]
Un provocatore intellettuale
Jan Zielonka
Tra i pochi intellettuali liberali che, con un certo senso autocritico, guardano all'attuale Europa, c'è Jan Zielonka, docente di Politiche europee alla University of Oxford e Ralf Dahrendorf Fellow al St Antony's College.
Al libro “Disintegrazione. Come salvare l'Europa dall'Unione europea”, Laterza, 2015 (2014), ha dato seguito con il più recente “Contro-rivoluzione. La disfatta dell'Europa liberale”, Laterza, 2018.
In questa ultima pubblicazione, nella forma di una lettera al suo mentore Ralf Dahrendorf (come Dahrendorf scrisse le sue riflessioni ricalcando le “Riflessioni sulla rivoluzione in Francia” di Edmund Burke)*, esorta i liberali a dismettere la cieca ira accusatrice contro i barbari populisti e sovranisti, per guardare alle “loro ragioni” e, con spirito pragmatico, enucleare i propri errori ed insufficienze.
Il professore polacco si sente “europeo” e si nutre del dichiarato intento di abbandonare un liberalismo giunto alla disfatta, dovuta ai suoi visibili fallimenti, identificando al contempo un liberalismo da salvare e riproporre, inevitabilmente in forma rinnovata.
* Ralf Dahrendorf, “1989. Riflessioni sulla rivoluzione in Europa. Lettera immaginaria a un amico di Varsavia (1990)”, Laterza, 1990.
Il disinibito approccio allo stallo della Brexit, prima citato, si riallaccia a quanto scrive Zielonka nei suoi due ultimi libri. Non gli sfugge la più ampia portata dei fenomeni attuali: la “disfatta dell'Europa liberale”, constatando la quale cerca di capire la “Controrivoluzione” in atto, a partire dall'indagine sui fallimenti della “Rivoluzione liberale”.
Benché non mi ritrovi affatto nella bipartizione semantica Rivoluzione-Controrivoluzione e ritenga gran parte degli intellettuali, per dirla con il professor Ignazi, tra «coloro che sono in grado di influenzare le decisioni e le visioni di società», ossia corresponsabili delle derive in atto, reputo la critica di Zielonka la più radicale possibile per il liberalismo europeo.
Una critica radicale
Jan Zielonka è un liberale europeo di lungo corso.
In rapida successione, è passato dalla presa d'atto della “Disintegrazione” alla disfatta dell'Europa liberale, sottoposta alla “Controrivoluzione”.
Nel 2014, anno di pubblicazione del suo “Disintegrazione”, si poteva ancora chiedere come salvare l'Europa dall'Unione europea, giacché i suoi leaders «hanno ignorato ogni evidenza e avvisaglia e hanno provocato eventi che li hanno condotti ad un punto al quale non dovrebbero nemmeno avvicinarsi: un punto chiamato disintegrazione.»
Nel 2018 la “Rivoluzione europea” è posta dinnanzi al proprio conclamato fallimento.
Pur in presenza di variazioni locali del movimento “contro-rivoluzionario”: «il denominatore comune è il rifiuto nei confronti delle persone e delle istituzioni che hanno governato l'Europa negli ultimi tre decenni.» A questi ultimi furono affidati poteri non elettivi ed è prevalsa l'idea che i «cittadini dovevano essere educati, piuttosto che ascoltati.» «Si affermava che gli interessi siano individuati meglio dagli esperti: generali, banchieri, mercanti, giuristi e, naturalmente, leader dei partiti di governo.» Mentre «raggruppamenti precedentemente distinti del centro-sinistra e del centro-destra si unirono sotto la bandiera liberale.»
Su tutto è venuta a sovrapporsi una sorta di “oligarchia liberale”, avulsa da una democrazia della rappresentanza mal funzionante. Ne è derivato un “disagio democratico”, che si è coniugato al “socialismo per ricchi”. Pongo l'accento su questa coniugazione.
Spiegare la sostanziale avversione della oligarchia alla democrazia, senza indagare sui reali motivi per i quali, di crisi in crisi, si è affermato il socialismo per (soli) ricchi, è piuttosto superficiale, un vol d'oiseau, invece che un andare veramente in profondità.
In questo si può rintracciare un limite che porta Zielonka ad un'analisi critica non tanto dissimile da quella di Massimo D'Alema.6
Il Sogno
Nel suo ultimo libro Zielonka parte dall'assunto, e dal suo punto di vista non potrebbe essere altrimenti, che alla disfatta dell'Europa liberale ed alla sua “Rivoluzione” sia venuta a contrapporsi una oramai prevalente “Contro-rivoluzione”.
Da liberale che ha confidato con Ralf Dahrendorf nella rivoluzione iniziata con la caduta del muro di Berlino, ne vuole trarre un bilancio a trent'anni dalla pubblicazione di “Riflessioni sulla rivoluzione europea”,7 opera del suo destinatario immaginario.
Al quarto capitolo, “Socialismo per ricchi”, inizia con la citazione di un passo tratto dal libro di Jeremy Rifkin, “Il sogno europeo”,8 uscito nel 2004, ossia prima del crollo finanziario del 2007-2008. [Vedi “Il sogno di Jeremy”, nella finestra in pagina.]
Il sogno di Jeremy
Jeremy Rifkin con Angela Merkel
«L'Europa ha conseguito la sua recente posizione di preminenza non già rincorrendo le quotazioni azionarie, aumentando le ore lavorative e spingendo le famiglie nel vicolo cieco del doppio salario. La Nuova Europa poggia invece su reti di mercato che badano più alla cooperazione che alla competizione; promuove un nuovo senso della cittadinanza che esalta il benessere della persona tutt'intera e della comunità piuttosto che dell'individuo dominante, e riconosce la necessità del “gioco profondo” e dello svago per creare una forza lavoro migliore, più produttiva e più sana.»
Da Jeremy Rifkin, “Il sogno europeo: come l'Europa ha creato una nuova visione del futuro che sta lentamente eclissando il sogno americano”, Mondadori, 2004.
Il passo è citato da Jan Zielonka al quarto capitolo, 'Socialismo per ricchi', del suo libro “Controrivoluzione”.

Certo, correva il 2004, ma d'acchito balza agli occhi non tanto la distanza tra quel sogno ed il risveglio successivo, quanto l'esaltazione di un inesistente presente. Rimane un mistero dove Rifkin abbia potuto scorgere il concreto realizzarsi di quel sogno. Muovendo da tali premesse, il “futurologo” Rifkin si accingeva ad una mission impossible.
Fino al crollo finanziario nord-americano del 2007-2008, dove si poteva scorgere un'Europa nuova che, poggiando su reti di mercato, badava più alla cooperazione che alla competizione? Alla comunità piuttosto che all'individuo dominante? Non si era reso conto, Jeremy, di come veniva concretamente costruita l'Europa nell'Unione?
Eppure solo un anno dopo, i referendum popolari in Francia e Olanda ne rigettavano la pretesa Costituzione, calata dall'alto di un trattato internazionale tra governi. Eppure già a Maastricht (1992) si annunciava che il sogno si sarebbe ben presto trasformato in un incubo per la grande maggioranza. Bastava guardare ai risvolti sociali di quel Trattato.
A tale riguardo Zielonka scrive, a pagina 40-41 del suo “Controrivoluzione”:
«Nell'Europa degli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso molta parte del discorso liberale riguardava il welfare state e l'idea che la mutua responsabilità, il riconoscimento dell'interdipendenza e il senso di comunità fossero gli strumenti per sostenere lo sviluppo individuale. Questo discorso è a poco a poco svaporato dopo il 1989. I neoliberisti (sotto l'influenza della reaganomics) hanno introdotto una falsa dicotomia tra liberalismo e comunitarismo. Il primo doveva avere come suo centro d'interesse solo l'individuo: “la società non esiste”, dichiarò Margaret Thatcher in una sua famosa intervista. Così, il progetto liberale ha lasciato gli individui sperduti nel labirinto di potenti mercati internazionali e istituzioni transnazionali inadeguate. Sempre più i cittadini si trovano isolati e privi di protezione pubblica tanto nel campo dell'economia quanto in quello del diritto e dell'amministrazione. Abbiamo minato i confini nazionali senza creare efficaci autorità pubbliche transnazionali.»
Il Risveglio
Il brusco risveglio sarebbe dovuto: al prevalere del neoliberismo; alla introduzione della falsa dicotomia tra liberalismo e comunitarismo; a considerare solo l'individuo, negando l'insieme sociale; ad inadeguate istituzioni ed autorità transnazionali a fronte di confini nazionali resi labili (dalla globalizzazione).
Appare indubbio che il neoliberismo sia imputabile dei disastri attuali. Il suo prevalere, tuttavia, richiede delle spiegazioni che anche la versione più democratica e sociale del liberalismo non riesce a darci. Sul piano storico, economico-sociale e politico.
Ricorre nella visione di Zielonka la constatazione che, da Maastricht in poi, l'Europa abbia attraversato tre rivoluzioni: geopolitica, geoeconomica e digitale.
Nella ricostruzione delle prime due manca una adeguata comprensione di come l'Europa occidentale, nel dopo-muro, si sia allargata ad Est e di come si siano strutturate le dicotomie tra Centro e Periferie. Assente è un minimo esame del sistema euro.
Così come «intimare ai britannici di cambiare atteggiamento verso l'Ue senza cambiare l'Ue serve a poco», invocare «solidarietà, non soltanto crescita, competizione e potere», senza indicare contro chi e con quali forze, è altrettanto inutile.
Vanno visti i comportamenti delle élites politico-intellettuali, senza trascurare le retrostanti oligarchie economico-finanziarie alle quali queste élites hanno aderito, annegando ogni differenza tra destra e sinistra. Il conseguente intreccio di potere oligarchico ha una sua storia, alla quale non ci si può sottrarre. E questa ha un punto di snodo.
Senza la minaccia costituita dal comunismo e dalle liberazioni nazionali, venuta a mancare nei lustri precedenti la caduta del muro, il liberalismo occidentale, e non di meno quello europeo, si è sentito libero di poter realizzare se stesso nella forma più integrale. Non è altrimenti spiegabile, politicamente, il prevalere del neoliberismo, dell'ottica individualistica su quella sociale, del governo degli “esperti” a danno della stessa democrazia rappresentativa, e, non ultima, della globalizzazione delle multinazionali e della finanza sulla sovranità popolare che svanisce quando non può esercitarsi nello Stato-nazione.
Pertanto, adeguate autorità transnazionali mancano per il semplice motivo che lo scopo essenziale della globalizzazione è stato di depotenziare le sovranità nazionali democratiche, non di corroborarle ad un livello più alto. Subentra la crisi politica, solo allorché all'interno dei Paesi ricchi d'Occidente si manifesta la ribellione di ampi strati di popolazione impoverita e, sulla scena internazionale, la leadership di quei Paesi ricchi viene messa in discussione dai Paesi emergenti. Da quel momento in poi, il liberalismo delle menti più democratiche comincia a chiedere di recuperare i “valori” in auge del periodo post-bellico, senza però produrre effetti pratici sul “liberalismo reale”.
Affinità elettive
Nel variegato movimento “contro-rivoluzionario” europeo, Zielonka distingue e riconosce sostanziali differenze. Tuttavia, pur rifiutandosi di metterle tutte nello stesso sacco e pur definendo fuorviante e stigmatizzante l'appellativo “populista” che vorrebbe accomunarle, non perviene ad alcuna logica conclusione politica. Se lo facesse dovrebbe ammettere che tanto il Movimento 5 Stelle, quanto Syriza e Podemos, per non parlare di France Insoumise (stranamente assente nella sua analisi), non possono in alcun modo venire rubricate come contro-rivoluzionarie.9 Dovrebbe, di converso, ammettere che in sé la “Rivoluzione liberale” propriamente rivoluzionaria non era...
Prescindendo da questi appunti critici, non vanno sottaciuti due effetti assai rilevanti della “rivoluzione geopolitica”: ad Est e nella Mitteleuropa prevalgono partiti anti-establishment nazionalistici a tinte fascistizzanti; nel Mediterraneo la presenza di simili forze è contraddetta da movimenti di sovranità popolare e democratico-costituzionali. Il che ci riporta direttamente a quanto viene ripetutamente ignorato da Zielonka: al modo in cui l'Unione si è fatta largo ad Oriente e si è strutturata in un Centro a trazione tedesca e differenziate Periferie. Tra queste ultime figurano Paesi del Sud che, avendo ancora vive le ferite del fascismo, si mostrano piuttosto resistenti. Ad Est, invece, il nazionalismo a base etnico-confessionale si è installato grazie ai riconoscimenti ed agli appoggi ricevuti dai Paesi dell'Europa occidentale che aspiravano all'espansione dei propri capitali nazionali. Fu così gettato “il bambino con l'acqua sporca”, ovvero le conquiste sociali con i regimi del “socialismo reale”.
Il limite che incontra il professore polacco, al quale va riconosciuto il coraggio di remare contro-corrente nel fiume liberale, gli preclude la comprensione di quanto emerge oggi in superficie. Vale a dire la propensione delle retrostanti oligarchie economico-finanziarie a cambiare cavallo, anche mettendo in subordine le élites politico-intellettuali delle quali si sono avvalse fino ad ora. Una propensione evidente in Italia, Paese in cui le spinte al cambiamento si sono fatte provvisorio contratto di governo.
Dopo l'addensarsi degli schieramenti sul TAV, scelta dirimente per le sue implicazioni sistemiche, ora registriamo le affinità elettive tra il vecchio regime e la Lega di Salvini sulla crisi del Venezuela.
Anche in questo caso di mezzo non c'è solo la “scelta” tra un presidente eletto (Nicolás Maduro) nel 2018 con un suffragio boicottato dalle opposizioni, ed uno nominato (Juan Guaidó), in base ad una lettura capziosa della Costituzione, da un parlamento eletto nel 2015. E non è nemmeno solo una questione di petrolio [vedi la tabella “I primi undici Paesi detentori di riserve petrolifere”, in pagina].
In questione c'è la pratica politica egemonica di stampo imperialistico, basata sull'attacco all'autodeterminazione, sull'intromissione negli affari interni di un Paese, reiterando - anche questo non può essere un caso - le sanzioni economiche ad hoc e gli sciagurati riconoscimenti esteri.
Abbiamo ancora fresca memoria degli effetti perversi di questa strategia: dalla ex-Jugoslavia, all'Iraq, alla Libia, all'Ucraina.
Sotto la minaccia di un intervento militare “umanitario e democratico” degli Stati Uniti, il golpe bianco di Guaidó si può trasformare in golpe nero ed in un sanguinoso scontro in terra venezuelana, con pesanti ripercussioni sulle relazioni internazionali.
L'elenco dei partiti politici italiani che si sono espressi per il riconoscimento di Guaidó, la dice lunga su quanto valgono le loro professioni di pace.
I primi undici Paesi detentori di riserve petrolifere
Note:
1 In un regime di cambi fissi (qual è l'euro), non potendo ricorrere alla svalutazione esterna, ciascun Paese in difficoltà ricorre alla “svalutazione interna” con abbassamenti salariali, precarietà del lavoro e riduzione del welfare.
2 Accordo con la Banca europea degli investimenti per un totale di 140 miliardi, spendibili in 15 anni.
3 L'atteggiamento europeo è ben sintetizzato dal presidente del Consiglio europeo, Donald Tusk, che ha riservato (6 febbraio 2019): «Un posto all'inferno per i promotori della Brexit.»
4 Jan Zielonka, “Il vero problema della Brexit è l'Ue, non il Regno Unito”, il Fatto Quotidiano, 31 gennaio 2019.
5 Intervista di Luca De Carolis a Piero Ignazi, il Fatto Quotidiano, 20 gennaio 2019.
6 Vedi in questo Blog, il Post “L'autocritica di un liberale tardivo”, gennaio 2019.
7 Ralf Dahrendorf, “1989. Riflessioni sulla rivoluzione in Europa. Lettera immaginaria a un amico di Varsavia (1990)”, Laterza, 1990.
8 Jeremy Rifkin, “Il sogno europeo: come l'Europa ha creato una nuova visione del futuro che sta lentamente eclissando il sogno americano”, Mondadori, 2004.
9 Al Labour di Jeremy Corbyn, Zielonka dedica considerazioni a parte.