Eccoci
al punto: la Grecia deve invertire la tendenza alla
deindustrializzazione e alla distruzione delle proprie produzioni,
fenomeno di cui sono vittime tutte le periferie, Italia compresa.
Quando
il ministro dell'economia Yanis
Varoufakis dichiara che
un "problema di insolvenza è stato trattato come un problema di
liquidità", cosa intende dire a tutti, rivolgendosi ai governi
europei?
A
suo tempo non avete preso atto del default
e dello stato di insolvenza della Grecia per mettere al riparo le
banche private del Nord creditrici (piene di nostri titoli
classificati spazzatura) e non affrontare gli scompensi strutturali a
monte. Quindi avete scaricato il rischio del credito sulle casse
pubbliche, ridandoci liquidità in cambio di un debito, rinnovato su
diritto estero,
che non possiamo ripagare alle condizioni ingiunte. Anche grazie alle
riforme recessive a cui ci avete obbligati. Dovete riparare ad un
vostro "errore".
Dimentichi
delle lezioni della storia, dalle gravose riparazioni imposte alla
Germania dal trattato di Versailles, oggetto delle critiche del
giovane J.M. Keynes, al dimezzamento dei debiti tedeschi nel secondo
dopoguerra (Londra, 1953), Berlino e Francoforte si trincerano dietro
regole e contratti, mandando in avanscoperta tecnocrati
e commis
de
rang.
Mostrando affabile flessibilità, stringono
i cordoni
della borsa e si preparano a trattare convinti di potersi imporre.
L'Italia,
pur in condizioni diverse dalla Grecia, è considerata periferia dai
mercati.
Da
che parte deve stare il Belpaese? Con le periferie o contro di esse?
Riesaminiamo
le condizioni diverse.
Il
debito pubblico italiano
In
termini nominali e percentuali sul Pil, non ha raggiunto i livelli
ellenici, ma è assai elevato [vedi
grafico a fianco]. Ricostruirne le origini nella recente storia patria. serve a capire parecchie cose. Sempre ché non lo si disgiunga da quello privato,
né dalla constatazione che abbiamo perso nel corso della crisi circa
un quarto delle nostre attività produttive.
Per
limitarci al secondo dopoguerra, in base agli studi e alla serie
storica della Banca d'Italia, notiamo un vigorosa crescita in termini
assoluti del debito pubblico nei lustri degli anni Ottanta e Novanta
dello scorso secolo. Una crescita conseguente all'esplodere degli
interessi su tale debito.
Cosa
dette l'avvio al tutto?
Difficile
controbattere la tesi di
chi individua il punto di partenza nel famoso divorzio tra Tesoro e
Banca d'Italia del 1981 [vedi
inserto sotto]. Occasione nella
quale le élites italiane dimostrarono un certo spirito
pionieristico.
-----------------------------------------------------------------------------------------------
Divorzio
all'italiana (1)
(...)
"L'accordo prevedeva che a ogni asta indetta per la vendita dei
Buoni del tesoro (Bot) si sarebbe presentata anche la Banca d'Italia
che a fine seduta avrebbe acquistato l'eventuale invenduto. Il che
indeboliva fortemente le banche private che si trovavano costrette
ad accettare il tasso di interesse imposto dal governo." (...)
"Ma
sul finire degli anni settanta Carlo Azeglio Ciampi, governatore
della Banca d'Italia, contestò l'accordo e nel luglio 1981 l'allora
ministro del Tesoro Beniamino Andreatta lo abrogò. Si consumò,
così, quello che è passato alla storia come il 'divorzio fra stato
e Banca d'Italia', con conseguenze disastrose. Senza un salvatore
alle spalle, lo stato non aveva altra scelta se non quella di
accettare le condizioni imposte dal mercato, ossia dalle banche. La
spesa per gli interessi si impennò, lo stato perse il passo dei
pagamenti e il debito prese a moltiplicarsi. Il disastro era
servito."
[Dal
libro di Francesco Gesualdi, Le catene del debito, Feltrinelli,
2013, pagg. 17-18.]
-----------------------------------------------------------------------------------------------
Lo
spunto lo diede la lotta all'inflazione. Si propagandò l'idea che la
causa del male fosse la scala mobile che adeguava le retribuzioni, a
posteriori, all'aumento dei prezzi. In un'ottica tipicamente
monetarista, di diede inizio al lungo periodo della "stabilità
monetaria", al "contenimento del debito pubblico" e
alla deflazione salariale come pre-condizione per reggere l'insieme.
In tal senso si può affermare che le nostre élites dirigenti
non abbiano aderito ad un contesto economico-finanziario europeo
precostituito, ma fattivamente operato per determinare questo
contesto.
Gli
artefici del divorzio all'italiana furono il ministro del Tesoro
Beniamino Andreatta e il governatore di Bankitalia Carlo Azeglio
Ciampi. Per ammissione dello stesso Andreatta:
furono
mossi da un intento redistributivo a sfavore del lavoro (colpire la
scala mobile);
diedero
coscientemente avvio alla esplosione del debito pubblico rispetto al
Pil [vedi
riquadro e grafico sotto];
propiziarono
un
gigantesco trasferimento di denaro per interessi dalle
tasche dei contribuenti alle casse delle banche (poi del tutto
privatizzate) e di altre istituzioni finanziarie che sono le
principali detentrici dei titoli di Stato.
----------------------------------------------------------------------------------------------------------
Divorzio
all'italiana (2)
"Nel
1980 il debito rappresentava meno del 58 per cento del Pil; nel 1994
era giunto a superare il 124 per cento." (...)
"Le
cause reali dell'eccezionale aumento del debito tra il 1980 e il 1994
sono di ordine finanziario e politico. Fra le più rilevanti va
collocata la decisione della Banca d'Italia, attuata nel 1981, (...).
Ciò avveniva, va evidenziato, molti anni prima che il Trattato Ue
imponesse a tutte le banche nazionali un comportamento analogo. Come
avrebbe spiegato lo stesso Andreatta dieci anni dopo, il loro
intervento intendeva da un lato ridare a Bankitalia il controllo
dell'offerta di moneta, dall'altra spezzare «il demenziale
rafforzamento della scala mobile [dei salari]»."
"(...)
I 2000 miliardi di debito superati nel 2012 sono costituiti in gran
parte dall'accumulo degli interessi, dato che ogni anno lo Stato deve
emettere nuove obbligazioni o altri titoli di debito per parecchie
decine di miliardi, il cui totale supera quello dei titoli
rimborsati. (...) gli 85 miliardi l'anno di interessi sul debito
giovano però alle banche. Infatti esse reinvestono in titoli di
Stato, che rendono mediamente il 4 per cento, una quota consistente
dei prestiti che la Bce concede loro al tasso del'1 per cento. (...)"
[Dal
libro di Luciano Gallino, Il colpo di Stato di banche e governi,
Einaudi, 2013, pagg. 179-181.]
----------------------------------------------------------------------------------------------------------
Antefatto
Prima
del divorzio tra Bankitalia e Tesoro, sempre per combattere
l'inflazione, il nostro Paese aveva aderito, nel marzo del 1979,
alla
prima versione dello Sme.
Sebbene il prezzo del petrolio dal 1980 al 1986 fosse sceso del 75%,
cadendo ai livelli dei primi anni settanta, il merito di aver portato
l'inflazione al 6% (1987) "se lo presero il divieto di
finanziamento monetario della spesa pubblica, e la stabilità del
cambio acquistata con lo Sme. Nel frattempo la disoccupazione in
Italia cresceva fino a raddoppiare."
Nel
1987 venne varata la seconda versione dello Sme che, togliendo di
mezzo la possibilità alle monete di riallinearsi (sul modello di
Bretton Woods), ingessava i cambi prefigurando la moneta unica.
Si
tenga bene a mente: né il divorzio, né il secondo Sme vennero
decisi in Parlamento e in Consiglio dei ministri.
Il
governo Amato, dopo aver firmato con sindacati e confindustria la
definitiva abolizione della scala mobile (31 luglio 1992), venne
colto da una crisi valutario-speculativa. L'Italia fu costretta ad
uscire dallo Sme e svalutare del 20% la lira. Ma l'inflazione, invece
di salire come aveva previsto l'allora professor Monti, scese dal 5
al 4%: una pratica dimostrazione che "le relazioni fra
svalutazione e inflazione sono meno meccaniche di quanto ti vogliono
far credere (...)".
A
gennaio del 1999 nacque l'euro.
Risparmio contro salari
Va
d'altronde ricordato che il debito fu ed è sottoscritto anche da una
vasta platea di piccoli risparmiatori, a quel tempo chiamati "BOT
people", resi
partecipi del business,
cointeressati ai
processi più generali anche in qualità di elettori. Al fenomeno non
appartiene solo il popolo dei BOT, ma pure quello i cui risparmi sono
stati indirizzati verso i Fondi di investimento ed i Fondi Pensione
(in Italia giunti più tardi).
Nei
Paesi ricchi d'Occidente i lavoratori più benestanti e appartenenti
alla middle
class hanno
potuto così beneficiare di rendite finanziarie a sostegno dei propri
consumi, rimediando al calo di potere d'acquisto delle loro
retribuzioni. Mentre la grande finanza con quei soldi ("degli
altri")
spadroneggiava, la middle
class
si è sentita legata alla sua logica anche quando essa ha distrutto
posti di lavoro nelle attività produttive in cui una parte della
stessa middle
class era
impiegata.
Indebitamento
e debito estero
Come
la crisi greca, la nostra non nasce come crisi da debito pubblico, ma
da debito estero.
In rapporto percentuale al Pil, dal 1980 ad oggi il nostro
Paese è sempre stato debitore netto verso l'estero. In questo lasso
di tempo, definibili "ingloriosi trenta" se paragonati ai
"trenta gloriosi" precedenti, l'Italia ha conosciuto solo
un periodo in controtendenza. Dal 1993 al 1999 ha potuto ridurre il
debito grazie ad un surplus delle partite correnti
della bilancia dei pagamenti. Il surplus venne a situarsi tra due
episodi di deterioramento strutturale: entrambi legati all'adozione
di un cambio fisso, corrispondenti: alla seconda versione dello SME
(1986-1992); alla fase di preparazione ed entrata in pieno vigore
dell'euro (1996-2011). Senonché, a dispetto del miglioramento del
saldo delle partite correnti, in seguito alle misure del governo
Monti, assistiamo ad vero e proprio sprofondamento del debito netto
accumulato [vedi
grafico sotto].
Cosa
è successo?
L'austerità
di Monti ha incrementato le esportazioni, facendo crollare le
importazioni. In sequenza negativa, queste ultime furono generate
dalla distruzione della domanda interna a sua volta originata
dall'impoverimento della popolazione e dal contenimento della spesa
pubblica. Essendo meno ricco "il paese smette sì di indebitarsi
(il saldo torna a zero), ma per lui diventa più difficile pagare il
debito pregresso (il rapporto debito/Pil aumenta)."
Prendersela
con la spesa pubblica, dopo averla usata come grande discarica di
ogni rifiuto, anche il più tossico, è un esercizio tanto demagogico
quanto inutile.
Dopo
il riconosciuto fallimento dell'austerity di Monti, il governo
Renzi ha annunciato un cambio di registro attraverso una strategia
volta ad associare al mantenuto rigore una maggiore crescita.
Nonostante le declamate intenzioni e circostanze esterne favorevoli
(ribasso dei prodotti energetici), tuttavia, il Paese non sembra
uscire dalle sue contraddizioni di fondo.
Neo-mercantilismo
Forse
la Germania era poco propensa ad adottare la moneta unica e, narrano
le cronache, vi fu indotta da Jacques Delors
e dalla Francia. Una volta presa la decisione di dar vita all'euro,
occorre riconoscerle una certa capacità di predisporre una strategia
a proprio vantaggio, anche se non molto lungimirante.
Attuò per tempo riforme interne del lavoro, di deflazione salariale
competitiva, riorganizzando la propria struttura produttiva in
funzione esportativa. La moneta unica consentiva di fare perno sugli
scambi commerciali nella zona euro per accumulare vantaggi, poiché
inchiodava i concorrenti alla lievitazione dei costi per unità di
prodotto
senza poter ricorrere ad aggiustamenti dei tassi di cambio. Al
contempo, gli allargamenti dell'Unione le offrivano nuovi mercati di
sbocco sia delle merci e dei capitali, sia per le delocalizzazioni
delle filiere produttive, disponendo di forza-lavoro a basso costo in
particolare dei Paesi più periferici.
D'altro
canto, l'assenza di uno Stato federale europeo non la esponevano a
"solidarietà" politica e a condivisioni finanziarie. Le
bastava (qui si palesa la poca lungimiranza) ingabbiare i singoli
Stati in vincoli esterni a cui le politiche interne avrebbero dovuto
attenersi sotto il bastone di opportune sanzioni e di "stratagemmi"
quali il trasferimento del debito su diritto estero prima accennato.
A questo specifico scopo doveva servire la cosiddetta governance.
Il
modello neo-mercantile tedesco, strutturando crescenti dicotomie, era
destinato a lasciare "il cerino in mano" a qualcuno, poiché
ad un surplus corrisponde necessariamente un deficit e "un
deficit della bilancia commerciale può sussistere solo se
contemporaneamente vengono importati capitali per il suo
finanziamento, diminuendo il credito con l'estero oppure chiedendo un
prestito."
Da
questi squilibri deriva un cumulo di debiti che non sono redimibili,
pur trasferiti dall'ambito in cui sono generati e dal privato al
pubblico. É esattamente il punto a cui siamo arrivati: un rischio
boomerang
per la Germania stessa e per la pattuglia dei Paesi centrali ad essa
associati.
D'altronde
il modello esportativo, imitato da tutti i Paesi della zona euro e
della Ue, potrebbe reggere solo a condizione che il "cerino"
fosse trasferibile per intero all'esterno, dall'Europa al resto del
mondo. Una possibilità piuttosto remota, per usare un eufemismo, a
cui però mostra di credere una parte degli opinion makers di
casa nostra.
Ritorniamo
al caso italiano.
Pèso
el tacòn del buso
Si
tratta di un'attitudine che non appartiene solo a Mario Monti,
sponsorizzato dai creditori europei.
Luigi
Spaventa sostenne che dalla soppressione della liretta e
dall'adesione all'euro l'Italia aveva tratto grande vantaggio,
potendo godere di un forte abbattimento dei costi per interessi sul
debito pubblico connesso alle virtù della moneta unica.
Così meglio si comprenderebbero tutti gli sforzi profusi da Carlo
Azeglio Ciampi e da Romano Prodi, come da tutto il centro-sinistra,
per rientrare nei suoi parametri. In questo modo, però, divenimmo
schiavi dello spread,
delle
agenzie di rating
e
dei mercati finanziari.
Un
esito non voluto?
Alla
esplosione dello spread nel 2011 contribuì in modo decisivo
l'adesione alla modifica del Patto di stabilità di Maastricht da
parte del governo Berlusconi-Tremonti (che poi ne fu vittima), in
forza della quale l'obiettivo del debito pubblico al 60% del Pil
assurgeva alla stessa imperativa importanza del limite massimo di
deficit annuale al 3%. Un'adesione pubblicamente condivisa da Tommaso
Padoa-Schioppa, ex ministro del precedente governo Prodi.
L'Italia
ha conseguito avanzi primari
dovuti più ai governi di centro-sinistra, assai "responsabili"
nel tagliare il welfare pubblico, che di centro-destra,
impediti nel farlo dall'opposizione di centro-sinistra.
Per
brevi periodi il debito pubblico rispetto al Pil è leggermente
diminuito, per poi riprendere a crescere vigorosamente. Benché
i governi italiani abbiano realizzato avanzi primari da record, il
peso degli interessi sul debito pubblico cumulato rimane troppo
elevato per consentire una sua riduzione al 60% del Pil nei prossimi
anni.
Tanto
più che il "rovescio" degli avanzi di bilancio è stata la
decrescita del Pil.
L'austerità
ci caccia in un circuito vizioso, tagliando l'erba sotto i piedi alla
crescita.
Essa,
pur incentivata da misure finanziarie non convenzionali (il
Quantitative Easing
della Bce di Draghi) e dalla caduta dell'euro nel cambio rispetto al
dollaro e del prezzo del petrolio, secondo le stesse previsioni della
Commissione europea
sarà piuttosto bassa e non si rifletterà positivamente
sull'occupazione.
Cinismo
finanziario, in moneta unica
Decida
il lettore se inserire anche queste due storie "minori" tra
le pezze peggiori dei buchi.
I.
All'opinione pubblica italiana la comunicazione prevalente non smette
di ricordare che il governo Tsipras, nel voler ricontrattare il
proprio debito, mette in forse il corrispondente credito non solo di
Germania, Francia ed altri Paesi, ma anche dell'Italia, a cui costa,
solo in termini di interessi passivi, assai di più. Secondo alcuni
calcoli ammonterebbe a "Quaranta
miliardi di euro. Una cifra non indifferente. È il credito che
l'Italia vanta nei confronti della Grecia, tenendo conto non solo dei
prestiti bilaterali ma anche delle quote di partecipazione del nostro
Paese nel fondo salva Stati (Esm), nella Bce e nel Fmi."
Complessivamente,
secondo la Banca d'Italia, questo genere di salvataggi di Paesi
dell'Eurozona, effettuato a vario titolo, porta la esposizione
italiana a 60 miliardi. "In altre parole, dell'aumento del
debito pubblico di 12 punti di Pil sperimentato dall'avvento del
governo Monti, circa un terzo (3,8 punti di Pil) è dovuto a spese
effettuate dallo Stato italiano per salvare gli altri «Stati
»."
Questi ultimi, come nel caso greco il cui debito dal 2012 è stato
mutualizzato nelle mani degli Stati, della Bce e del Fmi, sono
semplicemente delle casse di transito. I destinatari reali sono gli
istituti bancari privati del Nord.
Sintesi
del giro-cassa: le imposte dei contribuenti italiani, di chi non ha
paradisi fiscali in cui rifugiarsi, finiscono per rimpinguare le
finanze dei poteri forti centrali!
II.
Nel recente Quantitative
Easing
la Bce di Draghi pratica una politica fiscale pro-Germania, con un
particolare importante "passaggio", implicito nella
garanzia delle banche nazionali (all'80% del totale) a fronte degli
acquisti di titoli di Stato da parte della Bce. Si stabilisce che, ad
esempio, la "Banca
d'Italia acquistando 100 miliardi di titoli di Stato li trasformerà
de facto in titoli sottoposti a legge di diritto estero e quindi
l'Italia non potrà ridurne il valore ridenominandoli in lire e poi
svalutandoli ma sarà chiamata a restituirne alla Bce l'intero
controvalore in euro."
Caso
mai a qualcuno saltasse in mente di farne a meno dell'euro...
Per
meglio sottomettere le periferie al centro e agli interessi delle sue
oligarchie finanziarizzate si contrappone una periferia all'altra
(nell'esempio, Italia contro Grecia) a seconda del grado di
difficoltà e di degrado.
Inoltre, per vincolare dall'esterno sempre più gli Stati nelle loro
scelte, si sancisce sistematicamente, in punta di diritto estero, che
i debiti devono in ogni caso essere saldati in euro, il rigido nodo
in cui scorre la corda del debito.
Qualche
punto di sintesi
Il
racconto storico non può svolgersi a dispetto della concreta
cronologia dei fatti. Interpretati in sequenza, essi ci dicono che
alla crisi intervenuta nella seconda metà degli anni Settanta del
secolo scorso, il mondo atlantico occidentale rispose, in definitiva,
con la finanziarizzazione. Se questo processo appare tipico delle
fasi decadenti di un sistema, la finanza implica, sempre e comunque,
la creazione di debito a cui corrisponde un potere dei creditori,
nonché la gestione di tale potere corredata di specifici mezzi.
Tra
essi risaltano "le riforme" essenzialmente rivolte: alle
privatizzazioni (fino a comprendere ogni bene vitale); alla libera
circolazione dei capitali; all'abbassamento dei salari e delle
protezioni del lavoro; alla riduzione del welfare.
Tali
riforme sono pretese in cambio dei programmi di credito, anche se
possono venire presentate dai governi nazionali come libere scelte.
Dal
breve viaggio intrapreso tra i diversi debiti e le loro origini
possiamo trarre alcune conclusioni per quanto riguarda il nostro
Paese, senza pretese di compiute sintesi. Anche perché il disvelarsi
della natura politica della crisi impatta con le "variabili
geo-politiche", tenute in disparte quasi fossero un'intrusione
"esterna" alla costruzione europea, non connaturate ad
essa, per come si è venuta solidificando prima e, in modo più
sostenuto, dopo la caduta del muro (vedi guerre nella ex-Jugoslavia).
Il solo accenno all'intreccio tra caso greco e guerra in Ucraina può
rendere l'idea, senza inoltrarci nella disamina (altrove intrapresa e
non oggetto di questo scritto) del ruolo della Nato e degli Stati
Uniti.
Pertanto,
assumendo come presupposto che la crisi attuale sia strutturale e
quella finanziaria e del debito da essa tragga origine (la base
produttiva capitalistica non è l'ingenuo cappuccetto rosso, vittima
della finanza lupo cattivo)
circoscrivo l'attenzione conclusiva a sei punti.
L'architettura
europea che ci colloca nella prima periferia, non è casualmente
asimmetrica, sia in senso sociale che territoriale; è stata
politicamente voluta per affermare e concentrare il potere di
strati privilegiati e di oligarchie finanziarizzate, sovrapposto
alle sovranità democratiche territoriali-nazionali e alle classi
popolari che nelle sovranità trovano espressione e forza.
Il
neo-mercantilismo tedesco conforma l'interno Europa, pur non
avendo essa, nel suo insieme, la possibilità di divenire una sorta
di mega-Germania, sì da poter riversare sul resto del mondo le
proprie contraddizioni.
L'economicismo,
come il monetarismo e tanto più il neo-mercantilismo, non sono
impolitici né privi di una loro razionalità, ma la forma della
politica (e la ragione) adottata dal costituirsi degli attuali
poteri forti centrali. Come non esiste un mercato a sè,
indistinto, unitario ed autoregolato, non esiste un potere del
mercato avulso, distinto e contrapposto a quello politico.
Le
élites
dirigenti italiane
dell'ultimo scorcio della prima e di tutta la seconda repubblica,
destra e sinistra istituzionali consociate, si sono rese
corresponsabili dell'attuale architettura europea, rispondendo a
precisi interessi sociali di classe e propri di ceto politico e
tecnocratico (non di rado passando per "le porte girevoli"
tra alti incarichi nell'economia e nella politica).
L'uso
del debito e della moneta unica, assunta al ruolo di metodo di
governo europeo, sono consustanziali al potere così costituito.
Il
debito nazionale resta sovrano, ma privo della sovranità sulla
moneta con cui pagarlo.
Un
cappio al collo
Per
usare un'immagine spesso evocata per descrivere il rapporto tra
debitore e creditore, i popoli sono tenuti con il cappio al collo,
dalla corda del debito che scorre in un particolare nodo scorsoio: la
moneta unica intesa non solo come simbolo, ma come potere e metodo di
governo.
Alla
stretta (insopportabile per i popoli soprattutto delle periferie) a
cui siamo giunti, una parte degli avversari della corda-debito
sostiene che essa possa venire sfilata dal nodo-euro, tramite accordi
e compromessi imposti dalle espressioni democratiche territoriali e
nazionali. A questa parte attengono Syriza, Podemos ed altre nuove
forze politiche. Un'altra parte, comprendente M5S, la minoranza
interna a Syriza, il Fronte Nazionale della Le Pen, la Lega di
Salvini, s'è invece pronunciata per l'uscita dall'euro.
L'euro
non è irreversibile.
La
stretta al collo potrebbe venire temporaneamente allentata. Stante i
poteri centrali dominanti, assai difficilmente il cappio verrà
sciolto. In ogni caso, senza l'avvio di una stabile soluzione dei
problemi strutturali alla radice dei debiti, non rimarrebbe che
l'alternativa di recidere il nodo. Procrastinare ogni soluzione
potrebbe condurre al collasso non solo dell'Eurozona ma di tutta
l'impalcatura dell'Unione Europea.
Pur
tuttavia, se è impressionante il rapido succedersi degli eventi e
palese il fallimento della "poliarchia europea", non appare
imminente la caduta della "maschera democratica
dell'oligarchia". Forse per le oligarchie è ancora possibile
"guadagnare tempo", magari avvalendosi di una temporanea
ripresa, in attesa di "un piano credibile per mettere a posto e
problemi dell'eurozona", di cui a tutt'oggi non si intravvede
traccia
[vedi
inserto sotto].
Mentre
si addensano nere nubi di guerra, in Europa e ai suoi limiti, corre
l'obbligo di un avvertimento che rischia di suonare scontato: la
democrazia delle assemblee elettive non può esercitare alcun potere
senza sovranità territoriale, ma
il recupero della sovranità può fare a meno della democrazia.
-----------------------------------------------------------------------------------------------
In
attesa di un piano credibile
"L'eurozona
non ha alcun piano credibile per mettere a posto i problemi
dell'eurozona, a parte la richiesta di maggiore austerity: non ci
sarà nessuna unione fiscale, finanziaria o politica; e non ci sarà
alcun meccanismo bilanciato di aggiustamento economico su entrambi i
lati dello spartiacque tra creditori e debitori. La decisione è
invece quella di perseverare e insistere con quel patto di stabilità
e di crescita che sinora ha fatto fallimento in modo tanto
prevedibile quanto regolare (...).
È
estremamente difficile eliminare i deficit fiscali in Paesi che sono
strutturalmente importatori di capitali in assenza di recessioni
prolungate o di enormi miglioramenti nella loro competitività verso
l'estero. Ma quest'ultima è relativa, e quindi i miglioramenti
necessari nella performance sull'estero dei Paesi deboli
dell'eurozona implica o un peggioramento di quella dei Paesi
esportatori di capitali dell'eurozona, o un radicale miglioramento
della performance esterna dell'eurozona nel suo complesso. La prima
cosa richiede che la Germania divenga molto meno tedesca. La seconda
che l'eurozona nel suo complesso diventi una mega-Germania. Chi può
ritenere plausibili esiti del genere?
Questo
fa sì che il risultato più verosimile dell'orgia dell'austerity
fiscale sarà un altro: recessioni strutturali di lungo periodo nei
Paesi deboli. Per dirla in modo brutale, la moneta unica finirà per
significare deflazione salariale, deflazione da debiti e recessioni
economiche prolungate. Ora, per quanto grandi siano i costi di una
rottura dell'area monetaria, come potrà durare una situazione del
genere?"
Martin
Wolf, Financial Times, A disastrous failure at the summit, 13/12/2011
[Dal
libro di Vladimiro Giacché, Titanic-Europa, Aliberti, pagg.
110-111.]
---------------------------------------------------------------------------------------------