domenica 21 agosto 2016

Art. 50: la breccia

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    Art. 50: la breccia

    Avvalendosi dell'art. 50 del Trattato di Lisbona, la Brexit apre una breccia in uscita dall'UE. La proposta di Gallino per uscire dall'euro ma non dall'Unione.

  • Il diritto di recesso dall'Unione Europea, di cui si avvale la Gran Bretagna (Brexit), è previsto dall'art. 50 del Trattato di Lisbona, firmato il 13 dicembre 2007.
  • Con quel Trattato venivano reintrodotti gran parte dei contenuti della “Costituzione europea” - bocciata nel 2005 dai referendum nazionali francese ed olandese – nonché riformati il Trattato sull'Unione europea ed il Trattato istitutivo della Comunità europea.
  • La Brexit conferma il declino dell'Unione, aprendo una breccia in uscita, mentre le insostenibili conseguenze della moneta unica invocano anche per l'Italia un recupero di sovranità politica, focalizzando l'attenzione sull'uso dell'art. 50.
L'estintore di Amato
L'art. 50 del Trattato di Lisbona della Unione europea, che consente al Regno Unito di uscirne (Brexit), è stato scritto da Giuliano Amato, attuale membro della Corte Costituzionale italiana, già capo del governo e “dottor sottile” prestato all'Europa. Dopo la bocciatura referendaria di Francia ed Olanda della “Costituzione europea”, opera della Convenzione di Laeken (2002-2003) di cui era vicepresidente, Amato fu messo a capo di un Comitato1 che reintrodusse, con alcune correzioni tra cui il diritto di recesso, gran parte dei contenuti della “Costituzione” fallita, riformando al contempo i precedenti Trattati. A luglio, in un convegno romano, Amato stesso ne ha rivendicato la paternità. Il che ha offerto il fianco a qualche ironia, soprattutto per la motivazione addotta: disporre di “un estintore che non dovrebbe mai essere utilizzato. Invece c'è stato l'incendio.”2
Si può criticamente argomentare che la “clausola di fuga” manchi di un adeguato corredo di tempi e condizioni. Ma sostenere che dovesse contemplare delle “penali”, mostra solo l'ignoranza della differenza tra un Trattato internazionale ed un contratto di appalto tra una multinazionale ed una piccola azienda fornitrice...
Con qualche ragione si può affermare che la Gran Bretagna, “rassicurata” a suo tempo con l'art. 50, nelle lungaggini finisca per godere di un trattamento di favore, a differenza di quanto solitamente Bruxelles riservi ai più deboli Paesi periferici. Grecia insegni. La flemmatica calma con cui Londra mostra di voler dare pratico seguito al pronunciamento referendario incontra, com'è noto, la desistenza di Berlino e questo basti a tacitare l'irritata Francia e un'Italia ansiosa di raccogliere qualche briciola dal trasloco di alcuni enti europei ora collocati a Londra.
Ma non ha alcun fondamento sia politico sia giuridico mettere in discussione il buon diritto di un Paese a recedere unilateralmente da un Trattato. L'UE non è uno Stato-nazione e neppure uno Stato federale. Semmai ci si può chiedere perché un'analoga possibilità non sia proceduralmente contemplata per l'uscita dall'euro. Si dà il caso, infatti, che siano richieste precise condizioni per aderirvi e ancor più per restarci, ma non sia concesso “pacificamente” uscirne.
Prima condotti all'indebitamento, poi costretti nei vincoli del debito, minacciati di ritorsive “penali” finanziarie (di “governance”, non rintracciabili nelle clausole dei Trattati), i Paesi periferici sono tenuti in scacco dal triangolo Berlino-Bruxelles-Francoforte. Nei cui Palazzi si è concentrato un grumo oligarchico di potere che coniuga interessi finanziari sovranazionali e supremazia dei Paesi del Centro.

Eppure fu Brexit
Incerte appaiono le conseguenze economiche della Brexit sia per la Gran Bretagna, sia per i diversi membri della UE. A far previsioni pessimistiche sono sempre i liberoscambisti che alimentarono il catastrofismo per far prevalere il remain. Non è chiaro, poi, se il nuovo governo May si limiterà all'annunciato Quantitative easing di sterline o adotterà altre misure di politica economica.
Di certo il prevalere del leave serve per giustificare rallentamenti nella sfiatata ripresa, nonostante essi fossero già manifesti prima del voto. Sicché anche il governo Renzi vorrebbe, almeno in parte, scaricare sulla Brexit i propri deludenti risultati.
Sul piano più strettamente politico l'impatto del divorzio britannico dal processo d'integrazione europea, benché meglio valutabile nel medio e lungo periodo, si presta da subito a più consolidate considerazioni.
All'integrazione si sottrae un Paese di primaria importanza, reputato, insieme a Germania e Francia, come indispensabile. Pur non aderente alla moneta unica e al patto di Schengen sulla libera circolazione, il leave dello Regno Unito segna un passaggio politico storico. Invano gli fu concesso uno statuto speciale3, in sé foriero di mille complicazioni interne all'Unione europea.
La linea di tendenza è chiara: non più allargamenti, ma restringimenti e di grande peso specifico. Non più integrazione, ma dis-integrazione, con l'apertura di una breccia in uscita che rischia di diventare una porta larga attraversabile da altri. La parabola è discendente.
Sotto l'incalzare dei fatti di cronaca siamo portati ad interpretare le difficoltà europee, in materia di sicurezza dal terrorismo o di gestione dell'ondata migratoria o di crisi dell'euro, come segnali negativi preponderanti ma recenti. Nella percezione generale si risale tuttalpiù alla crisi economica del 2008, scatenata oltre Atlantico dal crack finanziario del biennio 2006-2007. Tuttavia l'inizio del declino europeo data da prima. Per buona parte degli studiosi, sociologi filosofi politologi giuristi, l'Unione non è mai riuscita ad andare oltre Maastricht. Aggiungo: se non perfezionandosi in peggio e discostandosi in modo crescente dai popoli che avrebbero dovuto volerne il definitivo successo. L'inizio della fase calante si palesò sin dal fallimento della cosiddetta Costituzione europea (quella elaborata dalla Convenzione di Laeken), sancito dai referendum popolari francese ed olandese. Correva l'anno 2005.
Per capire quale futuro avrà l'Unione Europea è indispensabile andare a ritroso, cercando di individuarne le contraddizioni chiave, sedimentate nei decenni. Ad esse ho più volte fatto riferimento trattando di euro, di Grecia, di Ucraina, di vicende storiche e politiche attuali.
Molte delle ragioni individuate dal pensiero main-stream, o da qualche analista con pretese critiche, mi paiono assai poco convincenti. Non tanto e non solo per gli insiti errori di logica politica e giuridica, pur presenti, o per l'interpretazione unilaterale della globalizzazione soverchiante, quanto per la pratica politica (intesa in modo concreto) della costruzione europea. Almeno dalla caduta del Muro in poi, quando si volessero trascurare le “infelici premesse” poste nel periodo antecedente.
Aspetti da approfondire. Qui mi limito a “chiudere” una critica ed evidenziare una proposta.
L'esempio positivo di Varoufakis
Ragionando sulle proposte di Yanis Varoufakis per rilanciare l'Europa,4 avanzavo alcune parziali osservazioni critiche. Una di queste era relativa all'esempio, per lui positivo e da riproporre su scala europea, costituito dalla unificazione politica nello United Kingdom delle nazioni inglese, gallese, scozzese e nord-irlandese.
La Brexit ha smentito Varoufakis oltre ogni possibile critica. Dal pronunciamento popolare scaturisce un duplice moto disgregativo: dello UK dall'UE e all'interno dello stesso UK, dal quale la Scozia vuole ora separarsi proprio per non recedere dall'Unione.
Inoltre, è sollevata una questione sociale a cui la “sinistra europeista” si ostina a non rispondere.
Fonte: ilSole24ore

Geograficamente il consenso alla Brexit poggia saldamente sull'elettorato inglese e in misura minore su quello gallese, mentre accanto al forte dissenso scozzese ha fatto capolino persino quello nord-irlandese. Se consideriamo l'orientamento delle componenti sociali, al successo del leave hanno concorso larghi strati della working class inglese e gallese, mentre tra i giovani sembra abbia prevalso l'indifferenza anziché la “voglia d'Europa”.
Le conclusioni di Gallino
Quanto alla proposta, segnalo quella del sociologo Luciano Gallino5, venuto nel frattempo a mancare, esposta nel suo ultimo libro6 e risalente all'ottobre del 2015, ossia mesi prima del referendum d'oltre Manica. Essa è basata proprio sull'attivazione dell'art. 50 del Trattato di Lisbona, entrato in vigore dal 1° gennaio del 2009.
Gallino era giunto, alfine, alla conclusione opposta a quella sostenuta da lui con durezza qualche anno prima: bisogna uscire dall'euro. Un caso di “europentitismo”?7
Gran parte del libro riproduce articoli già apparsi su la Repubblica dal 2009 al 2015 (solo uno è del 2005), seguendo il filo di una critica al neoliberismo incentrata sulla difesa del potere d'acquisto dei lavoratori e sulla lotta alla disoccupazione. Temi ed argomenti degni di ulteriori approfondimenti critici, anche assumendo a riferimento le altre sue pubblicazioni più analitiche rispetto alla finanziarizzazione. Al momento considero l'ultimo capitolo inedito, significativamente intitolato “Conclusioni – Modesta proposta per uscire dall'euro (ma non dall'Unione europea).”
Constatazioni
«Non si era mai vista nella storia degli Stati moderni una simile cessione di sovranità, se non nel caso di occupazioni militari, né si era mai assistito a una intera classe politica che risponde “obbedisco” a ogni messaggio dittatoriale proveniente da Bruxelles, senza mai osar sollevare la minima critica o resistenza.»
Benché l'introduzione dell'euro contenesse già un'implicita «grossa cessione di sovranità economica e monetaria» nel fondamentale potere dello Stato di creare moneta e di disporre di una propria Banca centrale, ciò «che non era prevedibile era che la cessione venisse a riguardare via via anche il controllo della spesa per la protezione sociale (pensioni, sanità), la scuola, l'università, la quota salari sul Pil, i beni culturali, la proprietà pubblica e privata dell'apparato industriale, la spesa della Pubblica Amministrazione (Pa) e la sua organizzazione, i contratti di lavoro e molto altro ancora.»
All'Italia tale perdita di sovranità, in funzione dell'unione monetaria e della Germania (maggiore beneficiaria), è costata assai cara. «Si tratta di migliaia di miliardi, tra i quali: 1.800 miliardi di interessi sul debito versati a banche private al tasso di mercato invece di prelevarli a un tasso minimo o zero dalla propria Banca centrale; quasi 300 miliardi di Pil non prodotti tra il 2007 e il 2014 in poi da disoccupati, imprese e Pa a causa delle politiche di austerità e della recessione che ne è seguita; altre decine di miliardi sottratti ogni anno dallo Stato alla scuola, all'università, alla sanità, alle pensioni, alla Pa, alle infrastrutture, per destinarli non già alla riduzione del debito, giunto a toccare nel 2015 i 2.200 miliardi, ma unicamente al pagamento degli interessi sul debito, che si aggirano ormai sui 90-95 miliardi l'anno; 10-12 milioni di disoccupati, mal occupati, precari e poveri che sopravvivono sull'orlo della sussistenza; una situazione economica e sociale del Mezzogiorno che sta rivelandosi disastrosa.»

Da Luciano Gallino, “Come (e perché) uscire dall'euro, ma non dall'Unione europea”, Laterza, maggio 2016, pagg. 182-184.

Le conclusioni partono dalla constatazione [di cui nel riquadro sopra] dei danni causati all'Italia sul piano economico, politico e sociale, dalla cessione della sua sovranità, che all'inizio sarebbe stata solo economico-monetaria, mutando imprevedibilmente in “politica”, grazie alla scandalosa sudditanza di una “intera classe politica”.
Era davvero imprevedibile?
Quel che mi preme sottolineare sono due concezioni di base, dal mio punto di vista piuttosto fuorvianti.
La prima attiene all'idea di “politica”, per cui la cessione di sovranità monetaria ed economica da parte di uno Stato verso un non-Stato, entità sovranazionale istituita da Trattati ed accordi inter-governativi (quale è l'Unione europea), sarebbe non ancora “politica”, forse impolitica o pre-politica. Davvero un concetto privo del minimo barlume di concretezza, appunto politica.
La seconda, derivante dalla prima, è che sia diventata politica solo in seguito, per la stoltezza subalterna di una “intera classe politica”. Sicché basterebbe rimediare a questo difetto comportamentale e morale delle élites nostrane, in una sorta di ravvedimento operoso, per invertire la rotta intrapresa.
Come se, per usare le parole dello stesso Gallino, non ci sia stata, nell'intera vicenda, la pratica della “lotta di classe dopo la lotta di classe”8.
Comunque, poiché «nessuna realistica modifica dell'euro sarà possibile», dato che «la Germania non accetterà mai la minima modifica», non rimane che uscirne. Nel lessico giuridico della UE si chiama “recesso”. E qui rientra in gioco il citato art. 50, pur permanendo «ancora dubbi sulla possibilità di recedere dalla Uem – la complicata veste giuridica dell'euro – restando però nella Ue.» Tanto appare difficile districarsi nella marea di articoli, paragrafi, protocolli, risoluzioni in cui è sparso il vincolo monetario di cui liberarsi.
La linea più limpida per conseguire l'obiettivo del recesso solo dall'euro sarebbe quella di emendare i Trattati, ma questo richiederebbe il voto unanime di tutti gli Stati membri: un percorso politico e negoziale assai tortuoso e dagli esiti imprevedibili.
Sulla scorta dell'analisi di un giurista americano, Jens C. Dammann, una via negoziale sarebbe possibile, nell'ambito dell'art. 50, per recedere dall'euro senza recedere dall'Unione. Alcuni Stati, trovandosi nelle condizioni di non potere più rispettare le condizioni poste per entrare nell'area della moneta unica, decadrebbero dai requisiti necessari e, di conseguenza, potrebbero chiedere la via del recesso negoziato. Pur invocando il contributo degli esperti in materia, Gallino invita a percorrere questa via, «con o senza un nuovo governo».
Rimane da capire da dove possa scaturire la forza politica capace di imboccarla e, soprattutto, in grado di reggere le reazioni di quel blocco combinato di interessi oligarchici (politico-economici) e di supremazia nazionale (del Centro sulle Periferie) oramai installatosi nell'Unione ed in particolare nel suo cuore, la zona euro.
Secondo Gallino dovremmo fare affidamento su un improvviso rovesciamento di linea e condotta, da parte delle stesse élites politiche alle quali egli imputa la stolta cessione di sovranità.
Sempre che, nel frattempo, il Titanic euro non cozzi contro un fatidico iceberg, uscire dall'Uem unilateralmente da parte di un Paese periferico non è un “pranzo di gala”. Conviene dar retta a quei giuristi che, come ricorda Gallino en passant nelle sue Conclusioni, suggeriscono la via più risolutiva di avvalersi dell'art. 50 e, aggiungo, dei suoi inadeguati tempi e modalità di applicazione, per recedere dall'Unione in toto, negoziando contestualmente, da quella posizione, una riammissione che escluda l'adesione al sistema euro ed ai connessi vincoli.
Ad ogni buon conto, è inevitabile lo scontro con gli interessi che hanno voluto quel sistema e quei vincoli.
Senza scorciatoie
Non affrontare la questione nodale dell'euro condanna o alla subalternità verso gli attuali poteri forti continentali o/e all'impotenza verso il montare dei movimenti xenofobi, nazionalistici e neofascisti. Si tratta di una spirale perversa in cui gli uni incentivano gi altri, strangolando ad un tempo la sovranità democratica e la vita quotidiana dei popoli nelle loro componenti “più deboli”.
Salvo rare eccezioni, le “sinistre europee”, da Syriza a Podemos a quelle italiane (dentro e fuori dal PD) non sono arrivate neanche alle conclusioni di Gallino.
Eppure, nei luoghi e nei settori popolari più colpiti dall'austerità (che Renzi dice di combinare con una crescita sempre in procinto di ripartire), come da coloro che rifiutano l'ortodossia dominante, non mancano le forze per dar vita ad un movimento per la sovranità democratica e per l'uscita dall'euro.
Sebbene la moneta sia presentata sempre come sacra, quanto il debito associato alla colpa (tanto che il ripagarlo equivale a “redimerlo” e “redimersi”) cala vistosamente il numero di coloro che si fanno intimidire dagli officianti europei di rito ortodosso e non osano squarciare il “velo” costituito dalla moneta. Cresce il fiume carsico della riappropriazione politica pubblica del problema.
Il M5S sostiene la proposta di un “referendum consultivo” e si dice disposto al dialogo con i movimenti nella comune indipendenza dai partiti. Qualunque sia l'idea che ci siamo fatti del M5S, nel presente panorama politico non cogliere questa opportunità sarebbe uno sconcertante autolesionismo.
Il referendum popolare non a caso è inviso a tutti gli “eurocrati”. Tramite una campagna per indirlo e per vincerlo, il movimento sarebbe in grado di rielaborare nella pratica della lotta politica, criticamente, i reali motivi della scelta, connettendo il profondo delle motivazioni economico-sociali alla riaffermazione della sovranità democratica e costituzionale.
Che siano, poi, i signori del triangolo Berlino-Bruxelles-Francoforte a chiarire al mondo se vogliono imporre l'euro all'Italia al prezzo di escluderla, o, al contrario lasciare aperta un'altra via per costruire l'Europa.

1 “Comitato d'azione per la democrazia europea”, detto Gruppo Amato.
2 Luca Romano, Brexit, stop di Giuliano Amato: "Articolo 50 da non utilizzare", ilgiornale.it, 26/07/2016.
3 Di cui al Post “Una cambiale in bianco”, luglio 2016.
4 Vedi Post “Cul de sac” - Febbraio 2016.
5 Del cui prezioso lavoro mi sono avvalso in questo Blog.
6 Luciano Gallino, “Come (e perché) uscire dall'euro, ma non dall'Unione europea”, Laterza, maggio 2016. Le citazioni che seguono, anche nel riquadro, sono tratte tutte da questo testo.
7 Vedi Alberto Bagnai, http://goofynomics.blogspot.it/2015/07 gallino-breve-compendio-di-istruzioni.html
8 L. Gallino e P. Borgna, “La lotta di classe dopo la lotta di classe”, Laterza, 2012.