mercoledì 22 aprile 2020

Se fosse una guerra

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Lotta al coronavirus







Se fosse una guerra...
Quando ci siamo resi conto che dovevamo combatterla, il nemico si era già infiltrato tra di noi, nella nostra società, dentro la nostra vita di ogni giorno. Si era portato in strategico vantaggio, prima che potessimo gridare l'allerta. Ci colse impreparati e fece strage dei più inermi ed indifesi, portatori della nostra memoria. Avevamo smantellato la più umana e necessaria delle nostre difese.
Se fosse una guerra...
A sorpresa, per insinuarsi tra noi scelse il fianco in apparenza più forte, in realtà meno resistente: la terra di Lombardia, luogo di grandi scambi e flussi, di merci e denaro, di uomini e donne, attenta più ai primi che ai secondi. Quale varco migliore per penetrare e poi mimetizzarsi?
Ignara della incombente guerra asimmetrica, dal suo celeste Palazzo, tra i grattacieli della Capitale Morale, era stata dichiarata obsoleta ogni difesa partigiana e svuotati i punti di guardia dislocati sul territorio sociale. Le sparse sentinelle, negli avamposti della sicurezza comune, ridotte con sicumera a passar carte o congedate. Imboscato lassù, il Comando Regionale aveva concentrate le migliori forze in caserme di supposta eccellenza, attorniate da vigilanza privata, restringendo all'indispensabile, creduto efficace, le truppe operative di graduati e soldati, pagati però con scarso soldo.
In quelle caserme penetrò il nemico dalle porte principali, senza neanche sparare, tanto le prime linee erano inavvertite. Poi da lì poté dilagare tra le corsie, le vie e le città, seminando morti e feriti. Il conto a migliaia non cessa.
Alla notizia delle prime stragi, i colonnelli felloni prima fecero spallucce, poi si misero a gara nel chiamare all'adunata generale, nascondendo la loro criminale inazione dietro buone parole sull'eroica lotta di chi, mandato allo sbaraglio, combatteva strenuamente nelle improvvisate trincee.
Se fosse una guerra...
Il Quartier Generale nella Capitale nazionale, pur avvertito del pericolo, si accorse di non disporre neanche delle indispensabili informazioni per capire che fare. La Nazione era stata privata di adeguate difese da tutti i governi della seconda Repubblica. E quelle residue erano state affidato ai Comandi Regionali. Ognuno per sé, compresi i servizi d'intelligence, incomunicanti tra loro e scollegati dal centro.
I pur predisposti piani d'emergenza si rivelarono lettera morta.
Ciascun Comando Regionale andava per proprio conto, senza una comune strategia. Dopo qualche cannonata su bersagli ristretti, dipinti di rosso allarmante, non rimaneva che chiamare all'estrema difesa di popolo: tutti barricati in casa! A guardia di se stessi.
Se fosse una guerra...
Pensavamo di vivere in pace, tante monadi, individui tuttalpiù famiglie, non una società benché divisa e divergente, né una comunità nazionale. Per le lontane guerre altrui solidali un tantino, ma solo da volonterose persone, umanamente ben disposte all'obolo pietoso e più raramente al vero soccorso che l'impegno politico della solidarietà reclama.
Subivamo il sacrificio della colpa, di essere maiali (ma in acronimo inglese), mediterranei spendaccioni e goderecci. Sebbene maltrattati eravamo nell'Europa fiduciosi, sicché abbiamo sguarnito le forze armate della nostra salute.
A cosa serviva?
Predicavano l'Europa ed il Mondo: meglio il superfluo privato consumo del necessario pubblico benessere.

Andrà tutto bene?
Nessun sopravvissuto potrà dirsi vincitore, se non trarrà insegnamento dall'amara esperienza delle vite perdute.

venerdì 17 aprile 2020

Coronabond o Italexit?

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In Europa era già in viaggio una recessione quando la pandemia è subentrata in modo prorompente, sovrapponendosi ad essa. Ora incombe il pericolo di una depressione, dalle dure conseguenze economiche e sociali, in particolare per il nostro Paese.

L'antecedente fenomeno recessivo, riconducibile a cause “interne”, è passato in secondo piano sino a venire dimenticato. Di contro il coronavirus viene sbrigativamente catalogato come un fenomeno “esterno”, “naturale”, estraneo alla base agro-alimentare del modello economico dominante.

In fase di ricostruzione queste “dimenticanze” ed errate attribuzioni potrebbero pesare negativamente sulle scelte.
Nell'immediato tutto pare addensarsi sul dilemma se l'Europa emetterà o meno i famosi coronabond, cioè titoli europei per l'emergenza, con creazione di debito indistintamente condiviso dagli Stati membri.
Il premier italiano Conte ne ha fatto la cartina tornasole della volontà politica dei Paesi core – Germania e suoi alleati - di costruire veramente l'Europa o, invece, di segnarne virtualmente la fine. Ha posto la scelta sul piano dell'imperativo morale nel momento del bisogno, al cui cospetto sottrarsi al dovere della solidarietà invaliderebbe ogni fondamento dell'Unione. Non ha espressamente minacciato la Italexit, ma quel “faremo da soli” in caso di diniego può lasciarlo intendere.
Subito dopo l'ultimo vertice intergovernativo ed in attesa della prossima riunione del Consiglio europeo, il 23 aprile - durante il quale si dovrà prendere una qualche decisione in merito sia sull'accordo raggiunto dai ministri delle finanze (Eurogruppo) sia sui coronabond -, la scontro politico si è inasprito.
Lega e Fd'I hanno gridato al tradimento nazionale, perché all'Eurogruppo il governo avrebbe accettato di attivare il Fondo salva-Stati (MES). Conte ha reagito sia negando di aver mai sottoscritto impegni in tal senso, sia accusando i suoi accusatori di essere responsabili del MES oggi in vigore, elaborato ed accettato dal governo Berlusconi di cui erano parte integrante. Fatto poi pubblicamente confermato dal suo immediato successore a capo del governo, Mario Monti, in un'intervista al Corriere della Sera.
Ne è seguito un parapiglia mediatico in cui Salvini e Meloni, supposte vittime di un agguato televisivo, hanno cercato di annegare le loro compromissioni.
Sennonché proprio le successive dichiarazioni di Silvio Berlusconi, favorevole al MES soft - che sarebbe privo delle condizioni imposte alla Grecia - hanno indirettamente convalidato la versione di Conte, schierando una componente della coalizione di destra a difesa delle strumentazioni e dei meccanismi di debito attualmente in vigore nella zona euro e nell'Unione.
Mentre Crimi ribadiva l'avversione del M5S al MES sotto qualsiasi forma, giacché comunque il suo credito è sottoposto alle regole capestro fissate dai Trattati, Renzi Prodi e Zingaretti, in sintonia con Berlusconi, si sono detti favorevoli alla sua versione soft. Conti ha sedato la evidente lite in seno al governo, rimandando ogni valutazione sul MES a come verrà in concreto riproposto in sede europea.
Eppure, perché difendere questo meccanismo la cui sola evocazione a fatto innalzare lo spread?
La domanda può avere una sola risposta: vorrebbero ci preparassimo ad accettare una qualche mediazione come il minore dei mali, per scongiurare una frattura nell'Unione che farebbe un favore solo agli opposti “sovranismi” e “populismi”. In buona sostanza: l'Italia dovrebbe accontentarsi di quel che passa il convento e farselo bastare, evitando di “fare da sola”.
Decisamente contrari a firmare l'accordo raggiunto dall'Eurogruppo, si sono invece detti 101 economisti,[1]1 tra i quali Jean-Paul Fitoussi, i quali, peraltro, citano le recenti prese di posizione di Mario Draghi.
«L’eccezionalità delle circostanze dovrebbe far prendere in esame provvedimenti eccezionali, che dovrebbero avere almeno due caratteristiche essenziali: - essere attivabili in tempi il più possibile brevi; - ridurre al minimo possibile l’aumento dell’indebitamento degli Stati, già destinato inevitabilmente a crescere per finanziare gli interventi indifferibili per ridurre i danni della crisi.
La sola opzione che risponda a questi due requisiti è il finanziamento monetario di una parte rilevante delle spese necessarie da parte della Banca centrale europea. Si tratta di una opzione esplicitamente vietata dai Trattati europei. (...)»
In mancanza di una sospensione dei Trattati, legalmente possibile, e dell'affidamento alla Bce del finanziamento monetario : «la strada meno dannosa sarebbe quella di dare seguito a ciò che il presidente del Consiglio Giuseppe Conte ha detto di recente: per questa emergenza, “Faremo da soli”.»
Come si vede, non è solo questione di coronabond o eurobond, ma di “stampare” moneta per quanto necessario, imitando ciò che già fanno, o si apprestano a fare, le banche centrali degli Stati Uniti, del Giappone e del Regno Unito. [2]2
In caso di rifiuto, fare da soli è il minore dei mali.
Ma fare da soli è possibile senza Italexit?
Note
1Ue, l’accordo all’anno zero”, appello del 14 aprile, pubblicato da MicroMega.net.
2 Osservazione: poiché l'Ue non è uno Stato federale, la “nuova” Bce a quale governo corrisponderebbe?

martedì 14 aprile 2020

Il Draghi che non ti aspetti

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(e quello che potrai aspettarti da lui)

Lo scorso 26 marzo Mario Draghi, ex governatore della Banca centrale europea, ha scritto[1] che l'impatto della pandemia da coronavirus è paragonabile ad una guerra e come tale vanno affrontate le sue conseguenze.
Con aziende prive di ricavi e conseguenti licenziamenti, stiamo andando incontro ad una profonda recessione che, in mancanza di adeguate e tempestive azioni, può trasformarsi in prolungata depressione con danni irrimediabili.
Pertanto: «Già adesso è chiaro che la risposta che dovremo dare a questa crisi dovrà comportare un significativo aumento del debito pubblico. (…) Livelli di debito pubblico molto più elevati diventeranno una caratteristica permanente delle nostre economie e andranno di pari passo con misure di cancellazione del debito privato.»[2]2
Adesso è chiaro”: se prima della “guerra” il debito pubblico era il problema, ora è la soluzione!
Davvero un bel rovesciamento politico per un uomo che, al pari dei dirigenti apicali in istituzioni bancarie “indipendenti”, dissimula il suo vero ruolo dietro la “tecnica”.
Cooptato nelle ristrette élites che governano la finanza occidentale, da posizioni elevate ha condiviso, e gestito in prima persona, scelte storiche devastanti di politica economica, sul piano sociale e su quello nazionale italiano. Al contempo, ciò non gli ha impedito di continuare ad ammonire, sempre da “tecnico”, che queste ultime avrebbero comportato sicure ricadute sulla società, alle quali i governi “democraticamente eletti” dovevano ovviare.
Poiché dichiara di appartenere all'area di pensiero del socialismo liberale, verrebbe da dire: liberale quando sceglie ed agisce; socialista quando avverte e sollecita l'azione altrui.
Ma è, forse, nella devozione a Sant'Ignazio di Loyola la chiave migliore per comprendere la sua morale.


Mario Draghi
Roma, 1947

1970 Si laurea alla Sapienza con una tesi su Integrazione economica e variazione dei tassi di cambio, in cui sosteneva che, criticando il piano Werner, non sussistevano le condizioni per una moneta unica europea.
1971 Entra al Massachusetts Institute of Technology dove, nel 1977, consegue il dottorato di ricerca.
1975 Inizia la carriera accademica. In varie università insegna macroeconomia, politica monetaria e finanziaria.
1983 Come consigliere del ministro del Tesoro G. Goria, inizia la carriera di “tecnico” in politica,.
1984-1990 Direttore esecutivo della Banca Mondiale.
1991-2001 Chiamato da G. Carli su suggerimento di C.A. Ciampi, è direttore generale del ministero del Tesoro.
1992 In quella veste interviene sul panfilo Britannia alla riunione del Gotha della finanza internazionale, sulle privatizzazioni italiane in via di attuazione.
1998 La nuova normativa in materia di mercati e finanza, varata con il DL n. 58, è chiamata legge Draghi.
2002 Entra in Goldman Sachs come Vice Chairman e Managing Director. Dal 2004 al 2005 è membro del Comitato esecutivo del Gruppo.
2005-2011 Governatore della Banca d'Italia.
Favorisce le fusioni tra banche. Temi preferiti nei suoi annuali discorsi:
«riduzione delle tasse, riduzione del debito pubblico, taglio delle spese correnti, aumento degli investimenti, riforma della previdenza (2007); freno all'inflazione, riforma del mercato del lavoro, riforma del risparmio gestito, abolizione del massimo scoperto (2008); sostegno ai redditi e agli ammortizzatori sociali, innalzamento dell'età pensionabile, sostegno alle imprese da parte delle banche (2009). Forte richiamo al dovere di modernizzare la scuola, contenuto specialmente nelle 23 considerazioni del 2007. Nel discorso del 2008 ha messo in evidenza lo scarto di produttività tra il Mezzogiorno e il Nord Italia.»*
2006-2011 Presidente del Financial Stability Board, Vice Chairman of the Board of Governors del Federal Reserve System.
2011-2019 Governatore della Banca centrale europea. Celebre l'annuncio del 26 luglio 2012 che la Bce farà tutto il possibile per salvare l'euro (Whatever it takes). Il 22 gennaio 2015 avvia il Quantitative easing.
È cattolico devoto a Sant'Ignazio di Loyola e dice di appartenere all'area di pensiero socialista liberale.

Sul Britannia
In qualità di “tecnico”, allora Direttore del Tesoro italiano, il 2 giugno del 1992 intervenne al Gotha della finanza internazionale, riunitosi sullo yacht Britannia per discutere della privatizzazione delle nostre maggiori imprese pubbliche.
  
Considerando un progresso la «vendita di alcune banche possedute dallo Stato», grazie a Guido Carli, sposava le privatizzazioni per migliorare il rapporto debito/Pil:
«Gli incassi delle privatizzazioni dovrebbero andare alla riduzione del debito, non alla riduzione del deficit.
Quando un governo vende un asset profittevole, perde tutti i dividendi futuri, ma può ridurre il suo debito complessivo e il servizio del debito[3]3
In seguito non avemmo riduzioni né del debito né degli interessi sul debito, ma non si può dire che lui non ci avesse avvertito: privatizzando le aziende profittevoli, perdevamo i derivanti dividendi. Come ci aveva avvertito su un'altra opportunità offerta dalle privatizzazioni, andata poi persa, quella di potenziare «l'efficienza e le dimensioni dei nostri mercati interni».
Nel mentre asseriva che le privatizzazioni avrebbero comportato un aumento della produttività e benefici per l'aumentata concorrenza, supponeva che la connessa necessaria deregolamentazione avrebbe indebolito la «capacità del governo di perseguire alcuni obiettivi non di mercato, come la riduzione della disoccupazione e la promozione dello sviluppo regionale».[4]4
La produttività non crebbe e l'aumentata concorrenza si svolse per le imprese italiane in condizioni non paritaria a nostro nazionale discapito, mentre la deregolamentazione si abbatteva feroce tanto sui lavoratori quanto sulle distanze regionali (Meridione). Non furono approntati nuovi e corposi strumenti “non di mercato”? Non si può dire che Draghi non ci avesse ammonito di quanto fossero necessari.
Cotanto “tecnico” non poteva ignorare il destino al quale il trattato di Maastricht[5]5 e l'adesione alla moneta unica ci avrebbe condannato: la permanente deflazione salariale interna, non potendo più ricorrere alla fluttuazione esterna del cambio della lira. Tanto più che si era laureato - relatore Federico Caffé[6]6 -, con una tesi critica verso il piano Werner di introduzione della moneta unica europea.
Tuttavia, la sua principale preoccupazione fu rivolta al piano italiano di riduzione del rapporto debito/Pil, la cui “credibilità” doveva rassicurare gli investitori internazionali, molti dei quali presenti proprio sul Britannia. Credibilità per la quale poi, in qualità di governatore della Banca d'Italia, si spese, in direzione delle “riforme strutturali” di stampo liberista, suo chiodo fisso.
D'altro canto, ha sempre animato di buone intenzioni l'inferno pratico di quanto concorreva a realizzare. Come quando, nelle sue annuali prolusioni da palazzo Koch, ammoniva a non trascurare ammortizzatori sociali sostitutivi, l'importanza della scuola e quant'altro.
Credibilità finanziaria
L'assillo della “credibilità” verso i mercati finanziari, i creditori o supposti tali nelle cui mani è stata consegnata l'Italia, sembra ancora dominare le menti dei nostri “tecnici” alla guida delle istituzioni europee. Dario Scannapieco, attuale primo vicepresidente della Banca europea per gli investimenti (Bei), è tra questi.
Pochi giorni dopo l'articolo di Draghi, in un'intervista al Corriere, Scannapieco difende l'armamentario di cui dispone oggi l'Unione europea per far fronte alla crisi economica e di liquidità delle imprese, generata dal crollo della domanda. A proposito della “guerra” in corso afferma:
«Ci troveremo infatti con un elevato rapporto debito/Pil: elevato ma gestibile se si riuscirà ad accelerare il passo della crescita del Paese e conseguire un adeguato surplus primario. Occorre fare riforme — anche costituzionali — che rendano l’Italia un Paese moderno (...)».[7]7
Scannapieco è ancora fermo sulle vecchie posizioni e ripropone le consunte ricette austere dell'Unione. Immagina di continuare a perseguire un saldo primario che, per inciso, è dato dalla differenza tra entrate e spese al netto degli interessi. [Per maggiore chiarezza, vedi grafico in pagina.] Come se per anni i vari governi non l'avessero “virtuosamente” conseguito - tagliando pesantemente anche la sanità -, con il risultato finale di peggiorare il rapporto debito/Pil.
Che dire poi delle invocate riforme costituzionali, saggiamente respinte dal popolo italiano quando ha potuto dire la sua?
Senza minimamente fare i conti con i risultati delle politiche sin qui seguite, il numero due della Bei aggiunge:
«L’Italia si troverà un po’ come un’azienda che per raccogliere risorse dai finanziatori deve presentare un business plan ambizioso ma credibile. Servono 4 ingredienti, tutti che iniziano con la C: competenze, coordinamento, concretezza e, appunto, credibilità.»[8]8
Continuando a considerare il Paese alla stregua di un'azienda, l'Italia per ottenere denaro deve dimostrarsi affidabile e solvibile ad insindacabile giudizio dei mercati finanziari e, qualora non fosse ritenuta sufficientemente “credibile”, subirne le sanzioni via spread.
Draghi, invece, sostiene ora che il denaro lo possono “stampare” le banche, coperte dallo Stato. Evidentemente nell'establishment si confrontano due linee. Vale la pena di capire meglio in cosa consista quella nuova di Draghi e cosa possiamo attenderci da essa (e dallo stesso Draghi).
Dominus bancario
Riprendiamo il filo del discorso dell'ex governatore della Banca centrale europea, sullo stato in cui ci ritroviamo:
«Il ruolo dello Stato è proprio quello di usare il bilancio per proteggere i cittadini e l’economia dagli shock di cui il settore privato non è responsabile e che non può assorbire. Gli Stati lo hanno sempre fatto durante le emergenze nazionali. Le guerre – il precedente più rilevante – sono state finanziate con l’aumento del debito pubblico. (…)
La questione fondamentale non è se, ma in che modo lo Stato possa fare buon uso del suo bilancio.»[9]9
Che il settore privato non sia responsabile degli shock (delle guerre ed anche di questa “guerra”[10]10) è cosa quantomeno discutibile. Ma questa affermazione, scontata per un membro dell'élite del capitalismo globale (deboluccio in storia), gli serve per andare al nocciolo:
«Le banche, in particolare, si espandono in ogni angolo del sistema economico e possono creare denaro istantaneamente, consentendo lo scoperto o aprendo linee di credito.
Per questo le banche devono cominciare rapidamente a prestare fondi a costo zero alle aziende disposte a salvare posti di lavoro, e poiché in questo modo diventano di fatto un veicolo di politiche pubbliche, il capitale di cui hanno bisogno per svolgere questa attività deve essere fornito dai governi, sotto forma di garanzie statali su ogni ulteriore concessione di linea di credito o di prestiti.»[11]11
Crear” danaro le banche lo possono già fare (e lo fanno), sicché allo Stato va assegnato il ruolo di garante del loro operato, anche quando cancellano il debito alle imprese, divenute insolventi perché hanno mantenuto in attività il loro personale. Zero interessi per le imprese - creano posti di lavoro e non hanno colpa della recessione – e, in ogni caso, rischio zero per le banche. Benché private, svolgerebbero, bontà loro, un “servizio sociale” al pari delle imprese private che non licenziano e/o creano occupazione.
In buona sostanza, non potendo più contare sulla base fiscale, lo Stato fa grande debito pubblico e conferisce alle banche private la sua gestione.
Sennonché l'Italia non è libera nel mondo, sovrana della propria moneta e di come governare il proprio debito. È nella zona euro e nell'Unione europea. Sebbene, per Draghi, l'Europa sia «ben attrezzata per affrontare questa crisi straordinaria»,[12]12 ciò nonostante litiga ferocemente sul da farsi. E Mario Draghi ne conosce benissimo i motivi, avendo avuto a che fare con i banchieri tedeschi al tempo del Quantitative easing, quand'era a capo della Bce.
Anche allora “stampò” denaro per darli alle banche ed il governo tedesco non si oppose più di tanto,[13]13 fermo restando che il debito seppur procrastinato non veniva mai condiviso, ma sempre posto in capo ad ogni singolo Stato membro.
Va ricordato, en passant, che il bazooka di Draghi ha sì salvato l'euro, ma la liquidità fluita nelle banche non ha risollevato l'economia reale dalla stagnazione e dalla recessione innescatasi prima ancora che arrivasse il coronavirus.

Monti ricorda che Draghi...
«L’umiliante esperienza fatta dalla Grecia con la troika, creata con il Fesf, [ndr. divenuto poi MES] fu tra le ragioni che mi indussero – quando nel novembre 2011 venni chiamato al governo dopo la caduta di Berlusconi, abbandonato dalla Lega, e dovendo rispettare le condizioni draconiane imposte da Trichet e Draghi nella lettera del 5 agosto, accettate dal governo Berlusconi per non perdere il sostegno della Bce ai titoli italiani – ad escludere la richiesta di aiuti, che avrebbe comportato la calata della troika su Roma, e a chiedere al Parlamento di approvare una dura manovra.
Non sarò certo io, perciò, a raccomandare a Conte di andare sotto le forche caudine di meccanismi preparati in Europa da un governo Berlusconi-Lega, che poi passò ad altri l’onere di evitare il default dell’Italia. Onere altissimo, anche perché la lettera Trichet-Draghi, accettata da Berlusconi, chiedeva al nostro Paese di raggiungere il pareggio strutturale del bilancio non nel 2014, traguardo fissato per tutti i Paesi dell’eurozona bensì, solo per noi, già nel 2013. E questo ormai i mercati si aspettavano, quando il nostro spread stava per toccare i 600 punti!»

Mie le evidenziazioni in giallo.
M. Monti, “Noi e l'Unione Europea: un altro passo avanti”, Corriere della Sera 11 aprile 2020.
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Qualora l'Italia continuasse a dover fare da sola, o per mancanza o per insufficienza di condivisione dei debiti da parte dell'Europa (eurobond), volendo evitare la china depressiva, il suo indebitamento “post-bellico” salirebbe alle stelle.
Non le rimarrebbe che uscire dall'euro, per poter gestire la crisi con una propria moneta ed una economia nazionale sottratta alla sistematica penalizzazione dovuta ad un sistema europeo “asimmetrico”, strutturato a vantaggio dei Paesi core.
A quel punto s'imporrebbe una ulteriore scelta:
  1. o lasciar fare alle banche ed all'iniziativa privata, con lo Stato in posizione di garante subalterno, che, sganciato dall'Unione, dovrebbe per “affinità elettive” appoggiarsi al vecchio amico nord-americano ed al suo circuito finanziario;[14]14
  2. o ridare allo Stato nazionale un rinnovato ruolo di investitore, con un sistema bancario pubblico, un nuovo Istituto di Ricostruzione Industriale ed un Tesoro “rimaritato” alla propria Banca centrale d'emissione, appoggiato ad un circuito finanziario internazionale “multipolare”.[15]15
Consapevole del pericolo rappresentato dalla seconda opzione, che ridarebbe spazio e all'esercizio della sovranità nazionale e alle richieste delle classi subalterne, Mario Draghi si porta avanti: propone un cambiamento che riservi alla finanza privata un ruolo comunque dominante.
Su questa strada sembra disposto a lasciare al proprio destino, con la politica europeista della seconda Repubblica, anche il personale politico che l'ha condotta.
In fondo è l'insegnamento di Sant'Ignazio di Loyola, fondatore della Compagnia di Gesù e protagonista della Contro-riforma, a guidarne non la fede personale, ma la morale politica pubblica. È risaputo che ogni “contro-riforma” per avere successo deve incorporare alcuni tratti della “riforma”, torcendoli al proprio fine.

Note
1 M. Draghi, “Quella contro il Covid-19 è una guerra e dobbiamo muoverci di conseguenza”, Financial Times, 26 marzo 2020. https://www.ilfattoquotidiano.it/2020/03/26/coronavirus-lintervento-integrale-di-draghi-sul-ft-quella-contro-il-covid-19-e-una-guerra-e-dobbiamo-muoverci-di-conseguenza/5750551/
2 M. Draghi, Financial Times, ibidem.
3 M. Draghi, Discorso alla Conferenza sulle privatizzazioni tenutasi sullo yacht Britannia, 2 giugno 1992. https://appelloalpopolo.it/?p=55624.
4 M. Draghi, Discorso sul Britannia, ibidem.
5 Il Trattato di Maastricht era stato firmato il 7 febbraio del 1992, pochi mesi prima della riunione sul Britannia.
6 L'economista Federico Caffé (1914-1987) fu uno dei principali fautori in Italia del keynesismo, delle politiche di piena occupazione e dell'economia dal benessere.
7 D. Scannapieco: «Dalla Bei garanzie fino a 200 miliardi. E con la nostra tripla A finanzieremo gli Stati», intervista di Francesca Basso e Nicola Saldutti, Corriere della Sera, 6 aprile 2020.
8 D. Scannapieco, Corriere della Sera, ibidem.
9 M. Draghi, Financial Times, 26 marzo 2020, ibidem.
10 Vedi anche Rob Wallace, “Big Farms make Big Flu” https://monthlyreview.org/product/big_farms_make_big_flu/
11 M. Draghi, Financial Times, 26 marzo 2020, ibidem.
12 M. Draghi, Financial Times, 26 marzo 2020, ibidem.
13 Le banche tedesche e francesi sono protette da una Unione bancaria europea basata sui famosi “3 pilastri”, architettati a loro favore.
14 Draghi è stato nel board centrale di Goldman Sachs.
15 Il 9 aprile l'economista Luigi Zingales, per esempio, ha osservato che potremmo “allearci” con la Cina per meglio trattare con l'Europa. Opzione che rimarrebbe valida anche dopo un eventuale fallimento della trattativa.