- Il diritto di recesso dall'Unione Europea, di cui si avvale la Gran Bretagna (Brexit), è previsto dall'art. 50 del Trattato di Lisbona, firmato il 13 dicembre 2007.
- Con quel Trattato venivano reintrodotti gran parte dei contenuti della “Costituzione europea” - bocciata nel 2005 dai referendum nazionali francese ed olandese – nonché riformati il Trattato sull'Unione europea ed il Trattato istitutivo della Comunità europea.
- La Brexit conferma il declino dell'Unione, aprendo una breccia in uscita, mentre le insostenibili conseguenze della moneta unica invocano anche per l'Italia un recupero di sovranità politica, focalizzando l'attenzione sull'uso dell'art. 50.
Art. 50: la breccia
Avvalendosi dell'art. 50 del Trattato di Lisbona, la Brexit apre una breccia in uscita dall'UE. La proposta di Gallino per uscire dall'euro ma non dall'Unione.
L'estintore
di Amato
L'art.
50 del Trattato di Lisbona della Unione europea, che consente al
Regno Unito di uscirne (Brexit), è stato scritto da Giuliano Amato,
attuale membro della Corte Costituzionale italiana, già capo del
governo e “dottor sottile” prestato all'Europa. Dopo la
bocciatura referendaria di Francia ed Olanda della “Costituzione
europea”, opera della Convenzione di Laeken (2002-2003) di cui era
vicepresidente, Amato fu messo a capo di un Comitato1
che reintrodusse, con alcune correzioni tra cui il diritto di
recesso, gran parte dei contenuti della “Costituzione” fallita,
riformando al contempo i precedenti Trattati. A luglio, in un
convegno romano, Amato stesso ne ha rivendicato la paternità. Il che
ha offerto il fianco a qualche ironia, soprattutto per la motivazione
addotta: disporre di “un estintore che non dovrebbe mai essere
utilizzato. Invece c'è stato l'incendio.”2
Si
può criticamente argomentare che la “clausola di fuga” manchi di
un adeguato corredo di tempi e condizioni. Ma sostenere che dovesse
contemplare delle “penali”, mostra solo l'ignoranza della
differenza tra un Trattato internazionale ed un contratto di appalto
tra una multinazionale ed una piccola azienda fornitrice...
Con
qualche ragione si può affermare che la Gran Bretagna, “rassicurata”
a suo tempo con l'art. 50, nelle lungaggini finisca per godere di un
trattamento di favore, a differenza di quanto solitamente Bruxelles
riservi ai più deboli Paesi periferici. Grecia insegni. La
flemmatica calma con cui Londra mostra di voler dare pratico seguito
al pronunciamento referendario incontra, com'è noto, la desistenza
di Berlino e questo basti a tacitare l'irritata Francia e un'Italia
ansiosa di raccogliere qualche briciola dal trasloco di alcuni enti
europei ora collocati a Londra.
Ma
non ha alcun fondamento sia politico sia giuridico mettere in
discussione il buon diritto di un Paese a recedere unilateralmente da
un Trattato. L'UE non è uno Stato-nazione e neppure uno Stato
federale. Semmai ci si può chiedere perché un'analoga possibilità
non sia proceduralmente contemplata per l'uscita dall'euro. Si dà il
caso, infatti, che siano richieste precise condizioni per aderirvi e
ancor più per restarci, ma non sia concesso “pacificamente”
uscirne.
Prima
condotti all'indebitamento, poi costretti nei vincoli del debito,
minacciati di ritorsive “penali” finanziarie (di “governance”,
non rintracciabili nelle clausole dei Trattati), i Paesi periferici
sono tenuti in scacco dal triangolo Berlino-Bruxelles-Francoforte.
Nei cui Palazzi si è concentrato un grumo oligarchico di potere che
coniuga interessi finanziari sovranazionali e supremazia dei Paesi
del Centro.
Eppure
fu Brexit
Incerte
appaiono le conseguenze economiche della Brexit sia per la Gran
Bretagna, sia per i diversi membri della UE. A far previsioni
pessimistiche sono sempre i liberoscambisti che alimentarono il
catastrofismo per far prevalere il remain.
Non
è chiaro, poi, se il nuovo governo May si limiterà all'annunciato
Quantitative
easing
di sterline o adotterà altre misure di politica economica.
Di
certo il prevalere del leave
serve per giustificare rallentamenti nella sfiatata ripresa,
nonostante essi fossero già manifesti prima del voto.
Sicché
anche il governo Renzi vorrebbe, almeno in parte, scaricare sulla
Brexit i propri deludenti risultati.
Sul
piano più strettamente politico l'impatto del divorzio britannico
dal processo d'integrazione europea, benché meglio valutabile nel
medio e lungo periodo, si presta da subito a più consolidate
considerazioni.
All'integrazione
si sottrae un Paese di primaria importanza, reputato, insieme a
Germania e Francia, come indispensabile. Pur non aderente alla
moneta unica e al patto di Schengen sulla libera circolazione, il
leave
dello
Regno
Unito
segna un passaggio politico storico. Invano gli fu concesso uno
statuto speciale3,
in sé foriero di mille complicazioni interne all'Unione europea.
La
linea di tendenza è chiara: non più allargamenti, ma restringimenti
e di grande peso specifico. Non più integrazione, ma
dis-integrazione, con l'apertura di una breccia in uscita che rischia
di diventare una porta larga attraversabile da altri. La parabola è
discendente.
Sotto
l'incalzare dei fatti di cronaca siamo portati ad interpretare le
difficoltà europee, in materia di sicurezza dal terrorismo o di
gestione dell'ondata migratoria o di crisi dell'euro, come segnali
negativi preponderanti ma recenti. Nella percezione generale si
risale tuttalpiù alla crisi economica del 2008, scatenata oltre
Atlantico dal crack finanziario del biennio 2006-2007. Tuttavia
l'inizio del declino europeo data da prima. Per buona parte degli
studiosi, sociologi filosofi politologi giuristi, l'Unione non è mai
riuscita ad andare oltre Maastricht. Aggiungo: se non perfezionandosi
in peggio e discostandosi in modo crescente dai popoli che avrebbero
dovuto volerne il definitivo successo. L'inizio della fase calante si
palesò sin dal fallimento della cosiddetta Costituzione europea
(quella elaborata dalla Convenzione di Laeken), sancito dai
referendum popolari francese ed olandese. Correva l'anno 2005.
Per
capire quale futuro avrà l'Unione Europea è indispensabile andare a
ritroso, cercando di individuarne le contraddizioni chiave,
sedimentate nei decenni. Ad esse ho più volte fatto riferimento
trattando di euro, di Grecia, di Ucraina, di vicende storiche e
politiche attuali.
Molte
delle ragioni individuate dal pensiero main-stream, o da
qualche analista con pretese critiche, mi paiono assai poco
convincenti. Non tanto e non solo per gli insiti errori di logica
politica e giuridica, pur presenti, o per l'interpretazione
unilaterale della globalizzazione soverchiante, quanto per la pratica
politica (intesa in modo concreto) della costruzione europea. Almeno
dalla caduta del Muro in poi, quando si volessero trascurare le
“infelici premesse” poste nel periodo antecedente.
Aspetti
da approfondire. Qui mi limito a “chiudere” una critica ed
evidenziare una proposta.
L'esempio
positivo di Varoufakis
Ragionando
sulle proposte di Yanis Varoufakis per rilanciare l'Europa,4
avanzavo alcune parziali osservazioni critiche. Una di queste era
relativa all'esempio, per lui positivo e da riproporre su scala
europea, costituito dalla unificazione politica nello United
Kingdom
delle nazioni inglese, gallese, scozzese e nord-irlandese.
La
Brexit ha smentito Varoufakis oltre ogni possibile critica. Dal
pronunciamento popolare scaturisce un duplice moto disgregativo:
dello UK dall'UE e all'interno dello stesso UK, dal
quale la Scozia vuole ora separarsi proprio per non recedere
dall'Unione.
Inoltre,
è sollevata una questione sociale a cui la “sinistra europeista”
si ostina a non rispondere.
Fonte: ilSole24ore |
Geograficamente
il consenso alla Brexit poggia saldamente sull'elettorato inglese e
in misura minore su quello gallese, mentre accanto al forte dissenso
scozzese ha fatto capolino persino quello nord-irlandese. Se
consideriamo l'orientamento delle componenti sociali, al successo del
leave hanno concorso larghi strati della working class
inglese e gallese, mentre tra i giovani sembra abbia prevalso
l'indifferenza anziché la “voglia d'Europa”.
Le
conclusioni di Gallino
Quanto
alla proposta, segnalo quella del sociologo Luciano Gallino5,
venuto nel frattempo a mancare, esposta nel suo ultimo libro6
e risalente all'ottobre del 2015, ossia mesi prima del referendum
d'oltre Manica. Essa è basata proprio sull'attivazione dell'art. 50
del Trattato di Lisbona, entrato in vigore dal 1° gennaio del 2009.
Gallino
era giunto, alfine, alla conclusione opposta a quella sostenuta da
lui con durezza qualche anno prima: bisogna uscire dall'euro. Un caso
di “europentitismo”?7
Gran
parte del libro riproduce articoli già apparsi su la Repubblica
dal 2009 al 2015 (solo uno è del 2005), seguendo il filo di una
critica al neoliberismo incentrata sulla difesa del potere d'acquisto
dei lavoratori e sulla lotta alla disoccupazione. Temi ed argomenti
degni di ulteriori approfondimenti critici, anche assumendo a
riferimento le altre sue pubblicazioni più analitiche rispetto alla
finanziarizzazione. Al momento considero l'ultimo capitolo inedito,
significativamente intitolato “Conclusioni – Modesta proposta per
uscire dall'euro (ma non dall'Unione europea).”
Constatazioni
«Non
si era mai vista nella storia degli Stati moderni una simile cessione
di sovranità, se non nel caso di occupazioni militari, né si era
mai assistito a una intera classe politica che risponde “obbedisco”
a ogni messaggio dittatoriale proveniente da Bruxelles, senza mai
osar sollevare la minima critica o resistenza.»
Benché
l'introduzione dell'euro contenesse già un'implicita «grossa
cessione di sovranità
economica e monetaria»
nel fondamentale potere dello Stato di creare moneta e di disporre di
una propria Banca centrale, ciò «che
non era prevedibile era che la cessione venisse a riguardare via via
anche il controllo della spesa per la protezione sociale (pensioni,
sanità), la scuola, l'università, la quota salari sul Pil, i beni
culturali, la proprietà pubblica e privata dell'apparato
industriale, la spesa della Pubblica Amministrazione (Pa) e la sua
organizzazione, i contratti di lavoro e molto altro ancora.»
All'Italia
tale perdita di sovranità, in funzione dell'unione monetaria e della
Germania (maggiore beneficiaria), è costata assai cara. «Si tratta
di migliaia di miliardi, tra i quali: 1.800 miliardi di interessi sul
debito versati a banche private al tasso di mercato invece di
prelevarli a un tasso minimo o zero dalla propria Banca centrale;
quasi 300 miliardi di Pil non prodotti tra il 2007 e il 2014 in poi
da disoccupati, imprese e Pa a causa delle politiche di austerità e
della recessione che ne è seguita; altre decine di miliardi
sottratti ogni anno dallo Stato alla scuola, all'università, alla
sanità, alle pensioni, alla Pa, alle infrastrutture, per destinarli
non già alla riduzione del debito, giunto a toccare nel 2015 i 2.200
miliardi, ma unicamente al pagamento degli interessi sul debito, che
si aggirano ormai sui 90-95 miliardi l'anno; 10-12 milioni di
disoccupati, mal occupati, precari e poveri che sopravvivono
sull'orlo della sussistenza; una situazione economica e sociale del
Mezzogiorno che sta rivelandosi disastrosa.»
Da
Luciano Gallino, “Come (e perché) uscire dall'euro, ma non
dall'Unione europea”, Laterza, maggio 2016, pagg. 182-184.
Le
conclusioni partono dalla constatazione [di cui
nel riquadro sopra] dei danni causati all'Italia sul piano
economico, politico e sociale, dalla cessione della sua sovranità,
che all'inizio sarebbe stata solo economico-monetaria, mutando
imprevedibilmente in “politica”, grazie alla scandalosa
sudditanza di una “intera classe politica”.
Era
davvero imprevedibile?
Quel
che mi preme sottolineare sono due concezioni di base, dal mio punto
di vista piuttosto fuorvianti.
La
prima attiene all'idea di “politica”, per cui la cessione di
sovranità monetaria ed economica da parte di uno Stato verso un
non-Stato, entità sovranazionale istituita da Trattati ed accordi
inter-governativi (quale è l'Unione europea), sarebbe non ancora
“politica”, forse impolitica o pre-politica. Davvero un concetto
privo del minimo barlume di concretezza, appunto politica.
La
seconda, derivante dalla prima, è che sia diventata politica solo in
seguito, per la stoltezza subalterna di una “intera classe
politica”. Sicché basterebbe rimediare a questo difetto
comportamentale e morale delle élites nostrane, in una sorta
di ravvedimento operoso, per invertire la rotta intrapresa.
Come
se, per usare le parole dello stesso Gallino, non ci sia stata,
nell'intera vicenda, la pratica della “lotta di classe dopo la
lotta di classe”8.
Comunque,
poiché «nessuna
realistica modifica dell'euro sarà possibile»,
dato che «la
Germania non accetterà mai la minima modifica»,
non rimane che uscirne. Nel lessico giuridico della UE si chiama
“recesso”. E qui rientra in gioco il citato art. 50, pur
permanendo «ancora dubbi sulla possibilità di recedere dalla Uem –
la complicata veste giuridica dell'euro – restando però nella Ue.»
Tanto appare difficile districarsi nella marea di articoli,
paragrafi, protocolli, risoluzioni in cui è sparso il vincolo
monetario di cui liberarsi.
La
linea più limpida per conseguire l'obiettivo del recesso solo
dall'euro sarebbe quella di emendare i Trattati, ma questo
richiederebbe il voto unanime di tutti gli Stati membri: un percorso
politico e negoziale assai tortuoso e dagli esiti imprevedibili.
Sulla
scorta dell'analisi di un giurista americano, Jens C. Dammann, una
via negoziale sarebbe possibile, nell'ambito dell'art. 50, per
recedere dall'euro senza recedere dall'Unione. Alcuni Stati,
trovandosi nelle condizioni di non potere più rispettare le
condizioni poste per entrare nell'area della moneta unica,
decadrebbero dai requisiti necessari e, di conseguenza, potrebbero
chiedere la via del recesso negoziato. Pur invocando il contributo
degli esperti in materia, Gallino invita a percorrere questa via,
«con o senza un nuovo governo».
Rimane
da capire da dove possa scaturire la forza politica capace di
imboccarla e, soprattutto, in grado di reggere le reazioni di quel
blocco combinato di interessi oligarchici (politico-economici) e di
supremazia nazionale (del Centro sulle Periferie) oramai installatosi
nell'Unione ed in particolare nel suo cuore, la zona euro.
Secondo
Gallino dovremmo fare affidamento su un improvviso rovesciamento di
linea e condotta, da parte delle stesse élites
politiche
alle quali egli imputa la stolta cessione di sovranità.
Sempre
che, nel frattempo, il Titanic euro non cozzi contro un fatidico
iceberg,
uscire dall'Uem unilateralmente da parte di un Paese periferico non è
un “pranzo di gala”. Conviene dar retta a quei giuristi che, come
ricorda Gallino en
passant nelle
sue Conclusioni, suggeriscono la via più risolutiva di avvalersi
dell'art. 50 e, aggiungo, dei suoi inadeguati tempi e modalità di
applicazione, per recedere dall'Unione in
toto,
negoziando contestualmente, da quella posizione, una riammissione che
escluda l'adesione al sistema euro ed ai connessi vincoli.
Ad
ogni buon conto, è inevitabile lo scontro con gli interessi che
hanno voluto quel sistema e quei vincoli.
Senza
scorciatoie
Non
affrontare la questione nodale dell'euro condanna o alla subalternità
verso gli attuali poteri forti continentali o/e all'impotenza verso
il montare dei movimenti xenofobi, nazionalistici e neofascisti. Si
tratta di una spirale perversa in cui gli uni incentivano gi altri,
strangolando ad un tempo la sovranità democratica e la vita
quotidiana dei popoli nelle loro componenti “più deboli”.
Salvo
rare eccezioni, le “sinistre europee”, da Syriza a Podemos a
quelle italiane (dentro e fuori dal PD) non sono arrivate neanche
alle conclusioni di Gallino.
Eppure,
nei luoghi e nei settori popolari più colpiti dall'austerità (che
Renzi dice di combinare con una crescita sempre in procinto di
ripartire), come da coloro che rifiutano l'ortodossia dominante, non
mancano le forze per dar vita ad un movimento per la sovranità
democratica e per l'uscita dall'euro.
Sebbene
la moneta sia presentata sempre come sacra, quanto il debito
associato alla colpa (tanto che il ripagarlo equivale a “redimerlo”
e “redimersi”) cala vistosamente il numero di coloro che si fanno
intimidire dagli officianti europei di rito ortodosso e non osano
squarciare il “velo” costituito dalla moneta. Cresce il fiume
carsico della riappropriazione politica pubblica del problema.
Il
M5S sostiene la proposta di un “referendum consultivo” e si dice
disposto al dialogo con i movimenti nella comune indipendenza dai
partiti. Qualunque sia l'idea che ci siamo fatti del M5S, nel
presente panorama politico non cogliere questa opportunità sarebbe
uno sconcertante autolesionismo.
Il
referendum popolare non a caso è inviso a tutti gli “eurocrati”.
Tramite una campagna per indirlo e per vincerlo, il movimento sarebbe
in grado di rielaborare nella pratica della lotta politica,
criticamente, i reali motivi della scelta, connettendo il profondo
delle motivazioni economico-sociali alla riaffermazione della
sovranità democratica e costituzionale.
Che
siano, poi, i signori del triangolo Berlino-Bruxelles-Francoforte
a chiarire al mondo se vogliono imporre l'euro all'Italia al prezzo
di escluderla, o, al contrario lasciare aperta un'altra via per
costruire l'Europa.
1
“Comitato d'azione per la democrazia europea”, detto Gruppo
Amato.
2
Luca Romano, Brexit, stop di Giuliano Amato: "Articolo 50 da
non utilizzare", ilgiornale.it, 26/07/2016.
3
Di cui al Post “Una cambiale in bianco”, luglio 2016.
4
Vedi Post “Cul de sac” - Febbraio 2016.
5
Del cui prezioso lavoro mi sono avvalso in questo Blog.
6
Luciano Gallino, “Come (e perché) uscire dall'euro, ma non
dall'Unione europea”, Laterza, maggio 2016. Le citazioni che
seguono, anche nel riquadro, sono tratte tutte da questo testo.
7
Vedi Alberto Bagnai, http://goofynomics.blogspot.it/2015/07 gallino-breve-compendio-di-istruzioni.html
8
L. Gallino e P. Borgna, “La lotta di classe dopo la lotta di
classe”, Laterza, 2012.