lunedì 29 giugno 2015

Schede PENSIONI


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    A furia di voler classificare le pensioni, d'oro, d'argento e di bronzo, si tace del fatto più importante: del fuori podio, delle pensioni di legno.
    Su un totale di 16,5 milioni di pensionati, poco più della metà non arriva a 1.000 € al mese e tra questi 2,5 milioni percepiscono meno di 500 € mensili.
    Quindi troviamo* (importi lordi):
  • entro tre volte il minimo (481x3) = 1.443 € => 11,29 milioni di persone (68,29%);
  • da 1.443 € a 2.405 € (da 3 a 5 volte il minimo) => 3,81 milioni (23,07%);
  • da 2.405 € a 4.810 € (da 5 a 10 volte il minimo) => 1,24 milioni (7,50%);
  • oltre 4.810 € (da 10 volte a oltre 50 volte il minimo) => 188.140 persone (1,14%, ma per un “Importo complessivo lordo annuo del reddito pensionistico” del 5,80%).
    Oltre i 3.500 € lordi ci sono 350.000 persone, per 24 miliardi di spesa su 270, assistenza compresa.
    Da questa istantanea si evince che non si tratta del regno di Bengodi, salvo per una parte ristretta, a cui i “congelamenti” della Fornero non hanno provocato neanche un raffreddore.

*Raggruppamenti ricavati dal Casellario Centrale dei Pensionati, 31/12/2012.

Effetti del congelamento delle pensioni


Fonte:http://www.blitzquotidiano.it/foto-notizie/pensioni-insostenibili-retributivo-esagerato-controinchiesta-pensionato-1832805/

Restituzioni ed indicizzazioni governative

La risposta del Governo Renzi-Padoan alla sentenza della Consulta
I rimborsi del Bonus Poletti
Costo: 2 miliardi e 187 milioni di euro. Beneficiari: 3,7 milioni di pensionati, per le seguenti fasce a scalare:
  • entro 1.700 € lordi: 750 euro di bonus;
  • entro 2.000 €: 450 euro di bonus;
  • entro 2.700 €: 278 euro di bonus.
Non percepiranno un euro coloro che accumulano un reddito mensile lordo da pensione pari a 3.200 € o superiore.
Nuove indicizzazioni
A partire dal 2016 le nuove fasce di rivalutazione sarebbero le seguenti:
  • entro i 1.700 € lordi: 180 € all’anno;
  • entro i 2.200 €: 99 € all’anno;
  • entro i 2.700 € 60 € l’anno, ossia 5 euro al mese.

Il ministro Padoan ha spiegato:
«Il provvedimento sulle pensioni si può dividere in tre parti: il calcolo degli arretrati con l’indicizzazione degli anni 2012-2013, arretrati che coprono parzialmente quelli previsti col taglio della legge Fornero; il calcolo dell’indicizzazione 2014-2015; e poi, a partire dal 2016, l’introduzione di un meccanismo di indicizzazione più generoso, in modo che i principi ispiratori della sentenza della Consulta, adeguatezza, gradualità e proporzionalità siano rispettati.»
 

Pensioni: l'equità compatibile


Al cuore delle pensioni:

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Dopo la sentenza della suprema Corte sulla legge Fornero divampa la discussione sulle pensioni. Le sue motivazioni. I reali motivi della scelta del metodo contributivo rispetto al precedente metodo retributivo. Dalla riforma Dini alle proposte di Tito Boeri. Dentro ai conti dell'INPS. Sostenibilità ed equità del contributivo viste da vicino.

In superficie e sotto
Secondo i prevalenti mass-media è tutto spiegato e chiaro, tanto è nitida la linea di demarcazione tra equità e ingiusto privilegio.
Il metodo contributivo, che promette di erogare pensioni in base a quanto versato negli anni di lavoro, è senz'altro “equo” e “giusto” oltreché sostenibile economicamente. Al contrario, il metodo retributivo viene additato come “ingiusto” e “troppo generoso” rispetto a quanto versato ed insostenibile per la già esorbitante spesa dello Stato.
Sicché la legge Dini del 1995 ha il solo difetto di introdurre in modo troppo graduale il “contributivo” in sostituzione del “retributivo”. Una gradualità temporale perlomeno da ridurre o tassare, per non rischiare di compromettere definitivamente i dissestati conti dell'INPS (di cui si tace l'origine) e quindi di nuocere ai giovani, le cui future pensioni sono minacciate dagli esosi trattamenti di quiescenza in essere, ancora beneficati dal vecchio metodo di calcolo.
Di conseguenza, con ferrea logica, non si discute delle finalità della legge Fornero o della politica economica a cui concorreva, né per la parte inerente il “congelamento”1, né per quella parte che, innalzando repentinamente l'età pensionabile, ha confinato gli esodati nel vuoto sospeso di un tempo senza lavoro e senza pensione. Si diffonde l'idea che vi fu solo un tecnico errore, qualche incongruenza, forse superficialità, anche dal punto di vista giuridico. Una “trappola” in cui può cadere anche il recente decreto del Governo in risposta alla sentenza di “scongelamento” della suprema Corte, imperfetto nel vanificare i prevedibili e numerosi ricorsi dei danneggiati.
Le quotidiane gocce di verità divulgata sono penetrate al tal punto nella pubblica opinione che i giovani intervistati, per movimentare stucchevoli talk-show televisivi, premettono, quasi con rassegnata noncuranza, di non nutrire alcuna aspettativa verso la propria futura pensione. D'altro canto, se oggi non hanno lavoro o lavorano in nero, o sono precari e sottopagati, come possono attendersi di accumulare i contributi necessari ad ottenere una pensione domani?
A completare il quadro c'è, infine, lo stillicidio di notizie sui vitalizi dei parlamentari e sulle pensioni d'oro di alcuni “nababbi”, in cui vengono infilate anche quelle dei pensionati del prodigo retributivo, a cui si riconosce almeno, “per dovere di cronaca”, la funzione di nonni socialmente utili, poiché sopperiscono al decadimento del welfare state con il welfare familiare, verso figli e nipoti.
Di tutto e di più, purché non si metta sotto esame critico l'assunto preordinante: il contributivo è la terra promessa dell'equità compatibile, perché garante dell'equilibrio di bilancio dei conti pubblici.
Per chi non si senta appagato da una troppo scontata verità e nutra qualche dubbio, tuttavia, non mancano luoghi alternativi.
Da singoli tasselli si può tentare di ricomporre un puzzle pensionistico d'insieme diverso dal solito. Magari avvalendosi di spunti presenti nel dibattito sotterraneo su internet, la rete, nella quale si rintraccia, oltre gli sfoghi e la caccia all'imbroglio e al complotto, una travolgente voglia di riappropriazione di ciò che è stato confiscato: un reale dibattito politico pubblico per padroneggiare le materie più complesse2. Come, appunto, la questione pensionistica.
Costituzione ed austerità permanente
Nelle motivazioni della sentenza di scongelamento delle pensioni traspare una ratio in contrasto con perenni necessità di compatibilità di bilancio, poste nell'ambito dei vincoli europei.
In esse la Consulta richiama la priorità di garantire agli anziani una continuità tra tenore di vita durante il lavoro e nella quiescenza, dichiarando illegale non solo una misura fiscale diretta contro le sole pensioni, ma anche il loro depauperamento percentuale e per sempre, al di là di un contributo temporaneo legato ad una specifica situazione di bilancio.3
Intimidita dal diluvio di critiche piovutele addosso per non avere escluso perentoriamente i rimborsi pregressi ai pensionati danneggiati dalla Fornero, la suprema Corte ha tuttavia, nella successiva sentenza, sbloccato per l'immediato futuro anche le retribuzioni dei dipendenti pubblici.
Per quanto combattuta e divisa possa essere la Corte, è il corpo complessivo della Costituzione a rigettare come estraneo a sé l'articolo l'articolo 81 sul “pareggio di bilancio”4.
Si viene a configurare, pertanto, una questione che non riguarda solo i margini di discrezionalità della politica, in una democrazia basata su limiti e contrappesi istituzionali. Altrimenti la Costituzione non avrebbe ragion d'essere.
Essa attiene soprattutto alla legalità di imposizioni fiscali in forza delle quali, di volta in volta, un gruppo particolare di cittadini venga preso a bersaglio, siano essi pensionati o lavoratori pubblici. In gioco è il rispetto dell'art. 535, l'uguaglianza di trattamento dei cittadini in relazione alla permanente crisi fiscale dello Stato.
Dato il contesto, non tarderà a manifestarsi un'altra contraddizione latente: tra vincoli e prescrizioni esterne (sui quali la politica prevalente non esercita né rivendica discrezionalità alcuna), provenienti da organismi europei mai sottoposti a convalida e mandati democratici, ed esercizio della sovranità nazionale.
La riforma base
Benché la legge Dini risalga al 1995, essa appartiene appieno alla logica dell'Europa a moneta unica. Il trattato di Maastricht è del febbraio 1992. Anticipando l'euro, il cambio fisso viene adottato nel 1996 e con esso inizia il declino del reddito medio italiano rispetto a quello dell’Europa a 15 paesi.
Da un punto di vista più generale, la lotta di classe dall'alto della scala sociale, per la ridistribuzione dei redditi a sfavore del lavoro, ebbe inizio in Italia sin dalla seconda metà degli anni settanta. Sacrifici ed austerità erano allora imposti in nome della “solidarietà nazionale”, mentre più tardi lo furono in nome dell'Europa (“lo vuole l'Europa!”).
A quella stagione politica intermedia appartiene la riforma Dini. Ci venne raccontato che avrebbe sistemato i conti previdenziali per i decenni a venire, secondo indiscutibili evidenze matematico-attuariali.
Il metodo di calcolo contributivo prendeva il posto del metodo di calcolo retributivo in modo scaglionato e graduale negli anni. Se quest'ultimo garantiva, in relazione agli anni di lavoro, una pensione proporzionata (80-85%) alle ultime remunerazioni, col contributivo ogni futuro pensionato avrebbe percepito assegni in base a quanto versato nell'arco di tutta l'attività lavorativa. Come una trasfusione a distanza di tempo: nei forzieri frigoriferi di Stato il sangue, pieno d'ossigeno del periodo giovanile e maturo, sarebbe stato conservato e reso disponibile, a rate e secondo attesa di vita, per il periodo di quiescenza.
Ma il valore di un credito, tanto più di un accantonamento pluridecennale, è sottoposto nel tempo a molteplici ed imprevedibili variabili. Incuranti di tante lezioni della storia (non a caso dichiarata “finita” con l'avvento del liberismo universale), fu stabilito che esso dovesse essere agganciato al Pil e rivalutato in base alla sua crescita percentuale. Più precisamente: «il tasso annuo di capitalizzazione è dato dalla variazione media quinquennale del prodotto interno lordo (Pil) nominale, appositamente calcolata dall'Istat, con riferimento al quinquennio precedente l'anno da rivalutare.» E se il Pil fosse regredito? Al tempo l'eventualità non venne neanche presa in considerazione e neppure normata. Il che può attestare o della furbizia da raggiro di coloro che parteciparono alla sua estensione o della loro stupidità.
Con una ridotta opposizione, le prevalenti forze politiche e sindacali convalidarono6 come più “equo” e “sostenibile” il nuovo metodo, tacendo, tra gli altri, su alcuni aspetti essenziali: il “nuovo” paradigma di politica economica al quale esso di fatto aderiva; l'isolamento del “montante contributivo” a cui applicare una rivalutazione finanziaria su misura di quel paradigma; il mare di iniquità fiscali, retributive e contributive in cui si pretendeva di isolare la “barchetta” del montante contributivo a cui affidare le pensioni dei giovani.
Tutti aspetti che, alla prova dei fatti successivi, hanno minato la “sostenibilità” e reso l'”equità” alquanto virtuale, prospettando una pensione povera, di legno, per la stragrande maggioranza.
Accelerazioni
Correva l'anno 2011. Sulla scorta dell'ennesima emergenza e di austeri vincoli europei, una larga maggioranza parlamentare varò la riforma pensionistica voluta dal governo Monti e dalla ministro Fornero.
Quel che si pensava sostenibile non lo era stato, ma restava inalterata la terra promessa del contributivo. Sicché, invece di cambiare indirizzo politico, si scelse diabolicamente di perseverare, accelerando con sobria iattanza l'applicazione della legge Dini.
Non vennero introdotti nuovi principi e metodi di calcolo; si badò al sodo, tagliando la spesa di 320 miliardi di euro in 40 anni.
Lo si deduce dalle parole di Enrico Morando, attuale viceministro dell'Economia: «Dal 2004 ad oggi sono state approvate norme correttive del sistema previdenziale pubblico che al 2050 riducono la spesa di 60 punti di Pil, 960 miliardi di euro. Soltanto l'ultimo intervento, quello realizzato dal governo Monti contribuisce a questi 60 punti di prodotto con un risparmio pari ad un terzo.»7
In seguito alla sentenza della suprema Corte, Elsa Maria Fornero, non potendo difendere tecnicamente l'operato del governo tecnico di cui fece parte, ha ribadito la validità dell'intenzione originaria: il riequilibrio dei conti a favore dei giovani che, purtroppo e tra non dimenticate lacrime, comportava la decurtazione degli assegni degli anziani.
Insomma, un doveroso esercizio di giustizia intergenerazionale.
Nella maggior parte dei commenti non si andò oltre la preoccupazione per il buco di bilancio che lo scongelamento delle pensioni comportava. Tutti, o quasi, dimentichi delle conseguenze della ”austerità deflattiva” praticata dal governo Monti, alla quale era organica la riforma Fornero con il suo pesante obolo. Quella politica, infatti, causò una compressione della domanda interna, un incremento della disoccupazione e un peggioramento del rapporto tra debito pubblico e Pil (tramite il calo del denominatore). Conseguentemente anche una ricaduta negativa sulla rivalutazione del montante contributivo e sull'entità delle pensioni future dei giovani. Ah, come sono preoccupati per i giovani! Anche se non si esimono dal definirli “schizzinosi”, ma in inglese, perché rifiuterebbero i lavori loro offerti.8
La missione di Tito
Il governo Renzi-Padoan non sembra aver imboccato una strada diversa. È avvertito dai fallimenti del governo Monti-Fornero, di cui conosce le reali ragioni. Ma tutto il suo “cambiare verso” si riduce alla “marchetta elettorale” degli 80 euro mensili.
Se il Paese passa dalla recessione ad una sostanziale stagnazione non è per merito suo.
Di suo, il governo vara il Jobs Act, in perfetta continuità con la deflazione salariale concorrenziale, non potendo toccare moneta e cambio, nonché i vincoli di bilancio dell'eurozona.
Notoriamente ad ispirare il Jobs Act furono gli studi del professor Tito Boeri, a dire il vero tradotti in legge in senso peggiorativo.
Poiché il docente della Bocconi ha approfondito anche la questione pensionistica, il governo lo ha nominato presidente dell'INPS. Il perché lo si capisce dal piano da lui elaborato.
Come la Fornero, muove dalla premessa che “il patto intergenerazionale”, a causa dell'andamento demografico, con l'attuale sistema a ripartizione sia diventato insostenibile. Ragione per cui andrebbe sostituito con un sistema ad accantonamento, passando al contempo, per determinare gli assegni da erogare, dal metodo di calcolo retributivo al metodo di calcolo contributivo. Sin qui poco di nuovo.
L'idea nuova di Boeri riguarda l'oggi ed è questa: «prendere le pensioni calcolate con il metodo retributivo, ricalcolarle col metodo contributivo e tagliare la parte eccedente.»9 La parte eccedente è definita “squilibrio”.
Una misura non applicabile a tutti in modo integrale ed indiscriminato, giacché, supponendo di risparmiare 4,2 miliardi di euro,10 andrebbero tagliati gli “squilibri” delle pensioni erogate secondo il retributivo limitatamente agli “importi elevati”.
Seguendo il ragionamento di Boeri, sorgono due interrogativi:
  1. come rideterminare la storia contributiva degli ex-lavoratori privati e pubblici, ora percettori di pensioni calcolate ed erogate con il retributivo?
  2. al di sopra di quale importo, come e in quale misura tagliare?
Al primo quesito, e relativamente agli ex dipendenti pubblici, è assai difficile rispondere, giacché di essi mancano attestati attendibili della loro reale storia contributiva. La qual cosa non è indifferente se consideriamo che le loro attuali pensioni risultano mediamente più alte di quelle dei pensionati provenienti dal settore privato. Il motivo lo vedremo in seguito.
Al secondo quesito Boeri risponde proponendo un contributo progressivo, così modulato: 20% dello “squilibrio” su pensioni mensili lorde da 2.000 a 3.000 euro; 30% tra 3.000 e 5.000; 50% superiori a 5.000. In una recente intervista ha alzato il livello, da cui far partire il contributo, a 3.000 euro lordi mensili.
Non sarà lui, ma la “discrezionalità della politica” (Corte e pensionati permettendo) a decidere da chi cominciare, magari abbassando l'asticella quando e come lo si riterrà opportuno, secondo i soliti imprescindibili vincoli di bilancio dell'eurozona.
Con il piano Boeri siamo arrivati all'ultimo capitolo di una storia iniziata con la riforma Dini?
Sicuramente assistiamo all'affannoso ed inutile dibattersi delle élites dominanti nel circuito vizioso dei tagli che preludono ad altri tagli, in una sequenza di rincorsa al ribasso di salari e pensioni, da cui non scaturisce né crescita generale, né sostenibilità previdenziale.
Ragionieristiche proiezioni
Per spingere verso l'ultimo (?) taglio secondo il piano Boeri, vengono studiate e rese pubbliche proiezioni di futuri disastri dell'INPS.
L'attuale attivo patrimoniale, complessivamente posto a 18,5 miliardi di euro per il 2014, si tradurrà in una situazione patrimoniale netta passiva nel 2023 di -56.560 miliardi.
Sono previsioni “rosee” della Ragioneria generale dello Stato, che per il periodo 2019-2023 immagina «una crescita del Pil reale del 2%, un tasso d'inflazione del 2%, un aumento dell'occupazione all'1%».11
In base a verifiche “tecnico-attuariali”, veniamo informati che il prevedibile risultato d'esercizio dell'INPS del 2023 registrerà un passivo di 12 miliardi di euro, dato lo sbilancio determinato principalmente da tre gestioni: ex INPDAP (statali); ex Fondi a contabilità separata, tra cui primeggia l'ex fondo dirigenti privati (INPDAI); gestione Coltivatori diretti. [Vedi tabella “Le principali gestioni”]
Fonte: Corriere della Sera, 15 giugno 2015
Quand'anche fosse adottata, la cura Boeri basterebbe? E se le rosee previsioni della Ragioneria non si avverassero?
Se non altro queste “tempestive” proiezioni hanno il merito di permetterci di evidenziare, nel dissesto dell'INPS, mala gestione, diseguaglianze di trattamento e situazioni tali da rendere la pretesa “equità” del contributivo alquanto virtuale.
Flashback: il dissesto dell'INPS
Su un totale di spesa pubblica di 801 miliardi di euro (bilancio 2012), comprensiva degli interessi per 86,7 miliardi (11% del totale!), la spesa per pensioni, assistenza sociale e sanità ammontava a 392,4 miliardi (49% dell'intera spesa 2012).
Si spende troppo per le pensioni?
In realtà il vero esborso previdenziale per lo Stato si aggira attorno al 10% del Pil, una percentuale non proprio elevata. Comunque, per scoprirlo basterebbe, nel gran calderone dell'INPS, distinguere la spesa pensionistica e depurarla dagli oneri impropri, in primo luogo dall'assistenza addebitabile alla fiscalità generale.
Tra le varie voci da depurare risaltano i prepensionamenti assai criticati dai confindustriali solo “a babbo morto”, dopo averne approfittato a man bassa per le proprie ristrutturazioni aziendali, e la poco nota iper-tassazione delle pensioni italiane, che crea una partita di giro: lo Stato con una mano dà e con l'altra toglie.
[Vedi riquadro “Spesa per le pensioni”]
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Spesa per le pensioni

«(...) Tolti i costi relativi agli assegni familiari, alle maggiorazioni sulle pensioni, alle integrazioni al minimo (tutte legate al livello di reddito del pensionato o del nucleo familiare), e gli effetti degli oltre 450 mila prepensionamenti caricati da noi come pensioni mentre nella maggior parte dei Paesi sono contabilizzate alla voce «disoccupazione», emerge che:
a) sia il sostegno alla famiglia, sia l’aiuto ad anziani e indigenti singoli o nuclei familiari (esclusione sociale) sia il sussidio per i disoccupati, aumentano in rapporto al Pil, raggiungendo abbondantemente la media europea;
b) la voce pensione viceversa si riduce per due motivi;
il primo perché scorporando dalla spesa pensionistica (242,87 miliardi per il 2012) la quota di trasferimenti dalla Gias e Gpt (rispettivamente Gestione interventi assistenziali e Gestione prestazioni temporanee) che altro non sono se non fiscalità generale (le tasse che paghiamo) che valgono circa 40 miliardi, si riduce dal 15,6% al 13,1% (2,5 punti in meno);
il secondo perché da noi le pensioni sono tassate: nel 2012 l’Irpef e le addizionali comunali e regionali hanno sottratto 45,9 miliardi di euro ai pensionati; si stima che il 50% di queste tasse gravi solo su circa 2 milioni di pensionati, dato che gli 8,6 milioni di pensionati di cui sotto non pagano un euro di tasse.
Considerando che le tasse sono una partita di giro, dal momento che il pensionato prende solo il netto, il vero esborso per lo Stato è di 197 miliardi da depurare della spesa assistenziale (quindi attorno al 10% sul Pil).»

Alberto Brambilla, “I falsi miti sulla previdenza in Italia”, Corriere della sera, 29/12/2014.

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All'INPS negli ultimi anni sono state accollate casse previdenziali di categoria in deficit o sull'orlo del fallimento. È il caso del fondo per le pensioni dei dirigenti d'azienda (INPDAI) che “eroga poche ma ricche pensioni” e, in particolare, della previdenza dei dipendenti pubblici (INPDAP), conferita senza coperture dall'inizio del 2012.12
In pratica, con l'attuale sistema a ripartizione13, gli attivi dei fondi dei lavoratori dipendenti e dei lavoratori autonomi parasubordinati pagano i passivi dei fondi per gli ex-dirigenti del privato, dei fondi speciali a contabilità separata, delle gestioni come quella dei coltivatori diretti, nonché dei dipendenti pubblici (su cui occorre tornare).
Risultato?
Un crescente disavanzo, quando appena nel 2009 l'INPS era in attivo di quasi 4 miliardi.
Tra le molte “criticità” nella gestione dell'INPS, dal proliferare di dirigenti, premiati nonostante i pessimi risultati, alle consulenze esterne e ai 94 miliardi di crediti lasciati marcire, di assoluta rilevanza è la gestione dell'enorme patrimonio immobiliare.
Nel bilancio del 2015 il valore complessivo indicato è di 3,2 miliardi di euro per 26.000 immobili, su cui l'Istituto è riuscito a perdere in cinque anni, dal 2008 al 2013, ben 655 milioni di euro. Con l'aggiunta dell'IMU del governo Monti la perdita annuale ruota attorno ai 250 milioni.
Motivi? Costi di gestione, spesso derivanti da affidamenti a società eterne, affitti mai riscossi oppure troppo bassi o inesistenti, abbandono al degrado anche di palazzi di pregio e ben posizionati. A Firenze, tanto per fare un esempio, l'Istituto paga un affitto per la propria sede di oltre 1 milione di euro all'anno, pur disponendo di nove immobili di proprietà liberi in città.
Sulla gestione “inefficiente” volano i corvi della privatizzazione, solo rimandata da una delibera del Consiglio di indirizzo e vigilanza dell'INPS, perché «non ha ancora ricevuto, nonostante le numerose richieste, il piano degli investimenti e disinvestimenti (...)». 14
A pensar male si direbbe che l'INPS sia stata trasformata in un gran calderone e abbandonata allo sfascio gestionale, al preciso scopo di poter approfittare dell'ennesima emergenza per mettere le mani sul suo grande patrimonio immobiliare.
Chi ricostruirà e pagherà lo “storico” della mala gestione, secondo quale principio di “equità”?
Ricalcoli storici
Le proiezioni al 2023 della Ragioneria dello Stato evidenziano un passivo determinante: la gestione ex INPDAP.
Al di là della ricostruzione del loro storico contributivo, per la quale mancano attestati attendibili, non è difficile individuare la causa del passivo.
Strutturalmente nell'amministrazione pubblica la schiera degli “ufficiali” in rapporto al numero dei “soldati di truppa” è quasi tre volte quella della Francia.15 In rapporto al Pil i dirigenti pubblici italiani, se si escludono quelli di seconda fascia senza funzioni di coordinamento, sono retribuiti ben più del doppio dei pari grado tedeschi e, comunque, assai di più di quelli inglesi e francesi.16
Considerando le palesi ineguaglianze “a monte” rappresentate sia dal numero dei dirigenti pubblici che dalle loro remunerazioni, sarebbe interessante sapere dai numerosi sostenitori del contributivo come sistemerebbero il rapporto, attuale e storico, tra “merito” ed “equità”.
Peraltro, la stessa INPS non manca di informarci sui privilegi di trattamento riservati al comparto Difesa e Sicurezza (Carabinieri, Polizia, Guardia di Finanza, Vigili del Fuoco, Forestale).17
Inoltre, in riferimento ad altre gestioni, «se si parte dal principio che “chi ha avuto di più rispetto a quanto ha pagato” deve restituire di più, i lavoratori più sotto tiro dovrebbero essere quelli che hanno pensioni di 1.000 euro al mese, quelli che hanno pensioni integrate al minimo di 500 euro, e in misura massima i lavoratori autonomi agricoli, gli artigiani e i commercianti che hanno la parte retributiva della pensione calcolata con le medesime percentuali dei lavoratori dipendenti, per le quali però hanno pagato contributi ridotti all'incirca della metà.»18
Su questi punti i cavalieri dell'equità pensionistica sembrano smarrire la propria spiccata vocazione alla ricostruzione degli “storici” e ai paragoni con l'Europa.
Come succede per la iper-tassazione delle pensioni italiane posta in relazione alla vigente tassazione nei principali paesi europei. Le pensioni andrebbero paragonate al netto e non al lordo. [Vedi grafico “La tassazione delle pensioni in Europa”]
Appare lecito chiedersi: l'iper-tassazione non compensa varie volte la differenza di trattamento tra retributivo e contributivo?
Perché le rendite finanziarie dei titoli di Stato sono fisse e ferme al 12,5% e quelle pensionistiche sono iper-tassate? 
Fonte: elaborazioni Confesercenti sulla base delle
 normative tributarie vigenti - novembre 2013
Compatibilità
Che l'equità non sia che una mera ideologia mass mediale per coprire le compatibilità di sempre più austeri bilanci, emerge anche da una recente vicenda di cui si è reso protagonista il governo Renzi.
La legge Dini, come si ricordava all'inizio, non prevede la svalutazione del montante contributivo in relazione alla decrescita del Pil.
Nel 1997 il tasso di capitalizzazione si attestava al 5,6%; causa la bassa crescita e la ridotta inflazione esso è venuto progressivamente a ridursi.
Come rivalutare il montante contributivo in presenza di una diminuzione del 3,5%, quale si è verificata nel 2009? La ricaduta sul tasso di capitalizzazione per il 2014, con effetti sulle pensioni 2015, sarebbe pari a 0,998073. Sicché il suddetto montante dovrebbe diminuire a dispetto della legge.
Con disinvoltura, il governo ha trovato il modo di aggirarla, decretando: «il coefficiente di rivalutazione del montante contributivo (...) non può essere inferiore a uno, salvo recupero da effettuare sulle rivalutazioni successive.»
Salvo recupero sulle rivalutazioni successive?
Portato ad 1 il coefficiente per il 2014, il decreto governativo ha ridotto il coefficiente per il il 2015 da 1,005331 (quale risultava dalle statistiche) a 1,003394.
Considerando, ad esempio, un montante contributivo di 200.000 euro si darebbero tre casi: con coefficienti statistici effettivi il montante sarebbe di 220.732 euro; con coefficiente 1 per il 2014 e non riducendo il coefficiente 1,005331 per il 2015, la somma salirebbe a 221.120 euro; con il decreto del governo Renzi il valore è di 220.712 euro, inferiore all'uno e all'altro.
In attesa di conoscere il destino degli emendamenti parlamentari, constatiamo che il governo Renzi-Padoan, con un gioco delle tre carte19, ha lasciato sul tavolo l'opzione peggiore per i futuri pensionati (ah, come protegge le giovani generazioni!).
Tuttavia, dalla vicenda si può dedurre che il metodo contributivo non solo si addice più che all'equità (virtuale di dubbia virtù) alle compatibilità di bilancio dell'eurozona, ma pure si presta agli aggiustamenti ad hoc del governo del momento, il quale in futuro non avrà neanche il disturbo della doppia camera, avendo abolito il Senato nelle sue prerogative costituzionali.
Povertà da montante contributivo
Considerando gli storici contributivi e fiscali, cosa rimane degli “ingiusti privilegi” connessi al retributivo e della “equità” riservata alle pensioni calcolate con in contributivo?
Non si sfugge alla conclusione che il metodo contributivo, adottato sin dalla riforma Dini, sia solo e semplicemente un modo per far pagare alle pensioni da lavoro, in particolare dipendente e para-subordinato, i costi:
  1. della costante rincorsa al riequilibrio dei conti pubblici, secondo i dettami dell'eurozona;
  2. di quanto competeva alla fiscalità generale per l'assistenza e le integrazioni ai minimi;
  3. dei danni generati dalle mala gestioni (oggi tutte in INPS) e da privilegi accordati a segmenti medio-alti sia privati che pubblici (ex dirigenti).
Non è casuale che, nel lungo contenzioso tra Bruxelles e Grecia, il taglio delle pensioni siano un refrain ripetuto cinicamente dalla Troika dei creditori. Ad essi, come alle oligarchie europee alle quali appartengono, nulla importa dell'emergenza umanitaria in cui versa il popolo ellenico.
Sul piano storico, l'adozione del metodo contributivo corrisponde all'adozione del paradigma economico liberista. Un paradigma concretizzato, sul piano politico, dal sistema di governo dell'Europa a moneta unica, con tutti i suoi vincoli e la sua imprescindibile austerità. Il modello matematico-previdenziale segue la scelta di politica economica. Pretendere il contrario è, per dirla chiara, una supercazzola ideologica.
Una volta isolato il “montante contributivo” e reso schiavo dell'andamento del Pil e delle variabili macro-economiche che lo determinano, il gioco è sostanzialmente fatto.
Esiste qualche significativo valore monetario accantonato o finanziario che venga “rivalutato” in base al Pil? Certamente non della oligarchie finanziarie, use a ben altre “rivalutazioni” dei propri privati crediti.
Senonché, proprio la svalutazione delle pensioni, associata a quella salariale, insieme determinano un circuito vizioso da cui non si esce, incidendo negativamente sul Pil che, a sua volta, si riverbera negativamente sul “montante contributivo”. Di questo passo, avremo pensioni povere, di legno, per la stragrande maggioranza, in un futuro che si fa sempre più presente.
Le ragioni per non accettare contrapposizioni generazionali e storielle di equità compatibile, andando in direzione ostinatamente contraria, non mancano e si rafforzeranno.
Se vorremo e sapremo rafforzarle.

Note
1 Blocco degli adeguamenti all'inflazione, secondo l'indice ISTAT, per gli assegni pensionistici sopra i 1.443 euro lordi mensili.
2 Su questo argomento, lucida è l'analisi di Frédéric Lordon, Il sintomo di un'espropriazione, Le Monde diplomatique - il Manifesto, giugno 2015.
3 Michele Carugi, “Pensioni, ora si rispetti la sentenza della Consulta”, il Fatto Quotidiano, 3 maggio 2015.
4 Con la legge costituzionale 20 aprile 2012, n° 1, è stato introdotto nella Costituzione, in coerenza con quanto disposto da accordi internazionali quali il “Fiscal compact”, il principio dell'equilibrio strutturale delle entrate e delle spese di bilancio.
5 Art. 53 della Costituzione: "Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività".
6 I successivi ripensamenti autocritici non riguardarono l'impianto della riforma, ma la sua graduale applicazione. Al punto che Angeletti (Uil) affermò nel novembre del 2014: «Un errore il sindacato lo ha fatto, sulle pensioni. Avremmo dovuto accettare il contributivo pro rata per tutti. Ci saremmo risparmiati tanti problemi che sono venuti dopo». Di recente Cofferati ha sostenuto che la CGIL voleva introdurre subito e per tutti il contributivo e non venne ascoltata.
7 Marco Palombi, “Previdenza: numeri, segreti e bugie interessate”, il Fatto Quotidiano, 7 maggio 2015.
8 Secondo la storiella liberista per la quale la disoccupazione esiste perché il lavoro esistente non viene accettato.
9 Http;//www.a1life.it/2015/02/inps-piano-di-tito-boeri-pensioni-retributivo/, 16 febbraio 2015.
10 Secondo “il Sole 24 Ore” (M. Benetti e M. Maré, 17/03/2014) le stime di Boeri non sono esatte. Al netto degli effetti fiscali i risparmi conseguibili sarebbero di 2,5 miliardi.
11 Enrico Marro, I conti dell'Inps, Corriere Economia, 15/06/2015.
12 Fabio Pavesi, “Ecco come le pensioni pubbliche e quelle dei dirigenti d'azienda affossano i conti dell'Inps”, Il sole 24 ore, 11 agosto 2013.
13 In forza del quale le pensioni attuali vengono pagate con il gettito dei contributi di chi attualmente lavora. Sul piano pratico, la ripartizione non viene superata dalla proposta Boeri, che prevede un accantonamento dei contributi virtuale.
14 http://www.ilgiornale.it/news/politica/linps-spreme-i-pensionati-riesce-buttare-250-milioni-1131868.html
15 Secondo una ricerca di Forum PA condotta nel 2013, ogni dirigente poteva contare in media su 12,3 addetti del comparto nel 2003, che si sono ridotti a 11,5 nel 2013 (in Francia il rapporto è uno ogni 33 dipendenti).
16 Roberto Mania, “Riforma dei dirigenti pubblici, troppi, strapagati, inamovibili, così si rottamano i 'mandarini'”, La Repubblica Affari&Finanza, 11/05/15.
17 Il 90% dei circa 536mila iscritti di questa categoria prende un assegno che quasi doppia la cifra che dovrebbe percepire utilizzando il metodo contributivo. Praticamente 9 assegni su 10 sono in pagamento da prima che i beneficiari compissero 57 anni e – in caso di modifica del sistema di calcolo – subirebbe quindi una decurtazione del 40-60%.
18 http://www.leggo.it/CASA/NORME/pensione_al_vaglio_il_sistema_contributivo/notizie/849.shtml, Bruno Benelli, 5 maggio 2015.
19 Franco Mostacci, il Fatto Economico, Pensioni, il trucco mangia soldi, 17/06/2015.