Miopia pericolosa
In
un tempo in cui sul proscenio sta lo scontro tra le politiche del
governo Renzi e l'opposizione della CGIL e della Fiom, da "Piazza
Grande", rubrica del Fatto Quotidiano,
il giovane economista Emanuale Ferragina ci invita a rigettare una
"miopia pericolosa". Secondo Ferragina non siamo più in
una società nell'età industriale: ostinandosi in questa finzione,
la sinistra si trasforma in una forza conservatrice, a spese della
"maggioranza invisibile". Che è poi il titolo del suo
libro di più recente pubblicazione.
"Per
sensibilizzare la maggioranza invisibile alla partecipazione sociale
e politica occorre distaccarsi dal dogma lavorista: ci impedisce di
vedere che le caratteristiche dei meno abbienti oggi sono diverse da
quelle della classe operaia fordista. La grande trasformazione ha
mandato in soffitta, nei paesi occidentali, l'organizzazione
produttiva fordista e la società di massa industriale. Oggi
attaccarsi a quel mondo è funzionale solo a difendere i privilegi
dei garantiti, a trasformare partiti e organizzazioni sociali 'di
sinistra' in agenti della conservazione."
Un nuovo welfare
A
fronte della grande trasformazione intervenuta nel tessuto sociale e
produttivo, secondo Ferragina, è necessario un nuovo welfare,
passando
dalla protezione del lavoratore alla promozione della produttività
sociale efficiente:
"L'unico
modo per dare maggiore sicurezza agli individui, in un contesto
economico così diverso da quello fordista, consiste nel costruire un
welfare universale e basato sui servizi. Un welfare che sappia fare
tre cose:
1.
Occuparsi dell'individuo nei momenti di transizione lavorativa.
(...);
2.
Occuparsi dell'individuo che abbia scarse competenze o non sia
comunque in condizioni di guadagnarsi il proprio sostentamento sul
mercato. (...)
3.
Occuparsi di tutti i cittadini, fornendo le prestazioni (oggi non
pienamente garantite nel paese) che rendono più agevole la vita
delle persone e permettono loro di accrescere la produttività
sociale. (...)"
Sull'obiettivo
redistributivo, per contrastare la crescente diseguaglianza sociale e
inglobare quella parte sinora misconosciuta, resa appunto invisibile,
c'è un vasto consenso con molte "sfumature".
Prima
di entrare nel merito delle idee di Ferragina in apparenza assai
nuove, assunte come stimolo al dibattito e non per sterile polemica,
vorrei fissare un punto. Penso sia necessaria
una profonda revisione del welfare
in
una duplice direzione estensiva: alla più amplia platea dei
lavoratori sottoccupati, semi-occupati, disoccupati, comprendendo le
false partite IVA, gli assunti e licenziati ad hoc (in Italia non c'è
il contratto a zero
hours
del tipo inglese, ma solo formalmente), intermittenti e tutta la
variegata giungla del precariato; verso i pensionati ai minimi o
quasi e verso tutto il lavoro non pagato, ma socialmente
indispensabile, oggi relegato al welfare
familiare.
Porto
un solo esempio. Dal punto di vista aziendale la cassa integrazione
ha un senso se temporanea e mantiene, con adeguata formazione, la
possibilità di reinserire una forza lavoro già preparata
all'attività specifica e da non ricostituire ogni volta che si
affronta una flessione di mercato o un passaggio organizzativo e
tecnologico. Dal punto di vista del lavoro, essa permette di non
perdere conoscenze professionali, abilità allenate, livelli di
contrattazione sindacale raggiunti, organizzazione di vita personale
e sociale. Con lo smembramento dei grandi complessi industriali, le
delocalizzazioni, la catena degli appalti e l'instabilità produttiva
insita nel comando finanziario del capitale, la cassa integrazione,
in molti casi, è diventata un sostitutivo della indennità di
disoccupazione solo per ex dipendenti di ex aziende al di sopra dei
fatidici 15 dipendenti. Ma essa è pagata dalla contribuzione dei
lavoratori e delle aziende: non è nella disponibilità della spesa
pubblica se non nella sua estensione "in deroga". Il
Governo può disporre di quest'ultima e destinare altrove i suoi
fondi, ma non dell'altra, come ha tenuto a ricordare Landini a uno
smemorato Alan Friedman nel corso di un talk-show.
Disagio e privilegio
Meno
convincente appare Ferragina allorché definisce quali soggetti
appartengano alla categoria dei garantiti e privilegiati da
combattere e quali alla "maggioranza invisibile", su cui
ricomporre un blocco sociale e politico capace di determinare il
cambiamento.
"La
maggioranza invisibile è costituita da cinque gruppi che vivono
forti condizioni di disagio economico e sociale:
1.
i disoccupati;
2.
i neet
(Not
engaged in Education, Employment or Training);
3.
i pensionati meno abbienti;
4.
i migranti;
5.
i precari.
Si tratta in tutto di 25 milioni di persone, a fronte dei 47 milioni di aventi diritto al voto e dei circa 34 milioni di votanti alle elezioni politiche del 2013."
Per
definire nel terzo gruppo, tra i 18,6 milioni di pensionati, i meno
abbienti, scrive: "Spendiamo infatti il 31% del budget dedicato
alle pensioni per pagare quelle sopra i 2000 euro (che sono circa 2
milioni), mentre solo il 33% di esso viene allocato per pagare gli
11,6 milioni di pensioni sotto i 1000 euro. Occorre aggiungere che
chi percepisce più di 2000 euro ha contribuito mediamente solo per
la metà di quanto riceve."
Più
precisamente: "Non si tratta ovviamente di far calare la scure
su chi percepisce 2000 euro al mese, ma di proporre una tassazione
proporzionale che parta da un piccolo importo, su chi riceve una
cifra di poco superiore (una tassazione del 2 o 3%), e salga in lodo
deciso su chi ha pensioni sopra i 5000 euro (oltre il 20%)."
Ora
non voglio indagare cosa si nasconda dietro quel "mediamente"
che ricorda tanto la media del pollo. Imporre una tassa progressiva
(oltre all'Irpef, suppongo) a partire da una certa soglia o
stabilire, per esempio, che si va in pensione a 60 anni con max 5000
euro lordi mensili (proposta di Beppe Grillo) non sono soluzioni
tanto diverse, almeno nello spirito di riduzione del disagio e delle
diseguaglianze (e per fare spazio ai giovani). È nella sua
giustificazione che sorge il problema. Ferragina motiva la propria
proposta a partire da un'ideale linea di confine, tracciata tra non
garantiti e garantiti a tre livelli, rispettivamente: sotto i 1000;
tra i 1000 e i 2000; sopra i 2000; sopra i 5000. E lo fa servendosi
della matematica previdenziale a capitalizzazione, per giunta
evocando ricalcoli a ritroso.
Vanno
colpite solo le pensioni d'oro (che sono numerose e pesano
fortemente) o con esse anche quelle fasce sopra citate?
Inoltre,
se dovessimo considerare l'esempio prima accennato, a quale blocco
ascrivere i cassintegrati? Essendo da un lato privilegiati rispetto a
chi, disoccupato come loro, nulla percepisce, e dall'altro condannati
alla sopravvivenza assistita e frustrata, ho qualche dubbio: forse
alla speciale e novella categoria dei "garantiti sfigati"?
Assimilare il cassintegrato al privilegiato apparirebbe più un
dileggio neoliberista che la raffigurazione della realtà.
Quando
rappresenta l'intera massa dei lavoratori dipendenti a tempo
indeterminato, pubblici e privati, come garantiti rispetto alla
maggioranza invisibile, dai già descritti labili contorni,
l'impianto narrativo di Ferragina non è per nulla convincente.
In
particolare non lo è sulla classe operaia, passata dai peana
operaisti sulla sua centralità, dopo un interminabile fuoco di fila
sulla sua supposta estinzione, ad una sostanziale invisibilità.
Invisibile quanto la maggioranza invisibile. E non mi riferisco solo
alla working class industriale, ma anche a quella degli
ospedali e di molti servizi pubblici socialmente essenziali. Non
dimenticando la massa degli insegnanti della scuola pubblica, pagati
poco come gli operai, e ridotti al silenzio perché privilegiati se
dopo anni di precariato arrivano al ruolo.
Per
non tediare trascuro di addentrarmi nella ricostruzione storica di
questi ultimi decenni, che Ferragina chiama grande trasformazione
richiamandosi a Karl Polany, ampiamente ricalcando una vasta
letteratura analitica già disponibile sulla crisi. Lo faccio
altrove. Mi preme, invece, richiamare l'attenzione sulla teoria dei
tre blocchi di Ferragina che, detta fuori dai denti, mi pare un
incredibile assist ideologico e politico alle tendenze che
Ferragina stesso intende combattere.
Tre blocchi?
Palesemente
la maggioranza invisibile si è espressa anche sul piano elettorale
votando massicciamente il MoVimento 5 Stelle. Pertanto, secondo
Ferragina, occorre darle sostanza progettuale e forza egemonica
(M5S è subissato da intellettuali che si propongono la sua
"maturazione"). Allo scopo dovrebbe servire la teoria per
cui alla maggioranza invisibile si oppongono in modo antagonistico il
blocco dei neoliberisti e quello dei garantiti. "I neoliberisti
vogliono ridurre lo stato sociale ed estendere il loro mantra a quasi
tutti gli aspetti della società. Tale prospettiva ideologica, pur
non essendo rappresentata pienamente da nessun partito, ha trovato
terreno fertile grazie al contesto internazionale e al parziale
sostegno delle forze di governo (di centrodestra come di
centrosinistra), ma è stata frenata dalla forze dei garantiti.
Questi ultimi, che hanno difeso a spada tratta le concessioni
ottenute durante l'epoca fordista, sono capaci di ancorarsi allo
status quo e farsi rappresentare da partiti e sindacati."
Da qui l'invito rivolto alla sinistra a rigettare la miopia
pericolosa, citata all'inizio.
Accanto
all'errore essenziale di catalogare come garantito e privilegiato
tutto il lavoro dipendente, salariato
e stipendiato, privato e pubblico, a tempo indeterminato (nonché le
sue pensioni) Farragina ne inanella un altro: che la sinistra
politica e sindacale lo abbia sostanzialmente difeso in questi ultimi
decenni.
De sinistra
La
sinistra in questione, messa sotto accusa da Ferragina, sa bene di
non essere più in un'economia industriale ma di prevalenti servizi;
sa altrettanto bene che il modello fordista
è superato: ha partecipato fattivamente alla sua trasformazione,
tanto da condividere la globalizzazione neoliberista, i processi di
finanziarizzazione e le connesse ristrutturazioni produttive. Ha
condiviso l'austerity
ante litteram
della fine degli anni '70 e lo straordinario indebitamento dello
Stato a favore delle banche.
Per non parlare della moneta unica e dei trattati europei.
Tanta
acqua è passata sotto i ponti e molti studiosi non mainstream
scrivono di social-liberismo per tratteggiare una labile distinzione
dalla destra liberal-liberista. Per quale ragione, sennò, l'opinione
pubblica sarebbe spinta a ritenere obsoleto il tradizionale
appellativo "destra" e "sinistra"? Non mi
persuade l'idea che ciò avvenga perché quest'ultima ha dimenticato
la maggioranza invisibile a favore del lavoro fordista. Le sue èlites
hanno collaborato a penalizzarli entrambi, in un quadro di gerarchie
del lavoro, questo sì, di differenziazione funzionale alla loro
divisione e neutralizzazione. Un divide
et impera,
tradotto in "dividi e sfrutta", del quale si dovrebbe avere
conoscenza. In tal senso si è fatta forza di governo e in tal senso
ha governato. Che oggi, di fronte al prorompere del renzismo, alla
gestazione del quale ha ampiamente contribuito, faccia appello alla
mobilitazione sindacale e accenni a timide opposizioni in sede
parlamentare, fa parte di un gioco già giocato in altre occasioni.
Di contro, le manifestazioni di migliaia di lavoratori e di
licenziati non possono certo essere catalogate come difesa del
privilegio dei garantiti. E neppure le scollature interne alla CGIL
con la FIOM rinvigorita di Landini
devono venire sottovalutate. Di fronte abbiamo non i residui del
fordismo, ma la crisi di una importante parte del manifatturiero che
lo ha soppiantato: filiere, distretti, aree in cui tutti erano
diventati imprenditori anche di se stessi e l'ideologia
individualista del neoliberismo spadroneggiava.
Il fordista scomparso
"Quando
parlate con un garantito o un neoliberista dei problemi della
maggioranza invisibile, egli vi risponderà che «bisogna creare
lavoro per quei poveretti»; oppure che «devono smetterla di
piangersi addosso e cercare un impiego». Entrambe le posizioni (...)
sono anacronistiche."
Si
sa che il neoliberista ritiene che, comunque, occorra accettare di
lavorare dentro al mercato in cambio di qualsiasi salario, salvo
invocare integrazioni statali (fuori mercato) se esso non garantisce
il minimo di sopravvivenza.
Ma l'espediente retorico non regge se si mettono a confronto capre e
cavoli. Dovrebbe Ferragina dirci cosa potrebbe rispondere non una
figura sociale, il garantito, ma il supposto alter
ego
del neoliberista: il fordista, secondo il suo linguaggio. Semmai lo
trovasse. E dove sta mai un fordista in tutto il centro-sinistra?
Vedo solo social-liberisti ad egemonizzare la recente storia del PD e
dei suoi predecessori-fondatori. E Civati, al cui programma Ferragina
a suo tempo ha collaborato pur non credendo affatto "in questo
PD", in base a quale misunderstanding
si trovava alla prima Leopolda insieme a Renzi? Miopia?
Una visione in primis
orizzontale
Se
i già ricchi sono diventati più ricchi a discapito di tutto il
lavoro, sia dipendente che autonomo, è una questione di lotta di
classe, subita dai perdenti e praticata vigorosamente dai vincitori.
In tale dinamica va vista la straordinaria polarizzazione della
ricchezza.
Se non assumiamo la divisione sociale nella sua stratificazione, nel
concreto svolgersi dei rapporti non solo di distribuzione ma pure di
produzione, rischiamo di dividerla in primis orizzontalmente,
come in età medioevale si ripartiva per funzioni: oratores,
bellatores e laboratores.
Come se anche nei marmi delle chiese
non sia rimasta scolpita una sostanziale differenza, tra lavoro
manuale e non, ben presente alla coscienza del popolo laboratores
anche all'inizio dello scorso
millennio.
Attualmente
l'approccio mainstream accomuna tutti come lavoratori,
dipendenti e imprenditori, salariati e top managers, quasi
fossero la stessa cosa. E chi vede interessi diversi (e diverse
comunità di destino) diventa automaticamente partigiano della
rottura contro la coesione
di-cui-l'Italia-ha-bisogno-per-uscire-dalla-crisi. Perché, allora,
non mettere sullo stesso piano tutti come "garantiti"?
Dalla
contrapposizione tra "garantiti" e "non garantiti"
ne consegue una strategia che ha già (qualcuno ricorda Antonio
Negri?) portato danni e, se reiterata, ne farebbe di ulteriori e
peggiori: contrapporli risponde perfettamente alla logica renziana.
La fenditura
Quando
Renzi ha basato la recente campagna elettorale sugli 80 euro, molti
non hanno capito che stava perseguendo un obiettivo: separare i
garantiti dalla maggioranza invisibile. Si è trattato di una mancia
elettorale? Eppure ha funzionato rispetto a molti pensionati, tuttora
in attesa che la promessa di esserne beneficiari sia mantenuta,
perché il loro mondo di riferimento rimane quello del lavoro
dipendente da cui provengono. Non a caso costituiscono gran parte
degli iscritti a CGIL-CISL-UIL.
Attenti
perché, in linea con questa impostazione, al jobs act seguirà
altro, magari andando a colpire le pensioni superiori alla pura
sussistenza, sulla scia della riforma Fornero.
Già se ne discute, mentre si preservano pervicacemente i famosi
diritti acquisiti,
pensioni d'oro comprese, sia della "casta" burocratica,
militare e politica, sia dei managers dell'area privata,
nonostante il loro fondo pensioni fosse in rosso. E seguendo
questa fenditura non si andrà certo nel senso auspicato di un nuovo
e più ampio welfare sociale. Tanto per restare sull'esempio
della cassa integrazione, mentre si abolisce quella "in deroga",
i risparmi ottenuti e promessi ai disoccupati anche precari
spariscono nei meandri della legge di stabilità.
Con i piedi per terra
D'altro
canto, come accennato, la
crisi ha messo a nudo le crepe del sistema industriale e commerciale
che ha soppiantato quello fordista, in particolare una parte delle
filiere e dei distretti industriali (per circa un quarto di tutto il
comparto manifatturiero), nonché molte piccole imprese di servizio e
commercio, con conseguenti desertificazioni ampie e localizzate. Nei
relativi spazi lasciati aperti dalla scomparsa dei tradizionali
riferimenti di "destra" e "sinistra" cercano di
approfittare vari raggruppamenti di tipo xenofobo, razzista e
neofascista. Una proposta politica di radicale cambiamento non può
lasciare senza risposte anche questi "territori" e le loro
popolazioni. Percepirsi come vittime della crisi e del modello
neoliberista potrebbe indurre ad aderire ad identità etniche,
regionali, di patrie piccole e grandi, nonché alle culture di
esclusione, innanzitutto verso gli immigrati.
In
aggiunta, poiché
è risaputo che l'industrialismo fordista fu intimamente legato al
consumo di massa di beni durevoli, occorre capire come si possa
mantenere l'uno avendo smantellato l'altro. Alla radice della crisi
c'è anche questa contraddizione. Negli anni della
deindustrializzazione occidentale e del risorgente predominio della
finanza, quel consumismo si è mantenuto grazie al debito interno e
internazionale, nonché allo sfruttamento di chi dai Paesi emergenti
quei prodotti, sia manifatturieri che agricoli, continuava a fornirli
al mondo post-industriale, al quale non si poteva chiedere di
cambiare way of life,
stile di vita (di
consumo) senza creare ingovernabilità.
Oltre alla distribuzione del
reddito ci sono oligarchie e rapporti di produzione, a cui il
concetto gramsciano di egemonia non è certo estraneo. Sicché
occorre metter mano alla ricomposizione delle alleanze sociali
attraverso la politica e la cultura con idee-forza capaci di fondarne
l'unità pratica, a partire dai movimenti reali e dai loro portati,
prima ancora del variabile computo del loro potenziale elettorale ed
istituzionale.
Soffitte e rottamazioni
Per
concludere un consiglio non richiesto: attenti alle soffitte, alle
pattumiere, alla irreversibilità assoluta delle grandi
trasformazioni
e alle rottamazioni.
Può
capitare che in nome della "rottamazione" di vecchie
gerarchie di potere, si rottami solo quanto basta per far largo ai
giovani dandies
della Leopolda, fiancheggiati dai giovanotti Napolitano e De
Benedetti, e cercare di riformare la Costituzione, in accordo
scricchiolante col giovin gandula
Berlusconi. Può capitare che dalle "pattumiere della storia"
rinascano vigorosi liberal-liberismi, al pari del capitalismo dato
frettolosamente e presuntuosamente per spacciato. Può capitare che
"grandi trasformazioni" reputate irreversibili non si
dimostrino affatto tali, magari soppiantate da un risorto e rinnovato
dominio della finanza in forme tali da pensarsi a sua volta
irreversibile. Può capitare pure che dai polverosi "soffitti"
in cui erano stati relegati, si sia poi costretti a riportare ai
piani abitati antichi maestri per (almeno) cominciare a capire
un'inaspettata crisi, proprio quando la storia era finita. Miopie?