venerdì 19 dicembre 2014

Anno austero 1977

Riccardo Bernini - dicembre 2014

Storie

Anno austero 1977

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L'austerità di Berlinguer può essere accomunata a quella di Monti? Il 1977 e l'esegesi del discorso dell'Eliseo di Ciofi. Il giudizio di Bagnai è storico, ma in quegli anni vi fu già il giudizio di forti movimenti di opposizione. Quando Miriam Mafai...



Correva il 1977
Nel suo ultimo libro1 Alberto Bagnai ricostruisce la genesi storica dell'austerità in Italia. [Ne riporto, dopo le note, alcuni passi.] La questione è assai rilevante, giacché non solo Bagnai ma anche altri economisti non mainstream ritengono, contrariamente all'opinione dominante, che la nostra "svalutazione interna" sia iniziata con l'arresto dei salari posto in relazione alla dinamica della produttività,2 in un susseguirsi di scelte politiche in conseguenza delle quali esplose il debito totale e pubblico italiano. In discussione sono, al contempo, le cause reali della crisi, la perdita di identità della sinistra e le possibili soluzioni politiche.
Bagnai critica l'esegesi del discorso dell'Eliseo di Enrico Berlinguer recentemente scritta da Ciofi per "Liberazione",3 e arriva a considerarlo il primo anello di una lunga catena in fondo alla quale troviamo Monti e la sua politica.
Sull'argomento mi ero espresso su questo blog negli articoli "Storia recente che parla al presente" e "Miopie". Mi pare che il giudizio storico di Bagnai conforti se non le mie considerazioni politiche, almeno il concetto di "austerità ante litteram", in anticipo rispetto a quella derivante dai vincoli europei.
Del resto, le nostre élites dirigenti sin dall'inizio degli anni ottanta del secolo scorso sono state assai attive nella edificazione dell'attuale Europa, di cui lamentano ora alcune asimmetrie, soprattutto relative alla posizione della Germania rispetto all'Italia. Basti pensare al famoso divorzio all'italiana tra Tesoro e Banca d'Italia (fronte interno) e al nefasto ruolo giocato nel fomentare disgregazione e guerra nella ex-Jugoslavia (fronte esterno). Vorrei, tuttavia, aggiungere alla comprensione di quel periodo l'esperienza diretta di un fatto piuttosto significativo. Non senza un necessario e breve prologo.
Anni contesi
Con l'appoggio esterno del PCI nasceva nel 1976 il governo monocolore di Andreotti.
Nel gennaio del 1977 un ennesimo accordo interconfederale, poi trasformato in legge dello Stato, eliminò dal calcolo per l'indennità di liquidazione la contingenza che sarebbe maturata a partire dal febbraio 1977. Non era che uno dei frutti maturati sull'albero della solidarietà nazionale nel quadro della strategia del compromesso storico. In molte fabbriche e luoghi di lavoro crebbe un forte movimento d'opposizione, non solo operaia, verso l'austerità.
Già allora,4 i mass-media preferivano indirizzare l'attenzione dell'opinione pubblica su altri protagonismi, diciamo "più comodi" per una rappresentazione della realtà funzionale alle soluzioni proposte dai "poteri forti" (ancora c'erano). Per esempio, su Toni Negri e la sua teoria del conflitto tra garantiti e non.5 Per tacere dell'uso ricattatorio e repressivo del terrorismo contro quei movimenti, su cui vennero fatti pesare "anni di piombo".6 Non era esagerato parlare di "caccia alle streghe". Ciò nonostante nelle infuocate assemblee dei lavoratori e delle lavoratrici, nonché nella loro diffusa opinione, la linea dei "vertici sindacali e del PCI" subiva spesso clamorosi rovesci. In buona sostanza, non era per niente scontato che la "base" seguisse i vertici illuminati dal discorso dell'Eliseo.
Veniamo al fatto.
Quando Miriam Mafai...
Il passo del testo di Bagnai ha ridestato in me il ricordo di un'intervista chiesta da Miriam Mafai7 per La Repubblica al Comitato che, a partire dal '77, promuoveva l'opposizione operaia in Italtel. La giornalista, scomparsa più di due anni fa, stava realizzando un'inchiesta in diverse fabbriche per meglio descrivere la situazione e i problemi del mondo del lavoro ai lettori del suo quotidiano.
Ci venne a trovare nella sede modestissima del Comitato e dalle domande poste ci fu subito chiaro quanto il suo interesse travalicasse il semplice reportage giornalistico.
Le riproponemmo pari pari la nostra posizione "ufficiale". In particolare:
- non eravamo affatto scandalizzati dall'idea che si potesse raggiungere un compromesso con l'avversario, purché non lo si pensasse come alleato addirittura storico del cambiamento strutturale e sociale (ci sono compromessi e compromessi...);
- un arretramento economico e sociale, pensavamo, non poteva corrispondere ad un'avanzamento politico; la decurtazione di salari e stipendi e il mancato contrasto ai processi ristrutturativi in corso avrebbe solo indebolito i lavoratori sotto ogni aspetto;
- nutrivamo il sospetto, poi divenuto certezza, che si stesse consumando, a discapito della comunità di destino di cui ci sentivamo parte, uno scambio, in forza del quale i "sacrifici" erano offerti come contropartita per l'accesso al potere.
Comunità con destini separati
Anche allora non eravamo a digiuno di economia politica a tal punto da non sapere che, deprimendo le retribuzioni e il loro potere d'acquisto, si andava a restringere anche la domanda interna del Paese intero.8 Per giunta, la separazione dei due destini, dei lavoratori da un lato e delle élites di sinistra dall'altro, non era affatto una novità, vista la deriva del "socialismo reale" messa in evidenza dai movimenti sin dalla fine degli anni Sessanta.
Come sia finita lo sappiamo tutti. Berlinguer riportò il partito all'opposizione. Tuttavia il "dado era tratto" e l'opposizione fu piuttosto consociativa. Né bastò quella prova di buona volontà e responsabilità. Altre ne vennero chieste e altre ne furono date, finché, con relative mutazioni ora ritenute "genetiche",9 quelle élites furono "sdoganate" e arrivarono pure al governo del Paese, dando il proprio contributo alla "macelleria sociale."10 Ma ai cosiddetti garantiti fu sempre e solo garantita la politica dei due tempi, quella, per intenderci, per la quale i "sacrifici" erano e sono sicuri nonché immediati, mentre gli auspicati cambiamenti cari al marxista Ciofi,11 come il sol dell'avvenire, furono e sono posposti all'infinito.
Ci si può meravigliare che su simili basi analitiche e di consapevolezza storica ogni rifondazione fosse preclusa?
Della discussione sul marxismo ortodosso o eterodosso non credo si abbia nostalgia. Importa di più cogliere un aspetto allora da pochi compreso: l'austerità della solidarietà nazionale ha dato inizio ad un percorso che ha fortemente danneggiato non solo la classe a cui pretendeva di dare una prospettiva politica, ma pure l'insieme della nazione in nome della quale invocava solidarietà.
Non sarebbe male se in luogo delle tante spending review si effettuasse una salutare e generale revisione politica. Essa ci proporrebbe, forse, soluzioni più adeguate.

1 Alberto Bagnai, L'Italia può farcela, Il Saggiatore, 2014.
2 Ibidem, pag. 218: "(...) in Italia (...) dal 1981 al 1995 i salari reali crescono in media di 1,2 punti in meno all'anno rispetto alla produttività (rispettivamente: 0,7% e 1,9%; la nostra svalutazione interna era già iniziata)."
3 Paolo Ciofi, 13 febbraio 2014, http://www.liberazione.it/rubrica-file/Berlinguer-e-l-austerit-come-strumento-di-trasformazione.htm.
4 La recente scoperta di molti studiosi eterodossi delle condizioni in cui versa l'informazione fa un po', amaramente, sorridere.
5 Uno dei motivi per i quali le teorie del giovane economista Ferragina hanno richiamato la mia attenzione (vedi "Miopie").
6 Una narrazione ricorrente da parte degli storici "de noaltri", per passare in subordine i forti movimenti sociali e politici di opposizione e annegarli nel terrorismo.
7 Miriam Mafai fu cofondatrice di "La Repubblica" e per decenni compagna di Giancarlo Pajetta, storico esponente del PCI.
8 Fu un tema ricorrente anche nella scissione sindacale che portò alla successiva nascita della FLMU di Piergiorgio Tiboni.
9 Mi riferisco alle recenti dichiarazioni di Marco Revelli.
10 Nel citato ibro di Bagnai, a pag. 218, con riferimento agli studi che hanno calcolato (media dei G7) in 10 punti la quota salari diminuita tra la fine degli anni settanta e il 2010, scrive di "riforme" "sempre affidate a macellai con il grembiule rosso, perché su quello azzurro gli schizzi di sangue si vedono troppo."
11 Paolo Ciofi, La bancarotta del capitale e la nuova società - Nel laboratorio di Marx per uscire dalla crisi, Editori Riuniti, 2012.

sabato 6 dicembre 2014

Eccellenze salvifiche

Riccardo Bernini - dicembre 2014

Gramigna  Pianta infestante. Può essere usata a scopi terapeutici.

Eccellenze salvifiche

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Chiamato "Sua Eccellenza", Sandro Pertini avrebbe sicuramente ribattuto: "Sua Eccellenza sarà Lei!". Il compianto Presidente di "Sue Eccellenze" ne aveva sperimentate sin troppe, a cominciare da "Sua Eccellenza il Cavaliere Benito Mussolini..."
La parolina ha una sua storia molto patria.
Sembrava morta, ma eccola ricomparire nella quotidiana comunicazione mass-mediale. Non passa giorno senza che ci vengano additate straordinarie ed esemplari Eccellenze, soprattutto di imprese-che-esportano-nel-mondo, grazie alla capacità di fare squadra di leaders innovatori e coraggiosi. Gente-che-non-si-piange-addosso e vede la globalizzazione come-una grande-opportunità.1
Le Eccellenze avrebbero il potere taumaturgico di portare "l'alta marea che solleva tutte le barche"?2 O, piuttosto, quello di colpevolizzare le situazioni e le persone "normali" rendendole moralmente responsabili delle proprie difficoltà?
Senonché l'idea delle Eccellenze ne veicola altre. Per esempio: che l'andamento dell'economia dipenda dall'individuo e dall'impresa, dalla loro forza trainante; come se la micro-economia nella sua logica parziale e miope potesse sostituirsi alla macro-economia, un insieme certo non paragonabile ad una impresa (l'Italia non è un'impresa e "l'impresa Italia" è un feticcio ideologico) e persino alla politica, ridotta da decenni al ruolo di supporter della privata iniziativa con relativa autosoddisfazione cleptomane.
Non è difficile risalire al ceppo filosofico da cui proviene tutto ciò: "La società non esiste. Ci sono solo individui, uomini e donne e ci sono famiglie."3
Siamo nel pieno di una crisi in cui quel modo di pensare ci ha cacciati, eppure ci vengono riproposte continuamente le solite idee.
Affidiamoci alle Eccellenze! Come se il mondo fosse un immenso scouting di talenti. Selezioniamo un pugno di labili campioni e lasciamo i più nella frustrazione! Facciamo finta di non avere alle spalle trenta ingloriosi anni e i suoi amari frutti. Ripetiamo diabolicamente l'errore.
1Il Censis aveva riposto negli imprenditori orientati all'export, alle nuove tecnologie digitali e all'agro-alimentare made in Italy le proprie speranze di ripresa. Nel suo ultimo rapporto annuale prende atto che la "neo-borghesia" non ha risposto alle attese ed è andata in altra direzione, contribuendo a determinare una situazione di "vitalità senza efficacia." (Il Fatto Quotidiano, Stefano Feltri, 6 dicembre 2014)
2La frase attribuita a J. F. Kennedy: "rising tide lifts all boards".
3La frase è di Margaret Thatcher, intervista del 1987.

venerdì 5 dicembre 2014

Miopie

Riccardo Bernini - novembre 2014
Messe a fuoco

Miopie

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La teoria dei  3 blocchi di Emanuale Ferragina è uno stimolo per discutere di nuovo welfare, di come "destra" e "sinistra" abbiano perso significato, di fordismo e di alleanze sociali e politiche.di fordismo e di alleanze sociali e politiche.

Miopia pericolosa
In un tempo in cui sul proscenio sta lo scontro tra le politiche del governo Renzi e l'opposizione della CGIL e della Fiom, da "Piazza Grande", rubrica del Fatto Quotidiano,1 il giovane economista Emanuale Ferragina ci invita a rigettare una "miopia pericolosa". Secondo Ferragina non siamo più in una società nell'età industriale: ostinandosi in questa finzione, la sinistra si trasforma in una forza conservatrice, a spese della "maggioranza invisibile". Che è poi il titolo del suo libro di più recente pubblicazione.2
"Per sensibilizzare la maggioranza invisibile alla partecipazione sociale e politica occorre distaccarsi dal dogma lavorista: ci impedisce di vedere che le caratteristiche dei meno abbienti oggi sono diverse da quelle della classe operaia fordista. La grande trasformazione ha mandato in soffitta, nei paesi occidentali, l'organizzazione produttiva fordista e la società di massa industriale. Oggi attaccarsi a quel mondo è funzionale solo a difendere i privilegi dei garantiti, a trasformare partiti e organizzazioni sociali 'di sinistra' in agenti della conservazione."3
Un nuovo welfare
A fronte della grande trasformazione intervenuta nel tessuto sociale e produttivo, secondo Ferragina, è necessario un nuovo welfare, passando dalla protezione del lavoratore alla promozione della produttività sociale efficiente: "L'unico modo per dare maggiore sicurezza agli individui, in un contesto economico così diverso da quello fordista, consiste nel costruire un welfare universale e basato sui servizi. Un welfare che sappia fare tre cose:
1. Occuparsi dell'individuo nei momenti di transizione lavorativa. (...);
2. Occuparsi dell'individuo che abbia scarse competenze o non sia comunque in condizioni di guadagnarsi il proprio sostentamento sul mercato. (...)
3. Occuparsi di tutti i cittadini, fornendo le prestazioni (oggi non pienamente garantite nel paese) che rendono più agevole la vita delle persone e permettono loro di accrescere la produttività sociale. (...)"4
Sull'obiettivo redistributivo, per contrastare la crescente diseguaglianza sociale e inglobare quella parte sinora misconosciuta, resa appunto invisibile, c'è un vasto consenso con molte "sfumature".
Prima di entrare nel merito delle idee di Ferragina in apparenza assai nuove, assunte come stimolo al dibattito e non per sterile polemica, vorrei fissare un punto. Penso sia necessaria una profonda revisione del welfare in una duplice direzione estensiva: alla più amplia platea dei lavoratori sottoccupati, semi-occupati, disoccupati, comprendendo le false partite IVA, gli assunti e licenziati ad hoc (in Italia non c'è il contratto a zero hours5 del tipo inglese, ma solo formalmente), intermittenti e tutta la variegata giungla del precariato; verso i pensionati ai minimi o quasi e verso tutto il lavoro non pagato, ma socialmente indispensabile, oggi relegato al welfare familiare.
Porto un solo esempio. Dal punto di vista aziendale la cassa integrazione ha un senso se temporanea e mantiene, con adeguata formazione, la possibilità di reinserire una forza lavoro già preparata all'attività specifica e da non ricostituire ogni volta che si affronta una flessione di mercato o un passaggio organizzativo e tecnologico. Dal punto di vista del lavoro, essa permette di non perdere conoscenze professionali, abilità allenate, livelli di contrattazione sindacale raggiunti, organizzazione di vita personale e sociale. Con lo smembramento dei grandi complessi industriali, le delocalizzazioni, la catena degli appalti e l'instabilità produttiva insita nel comando finanziario del capitale, la cassa integrazione, in molti casi, è diventata un sostitutivo della indennità di disoccupazione solo per ex dipendenti di ex aziende al di sopra dei fatidici 15 dipendenti. Ma essa è pagata dalla contribuzione dei lavoratori e delle aziende: non è nella disponibilità della spesa pubblica se non nella sua estensione "in deroga". Il Governo può disporre di quest'ultima e destinare altrove i suoi fondi, ma non dell'altra, come ha tenuto a ricordare Landini a uno smemorato Alan Friedman nel corso di un talk-show.
Disagio e privilegio
Meno convincente appare Ferragina allorché definisce quali soggetti appartengano alla categoria dei garantiti e privilegiati da combattere e quali alla "maggioranza invisibile", su cui ricomporre un blocco sociale e politico capace di determinare il cambiamento.
"La maggioranza invisibile è costituita da cinque gruppi che vivono forti condizioni di disagio economico e sociale:
1. i disoccupati;
2. i neet (Not engaged in Education, Employment or Training);6
3. i pensionati meno abbienti;
4. i migranti;
5. i precari.
Si tratta in tutto di 25 milioni di persone, a fronte dei 47 milioni di aventi diritto al voto e dei circa 34 milioni di votanti alle elezioni politiche del 2013."7
Per definire nel terzo gruppo, tra i 18,6 milioni di pensionati, i meno abbienti, scrive: "Spendiamo infatti il 31% del budget dedicato alle pensioni per pagare quelle sopra i 2000 euro (che sono circa 2 milioni), mentre solo il 33% di esso viene allocato per pagare gli 11,6 milioni di pensioni sotto i 1000 euro. Occorre aggiungere che chi percepisce più di 2000 euro ha contribuito mediamente solo per la metà di quanto riceve."8
Più precisamente: "Non si tratta ovviamente di far calare la scure su chi percepisce 2000 euro al mese, ma di proporre una tassazione proporzionale che parta da un piccolo importo, su chi riceve una cifra di poco superiore (una tassazione del 2 o 3%), e salga in lodo deciso su chi ha pensioni sopra i 5000 euro (oltre il 20%)."9
Ora non voglio indagare cosa si nasconda dietro quel "mediamente" che ricorda tanto la media del pollo. Imporre una tassa progressiva (oltre all'Irpef, suppongo) a partire da una certa soglia o stabilire, per esempio, che si va in pensione a 60 anni con max 5000 euro lordi mensili (proposta di Beppe Grillo) non sono soluzioni tanto diverse, almeno nello spirito di riduzione del disagio e delle diseguaglianze (e per fare spazio ai giovani). È nella sua giustificazione che sorge il problema. Ferragina motiva la propria proposta a partire da un'ideale linea di confine, tracciata tra non garantiti e garantiti a tre livelli, rispettivamente: sotto i 1000; tra i 1000 e i 2000; sopra i 2000; sopra i 5000. E lo fa servendosi della matematica previdenziale a capitalizzazione, per giunta evocando ricalcoli a ritroso.
Vanno colpite solo le pensioni d'oro (che sono numerose e pesano fortemente) o con esse anche quelle fasce sopra citate?
Inoltre, se dovessimo considerare l'esempio prima accennato, a quale blocco ascrivere i cassintegrati? Essendo da un lato privilegiati rispetto a chi, disoccupato come loro, nulla percepisce, e dall'altro condannati alla sopravvivenza assistita e frustrata, ho qualche dubbio: forse alla speciale e novella categoria dei "garantiti sfigati"? Assimilare il cassintegrato al privilegiato apparirebbe più un dileggio neoliberista che la raffigurazione della realtà.
Quando rappresenta l'intera massa dei lavoratori dipendenti a tempo indeterminato, pubblici e privati, come garantiti rispetto alla maggioranza invisibile, dai già descritti labili contorni, l'impianto narrativo di Ferragina non è per nulla convincente.
In particolare non lo è sulla classe operaia, passata dai peana operaisti sulla sua centralità, dopo un interminabile fuoco di fila sulla sua supposta estinzione, ad una sostanziale invisibilità. Invisibile quanto la maggioranza invisibile. E non mi riferisco solo alla working class industriale, ma anche a quella degli ospedali e di molti servizi pubblici socialmente essenziali. Non dimenticando la massa degli insegnanti della scuola pubblica, pagati poco come gli operai, e ridotti al silenzio perché privilegiati se dopo anni di precariato arrivano al ruolo.
Per non tediare trascuro di addentrarmi nella ricostruzione storica di questi ultimi decenni, che Ferragina chiama grande trasformazione richiamandosi a Karl Polany, ampiamente ricalcando una vasta letteratura analitica già disponibile sulla crisi. Lo faccio altrove. Mi preme, invece, richiamare l'attenzione sulla teoria dei tre blocchi di Ferragina che, detta fuori dai denti, mi pare un incredibile assist ideologico e politico alle tendenze che Ferragina stesso intende combattere.
Tre blocchi?
Palesemente la maggioranza invisibile si è espressa anche sul piano elettorale votando massicciamente il MoVimento 5 Stelle. Pertanto, secondo Ferragina, occorre darle sostanza progettuale e forza egemonica10 (M5S è subissato da intellettuali che si propongono la sua "maturazione"). Allo scopo dovrebbe servire la teoria per cui alla maggioranza invisibile si oppongono in modo antagonistico il blocco dei neoliberisti e quello dei garantiti. "I neoliberisti vogliono ridurre lo stato sociale ed estendere il loro mantra a quasi tutti gli aspetti della società. Tale prospettiva ideologica, pur non essendo rappresentata pienamente da nessun partito, ha trovato terreno fertile grazie al contesto internazionale e al parziale sostegno delle forze di governo (di centrodestra come di centrosinistra), ma è stata frenata dalla forze dei garantiti. Questi ultimi, che hanno difeso a spada tratta le concessioni ottenute durante l'epoca fordista, sono capaci di ancorarsi allo status quo e farsi rappresentare da partiti e sindacati."11 Da qui l'invito rivolto alla sinistra a rigettare la miopia pericolosa, citata all'inizio.
Accanto all'errore essenziale di catalogare come garantito e privilegiato tutto il lavoro dipendente, salariato e stipendiato, privato e pubblico, a tempo indeterminato (nonché le sue pensioni) Farragina ne inanella un altro: che la sinistra politica e sindacale lo abbia sostanzialmente difeso in questi ultimi decenni.
De sinistra12
La sinistra in questione, messa sotto accusa da Ferragina, sa bene di non essere più in un'economia industriale ma di prevalenti servizi; sa altrettanto bene che il modello fordista13 è superato: ha partecipato fattivamente alla sua trasformazione, tanto da condividere la globalizzazione neoliberista, i processi di finanziarizzazione e le connesse ristrutturazioni produttive. Ha condiviso l'austerity ante litteram della fine degli anni '70 e lo straordinario indebitamento dello Stato a favore delle banche.14 Per non parlare della moneta unica e dei trattati europei.
Tanta acqua è passata sotto i ponti e molti studiosi non mainstream scrivono di social-liberismo per tratteggiare una labile distinzione dalla destra liberal-liberista. Per quale ragione, sennò, l'opinione pubblica sarebbe spinta a ritenere obsoleto il tradizionale appellativo "destra" e "sinistra"? Non mi persuade l'idea che ciò avvenga perché quest'ultima ha dimenticato la maggioranza invisibile a favore del lavoro fordista. Le sue èlites hanno collaborato a penalizzarli entrambi, in un quadro di gerarchie del lavoro, questo sì, di differenziazione funzionale alla loro divisione e neutralizzazione. Un divide et impera, tradotto in "dividi e sfrutta", del quale si dovrebbe avere conoscenza. In tal senso si è fatta forza di governo e in tal senso ha governato. Che oggi, di fronte al prorompere del renzismo, alla gestazione del quale ha ampiamente contribuito, faccia appello alla mobilitazione sindacale e accenni a timide opposizioni in sede parlamentare, fa parte di un gioco già giocato in altre occasioni. Di contro, le manifestazioni di migliaia di lavoratori e di licenziati non possono certo essere catalogate come difesa del privilegio dei garantiti. E neppure le scollature interne alla CGIL con la FIOM rinvigorita di Landini15 devono venire sottovalutate. Di fronte abbiamo non i residui del fordismo, ma la crisi di una importante parte del manifatturiero che lo ha soppiantato: filiere, distretti, aree in cui tutti erano diventati imprenditori anche di se stessi e l'ideologia individualista del neoliberismo spadroneggiava.
Il fordista scomparso
"Quando parlate con un garantito o un neoliberista dei problemi della maggioranza invisibile, egli vi risponderà che «bisogna creare lavoro per quei poveretti»; oppure che «devono smetterla di piangersi addosso e cercare un impiego». Entrambe le posizioni (...) sono anacronistiche."16
Si sa che il neoliberista ritiene che, comunque, occorra accettare di lavorare dentro al mercato in cambio di qualsiasi salario, salvo invocare integrazioni statali (fuori mercato) se esso non garantisce il minimo di sopravvivenza.17 Ma l'espediente retorico non regge se si mettono a confronto capre e cavoli. Dovrebbe Ferragina dirci cosa potrebbe rispondere non una figura sociale, il garantito, ma il supposto alter ego del neoliberista: il fordista, secondo il suo linguaggio. Semmai lo trovasse. E dove sta mai un fordista in tutto il centro-sinistra? Vedo solo social-liberisti ad egemonizzare la recente storia del PD e dei suoi predecessori-fondatori. E Civati, al cui programma Ferragina a suo tempo ha collaborato pur non credendo affatto "in questo PD", in base a quale misunderstanding si trovava alla prima Leopolda insieme a Renzi? Miopia?
Una visione in primis orizzontale
Se i già ricchi sono diventati più ricchi a discapito di tutto il lavoro, sia dipendente che autonomo, è una questione di lotta di classe, subita dai perdenti e praticata vigorosamente dai vincitori. In tale dinamica va vista la straordinaria polarizzazione della ricchezza.18 Se non assumiamo la divisione sociale nella sua stratificazione, nel concreto svolgersi dei rapporti non solo di distribuzione ma pure di produzione, rischiamo di dividerla in primis orizzontalmente, come in età medioevale si ripartiva per funzioni: oratores, bellatores e laboratores.19 Come se anche nei marmi delle chiese20 non sia rimasta scolpita una sostanziale differenza, tra lavoro manuale e non, ben presente alla coscienza del popolo laboratores anche all'inizio dello scorso millennio.
Attualmente l'approccio mainstream accomuna tutti come lavoratori, dipendenti e imprenditori, salariati e top managers, quasi fossero la stessa cosa. E chi vede interessi diversi (e diverse comunità di destino) diventa automaticamente partigiano della rottura contro la coesione di-cui-l'Italia-ha-bisogno-per-uscire-dalla-crisi. Perché, allora, non mettere sullo stesso piano tutti come "garantiti"?
Dalla contrapposizione tra "garantiti" e "non garantiti" ne consegue una strategia che ha già (qualcuno ricorda Antonio Negri?) portato danni e, se reiterata, ne farebbe di ulteriori e peggiori: contrapporli risponde perfettamente alla logica renziana.
La fenditura
Quando Renzi ha basato la recente campagna elettorale sugli 80 euro, molti non hanno capito che stava perseguendo un obiettivo: separare i garantiti dalla maggioranza invisibile. Si è trattato di una mancia elettorale? Eppure ha funzionato rispetto a molti pensionati, tuttora in attesa che la promessa di esserne beneficiari sia mantenuta, perché il loro mondo di riferimento rimane quello del lavoro dipendente da cui provengono. Non a caso costituiscono gran parte degli iscritti a CGIL-CISL-UIL.
Attenti perché, in linea con questa impostazione, al jobs act seguirà altro, magari andando a colpire le pensioni superiori alla pura sussistenza, sulla scia della riforma Fornero.21 Già se ne discute, mentre si preservano pervicacemente i famosi diritti acquisiti,22 pensioni d'oro comprese, sia della "casta" burocratica, militare e politica, sia dei managers dell'area privata, nonostante il loro fondo pensioni fosse in rosso. E seguendo questa fenditura non si andrà certo nel senso auspicato di un nuovo e più ampio welfare sociale. Tanto per restare sull'esempio della cassa integrazione, mentre si abolisce quella "in deroga", i risparmi ottenuti e promessi ai disoccupati anche precari spariscono nei meandri della legge di stabilità.23
Con i piedi per terra
D'altro canto, come accennato, la crisi ha messo a nudo le crepe del sistema industriale e commerciale che ha soppiantato quello fordista, in particolare una parte delle filiere e dei distretti industriali (per circa un quarto di tutto il comparto manifatturiero), nonché molte piccole imprese di servizio e commercio, con conseguenti desertificazioni ampie e localizzate. Nei relativi spazi lasciati aperti dalla scomparsa dei tradizionali riferimenti di "destra" e "sinistra" cercano di approfittare vari raggruppamenti di tipo xenofobo, razzista e neofascista. Una proposta politica di radicale cambiamento non può lasciare senza risposte anche questi "territori" e le loro popolazioni. Percepirsi come vittime della crisi e del modello neoliberista potrebbe indurre ad aderire ad identità etniche, regionali, di patrie piccole e grandi, nonché alle culture di esclusione, innanzitutto verso gli immigrati.
In aggiunta, poiché è risaputo che l'industrialismo fordista fu intimamente legato al consumo di massa di beni durevoli, occorre capire come si possa mantenere l'uno avendo smantellato l'altro. Alla radice della crisi c'è anche questa contraddizione. Negli anni della deindustrializzazione occidentale e del risorgente predominio della finanza, quel consumismo si è mantenuto grazie al debito interno e internazionale, nonché allo sfruttamento di chi dai Paesi emergenti quei prodotti, sia manifatturieri che agricoli, continuava a fornirli al mondo post-industriale, al quale non si poteva chiedere di cambiare way of life, stile di vita (di consumo) senza creare ingovernabilità.
Oltre alla distribuzione del reddito ci sono oligarchie e rapporti di produzione, a cui il concetto gramsciano di egemonia non è certo estraneo. Sicché occorre metter mano alla ricomposizione delle alleanze sociali attraverso la politica e la cultura con idee-forza capaci di fondarne l'unità pratica, a partire dai movimenti reali e dai loro portati, prima ancora del variabile computo del loro potenziale elettorale ed istituzionale.
Soffitte e rottamazioni
Per concludere un consiglio non richiesto: attenti alle soffitte, alle pattumiere, alla irreversibilità assoluta delle grandi trasformazioni24 e alle rottamazioni.
Può capitare che in nome della "rottamazione" di vecchie gerarchie di potere, si rottami solo quanto basta per far largo ai giovani dandies della Leopolda, fiancheggiati dai giovanotti Napolitano e De Benedetti, e cercare di riformare la Costituzione, in accordo scricchiolante col giovin gandula Berlusconi. Può capitare che dalle "pattumiere della storia" rinascano vigorosi liberal-liberismi, al pari del capitalismo dato frettolosamente e presuntuosamente per spacciato. Può capitare che "grandi trasformazioni" reputate irreversibili non si dimostrino affatto tali, magari soppiantate da un risorto e rinnovato dominio della finanza in forme tali da pensarsi a sua volta irreversibile. Può capitare pure che dai polverosi "soffitti" in cui erano stati relegati, si sia poi costretti a riportare ai piani abitati antichi maestri per (almeno) cominciare a capire un'inaspettata crisi, proprio quando la storia era finita. Miopie?
1 "Il Fatto Quotidiano", 31 ottobre 2014.
2 Emanuele Ferragina, insegnante all'Università di Oxford, è autore di "Chi troppo e chi niente", Bur-RCS, 2013, e di "La maggioranza invisibile", Bur-RCS, 2014.
3 "Il Fatto Quotidiano", ibidem.
4 E. Ferragina, La maggioranza invisibile, Bur-RCS, 2014, pagg. 145-147.
5 Traducibile in "ore zero".
(http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2013-08-06/contratti-zero-milione-britannici-064257.shtml?uuid=Ab3bFhKI)
6 Traducibile in: Non a scuola-università, al lavoro e in formazione.
7 E. Ferragina, La maggioranza invisibile, pagg. 44-45.
8 Ibidem, pag. 55.
9 Ibidem, pag. 153.
10 Il riferimento è a Gramsci, ma anche all'utilizzo che del concetto di egemonia notoriamente la destra neoliberista ne ha saputo fare.
11 E. Ferragina, La maggioranza invisibile, pag. 29.
12 Con questo appellativo Alberto Bagnai ha reso l'dea.
13 Il modello fordista connette la produzione con il consumo di massa dei prodotti industriali. Henry Ford: "Costruirò un’auto che avrà un costo così basso da essere accessibile a tutti.”
14 Tratto la questione nel prossimo pezzo: "La corda e il nodo scorsoio".
15 Sul tema della democrazia sindacale, per esempio, le divergenze con Susanna Camusso mi sembrano piuttosto promettenti.
16 E. Ferragina, Il Fatto Quotidiano, 31 ottobre 2014.
17 Jean-Paul Fitoussi, Il teorema del lampione, Einaudi, 2013, capitolo primo, pagg. 30-34.
18 Thomas Piketty, Il Capitale nel XXI secolo, Bompiani, 2014 (2013), ci fornisce una lunga serie storica di tendenza.
19 Benché tale summa divisio fosse già presente in uno scritto di Heric D’Auxerre databile alla fine del IX secolo, è Adalbertone di Laon (947 circa – 1030), vescovo e poeta francese, nel suo "Carmen ad Rodbertum regem" a darne una descrizione compiuta.
20 Per esempio il Duomo di Modena.
21 Un esempio di come viene usata la matematica previdenziale ai fini delle compatibilità di bilancio sintonizzate sulla austerity.
22 Per le pensioni di reale privilegio valgono i "diritti acquisiti", che sono stati aggirati e manomessi per la grande maggioranza dei pensionati presenti e futuri.
23 "il Fatto Quotidiano", 8 novembre 2014.
24 Poiché Ferragina si riferisce, dandone una sua lettura, a Karl Polany, ricordo che anche lui credette 'La grande trasformazione' irreversibile. (La grande trasformazione, [1944], Einaudi, 1974, pag. 313).
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Cassa Integrazione
Massimali 2013 per il calcolo della Cassa Integrazione CIGO, CIGS e Mobilità. Così come precisato dalla Circolare Inps n. 20 del 08/02/2013, per il 2013 e per il 2014 (fino a nuovo aggiornamento) gli importi lordi dei massimali sono i seguenti:
-> Euro 959,22 per una retribuzione inferiore o uguale ad 2.075,21 (al netto del 5,84% = € 903,20);
-> Euro 1.152,90 per una retribuzione superiore a 2.075,21 (al netto del 5,84% = € 1.085,57).
L'importo lordo della Cassa Integrazione erogato dall'INPS, così calcolato, è poi soggetto alle trattenute per imposte sul reddito delle persone fisiche (IRPEF) in base all'aliquota di appartenenza.
Fonte:http://www.cassaintegrazione.it/calcolo-cigo-cigs
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Diseguaglianze
da Luciano Gallino, La lotta di classe dopo la lotta di classe, intervista a cura di Paola Borgna, Laterza, 2012, pagg. 104 -105.
"Uno dei risultati più vistosi della controffensiva in questione (dei vincitori ndr)" è stato un forte aumento delle diseguaglianze globali, dovuto ad una marcata redistribuzione del redditto dal basso verso l'alto, (...)."
"Nel periodo 1976-2006 la quota salari, cioè l'incidenza sul Pil dei redditi da lavoro (ivi compreso il reddito da lavoro autonomo, il quale viene calcolato come se gli autonomi ricevessero la stessa paga dei salariati), si è abbassata di molto. Facendo riferimento ai 15 paesi più ricchi dell'Ocse detta quota è calata in media di 10 punti, passando dal 68 al 58% del Pil. In Italia il calo ha toccato i 15 punti, precipitando al 53%. (...)"
"(...) la maggior parte dei punti sottratti alle classi lavoratrici, e in buona parte anche alle classi medie, è andata alle rendite e ai profitti." 

mercoledì 19 novembre 2014

Storia recente che parla al presente

Riccardo Bernini - ottobre 2014

Storie

Storia recente che parla al presente

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I rapporti tra fascismo, liberismo e keynesismo. Successo delle socialdemocrazie. Eurocomunismo ed austerity. Il neoliberismo non muore per la crisi.

Keynes e Mussolini
Mesi fa Sergio Romano e Giorgio La Malfa1 hanno cercato di ricostruire i motivi per i quali il "Corriere" rifiutò l'offerta di collaborazione da parte di Keynes, dopo il successo del suo libro "Le conseguenze della pace" sulla conferenza di Versailles (1919). Pare per l'avversione che Mussolini, allora antigermanico e fautore delle riparazioni di guerra a favore delle potenze vincitrici, nutrisse per quanto sosteneva Keynes a questo proposito. Sul veto pesò anche la vicenda sorta attorno alla posizione di Piero Sraffa (oggetto della spalla di La Malfa), a Londra seguace di Keynes, che aveva avuto il torto di evidenziare la situazione in cui versavano le banche italiane. Un vero antitaliano, per i fascisti.
La Malfa ricorda l'atteggiamento compiacente della borghesia liberale milanese verso il fascismo2, mitigata dai ripensamenti di una piccola parte di essa dopo il delitto Matteotti.
Mentre Romano coglie l'occasione per manifestare un certo oltranzismo liberista. Riconosce che Keynes aveva ragione nel sostenere il deficit spending contro i difensori delle politiche di bilancio alla De Stefani3. Tuttavia, per Romano il keynesismo s'adattava meglio ai regimi autoritari: "Keynes non aveva torto, anche se la sua ricetta piacque a regimi autoritari, o poco inclini allo sviluppo dei traffici internazionali4, piuttosto che a Stati democratici e liberali."
A riprova porta l'entusiasmo suscitato in Mussolini dalla cooperazione istituzionalizzata (nella NRA5) tra governo-sindacati-imprenditori, messa in campo dal New Deal applaudito da Keynes. Nella recensione al libro del ministro dell'Agricoltura e collaboratore di Roosevelt, Henry Wallace, "Che cosa vuole l'America?", Mussolini accoglieva caldamente la novità della collaborazione istituzionalizzata perché vi intravvedeva una versione del suo corporativismo. Ma poiché quella "grande democrazia" disponeva di anticorpi, la NRA fu poi bocciata dalla Corte Suprema, al contrario di quanto successe in Italia.
"Niente è più mutevole della storia"
Il detto cinese è irridente. Canzonatorio ma acuto. Infatti, entrambi i commentatori saltano a piè pari un pezzo di storia e alcuni fatti rilevanti, dissimulando l'oggetto attuale del contendere.
Nell'immediato periodo postbellico e per i primi anni della dittatura, il fascismo fu liberista e la buona borghesia liberale non a caso ne fu affascinata. Alcuni studiosi hanno visto nel fascismo una primaria vocazione liberista, tale da rendersi violento strumento di ripristino del "libero mercato" contro le esigenze ed i vincoli posti dalla "società". Certamente il liberismo fu, per la borghesia, una bussola ben più importante della sua vocazione liberale, intesa come adesione alla liberal-democrazia. Transitoriamente poteva servire il fascismo in funzione antisocialista e antipopolare: l'obiettivo ben valeva una messa fascista! A questo allude La Malfa?
Ma la posizione di Mussolini, dopo il '29 e non immediatamente, cambiò. Obtorto collo, per il nazionalismo fascista. E la ragione della precedente avversione a Sraffa si comprende appieno in base al tentativo del governo di allora, ministro delle Finanze il liberista Alberto De Stefani, di convogliare sull'Italia investimenti dagli Stati Uniti in esuberante disponibilità. Mentre il sistema finanziario italiano è in palese difficoltà, gli americani, tra il 1913 e il 1929, hanno più che raddoppiato il prodotto nazionale e "l'eccedenza della bilancia commerciale ha comportato il versamento verso gli Stati Uniti di metà delle riserve auree del mondo."6 Era il tempo della famosa "quota novanta"7. Più tardi, appunto in seguito alla caduta di Wall Street, Mussolini cambiò rotta e, con l'aiuto di Beneduce, aderì di fatto al keynesismo. D'altro canto occorre ricordare che il New Deal ebbe pieno successo non prima, ma grazie all'impegno bellico. Un unico prolungato conflitto, svoltosi in due guerre mondiali dai connotati solo parzialmente diversi, avevano spostato il baricentro del sistema-mondo oltre l'oceano Atlantico.
Matrimonio e divorzio
Da quella storia, pertanto, possiamo evincere:
    1) il liberismo non fu affatto opposto al fascismo; il fascismo fu liberista nella sua prima fase, negli anni venti; e, anche in anni più recenti, come dimostra l'amore tra Cile di Pinochet e scuola di Chicago, fascismo e neoliberismo si sono felicemente coniugati;8
    2) il keynesismo fu adottato sia dalla "grande democrazia americana" che dal fascismo e dal nazismo, negli anni trenta del Novecento; ne fecero strumento per una crescita industriale trainata dalla produzione bellica;
    3) la distanza tra una politica economica orchestrata dall'insieme governo-imprenditori-sindacati (cooperazione negli USA di Roosevelt, concertazione9 dalla fine degli anni settanta in Italia) ed il corporativismo fascista non è poi tanto grande: appare diversa solo per i diversi gradi di istituzionalizzazione; il che, a scanso di equivoci, definisce anche diversi gradi di coercizione e repressione (assolutizzazione) verso gli esclusi.
Sull'orizzonte storico pesa la questione incombente e dirimente (non fu solo istintuale panico di classe), ossia come il capitalismo e l'imperialismo colonialista dovevano affrontare le conseguenze non tanto della pace, ma della Rivoluzione d'ottobre e di quel che conseguiva per il movimento operaio e per le lotte di liberazione nazionale. Il keynesismo10 di fatto salvò l'Occidente: dalla crisi prolungata successiva al '29 di Wall Street, ridando fiato alla crescita industriale e pieno sviluppo alla società dei consumi di massa; dalla concomitante decadenza della potenza inglese, permettendo che il suo baricentro si spostasse da Londra a New York; dal disorientamento ideologico, soppiantando liberismo e monetarismo e conferendo temporanea e rinnovata stabilità al sistema. Consentì poi all'Occidente atlantico a guida nord-americana di vivere i suoi "trenta gloriosi anni" nel secondo dopoguerra, pur se di glorioso per la grande maggioranza dei popoli del pianeta vi fu solo quello che derivava proprio dalle rivoluzioni contro quel sistema-mondo.
Il tardivo successo della socialdemocrazia europea
Le fortune delle socialdemocrazie politiche e sindacali, in quegli anni del dopoguerra, si ebbero nello spazio di mediazione tra la grande ondata rivoluzionaria11, la strategia di contenimento attuata con ogni mezzo dall'Occidente, compresa la guerra, e la necessità nei paesi confederati della Triade (USA, Europa, Giappone) di allargare la base di consenso popolare al proprio interno. Appunto tramite le politiche keynesiane che, appena la situazione internazionale e interna lo permise, vennero prontamente abbandonate, almeno per la parte riguardante le classi lavoratrici, non certo per il ruolo dello Stato a favore delle multinazionali e degli oligopoli. Liberismo per i poveri e keynesismo per i ricchi.12
In Europa il rapporto tra socialdemocrazia e comunismo ha vissuto fasi alterne, in forza delle quali la prima ha ceduto l'iniziativa strategica al secondo. Nel periodo precedente il primo conflitto mondiale, il movimento operaio era diviso tra riformismo e rivoluzione. La componente riformista fu spesso maggioritaria e la pratica politica della minoranza ne subiva l'iniziativa e ne veniva condizionata. Con l'adesione alle ragioni patrie della Grande Guerra, le socialdemocrazie si sottomisero alle superiori necessità del proprio imperialismo. Dall'Ottobre persero via via la leadership nel movimento operaio internazionale, al quale andava collegandosi l'imponente ed esteso movimento di liberazione anticoloniale e antimperialista. Al loro declino contribuì il partito socialdemocratico tedesco (SPD) con la repressione dei moti spartachisti.13
Nel secondo dopoguerra divennero forza di governo a pieno titolo, conseguendo un tardivo successo. In un quadro internazionale, politico ed economico nuovo, assunsero un ruolo di "mediazione" avendo come bersaglio il comunismo, con cui però rivaleggiare sul versante dello Stato Sociale e delle politiche salariali, fruendo degli spazi riformisti concreti offerti dall'affermazione delle ricette keynesiane e dallo sviluppo che esse garantirono. Quel successo è associato ai "trenta gloriosi anni" del capitalismo occidentale.
Dai primi anni '80 le socialdemocrazie europee finirono, tuttavia, per aderire al neoliberismo, alla sua globalizzazione e al dominio della finanza. I suoi connotati riformisti e di sinistra sono andati rapidamente stemperandosi, in modo tale da non essere più riconoscibili. Come meravigliarsi se agli occhi dell'opinione pubblica contemporanea "destra" e "sinistra" appaiono identità desuete e prive di consistenza politica?
Austerità ante litteram
Nel nostro Paese, questi passaggi hanno avuto un loro particolare svolgimento storico per la presenza del PCI. L'eurocomunismo (dei partiti italiano, francese e spagnolo) non significò adesione tout court alla socialdemocrazia europea, per ragioni che tralascio e sulle quali, con il vantaggio della distanza temporale, sarebbe utile ritornare per approfondirne la comprensione.
Importa qui sottolineare che nella seconda metà degli anni '70, i processi ristrutturativi che PCI e sindacati accettarono, in linea con la strategia del "compromesso storico", ebbero un'importanza decisiva nella lotta tra le classi: sgombrarono il campo al successivo prorompere della mondializzazione neoliberista14. Non a caso quella strategia impose austerità (!) ai lavoratori e al Paese. Ciò avvenne in un clima di caccia alle streghe, con una massiccia campagna mass-mediale di regime e facendo ampio ricorso alla repressione15: ogni movimento di opposizione, in particolare quella operaia, venne accusato di terrorismo e accomunato al brigatismo. Una responsabilità affatto irrilevante del PCI e del suo gruppo dirigente, che poi inquinò alla radice qualsiasi pretesa rifondativa.16
L'oggetto attuale del contendere
Consiste nelle divergenze sulle politiche economiche, da cui la diversa narrazione storica a supporto delle rispettive tesi.
Il governo Renzi, nonostante voglia differenziarsi dai precedessori Letta e Monti, persegue una linea che somiglia a quella del Mussolini di quota novanta (allora di aggancio alla sterlina e al gold standard, ora all'euro moneta unica) e della ricerca di finanziamenti esteri americani. Con un'aggravata coazione a ripetere17, se consideriamo che il nostro '29 ha avuto luogo nel 2007-200818, oramai più di 7 anni fa.
Gli ingredienti della austerity sono noti e non dissimili, per le conseguenze deflattive in primo luogo salariali, la depressione del mercato interno, la chiusura di una parte rilevante dell'industria manifatturiera: moneta forte e sopravvalutata rispetto all'economia territoriale; ricerca spasmodica e infruttuosa di capitali sul mercato finanziario internazionale; perseverante privatizzazione a favore dei Fondi con quartier generale a New York o Sovrani, dei Paesi che dispongono di un surplus esportativo da investire, come i reami arabi e la Cina.
"The Strange Non-Death of Neoliberism"19
Si è aperta un'aspra contesa sulla moneta unica europea e la politica di austerity. Anche la Germania arriva a soffrire delle misure imposte ai Paesi più deboli. Potrà reggere l'euro?
Tutta l'attenzione è concentrata sulla crisi dell'Europa e sulle guerre in Ucraina e nel Medio Oriente. In rapida successione il dibattito intellettuale si è spostato dalla critica all'Economics,20 alla ricerca di una alternativa al suo fallimento, verso la geo-politica e le sue implicazioni. Sbrigativamente sono stati messi in secondo piano sia la comprensione della crisi sistemica sia la riforma del sistema stesso, che sembrava ineludibile all'indomani del biennio 2007-2008.
Eppure l'interrogativo posto da Colin Crouch rimane essenziale. Il sociologo inglese, professore anche in Italia, riconduce la non-morte del neoliberismo alle strutture delle imprese giganti e alla loro prevalente forza nel mondo economico e politico. Sostiene che ciò pone un problema non solo di democrazia, ma soprattutto di mercato, osservando in particolare il fenomeno della "privatizzazione del modello keynesiano". Laddove, per arricchire i già ricchi, è stata data una base di consenso più ampia alla finanziarizzazione, attraverso, per esempio, i piani previdenziali e pensionistici gestiti da imprese private (i relativi Fondi), che apre un conflitto di interessi tra gli azionisti e le altre parti coinvolte (stakeholders) su cui vengono trasferiti i rischi.
Sicché, in estrema sintesi: "Siamo così diventati tutti complici del modello finanziario, cosa che ha reso ancor più difficile per i governi opporsi alle richieste delle banche di aiutarle a rimettersi in piedi per ricominciare tutto da capo."21
Mi pare poco convincente pensare di porre rimedio a tutto ciò, affannandosi su nuove regole o morali sulla responsabilità sociale d'impresa, magari con il corollario di apposite Autorities di cui abbiamo già sperimentato l'inutilità, se non la costosa funzione di reale copertura del sistema così come si è andato configurando.
Nondimeno l'analisi dello strapotere dei giganti e l'intreccio imprese-consenso-politica ha una sua consistenza ed induce a pensare alla post-democrazia a cui saremmo avviati.
Ritorno della storia (che era finita)
Rimane il fatto incontestabile che il neoliberismo non è defunto con la crisi, ma sopravvive come anima nel corpo di un sistema dominato dalle oligarchie finanziarizzate. Perché non è il cambiato il "paradigma", come avvenne dopo la crisi del '29? Ovvero, perché non sopravviene il change, una riforma del modello nel sistema nei e dai Paesi ricchi? Perché le politiche keynesiane, o neokeynesiane, non hanno sostituito quelle neoliberiste?
Dalla ricognizione storica sin qui condotta possiamo indicare, in breve, alcune concause.
  • Non esiste alcun pericolo esterno, uno "spettro" rappresentato da un sistema proprietario alternativo e da un esperimento attrattivo verso le classi lavoratrici del globo, né più un minaccioso vento dell'Est.
  • Sul piano interno l'industrialismo, non solo fordista, è stato assai indebolito. Il mondo non è in un'epoca post-industriale,22 ma i Paesi ricchi della confederazione USA-UE-Giappone vivono un passaggio post-industriale, dovuto alle delocalizzazioni e alla finanziarizzazione.
  • Il complesso sistema di globalizzazione, messo in piedi ai diversi livelli, appare congegnato come lo voleva Friedrich von Hayek23 e in modo tale da non permettere facili ritorni. Senza sovranità nazionale, devoluta a superiori organismi e regole internazionali negli anni di egemonia del pensiero unico liberal-liberista, non solo si fanno vieppiù ridotte le prerogative democratiche, ma gli spazi d'agibilità per una politica economica autonoma sono diventati asfittici. In particolare per Paesi come l'Italia.
  • Sul piano culturale i think tanks24 neoliberisti hanno sopraffatto le casematte del paradigma sostitutivo. Contemporaneamente si è diffuso un "riduzionismo" del pensiero che ha trasformato l'economia politica in Economics, astraendola dai problemi reali con modelli e proiezioni matematiche sempre più specialistici e settoriali, mentre soffoca nella microeconomia ogni respiro macroeconomico.25
  • Pure nelle istituzioni politiche, chiunque si opponesse alla révanche dei ricchi, sul tipo di quella imposta da Reagan,26 con tutta la devastante potenza di fuoco dei mass-media è stato ridotto all'angolo se non al silenzio.
Tuttavia, proprio per la tabula rasa effettuata in questi ultimi ingloriosi trent'anni, la crisi sistemica rimette in moto energie, critiche e cambiamenti esogeni, esterni al sistema asserragliato nel suo pensiero unico.
Intanto assistiamo a veri e propri boomerangs di ritorno. Coloro che vollero la globalizzazione, di fronte all'emergere dei BRICS27 nel quadro di una traballante leadership statunitense, sembrano quantomeno intenzionati a limitarne l'estensione per non accettare con la propria decadenza la realtà affiorante di un mondo multipolare. Nella vecchia Europa e ai suoi bordi, ad Oriente e sul Mediterraneo, ribollono antichi e nuovi maligni spiriti ed essa mostra la tendenza a riprendere, se non altro, il proscenio delle tensioni globali.
La storia breve, ma anche di lunga durata, chiede il conto.

1 "Corriere della Sera", 31 gennaio 2014
2 G. La Malfa, nell'articolo oggetto del commento: "(...) la buona borghesia liberale milanese (e non solo) guardava allora al fascismo con simpatia, come una medicina necessaria per portare ordine nel Paese."
3 Alberto De Stefani fu sostituito, come ministro delle finanze, da Giuseppe Volpi (1925-1928).
4 Una delle conseguenze del crollo di Wall Street fu la caduta del commercio internazionale, a cui le politiche keynesiane cercarono di porre rimedio. Quei fatti, per esempio (lo scrive Polany ne 'La grande trasformazione'), ebbero come conseguenza un forzato indirizzo della neonata URSS verso uno sviluppo autarchico.
5 Acronimo di National Recovery Administration.
6 G. Ruffolo, Testa e croce, Einaudi, 2011, pag. 116
7 Politica fascista di tenere il cambio di 90 lire per 1 sterlina, appunto "quota novanta", incaponendosi oltre l'abbandono del gold standard da parte del governo inglese. Vedi anche M. De Cecco, Ma cos'è questa crisi, Donzelli, 2013, pagg. 175-179.
8 Nel magma della destra xenofoba, nazionalismo fascistizzante e localismo "etnico" si mischiano al neoliberismo: M. Salvini della Lega Nord ripropone oggi la flat tax di Milton Friedman.
9 Non si dimentichi la questione della democrazia sindacale. Per tutto il periodo della concertazione ha prevalso l'erga omnes nella sottoscrizione dei contratti di lavoro; venuta meno tale politica, essa è stata risollevata (fu sollevata dal movimento della opposizione operaia alla fine degli anni '70) recentemente dalla Fiom di Maurizio Landini.
10 Il giudizio più complessivo sulle idee di J.M. Keynes non può limitarsi, tuttavia, all'uso che se ne fece.
11 Samir Amin, La Crisi, Punto Rosso, 2009.
12 Mi riferisco al keynesismo militare di Ronald Reagan e, più recentemente, all'enorme esborso degli Stati per salvare le rispettive banche nazionali dal fallimento.
13 Quella repressione, nel gennaio 1919, fu guidata dalla socialdemocrazia di Ebert, Scheidemann e Noske, che non esitò ad unirsi ai Freikorps, incubatori del nazismo. Vi furono assassinati Karl Liebnecht e Rosa Luxemburg.
14 Una funzione paragonabile a quella, più grande e drammatica, dell'ultimo PCUS di Gorbaciov nello spianare la via alla disintegrazione dell'Unione Sovietica perseguita da Eltsin.
15 Non a caso ne fu protagonista Francesco Cossiga che rivendicò la giustezza di Gladio in perfetta coerenza storica.
16 Nessuno dei nodi politici del periodo fu affrontato da Rifondazione, compreso quello sindacale. La stessa figura di E. Berlinguer restò e resta sospesa in un limbo mitico fuori dalla storia reale.
17 http://vocidallestero.blogspot.it/2012/04/john-maynard-keynes-spiega-le.html gioca con i nomi e, riproducendo il capitolo 5° del pamphlet di Keynes "Le conseguenze economiche di Winston Churchill", mostra la stupefacente analogia tra il gold standard, a cui era agganciata la sterlina e la lira di quota novanta, e l'attuale politica di gestione dell'Eurozona.
18 Al 2007 risale il crollo finanziario americano dei subprime. Al 2008 risale il fallimento di Lehman Brothers.
19 Colin Crouch, Il potere dei giganti, perché la crisi non ha sconfitto il neoliberismo, Laterza, 2011. Il titolo originario può essere tradotto in: "La strana non-morte del neoliberismo."
20 Traducibile in Economica, scienza economica.
21 Colin Crouch, ibidem, pag. 130.
22 Ha-Joon Ghang, 23 cose che non ti hanno mai detto sul capitalismo, Il Saggiatore, 2012 (2010), pagg. 95-106.
23 Friedrich von Hayek,The Economic Conditions of Interstate Federalism, rivista "New Commonwealth Quarterly", 1939.
24 Traducibile in serbatoi (tanks) di pensiero (think), ma tanks significa anche carrri armati.
25 Si è giunti al punto di considerare un Paese intero come un'impresa (l'impresa-Italia), ingenerando una perdita di cultura politica ben incarnata dall'attuale compagine governativa.
26 Paul Krugman nel libro "La coscienza di un liberal" (2007) sostiene che la svolta degli anni ottanta è stata una sorta di révanche della parte più ricca degli Stati Uniti contro il New Deal degli anni trenta, per riprendersi quanto avevano dovuto cedere.
27 Acronimo di Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica.

Anni trenta e Bretton Woods
Negli anni Trenta del secolo scorso si affermano le politiche keynesiane: lo sganciamento, nel settembre del '31, della sterlina inglese (vedi polemica di Keynes contro W. Churchill) dal gold standard a cui era incatenata; l'abbandono tardivo da parte di Mussolini della sciagurata "quota novanta"; l'adozione del New Deal di Roosevelt (presidente dal '33) negli States; le obbligazioni MeFo di Hjalmar Schacht (1933-36) nel Terzo Reich.* Da quelle iniziali affermazioni il keynesismo arriverà a dominare il pensiero economico d'Occidente fino alla svolta (stagflazione, inconvertibilità del dollaro, shocks petroliferi, petrodollari e prestiti di prima istanza della Fed) dei primi anni Settanta.
Le politiche economiche dei governi, tuttavia, come dimostra l'esito della conferenza di Bretton Woods, seguirono le indicazioni di Keynes solo parzialmente
La battaglia di Bretton Woods (luglio 1944). Così fu chiamata poiché nella località americana si fronteggiarono due progetti: quello di Harry Dexter White, delegato statunitense e quello di John Maynard Keynes, delegato del Regno Unito. Prevalse quello di White, a segnare il definitivo passaggio della leadership sull'altra sponda dell'Atlantico.
Secondo Keynes ogni tre anni i debiti ed i crediti derivanti dai volumi di scambio del commercio internazionale dei paesi partecipanti, computati in Bancor, moneta di conto, dovevano essere compensati (sull'esempio della compensazione annuale legata alle fiere di Champagne nella Lione medioevale) per evitare gli squilibri più volte sperimentati storicamente (e puntualmente riemersi negli anni a venire). Keynes voleva soppiantare ad un tempo il sistema a base aurea e l'assunzione della valuta di un paese (convertibile in oro) a riferimento degli scambi internazionali.
Il piano White assumeva, al contrario, il dollaro a valuta di riferimento, convertibile (gold exchange standard), con delle limitazioni sia nei cambi che nella mobilità dei capitali. I rapporti tra le valute erano fissi, tutte agganciate al dollaro, seppur aggiustabili per decisione dei rispettivi governi, come di fatto avvenne in seguito. Fu creato il Fondo Monetario Internazionale. Restarono in sospeso molti problemi, tra cui gli eccessi di esportazione.
Non si sfugge all'impressione postuma che l'impianto delle relazioni economiche e monetarie internazionali uscito da Bretton Woods fosse già posizionato su un labile confine: una parziale restaurazione, nessuna rinuncia di principio al liberismo, un keynesismo circoscritto per guadagnare tempo.
* Sull'argomento vedi "Le MeFo di Hjalmar Schacht".