Al cuore delle
pensioni:
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Dopo
la sentenza della suprema Corte sulla legge Fornero divampa la
discussione sulle pensioni. Le sue motivazioni. I reali motivi della
scelta del metodo contributivo rispetto al precedente metodo
retributivo. Dalla riforma Dini alle proposte di Tito Boeri. Dentro
ai conti dell'INPS. Sostenibilità ed equità del contributivo viste
da vicino.
In superficie e sotto
Secondo
i prevalenti mass-media è tutto spiegato e chiaro, tanto è nitida
la linea di demarcazione tra equità e ingiusto privilegio.
Il
metodo contributivo, che promette di erogare pensioni in base a
quanto versato negli anni di lavoro, è senz'altro “equo” e
“giusto” oltreché sostenibile economicamente. Al contrario, il
metodo retributivo viene additato come “ingiusto” e “troppo
generoso” rispetto a quanto versato ed insostenibile per la già
esorbitante spesa dello Stato.
Sicché
la legge Dini del 1995 ha il solo difetto di introdurre in modo
troppo graduale il “contributivo” in sostituzione del
“retributivo”. Una gradualità temporale perlomeno da ridurre o
tassare, per non rischiare di compromettere definitivamente i
dissestati conti dell'INPS (di cui si tace l'origine) e quindi di
nuocere ai giovani, le cui future pensioni sono minacciate dagli
esosi trattamenti di quiescenza in essere, ancora beneficati dal
vecchio metodo di calcolo.
Di
conseguenza, con ferrea logica, non si discute delle finalità della
legge Fornero o della politica economica a cui concorreva, né per la
parte inerente il “congelamento”,
né per quella parte che, innalzando repentinamente l'età
pensionabile, ha confinato gli esodati nel vuoto sospeso di un tempo
senza lavoro e senza pensione. Si diffonde l'idea che vi fu solo un
tecnico errore, qualche incongruenza, forse superficialità, anche
dal punto di vista giuridico. Una “trappola” in cui può cadere
anche il recente decreto del Governo in risposta alla sentenza di
“scongelamento” della suprema Corte, imperfetto nel vanificare i
prevedibili e numerosi ricorsi dei danneggiati.
Le
quotidiane gocce di verità divulgata sono penetrate al tal punto
nella pubblica opinione che i giovani intervistati, per movimentare
stucchevoli talk-show televisivi, premettono, quasi con
rassegnata noncuranza, di non nutrire alcuna aspettativa verso la
propria futura pensione. D'altro canto, se oggi non hanno lavoro o
lavorano in nero, o sono precari e sottopagati, come possono
attendersi di accumulare i contributi necessari ad ottenere una
pensione domani?
A
completare il quadro c'è, infine, lo stillicidio di notizie sui
vitalizi dei parlamentari e sulle pensioni d'oro di alcuni “nababbi”,
in cui vengono infilate anche quelle dei pensionati del prodigo
retributivo, a cui si riconosce almeno, “per dovere di cronaca”,
la funzione di nonni socialmente utili, poiché sopperiscono al
decadimento del welfare state con il welfare familiare,
verso figli e nipoti.
Di
tutto e di più, purché non si metta sotto esame critico l'assunto
preordinante: il contributivo è la terra promessa dell'equità
compatibile, perché garante dell'equilibrio di bilancio dei conti
pubblici.
Per
chi non si senta appagato da una troppo scontata verità e nutra
qualche dubbio, tuttavia, non mancano luoghi alternativi.
Da
singoli tasselli si può tentare di ricomporre un puzzle
pensionistico d'insieme diverso dal solito. Magari avvalendosi di
spunti presenti nel dibattito sotterraneo su internet, la
rete, nella quale si rintraccia, oltre gli sfoghi e la caccia
all'imbroglio e al complotto, una travolgente voglia di
riappropriazione di ciò che è stato confiscato: un reale dibattito
politico pubblico per padroneggiare le materie più complesse.
Come, appunto, la questione pensionistica.
Costituzione
ed austerità permanente
Nelle
motivazioni della sentenza di scongelamento delle pensioni traspare
una ratio in contrasto con perenni necessità di compatibilità
di bilancio, poste nell'ambito dei vincoli europei.
In
esse la Consulta richiama la priorità di garantire agli anziani una
continuità tra tenore di vita durante il lavoro e nella quiescenza,
dichiarando illegale non solo una misura fiscale diretta contro le
sole pensioni, ma anche il loro depauperamento percentuale e per
sempre, al di là di un contributo temporaneo legato ad una specifica
situazione di bilancio.
Intimidita
dal diluvio di critiche piovutele addosso per non avere escluso
perentoriamente i rimborsi pregressi ai pensionati danneggiati dalla
Fornero, la suprema Corte ha tuttavia, nella successiva sentenza,
sbloccato per l'immediato futuro anche le retribuzioni dei dipendenti
pubblici.
Per
quanto combattuta e divisa possa essere la Corte, è il corpo
complessivo della Costituzione a rigettare come estraneo a sé
l'articolo l'articolo 81 sul “pareggio di bilancio”.
Si
viene a configurare, pertanto, una questione che non riguarda solo i
margini di discrezionalità della politica, in una democrazia basata
su limiti e contrappesi istituzionali. Altrimenti la Costituzione non
avrebbe ragion d'essere.
Essa
attiene soprattutto alla legalità di imposizioni fiscali in forza
delle quali, di volta in volta, un gruppo particolare di cittadini
venga preso a bersaglio, siano essi pensionati o lavoratori pubblici.
In gioco è il rispetto dell'art. 53,
l'uguaglianza di trattamento dei cittadini in relazione alla
permanente crisi fiscale dello Stato.
Dato
il contesto, non tarderà a manifestarsi un'altra contraddizione
latente: tra vincoli e prescrizioni esterne (sui quali la politica
prevalente non esercita né rivendica discrezionalità alcuna),
provenienti da organismi europei mai sottoposti a convalida e mandati
democratici, ed esercizio della sovranità nazionale.
La
riforma base
Benché
la legge Dini risalga al 1995, essa appartiene appieno alla logica
dell'Europa a moneta unica. Il trattato di Maastricht è del febbraio
1992. Anticipando l'euro, il cambio fisso viene adottato nel 1996 e
con esso inizia il declino
del reddito medio italiano rispetto a quello dell’Europa a 15
paesi.
Da
un punto di vista più generale, la lotta di classe dall'alto della
scala sociale, per la ridistribuzione dei redditi a sfavore del
lavoro, ebbe inizio in Italia sin dalla seconda metà degli anni
settanta. Sacrifici ed austerità erano allora imposti in nome della
“solidarietà nazionale”, mentre più tardi lo furono in nome
dell'Europa (“lo vuole l'Europa!”).
A quella
stagione politica intermedia appartiene la riforma Dini. Ci venne raccontato che avrebbe sistemato i conti
previdenziali per i decenni a venire, secondo indiscutibili evidenze
matematico-attuariali.
Il
metodo di calcolo contributivo prendeva il posto del metodo di
calcolo retributivo in modo scaglionato e graduale negli anni. Se
quest'ultimo garantiva, in relazione agli anni di lavoro, una
pensione proporzionata (80-85%) alle ultime remunerazioni, col
contributivo ogni futuro pensionato avrebbe percepito assegni in base
a quanto versato nell'arco di tutta l'attività lavorativa. Come una
trasfusione a distanza di tempo: nei forzieri frigoriferi di Stato il
sangue, pieno d'ossigeno del periodo giovanile e maturo, sarebbe
stato conservato e reso disponibile, a rate e secondo attesa di vita,
per il periodo di quiescenza.
Ma
il valore di un credito, tanto più di un accantonamento
pluridecennale, è sottoposto nel tempo a molteplici ed imprevedibili
variabili. Incuranti di tante lezioni della storia (non a caso
dichiarata “finita” con l'avvento del liberismo universale), fu
stabilito che esso dovesse essere agganciato al Pil e rivalutato in
base alla sua crescita percentuale. Più precisamente: «il
tasso annuo di capitalizzazione è dato dalla variazione media
quinquennale del prodotto interno lordo (Pil) nominale, appositamente
calcolata dall'Istat, con riferimento al quinquennio precedente
l'anno da rivalutare.»
E se il Pil fosse regredito? Al tempo
l'eventualità non venne neanche presa in considerazione e neppure
normata. Il che può attestare o della furbizia da raggiro di coloro
che parteciparono alla sua estensione o della loro stupidità.
Con
una ridotta opposizione, le prevalenti forze politiche e sindacali
convalidarono
come più “equo” e “sostenibile” il nuovo metodo, tacendo,
tra gli altri, su alcuni aspetti essenziali: il “nuovo” paradigma
di politica economica al quale esso di fatto aderiva; l'isolamento
del “montante contributivo” a cui applicare una rivalutazione
finanziaria su misura di quel paradigma; il mare di iniquità
fiscali, retributive e contributive in cui si pretendeva di isolare
la “barchetta” del montante contributivo a cui affidare le
pensioni dei giovani.
Tutti
aspetti che, alla prova dei fatti successivi, hanno minato la
“sostenibilità” e reso l'”equità” alquanto virtuale,
prospettando una pensione povera, di legno, per la stragrande
maggioranza.
Accelerazioni
Correva
l'anno 2011. Sulla scorta dell'ennesima emergenza e di austeri
vincoli europei, una larga maggioranza parlamentare varò la riforma
pensionistica voluta dal governo Monti e dalla ministro Fornero.
Quel
che si pensava sostenibile non lo era stato, ma restava inalterata la
terra promessa del contributivo. Sicché, invece di cambiare
indirizzo politico, si scelse diabolicamente di perseverare,
accelerando con sobria iattanza l'applicazione della legge Dini.
Non
vennero introdotti nuovi principi e metodi di calcolo; si badò al
sodo, tagliando la spesa di 320 miliardi di euro in 40 anni.
Lo
si deduce dalle parole di
Enrico Morando, attuale viceministro dell'Economia:
«Dal
2004 ad oggi sono state approvate norme correttive del sistema
previdenziale pubblico che al 2050 riducono la spesa di 60 punti di
Pil, 960 miliardi di euro. Soltanto l'ultimo intervento, quello
realizzato dal governo Monti contribuisce a questi 60 punti di
prodotto con un risparmio pari ad un terzo.»
In
seguito alla sentenza della suprema Corte, Elsa Maria Fornero, non
potendo difendere tecnicamente l'operato del governo tecnico di cui
fece parte, ha ribadito la validità dell'intenzione originaria: il
riequilibrio dei conti a favore dei giovani che, purtroppo e tra non
dimenticate lacrime, comportava la decurtazione degli assegni degli
anziani.
Insomma,
un doveroso esercizio di giustizia intergenerazionale.
Nella
maggior parte dei commenti non si andò oltre la preoccupazione per
il buco di bilancio che lo scongelamento delle pensioni comportava.
Tutti, o quasi, dimentichi delle conseguenze della ”austerità
deflattiva” praticata dal governo Monti, alla quale era organica la
riforma Fornero con il suo pesante obolo. Quella politica, infatti,
causò una compressione della domanda interna, un incremento della
disoccupazione e un peggioramento del rapporto tra debito pubblico e
Pil (tramite il calo del denominatore). Conseguentemente anche una
ricaduta negativa sulla rivalutazione del montante contributivo e
sull'entità delle pensioni future dei giovani. Ah, come sono
preoccupati per i giovani! Anche se non si esimono dal definirli
“schizzinosi”, ma in inglese, perché rifiuterebbero i lavori
loro offerti.
La
missione di Tito
Il
governo Renzi-Padoan non sembra aver imboccato una strada diversa. È
avvertito dai fallimenti del governo Monti-Fornero, di cui conosce le
reali ragioni. Ma tutto il suo “cambiare verso” si riduce alla
“marchetta elettorale” degli 80 euro mensili.
Se
il Paese passa dalla recessione ad una sostanziale stagnazione non è
per merito suo.
Di
suo, il governo vara il Jobs Act, in perfetta continuità con
la deflazione salariale concorrenziale, non potendo toccare moneta e
cambio, nonché i vincoli di bilancio dell'eurozona.
Notoriamente
ad ispirare il Jobs Act furono
gli studi del professor Tito Boeri, a dire il vero tradotti in legge
in senso peggiorativo.
Poiché
il docente della Bocconi ha approfondito anche la questione
pensionistica, il governo lo ha nominato presidente dell'INPS. Il
perché lo si capisce dal piano da lui elaborato.
Come
la Fornero, muove dalla premessa che “il patto intergenerazionale”,
a causa dell'andamento demografico, con l'attuale sistema a
ripartizione sia diventato insostenibile. Ragione per cui andrebbe
sostituito con un sistema ad accantonamento, passando al contempo,
per determinare gli assegni da erogare, dal metodo di calcolo
retributivo al metodo di calcolo contributivo. Sin qui poco di nuovo.
L'idea
nuova di Boeri riguarda l'oggi ed è questa: «prendere
le pensioni calcolate con il metodo retributivo, ricalcolarle col
metodo contributivo e tagliare la parte eccedente.»
La parte eccedente è definita “squilibrio”.
Una
misura non applicabile a tutti in modo integrale ed indiscriminato,
giacché, supponendo di risparmiare 4,2 miliardi di euro,
andrebbero tagliati gli “squilibri” delle pensioni erogate
secondo il retributivo limitatamente agli “importi elevati”.
Seguendo
il ragionamento di Boeri, sorgono due interrogativi:
come
rideterminare la storia contributiva degli ex-lavoratori privati e
pubblici, ora percettori di pensioni calcolate ed erogate con il
retributivo?
al
di sopra di quale importo, come e in quale misura tagliare?
Al primo
quesito, e relativamente agli ex dipendenti
pubblici, è assai difficile rispondere, giacché di
essi mancano
attestati attendibili della loro reale storia contributiva. La qual
cosa non è indifferente se consideriamo che le loro attuali pensioni
risultano mediamente più alte di quelle dei pensionati provenienti
dal settore privato. Il motivo lo vedremo in seguito.
Al
secondo quesito Boeri risponde proponendo un
contributo progressivo, così modulato: 20%
dello “squilibrio” su pensioni mensili lorde da 2.000 a 3.000
euro; 30% tra 3.000 e 5.000; 50% superiori a 5.000. In una recente
intervista ha alzato il livello, da cui far partire il contributo, a
3.000 euro lordi mensili.
Non
sarà lui, ma la “discrezionalità della politica” (Corte e
pensionati permettendo) a decidere da chi cominciare, magari
abbassando l'asticella quando e come lo si riterrà opportuno,
secondo i soliti imprescindibili vincoli di bilancio dell'eurozona.
Con
il piano Boeri siamo arrivati all'ultimo capitolo di una storia
iniziata con la riforma Dini?
Sicuramente
assistiamo all'affannoso ed inutile dibattersi delle élites
dominanti nel circuito vizioso dei tagli che preludono ad altri
tagli, in una sequenza di rincorsa al ribasso di salari e pensioni,
da cui non scaturisce né crescita generale, né sostenibilità
previdenziale.
Ragionieristiche
proiezioni
Per
spingere verso l'ultimo (?) taglio secondo il piano Boeri, vengono
studiate e rese pubbliche proiezioni di futuri disastri dell'INPS.
L'attuale
attivo patrimoniale, complessivamente posto a 18,5 miliardi di euro
per il 2014, si tradurrà in una situazione patrimoniale netta
passiva nel 2023 di -56.560 miliardi.
Sono
previsioni “rosee” della Ragioneria generale dello Stato, che per
il periodo 2019-2023 immagina «una crescita del Pil reale del 2%, un
tasso d'inflazione del 2%, un aumento dell'occupazione all'1%».
In
base a verifiche “tecnico-attuariali”, veniamo informati che il
prevedibile risultato d'esercizio dell'INPS del 2023 registrerà un
passivo di 12 miliardi di euro, dato lo sbilancio determinato
principalmente da tre gestioni: ex INPDAP (statali); ex Fondi a
contabilità separata, tra cui primeggia l'ex fondo dirigenti privati
(INPDAI); gestione Coltivatori diretti. [Vedi
tabella “Le principali gestioni”]
|
Fonte: Corriere della Sera, 15 giugno 2015 |
Quand'anche
fosse adottata, la cura Boeri basterebbe? E se le rosee previsioni
della Ragioneria non si avverassero?
Se
non altro queste “tempestive” proiezioni hanno il merito di
permetterci di evidenziare, nel dissesto dell'INPS, mala gestione,
diseguaglianze di trattamento e situazioni tali da rendere la pretesa
“equità” del contributivo alquanto virtuale.
Flashback:
il dissesto dell'INPS
Su
un totale di spesa pubblica di 801 miliardi di euro (bilancio 2012),
comprensiva degli interessi per 86,7 miliardi (11% del totale!), la
spesa per pensioni, assistenza sociale e sanità ammontava a 392,4
miliardi (49% dell'intera spesa 2012).
Si
spende troppo per le pensioni?
In
realtà il vero esborso previdenziale per lo Stato si aggira attorno
al 10% del Pil, una percentuale non proprio elevata. Comunque, per
scoprirlo basterebbe, nel gran calderone dell'INPS, distinguere la
spesa pensionistica e depurarla dagli oneri impropri, in primo luogo
dall'assistenza addebitabile alla fiscalità generale.
Tra
le varie voci da depurare risaltano i prepensionamenti assai
criticati dai confindustriali solo “a babbo morto”, dopo averne
approfittato a man bassa per le proprie ristrutturazioni aziendali, e
la poco nota iper-tassazione delle pensioni italiane, che crea una
partita di giro: lo Stato con una mano dà e
con l'altra toglie.
[Vedi
riquadro “Spesa per le pensioni”]
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Spesa
per le pensioni
«(...)
Tolti
i costi relativi agli assegni familiari, alle maggiorazioni sulle
pensioni, alle integrazioni al minimo (tutte legate al livello di
reddito del pensionato o del nucleo familiare), e gli effetti degli
oltre 450 mila prepensionamenti caricati da noi come pensioni mentre
nella maggior parte dei Paesi sono contabilizzate alla voce
«disoccupazione», emerge che:
a)
sia il sostegno alla famiglia, sia l’aiuto ad anziani e indigenti
singoli o nuclei familiari (esclusione sociale) sia il sussidio per
i disoccupati, aumentano in rapporto al Pil, raggiungendo
abbondantemente la media europea;
b)
la voce pensione viceversa si riduce per due motivi;
il
primo perché scorporando dalla spesa pensionistica (242,87 miliardi
per il 2012) la quota di trasferimenti dalla Gias e Gpt
(rispettivamente Gestione interventi assistenziali e Gestione
prestazioni temporanee) che altro non sono se non fiscalità generale
(le tasse che paghiamo) che valgono circa 40 miliardi, si riduce dal
15,6% al 13,1% (2,5 punti in meno);
il
secondo perché da noi le pensioni sono tassate: nel 2012 l’Irpef e
le addizionali comunali e regionali hanno sottratto 45,9 miliardi di
euro ai pensionati; si stima che il 50% di queste tasse gravi solo su
circa 2 milioni di pensionati, dato che gli 8,6 milioni di pensionati
di cui sotto non pagano un euro di tasse.
Considerando
che le tasse sono una partita di giro, dal momento che il pensionato
prende solo il netto, il vero esborso per lo Stato è di 197
miliardi da depurare della spesa assistenziale (quindi attorno al
10% sul Pil).»
Alberto
Brambilla, “I falsi miti sulla previdenza in Italia”, Corriere
della sera, 29/12/2014.
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All'INPS
negli ultimi anni sono state accollate casse previdenziali di
categoria in deficit o sull'orlo del fallimento. È il caso del fondo
per le pensioni dei dirigenti d'azienda (INPDAI) che “eroga poche
ma ricche pensioni” e, in particolare, della previdenza dei
dipendenti pubblici (INPDAP), conferita senza coperture dall'inizio
del 2012.
In
pratica, con l'attuale sistema a ripartizione,
gli attivi dei fondi dei lavoratori dipendenti e dei lavoratori
autonomi parasubordinati pagano i passivi dei fondi per gli
ex-dirigenti del privato, dei fondi speciali a contabilità separata,
delle gestioni come quella dei coltivatori diretti, nonché dei
dipendenti pubblici (su cui occorre tornare).
Risultato?
Un
crescente disavanzo, quando appena nel 2009 l'INPS era in attivo di
quasi 4 miliardi.
Tra
le molte “criticità” nella gestione dell'INPS, dal proliferare
di dirigenti, premiati nonostante i pessimi risultati, alle
consulenze esterne e ai 94 miliardi di crediti lasciati marcire, di
assoluta rilevanza è la gestione dell'enorme patrimonio immobiliare.
Nel
bilancio del 2015 il valore complessivo indicato è di 3,2 miliardi
di euro per 26.000 immobili, su cui l'Istituto è riuscito a perdere
in cinque anni, dal 2008 al 2013, ben 655 milioni di euro. Con
l'aggiunta dell'IMU del governo Monti la perdita annuale ruota
attorno ai 250 milioni.
Motivi?
Costi di gestione, spesso derivanti da affidamenti a società eterne,
affitti mai riscossi oppure troppo bassi o inesistenti, abbandono al
degrado anche di palazzi di pregio e ben posizionati. A Firenze,
tanto per fare un esempio, l'Istituto paga un affitto per la propria
sede di oltre 1 milione di euro all'anno, pur disponendo di nove
immobili di proprietà liberi in città.
Sulla
gestione “inefficiente” volano i corvi della privatizzazione,
solo rimandata da una delibera del Consiglio di indirizzo e vigilanza
dell'INPS, perché «non ha ancora ricevuto, nonostante le numerose
richieste, il piano degli investimenti e disinvestimenti (...)».
A
pensar male si direbbe che l'INPS sia stata trasformata in un gran
calderone e abbandonata allo sfascio gestionale, al preciso scopo di
poter approfittare dell'ennesima emergenza per mettere le mani sul
suo grande patrimonio immobiliare.
Chi
ricostruirà e pagherà lo “storico” della mala gestione, secondo
quale principio di “equità”?
Ricalcoli
storici
Le
proiezioni al 2023 della Ragioneria dello Stato evidenziano un
passivo determinante: la gestione ex INPDAP.
Al
di là della ricostruzione del loro storico contributivo, per la
quale mancano attestati attendibili, non è difficile individuare la
causa del passivo.
Strutturalmente
nell'amministrazione pubblica la schiera degli “ufficiali” in
rapporto al numero dei “soldati di truppa” è quasi tre volte
quella della Francia.
In rapporto al Pil i dirigenti pubblici italiani, se si escludono
quelli di seconda fascia senza funzioni di coordinamento, sono
retribuiti ben più del doppio dei pari grado tedeschi e, comunque,
assai di più di quelli inglesi e francesi.
Considerando
le palesi ineguaglianze “a monte” rappresentate sia dal numero
dei dirigenti pubblici che dalle loro remunerazioni, sarebbe
interessante sapere dai numerosi sostenitori del contributivo come
sistemerebbero il rapporto, attuale e storico, tra “merito” ed
“equità”.
Peraltro,
la stessa INPS non manca di informarci sui privilegi di trattamento
riservati al comparto Difesa e Sicurezza (Carabinieri, Polizia,
Guardia di Finanza, Vigili del Fuoco, Forestale).
Inoltre,
in riferimento ad altre gestioni, «se
si parte dal principio che “chi ha avuto di più rispetto a quanto
ha pagato” deve restituire di più, i lavoratori più sotto tiro
dovrebbero essere quelli che hanno pensioni di 1.000 euro al mese,
quelli che hanno pensioni integrate al minimo di 500 euro, e in
misura massima i lavoratori autonomi agricoli, gli artigiani e i
commercianti che hanno la parte retributiva della pensione calcolata
con le medesime percentuali dei lavoratori dipendenti, per le quali
però hanno pagato contributi ridotti all'incirca della metà.»
Su
questi punti i cavalieri dell'equità pensionistica sembrano smarrire
la propria spiccata vocazione alla ricostruzione degli “storici”
e ai paragoni con l'Europa.
Come
succede per la iper-tassazione delle pensioni italiane posta in
relazione alla vigente tassazione nei principali paesi europei. Le
pensioni andrebbero paragonate al netto e non al lordo. [Vedi
grafico “La tassazione delle pensioni in Europa”]
Appare lecito chiedersi: l'iper-tassazione non compensa varie volte la differenza di trattamento tra retributivo e contributivo?
Perché le rendite finanziarie dei titoli di Stato sono fisse e ferme al 12,5% e quelle pensionistiche sono iper-tassate?
|
Fonte: elaborazioni Confesercenti sulla base delle normative tributarie vigenti - novembre 2013 |
Compatibilità
Che
l'equità non sia che una mera ideologia mass mediale per coprire le
compatibilità di sempre più austeri bilanci, emerge anche da una
recente vicenda di cui si è reso protagonista il governo Renzi.
La
legge Dini, come si ricordava all'inizio, non prevede la svalutazione
del montante contributivo in relazione alla decrescita del Pil.
Nel
1997 il tasso di capitalizzazione si attestava al 5,6%; causa la
bassa crescita e la ridotta inflazione esso è venuto
progressivamente a ridursi.
Come
rivalutare il montante contributivo in presenza di una diminuzione
del 3,5%, quale si è verificata nel 2009? La ricaduta sul tasso di
capitalizzazione per il 2014, con effetti sulle pensioni 2015,
sarebbe pari a 0,998073. Sicché il suddetto montante dovrebbe
diminuire a dispetto della legge.
Con
disinvoltura, il governo ha trovato il modo di aggirarla, decretando:
«il
coefficiente di rivalutazione del montante contributivo (...) non può
essere inferiore a uno, salvo recupero da effettuare sulle
rivalutazioni successive.»
Salvo
recupero sulle rivalutazioni successive?
Portato
ad 1 il coefficiente per il 2014, il decreto governativo ha ridotto
il coefficiente per il il 2015 da 1,005331 (quale risultava dalle
statistiche) a 1,003394.
Considerando,
ad esempio, un montante contributivo di 200.000 euro si darebbero tre
casi: con coefficienti statistici effettivi il montante sarebbe di
220.732 euro; con coefficiente 1 per il 2014 e non riducendo il
coefficiente 1,005331 per il 2015, la somma salirebbe a 221.120
euro; con il decreto del governo Renzi il valore è di 220.712 euro,
inferiore all'uno e all'altro.
In
attesa di conoscere il destino degli emendamenti parlamentari,
constatiamo che il governo Renzi-Padoan, con un gioco delle tre
carte,
ha lasciato sul tavolo l'opzione peggiore per i futuri pensionati
(ah, come protegge le giovani generazioni!).
Tuttavia,
dalla vicenda si può dedurre che il metodo contributivo non solo si
addice più che all'equità (virtuale di dubbia virtù) alle
compatibilità di bilancio dell'eurozona, ma pure si presta agli
aggiustamenti ad hoc
del governo del momento, il quale in futuro non avrà neanche il
disturbo della doppia camera, avendo abolito il Senato nelle sue
prerogative costituzionali.
Povertà
da montante contributivo
Considerando
gli storici contributivi e fiscali, cosa rimane degli “ingiusti
privilegi” connessi al retributivo e della “equità” riservata
alle pensioni calcolate con in contributivo?
Non
si sfugge alla conclusione che il metodo contributivo, adottato sin
dalla riforma Dini, sia solo e semplicemente un modo per far pagare
alle pensioni da lavoro, in particolare dipendente e
para-subordinato, i costi:
della
costante rincorsa al riequilibrio dei conti pubblici, secondo i
dettami dell'eurozona;
di
quanto competeva alla fiscalità generale per l'assistenza e le
integrazioni ai minimi;
dei
danni generati dalle mala gestioni (oggi tutte in INPS) e da
privilegi accordati a segmenti medio-alti sia privati che pubblici
(ex dirigenti).
Non
è casuale che, nel lungo contenzioso tra Bruxelles e Grecia, il
taglio delle pensioni siano un refrain ripetuto cinicamente
dalla Troika dei creditori. Ad essi, come alle oligarchie europee
alle quali appartengono, nulla importa dell'emergenza umanitaria in
cui versa il popolo ellenico.
Sul
piano storico, l'adozione del metodo contributivo corrisponde
all'adozione del paradigma economico liberista. Un paradigma
concretizzato, sul piano politico, dal sistema di governo dell'Europa
a moneta unica, con tutti i suoi vincoli e la sua imprescindibile
austerità. Il modello matematico-previdenziale segue la scelta di
politica economica. Pretendere il contrario è, per dirla chiara, una
supercazzola ideologica.
Una
volta isolato il “montante contributivo” e reso schiavo
dell'andamento del Pil e delle variabili macro-economiche che lo
determinano, il gioco è sostanzialmente fatto.
Esiste
qualche significativo valore monetario accantonato o finanziario che
venga “rivalutato” in base al Pil? Certamente non della
oligarchie finanziarie, use a ben altre “rivalutazioni” dei
propri privati crediti.
Senonché,
proprio la svalutazione delle pensioni, associata a quella salariale,
insieme determinano un circuito vizioso da cui non si esce, incidendo
negativamente sul Pil che, a sua volta, si riverbera negativamente
sul “montante contributivo”. Di questo passo, avremo pensioni
povere, di legno, per la stragrande maggioranza, in un futuro che si
fa sempre più presente.
Le
ragioni per non accettare contrapposizioni generazionali e storielle
di equità compatibile, andando in direzione ostinatamente contraria,
non mancano e si rafforzeranno.
Se
vorremo e sapremo rafforzarle.
Note