giovedì 22 novembre 2018

Il tabù della nazione

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Il tabù della nazione

La questione nazionale rimossa e sconnessa dalla questione sociale. Patriottismo e nazionalismo. Internazionalismo uguale a globalismo? Domenico Moro e Toni Negri: due posizioni divergenti sulle quali riflettere.
Concludevo l'articolo “Perché la sinistra ha perso il suo popolo”, denunciando la mancanza, anche nella sinistra non PD, sia parlamentare che extra-parlamentare, del necessario collegamento tra questione sociale e questione nazionale.
La scomparsa della nazione, o la sua riduzione a mero deteriore nazionalismo, è conseguenza della adesione al globalismo cosmopolita, ovvero alla ideologia della globalizzazione, scambiata per internazionalismo.
Al contrario l'inter-nazionalismo, come si desume dalla parola stessa, suppone la nazione, che sebbene non esista in natura, nondimeno è reale in quanto prodotto storico, politico e culturale, nel quale si agita lo scontro sociale. Rimuovere la nazione significa rimuovere un luogo concreto di questo scontro.
Il rimosso
La questione nazionale subisce un rifiuto preconcetto. É quanto si propone di dimostrare Domenico Moro, nel suo ultimo libro “La gabbia dell'euro. Perché uscirne è internazionalista e di sinistra” (Imprimatur, 2018).
Domenico Moro
Come annota Mimmo Porcaro:
«L'operazione di Moro è molto semplice, e proprio per questo va al centro del problema. Consiste nel ricondurre la questione della nazione (e della sovranità, e dello stato) ai suoi reali termini storico-filosofici, superando il riflesso condizionato che porta la sinistra a quella immotivata catena di equivalenze che fa associare sempre e comunque la nazione al nazionalismo e questo al fascismo.»1
Infatti, per quale motivo si finisce per accettare la moneta unica, pur criticando l'Europa dei Trattati? Cosa impedisce di volerne uscire?
Domenico Moro colpisce nel segno quando scrive:
«Tra le motivazioni politico-ideologiche la principale è quella che ritiene l'uscita dall'euro politicamente e storicamente regressiva, perché rappresenterebbe il ritorno alla nazione.»2
Sicché Mimmo Porcaro conclude che Moro ha il coraggio di svelare il tabù della odierna sinistra:
«il vero innominabile, il rimosso, il riassunto di tutto ciò che non è politically correct: la questione nazionale.»3
Perciò prevale l'idea che una decostruzione dell'Unione europea, l'Europa di oggi, inevitabile preludio ad una sua eventuale ricostruzione su base cooperativa e socializzante, costituisca un “regresso” rispetto ad un supposto “progresso”.
Dal dibattito politico e dalle distinzioni di pensiero è sparita la storia del nazionalismo, del suo dividersi almeno in due grandi correnti:
  1. di autoesaltazione retorica della nazione, di ispirazione identitaria (anche su base etnica), fascista e razzista; veste ideologica della volontà di supremazia e sopraffazione imperialista, ma al contempo della subalternità alla sopraffazione;
  2. di sovranità popolare e libertà democratica, socializzante; di uguaglianza tra le nazioni e di Resistenza contro ogni egemonismo, per una effettiva cooperazione internazionale su basi paritarie.
Per nascondere questa sparizione, i fautori del globalismo cosmopolita bandiscono qualsivoglia riferimento alla “questione nazionale” come retrivo nazionalismo, sovranismo della peggior specie, odio xenofobo dello straniero immigrato, ritorno alla logica dello scontro tra Stati-nazione. Ogni rivendicazione nazionale va messa all'indice e con essa, ça va sans dire, la storia universale del fertile rapporto, in nome del socialismo, tra movimento operaio e movimenti di liberazione nazionale.
Questione di nomi?
Ricorre sovente nel dibattito attuale sulla nazione la celebre frase di Charles De Gaulle, presidente della Francia dal gennaio 1959 all'aprile 1969:
«Patriottismo è amare il proprio paese. Nazionalismo è detestare quello degli altri.»4
Un'affermazione condivisibile, che corrisponde alla bipartizione poc'anzi definita, semplicemente denominando “nazionalismo” la prima corrente e “patriottismo” la seconda.
Tuttavia, ad un esame più approfondito, il riferimento al modo di sentire negativo, dell'odio nazionalistico rispetto a quello positivo dell'amore patriottico, se disgiunto dalla sostanza politica e sociale, mostra ampi margini di ambiguità e fraintendimento.
Infatti, nel racconto della storia europea non di rado il nazionalismo è scambiato per patriottismo e ciò che è patriottismo per un Paese, è nazionalismo per l'altro. In particolare se si interpretano i due conflitti mondiali come una unica lunga guerra durata trent'anni.
Prendiamo ad esempio il modo di intendere il primo conflitto, la Grande Guerra, e la partecipazione ad essa dell'Italia.
Tuttora questa partecipazione è ritenuta dalla storiografia ufficiale come una scelta patriottica, resa necessaria per il compimento del Risorgimento e dell'unità nazionale. All'opposto, l'intervento nel conflitto dello Stato italiano può, a ragione, venire qualificato come scelta nazionalistica, se si tiene conto dei motivi reali, sostanziali, per i quali tale scelta fu fatta ed imposta.
Come ha scritto lo storico Angelo del Boca,5 il ricongiungimento alla madre-patria degli italiani sotto il dominio austro-ungarico, motivo patriottico ufficiale della scelta, poteva essere ottenuto tramite il negoziato e la neutralità. Sicché la “inutile strage” che ci costò inaudite sofferenze e ben 600.00o morti, potevano essere evitati.
Perché, invece, le classi dirigenti nazionali, malgrado l'avversione della maggioranza del popolo italiano, decisero altrimenti?
Trascurando i motivi reali, sostanziali, che spinsero a tale decisione, consistenti nella volontà del capitalismo e dello Stato italiani di assumere un ruolo primario nella contesa europea e mondiale tra imperialismi, sedendo al “tavolo dei grandi” del tempo, non si comprende l'essenziale di quella scelta nazionalistica e solo patriottica per giustificarla. Così come non si comprende il mettere radici del fascismo tramite l'interventismo bellico. E, tantomeno, si capisce il successivo tentativo di porre rimedio al mancato accoglimento a pieno titolo dell'Italia tra quelle grandi potenze, ai fini della spartizione imperialista (ragione effettiva per la quale il fascismo gridò alla “vittoria mutilata”), tramite un secondo conflitto. Questa volta a fianco dei nemici del primo conflitto, uniti dalla volontà di “rivincita”.
In altri termini, se il nazionalismo ed il patriottismo perdono la loro sostanza socio-economica, di classe, nonché l'essere il primo la veste dell'egemonismo imperialista ed il secondo l'autodifesa dei popoli da tale egemonismo, la loro differenziazione scade nel nominalismo, ovvero in una questione di nomi.
Mutterland6
In sintonia con il Emmanuel Macron, Mutti7 Merkel ha sostenuto che il ritorno al nazionalismo dello Stato-nazione equivale al ritorno alla guerra in Europa. Dovremmo, pertanto, dare stabilità e continuità all'attuale assetto europeo, se non vogliamo precipitare di nuovo nel baratro. Sulle prime, alla smemorata cancelliera, Kanzlerin, viene da ricordare che in Europa la guerra è già ritornata: ieri nella ex Jugoslavia ed ora in Ucraina. Viene pure da ricordare che tali guerre non avrebbero avuto luogo:
  • qualora gli Stati europei occidentali, in aperta reciproca rivalità, non avessero praticato la politica dei riconoscimenti delle patrie etnico-confessionali, mirato al disfacimento della Jugoslavia, spingendola nel baratro della guerra fratricida;
  • l'Unione europea, Germania in testa, non avesse spinto il nazionalismo ucraino, che non a caso ha innalzato ad eroe del proprio passato il nazista Stepan Andrijovič Bandera, in rotta di collisione con la Federazione Russa.
  • D'altro canto, all'indomani della caduta del muro di Berlino, l'espansione egemonica verso Est dell'Occidente europeo, in collaborazione-concorrenza con gli Stati Uniti e sotto il manto militare della Nato, non ha esitato a fare leva sui più retrivi nazionalismi (anche apertamente fascisti), salvo fingere di lamentarsene perché ora se li ritrova “sovranisti” nell'Unione.8
Carta di Laura Canali, 2017
http://www.limesonline.com/rubrica/v-limes-festival-europa-non-europa-europa-tedesca
Inoltre, i governi europei del Centro a guida tedesca continuano a praticare un nazionalismo mascherato, quando, tramite vari meccanismi di assai dubbia “neutralità tecnica”, in violazione della sovranità democratica di ciascun Paese, impongono nuove forme di egemonismo in campo economico, finanziario e monetario. A meno che, come viene regolarmente fatto e sarebbe ancor più grave indizio di nazionalismo, non si voglia imputare il progressivo impoverimento e distacco dei Paesi mediterranei alla propensione “pigra e dissipatrice” dei loro popoli, mentre, viceversa, il temporaneo successo della Germania sarebbe dovuto alla superiore “laboriosità, disciplina e diligenza” dei tedeschi.
Quanto a nazionalismi della peggior specie, come classificare il comportamento della Francia in occasione della guerra libica, allorché Sarkosy, come ebbe a dire Romano Prodi, la dichiarò “per interposta persona” contro l'Italia?
Ecco un solido motivo per dubitare che un'eventuale esercito europeo, notoriamente nei sogni dell'attuale presidente francese, possa assumere esclusivamente un ruolo difensivo.
Spossessamenti
A partire dagli anni ottanta, nel vario disperdersi del movimento dei Paesi non-allineati e nella disgregazione dell'Urss e del suo blocco, il capolavoro dei think tanks della restaurazione liberista fu di trasformare l'avversione al nazionalismo ed al militarismo in avversione tout court alla nazione, alla sovranità nazionale e persino alle frontiere intese come bordi fisici, membrane osmotiche dei corpi territoriali. Quasi che la libera circolazione del capitale, compreso quello “umano” dei migranti sradicati dai luoghi d'origine, potesse coincidere con l'internazionalismo, l'aspirazione dei popoli a “pace, pane e lavoro”. In realtà il liberalismo aveva di mira la sovranità dei popoli sui loro territori. Voleva il loro “spossessamento” attraverso l'instaurazione di organismi e regole sovranazionali. Perciò, per così dire, bisognava sottrarre sovranità ai territori per sottrarla ai popoli che sopra ci vivono.
Alla restaurazione liberista poteva contribuire l'affermazione del globalismo cosmopolita.
Una sua variante di sinistra riduceva ogni riferimento alla nazione a manifestazione di regressivo nazionalismo, ritenendo:
«che il ritorno alla nazione, oltre che di destra, sia inadeguato allo svolgimento di lotte efficaci e sia persino antistorico, a causa della dimensione ormai globale raggiunta dal capitale.»9
Sostenitore di questa variante è Toni Negri che, annota Moro, come arride alla globalizzazione, considerandola “una grande vittoria proletaria”, non esita a spregiare l'identità nazionale quale “barbara” modalità di vita.10
Fra le due cose c'è intima connessione.
Se scompare l'imperialismo, scompare la necessità del suo antidoto. Perde ogni validità politica la lotta nazionale per la liberazione-indipendenza da tutte le espressioni egemoniche concrete, attuate da stati o gruppi di stati, potentemente armati, in funzione degli interessi dei loro capitali.
Toni Negri
Infatti, per Negri esiste solo un Impero globale senza imperialismo, ragione per cui anche l'autodifesa nazionale diventa “impensabile” senza scadere inevitabilmente nel nazionalismo barbarico.
Si consideri poi che l'Impero di Negri aleggia dalla ionosfera sul globo “per succhiarne l'energia vitale”, non più sfruttando il lavoro reale benché spesso immateriale, ma umane attività tanto innumerevoli quanto indeterminate. Per Negri il capitale ha di fronte a sé nient'altro che una indistinta moltitudine di individualismi in rete, ragione per cui alla scomparsa dell'imperialismo e della lotta nazionale dovremmo aggiungere pure la scomparsa delle classi e della lotta di classe.11
La costante di Negri, portato a disancorare l'astratto dal concreto per costruire elaborazioni vieppiù complesse ma straordinariamente coincidenti col pensiero dominante, ebbe modo già negli anni settanta di gettare divisione nel movimento dell'opposizione operaia, teorizzando una contrapposizione tra lavoratori “garantiti” e “non garantiti”, con tanto di inno al “rifiuto del lavoro”.
Era il tempo in cui Negri palesò paranormali doti di medium, dicendosi capace di sentire il “calore della comunità operaia e proletaria”, tutte le volte che si calava il passamontagna...
D'altro canto ad Antonio Negri non si può certo rimproverare la mancanza di coerenza. Poco prima delle elezioni dello scorso 4 marzo, giunse al punto di auspicare che Bruxelles e un Gentiloni o un Padoan prendessero in mano le redini del governo italiano per salvare il bene supremo dell'euro, quasi fosse anch'esso una grande conquista del proletariato.12
Nella sua presa di posizione si trova peraltro conferma, ve ne fosse il bisogno, di quanto il sistema euro non sia che la traduzione in chiave continentale della globalizzazione liberista.
Note
1 Mimmo Porcaro, Nominare la nazione: l’ultimo libro di Domenico Moro, http://www.socialismo2017.it/, 27 febbraio 2018,
2 Domenico Moro, “La gabbia dell'euro. Perché uscirne è internazionalista e di sinistra”, Imprimatur 2018, pag. 10.
3 Mimmo Porcaro, “Nominare la nazione: l'ultimo libro di Domenico Moro”, http://www.socialismo2017.it/, 2018.
4 «Le patriotisme, c'est aimer son pays. Le nationalisme, c'est détester celui des autres.»
5 Angelo del Boca, “Italiani bava gente”, Neri Pozza editore, 2005.
6 In italiano madrepatria (la più corrispondente parola “matria” non esiste nel nostro vocabolario). In Italia come in Germania la parola più usata è patria, in tedesco Vaterland.
7 Mamma, com'è familiarmente chiamata in Germania.
8 I Paesi dell'Est europeo sono anche paradisi fiscali per i gruppi tedeschi, come scrive Federico Fubini, “I nuovi paradisi dell'Est Europa con aliquote 'zero virgola'”, Corriere della Sera, 12/2/2018.
9 Domenico Moro, “La gabbia dell'euro. Perché uscirne è internazionalista e di sinistra”, Imprimatur 2018, pag. 10.
10 Se il linguaggio non mente, tra barbari e Roma Toni Negri non ha dubbi: sempre dalla parte di Roma.
11 Sul tema è d'obbligo fare riferimento a Carlo Formenti, “Felici e sfruttati – Capitalismo digitale ed eclissi del lavoro”, Egea, 2011.
12 Intervista di Francesco Oggiano, “Toni Negri: «Sinistra polverizzata. Ci salveranno i poteri forti», Vanity Fair, 29/01/2018.
Oggiano: «Lei chi voterebbe?
Negri: «Nessuno, mi fa schifo votare questo sistema di partiti. Spero che un Gentiloni o un Padoan di turno prendano in mano il Governo. Altrimenti salta anche l’euro italiano».


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martedì 20 novembre 2018

Perché la sinistra ha perso il suo popolo

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Nel mentre l'ancien régime perde il controllo della società, la sinistra perde il suo popolo. Ma quest'ultima di quale parte sociale e di quali processi economici si è fatta carico?
La spaccatura sociale e la decadenza del Paese generate dalla globalizzazione. Come la rivendicazione delle vecchie politiche si associa all'accanita difesa dell'esistente.
Per spiegare «l'avanzata populista-sovranista» che «da tempo caratterizza l'intero scenario continentale», ma «in Europa occidentale solo l'Italia vede un governo di questo tipo», poco più di un mese fa Ernesto Galli della Loggia1 scriveva che il «popolo piccolo borghese» è sfuggito al controllo politico e si è preso un ruolo che in passato gli era stato negato.
Ernesto Galli della Loggia
Così all'improvviso ricompariva nelle analisi della politica la piccola borghesia, categoria un tempo assai evocata e da anni caduta in disuso. Di identità sempre indefinita e pencolante tra classe della piccola proprietà, della “roba”, raramente dei mezzi di produzione, e “ceto medio” di consumo o più compiutamente di status, secondo l'approccio sociologico. Della sua vaga determinazione non si sentiva la mancanza, tantomeno del suo utilizzo come insulto (piccolo borghese!), quando le discussioni interne al popolo della sinistra si facevano animate.
Ciò nonostante, la sua sola chiamata in causa guadagna il merito non irrilevante di voler stabilire una connessione tra svolgimenti politici e classi sociali. Una connessione alla quale si deve guardare, se si vuole evitare di prendere lucciole per lanterne.
Fuori controllo
Vanno compresi i motivi per i quali la sinistra ha perso il suo popolo, fatto di operai, braccianti, impiegati, disoccupati, precari, poveri giovani e vecchi, non solo di piccola borghesia.2
Per quali ragioni il malcontento popolare non trova più da tempo nella sinistra adeguata corrispondenza?
Forse perché la sinistra, almeno nella sua parte prevalente, ha rinunciato sia alla lotta di classe che alla prospettiva socialista, che sin dall'ottocento sono state le architravi della sua esistenza?
Se addebitare tutto a questa rinuncia fosse esaustivo, sarebbe bastato contrapporre una “vera autentica sinistra” a quella falsa o troppo annacquata, secondo interpretazioni più o meno radicali del suo mutamento, per riprendere legami sociali e consensi elettorali. A maggior ragione in presenza di un contesto “favorevole”, nel quale la crisi capitalistica ha prodotto povertà e concentrato ricchezza.3 Alle recenti elezioni politiche, per esempio, il voto popolare avrebbe dovuto premiare sia LeU che Potere al Popolo. Il che non è avvenuto.4
Il malcontento delle classi povere ed impoverite si è indirizzato,5 invece, verso il M5S e la Lega di Salvini, allargandone la base di consenso o, come si usava dire, secondo una scolastica desueta, la “base di massa”.6 Più complessivamente tale base è fuori controllo e, a dispetto dei prevalenti mezzi di comunicazione tradizionali (carta stampata e TV) e del vasto schieramento dei centri di potere, l'ancien régime non riesce a condizionare la maggioranza popolare in modo decisivo. Sia al momento del voto, sia nella formazione quotidiana dell'opinione rilevata dai sondaggi.
In effetti, per quale parte economico-sociale ha operato quella sinistra, negli anni della “lotta di classe senza la lotta di classe”, come ebbe a dire Luciano Gallino, quando imperversava la restaurazione liberale e liberista, sino alle ultime elezioni politiche del 4 marzo 2018?
Forse dovremmo prendere atto che le componenti maggioritarie della sinistra si sono applicate proprio contro le classi sociali di loro storico riferimento e radicamento. Di conseguenza ogni schematica interpretazione dei comportamenti politici, secondo il paradigma destra-sinistra, mostrerebbe di essere incapace di rendere conto della realtà sociale e culturale sottostante.
Lo spazio della mediazione
In occidente il sistema liberal-democratico poggia su una certa disponibilità statale di ricchezza (data dalla fiscalità generale), senza la quale non è possibile “correggere” la dinamica economica “naturale” di mercato, per limitare lo svantaggio dei gruppi sociali che ne sono penalizzati ed esclusi.
Da tale disponibilità dipende buona parte della perequazione distributiva, nella mediazione di interessi che tendono “spontaneamente” a divergere e confliggere. Senza questa disponibilità il sistema liberal-democratico non può ovviare alla mancanza di democrazia insita nell'economia capitalistica. Quest'ultima traeva stabilità proprio dalla mediazione, sicché la sinistra istituzionale ha vissuto nei trent'anni postbellici di questo specifico spazio politico, correttivo e riformista rispetto a quello meramente di mercato e, per così dire, di soverchiante potere della proprietà e del danaro.
A quel tempo il ricco Occidente viveva la “minaccia sistemica”, costituita dall'Est comunista e dal Sud in liberazione nazionale. Sventata la minaccia ed affermatasi l'ondata liberista e globalizzante, abbiamo assistito all'annullamento progressivo di questo spazio di mediazione, per decenni presidiato dalla socialdemocrazia europea variamente denominata.
In questo processo si situa la sua perdita di popolo.
Quasi tutto il ceto politico della sinistra ha ritenuto di poter salvare se stesso evitando di ostacolare questo divenire, ritenuto prima inevitabile e poi irreversibile, facendosene direttamente carico. Ma motivando di doverlo fare per salvare il salvabile, a riduzione del danno per i settori sociali di storico riferimento.
Senonché la crisi del 2007-2008 ha messo a nudo la sostanziale inconsistenza delle motivazioni addotte, a giustificazione dei propri comportamenti, e lasciato sotto gli occhi solo la sua totale adesione, financo ideologica, al liberalismo ed alla mondializzazione.
Non a caso oggi ricorre la disputa se il Paese sia ricco di fiscalità sufficiente per potersi permettere la mediazione politica. Oppure, causa l'ingente indebitamento dello Stato,7 debba rinunciare a farlo, evitando di finire in default e di far saltare le banche italiane con la pancia piena di bonds italiani.
Essendo le banche organo essenziale al funzionamento del corpo finanziario italiano (dai più definito “bancocentrico”), la prevalente sinistra è finita nelle file patrizie di... Menenio Agrippa. Mutatis mutandis, essa aderisce al suo celebre apologo – come fossimo ancora nel 494 a. C. - forse credendo in questo modo di fare rientrare l'attuale “secessione delle plebi” (le membra), attratte da “populismo e sovranismo” che opererebbero a loro danno perché minerebbero il “ventre” sistemico.8
La secessione delle plebi
L'apologo
di Menenio Agrippa
fu un discorso pronunciato da quest'ultimo nel 494 a.C. Ai plebei in rivolta che, per protesta, avevano abbandonato la città e occupato il Monte Sacro (più probabilmente il colle Aventino) per ottenere la parificazione dei diritti con i patrizi. All'epoca, Agrippa Menenio rivestiva la carica di senatore di rango consolare.
Agrippa spiegò l'ordinamento sociale romano metaforicamente, paragonandolo ad un corpo umano nel quale, come in tutti gli insiemi costituiti da parti connesse tra loro, gli organi sopravvivono solo se collaborano e, diversamente, periscono; conseguentemente, se le braccia (il popolo) si rifiutassero di lavorare, lo stomaco (il senato) non riceverebbe cibo ma, in tal caso, ben presto tutto il corpo, braccia comprese, deperirebbe per mancanza di nutrimento.
Grazie alla mediazione di Menenio Agrippa la situazione fu ricomposta ed i plebei fecero ritorno alle loro occupazioni, scongiurando così la prima grande rottura fra patrizi e plebei.
https://it.wikipedia.org/wiki/Apologo_di_Menenio_Agrippa
D'altro canto, non è la prima volta che il liberalismo si trova in antagonismo con la democrazia.9 Anche se mai come in questo momento è apparso così chiaramente espressione dei gruppi oligopolistici finanziarizzati, fautori della globalizzazione contro una democrazia, alla quale sottrae la sovranità in forza della quale può di fatto esercitarsi.
Il sottostante
A questo punto ritornare al tema iniziale, sollevato dal ritorno in auge dell'analisi del sociale che sta sotto la superficie politica, è indispensabile.
In questa direzione, un contributo alla riflessione ci viene dalle pubblicazioni di Domenico Moro. Mi riferisco all'analisi sviluppata nel libro edito nel 2015, significativamente intitolato “Globalizzazione e decadenza industriale”,10 che lo porterà a trarre drastiche conclusioni sulla nostra partecipazione alla moneta unica, espresse nel suo più recente libro comparso nel 2018.11
L'autore spiega la globalizzazione come insieme di risposte (cause antagonistiche) alla “caduta tendenziale del saggio di profitto”, prevista da Marx ne “Il Capitale” e già oggetto di uno classico studio di Henryk Grossmann, uscito nell'anno della grande crisi del 1929, pochi giorni prima del crollo di Wall Street.12 Da questo punto di vista la globalizzazione non è che una riorganizzazione capitalistica su scala mondiale, a seguito della crisi manifestasi negli anni '70.
Le politiche condotte dai governi europei conservatori e progressisti, di destra e di sinistra, si sono indistintamente indirizzate a favorire sia la globalizzazione, sia la messa in opera su scala continentale di particolari meccanismi ordinativi che hanno comportato una pesante penalizzazione dei lavoratori (fino alla emarginazione di alcuni strati). Il tutto a vantaggio dei gruppi oligopolistici finanziarizzati.
Rimandando coloro che sono interessati alla lettura delle specifiche argomentazioni dell'autore,13 preme qui sottolineare che l'impatto sulla realtà sociale nazionale è risultato piuttosto devastante. Dalla disamina di Moro emerge un interessante film della decadenza italiana [vedi finestra “Decadenza italiana”] e della spaccatura sociale in atto nel nostro Paese, ragione sostanziale della perdita di controllo politico da parte delle élites dominanti su settori numericamente maggioritari della popolazione.
Decadenza italiana
«Oggi, più che davanti a una vera e propria decadenza industriale come quella del passato, ci troviamo dinanzi ad una riorganizzazione dell'accumulazione capitalistica in Italia (…) che è coerente con le trasformazioni dovute al passaggio da una fase nazionale a una fase compiutamente globalizzata. La riduzione della produzione, nel numero delle imprese, dell'occupazione industriale e dei salari non è dovuta al mancato adeguamento alla globalizzazione, ma paradossalmente proprio all'adattamento alle trasformazioni in atto dovute all'intreccio di crisi e globalizzazione.
Ovviamente, non stiamo dicendo che non ci sia un decadimento e che questo decadimento non investa la società italiana nel suo complesso. Stiamo dicendo che che c'è chi, una minoranza ristretta, beneficia delle trasformazioni e chi, la maggioranza, sperimenta il peggioramento. I primi sono i settori vincenti del capitale, cioè il grande capitale industriale e finanziario globalizzato, che controlla di fatto la gran parte dell'economia italiana, delle esportazioni, del capitale. La classifica dei primi gruppi con sede in Italia stilata da Mediobanca è esemplificativa. Il peso dell'estero sul fatturato e sui profitti è cresciuto. Dopo undici anni di primato di Eni, il primo gruppo italiano è Exor, i cui ricavi sono saliti a 122 miliardi (+7,5 per cento), ma di questi 62,5 miliardi provengono da Crysler. Fra i primi venti gruppi sette sono di proprietà estera, ma il loro numero è destinato a crescere, mentre sono fuori della classifica, perché hanno sede all'estero, Techint che occuperebbe la sesta posizione, Ferrero che si situerebbe al tredicesimo posto e STMicroelectronics che sarebbe al ventesimo posto. Accanto a questa élite capitalistica c'è la borghesia delle nuove élites professionali, tecnico-scientifiche e manageriali, coloro i quali hanno competenze professionali per stare su un mercato più tecnologico e più internazionalizzato.
Invece, tra coloro i quali rimangono penalizzati dalla riorganizzazione dell'accumulazione, vanno annoverati in primo luogo i lavoratori del settore manifatturiero, i lavoratori italiani e stranieri occupati nei servizi a più basso valore aggiunto e la crescente massa dei disoccupati. Ma tra quanti sono stati colpiti dalla riorganizzazione troviamo anche i settori intermedi della società, buona parte dei lavoratori dipendenti statali, i giovani laureati e non, le micro e medie imprese, e anche le medie e alcune grandi imprese che non si sono internazionalizzate o che non sono riuscite a inserirsi nelle catene internazionali del valore, e che non beneficiano di alcun monopolio. Ciò a cui si assiste è il rialzo dei profitti del vertice capitalistico, sempre più integrato con il capitale internazionale, al prezzo del peggioramento delle condizioni di vita della maggior parte della società e della stagnazione di lunga durata dell'economia. Ne sono dimostrazione i dati Istat, (...)»
Da Domenico Moro, “Globalizzazione e decadenza industriale”, Imprimatur, 2015, pagg. 209-211.
Appunti sociali
In particolare vorrei osservare che:
  1. il forte livello di disoccupazione e sotto-occupazione, di precarizzazione dei rapporti di lavoro;
  2. la penalizzazione dei lavoratori del settore manifatturiero e lo spostamento dell'occupazione nei servizi a più basso valore aggiunto;
  3. l'allargamento del gap tra meridione ed isole rispetto al resto d'Italia;
hanno fatto dilagare la povertà e le distanze territoriali, colpito anche una parte dei ceti intermedi di consumo, generando in questi ultimi una propensione “forzata” al risparmio di autotutela, sicché nel complessivo il mercato interno ne è uscito depresso.
Nella parte superiore della “pera sociale”, invece, riscontriamo una accentuata divaricazione interna alla borghesia imprenditoriale, tra quella finanziarizzata e legata alla globalizzazione (non a caso devota all'attuale assetto europeo) e quella “nazionale”, legata alle produzioni territoriali ed al circuito interno del mercato, costituita da gran parte delle piccole e medie aziende.
D'altro canto, il passaggio delle proprietà delle imprese in capo a società transnazionali, che ricorrono sistematicamente alle delocalizzazioni produttive, rende il contesto sociale ancora più instabile e privo di “futuro”. Un futuro di cui non si smette di parlare, proprio perché è quanto mai divenuto incerto ed insicuro.
Appunti politici
Si inasprisce lo scontro politico sia contro, sia all'interno dell'attuale governo, frutto di un contratto di compromesso tra M5S e Lega di Salvini, che proprio nelle contese in seno al governo promettono di divenire reciprocamente alternativi. Come alternative sono le rispettive strutture organizzative, poiché il Movimento è basato sulla ricerca di un assetto partecipativo tramite le nuove tecnologie della Rete, mentre la Lega è ancorata alla militanza amministrativa dei territori, alla maniera della prima Repubblica.
La Lega in questi mesi ha fatto il pieno di consensi del fu centro-destra, ergendosi a paladina xenofoba securitaria contro gli immigrati. Tuttavia, i suoi legami con gli affaristi delle privatizzazioni autostradali, delle grandi opere (vedi TAV) e degli inceneritori di rifiuti, le cui fortune dipendono dalle committenze di Stato, appaiono sempre più evidenti, anche quando difende la prescrizione infinita, ereditata dai governi a cui ha partecipato nel recente passato.
Il M5S fatica ad imporsi sia sui temi della giustizia, sia sulle grandi opere, dovendo al tempo stesso avviare un modello di sviluppo basato su nuove tecnologie più ambientalismo ed attuare alcune riforme sociali (reddito di cittadinanza e pensioni) dalle quali dipende l'ampiezza del suo consenso.
Il bersaglio principale di tutto l'establishment è il M5S, che sperimenta la validità di un giovane personale politico, selezionato secondo metodi ancora da affinare. Mentre si avvicinano le elezioni europee, il vecchio regime politico-economico mostra apertamente di preferire al successo dei pentastellati quello dei leghisti.14 Unico grande ostacolo all'inclusione completa della Lega di Salvini nelle proprie fila, rimane per ora (e non è poco) la sua ostilità all'attuale Unione europea ed all'euro.
Rovesciamenti
Rifiutandosi di prendere atto della spaccatura sociale a cui ha fattivamente contribuito e dei motivi reali del proprio fallimento, il PD insiste nel rivendicare le proprie vecchie politiche, riproponendole e non disdegnando, alla bisogna, repentini rovesciamenti di passate posizioni e di realtà presente.
Di posizione politica, quando, con motivazioni non dissimili da quelle di Forza Italia, si schiera contro la limitazione dei tempi di prescrizione dei processi, in una sedicente “battaglia di libertà”, alla quale si sono associati financo LeU ed alcune voci “no borders”.
Della realtà, quando pretende che la difesa della libertà di stampa, di cui sono rimaste poche vitali tracce, consista nel difendere il coro unico dei grandi media tradizionali,15 usati dai loro proprietari per condizionare la politica e favorire il proprio specifico core business. Editori spuri che costituiscono oramai un oligopolio collusivo, dai tratti più liberticidi che “illiberali”. A questa farsa in difesa della libertà di stampa non si sottrae nemmeno la corporazione dei giornalisti, tanto supina agli interessi ed agli orientamenti dei rispettivi padroni, quanto inattiva di fronte al vergognoso sfruttamento a cui viene sottoposta la massa dei giornalisti precari ed esternalizzati.
Dulcis in fundo
In seno alla sinistra, solo alcune voci, piuttosto isolate, come quelle di Stefano Fassina e, per alcuni versi, di Marco Revelli, cercano faticosamente di sviluppare una critica alla manovra economica che tenga conto delle ragioni del favore popolare di cui gode il governo “populista e sovranista”.
Di assai difficile comprensione è poi la posizione di Potere al Popolo espressa da Giorgio Cremaschi.
Una volta rilevato che la manovra dell'esecutivo è “tecnicamente non espansiva” e, sul piano degli investimenti, alquanto insufficiente per porsi in grado di invertire la rotta economica e sociale da decenni intrapresa dai precedenti governi, ci si aspetterebbe una conseguente presa di posizione.
Se, nonostante le sue contraddizioni ed i suoi palesi limiti, essa è tenacemente contrastata dalla Commissione europea e dall'establishment tutto, ricevendo invece un consistente appoggio popolare di “aspettativa”, agitarsi tenendosi fuori dall'agone, garantirà la “purezza” ma condanna alla ininfluenza ed alla marginalità. Il continuo attacco alla sovranità democratica italiana dovrebbe indurre, perlomeno, ad una ferma risposta in sua difesa, come ha fatto Jean-Luc Mélenchon di France Insoumise. In caso contrario, la montagna critica, seppure ben argomentata, finisce per partorire un misero topolino politico, visto che manca della conseguente richiesta di fuoriuscita dal sistema euro e si limita a deprecare l'Europa dei Trattati, senza indicare il modo concreto per soppiantarli.
Non si può fare a meno di concludere che ciò accade perché manca una visione della questione sociale connessa a quella nazionale, di cui anche questo estremo lembo della sinistra sembra incapace, avendo sostituito l'internazionalismo con la globalizzazione cosmopolita.
Tema del quale tratterò in uno dei prossimi articoli.

Note:
1 Ernesto Galli della Loggia, “La sinistra e il popolo 'tradito'”, Corriere della Sera, 8 ottobre 2018.
2 Galli della Loggia non definisce nell'articolo citato cosa intenda per piccola borghesia.
3 Rapporto Bankitalia del 12/03/2018: il rischio povertà è salito dal 19,6% del 2006 al 23% del 2016, al Nord dall'8,3% al 15%; il 30% della ricchezza è detenuto dal 5% più ricco, mentre il 30% più povero detiene appena l'1% della ricchezza complessiva.
4 Assai al di sotto delle attese il risultato di Liberi e Uguali, mentre Potere al Popolo ha raccolto circa la metà dei suffragi a suo tempo destinati all'Altra Europa per Tsipras.
5 Basti pensare a come hanno votato i quartieri popolari delle grandi città rispetto ai quartieri ricchi, nei quali il PD ha riscosso un notevole successo.
6 La scolastica marxista distingue tra “base sociale” per indicare l'appartenenza di classe di una forza politica e sua “base di massa”, per denominare il fronte di adesione ampio, di più soggetti sociali, che quella forza riesce a raccogliere intorno a sé.
7 Del come e perché lo Stato si sia via via indebitato o si sorvola o si mente, per nascondere responsabilità e contromisure.
8 Ironicamente Marx commentò che Agrippa non aveva spiegato come, riempiendo la pancia dei patrizi, si potessero nutrire le braccia dei plebei.
9 In questo Blog l'argomento è stato ripetutamente trattato, ricordando, per esempio, il connubio tra liberali e primo decennio del ventennio fascista.
10 Domenico Moro, “Globalizzazione e decadenza industriale”, Imprimatur, 2015.
11 Domenico Moro, “La gabbia dell'euro. Perché uscirne è internazionalista e di sinistra”, Imprimatur, 2018.
12 Henryk Grossmann, “Il crollo del capitalismo – La legge dell'accumulazione e del crollo del sistema capitalistico”, Mimesis, 2010 (1929).
13 Nel testo citato da pag. 95 a pag. 119.
14 Il primo ad optare esplicitamente per la Lega, come “cavallo di riserva”, è stato Vincenzo Boccia, presidente di Confindustria.
15 La RAI merita un discorso a parte, reduce com'è da una stagione di totale renzizzazione.