Willy il coyote
corse
e cadute, nei crepacci
Euforia
a Wall Street. L'investimento in borsa migliore alternativa.
Supplementi
informativi per dissuadere da folli corse. Basteranno?
Anche
i rischi emigrano.
Sbilanci
commerciali e polarizzazione dei surplus
tra imprese e
Paesi.
Integrazioni
verticali e depressioni orizzontali, territoriali. I nostri
distretti.
Dicotomie
in Europa e negli USA.
Le
bolle della borsa e le dinamiche interne alla finanza possono
spiegare cadute e crolli. Ma ancor prima di essi sono i crepacci
nella economia sottostante, a cui contribuisce la logica finanziaria,
a creare le condizioni delle crisi storiche.
A
poco meno di dieci anni dall'ultimo grande crack, le principali
agenzie informative allontanano lo sguardo del vasto pubblico dalle
dicotomie strutturali che la globalizzazione ha recato con sé e, pur
piuttosto malmessa, continua a generare.
Preferiscono
diffondere “fiducia”.
Nonostante
le relazioni politiche tra gli Stati ne siano fortemente
condizionate.
Euforia
Big
Five
Siamo
di fronte ad una nuova bolla finanziaria, dal cui scoppio possono
derivare nuove pesanti conseguenze per tutto l'andamento economico?
Al
solito, a destare allarme è Wall Street.
«Anche
il massimo esperto di Bolle speculative, il Nobel per l'Economia
Robert Schiller, crede che i livelli attuali delle quotazioni siano
molto elevati: il loro rapporto con i profitti degli ultimi dieci
anni al netto dell'inflazione (Cape, cyclically adjusted
price-to-earning ratio) è 29 contro la media storica di 17.»1
Al
centro dell'attenzione sono i titoli tecnologici dei Big
Five
(Apple, Google, Microsoft, Amazon e Facebook), saliti del 21% da
inizio anno contro una media dell'8%.
«Robert
Schiller mette in guardia gli investitori: Apple e Google valgono
1.479 miliardi di dollari, più di tutte le banche e finanziarie
europee e giapponesi, pari a 1.310 miliardi di dollari.»
Google
(682 miliardi di dollari) ha raggiunto un valore azionario maggiore
dell'intera economia di Chicago (581), misurata in merci e servizi
prezzati in un anno. Similmente Amazon (479) supera l'area di
Washington, DC (454). Sembra di rivivere l'euforia che caratterizzò
i rialzi ed il successivo crollo dei dot.com, agli inizi degli anni
2000. Gli indizi sono molteplici. Colpisce tra tutti il dislivello
tra l'andamento della capitalizzazione di Borsa e quello della
economia reale.2
Questione
di tassi?
Di
fronte al pubblico del Cfa Institute a Philadelphia, tra Robert
Schiller e Jeremy Siegel, altro guru
nord-americano
della macro-economia, si è aperta una disputa. Per Siegel l'allarme
di Schiller è infondato: prendendo a riferimento un indice più
ampio ed inclusivo del reddito nazionale, nonché di tutti i prodotti
industriali (Nipa – National Income and Products Account), lo
scostamento tra andamento dei profitti e valutazioni di Borsa è
minimo. Escludendo l'imminenza dello scoppio di una bolla
speculativa, l'attesa di Schiller per i prossimi 10 anni è poco meno
dell'1% di guadagni al netto dell'inflazione, mentre secondo Siegel
la previsione si aggira attorno al 5%.
«Entrambi
sostengono, per ragioni differenti, che il futuro sarà
contrassegnato da bassi tassi di interesse, bassa inflazione e
moderata crescita. (…) Se questo è vero, allora l'investimento in
borsa rappresenterà per anni la migliore alternativa per allocare i
risparmi familiari ed aziendali.»3
In
altri termini, per questi ultimi sarà più conveniente andare verso
Wall Street piuttosto che verso Main
Street
(l'economia reale).
Borsa di Milano, scultura di Maurizio Cattelan |
Cosa
garantirà poi che le valutazioni di Borsa non salgano oltremisura,
fino a superare “troppo” anche l'indice più rappresentativo
dell'andamento economico? Cosa impedirà il dilatarsi di una bolla
speculativa, sino allo scoppio?
Al
contrario dell'ottimista Siegel, il pessimista Schiller avverte
segnali di pericolo e pensa che, adeguatamente informati, gli
investitori dovrebbero attenersi a criteri di maggiore “raziocinio”,
rinunciando a folli corse. In passato, richiami in tal senso non pare
abbiano sortito rimarchevoli effetti dissuasivi. Nel comportamento di
gruppo, spesso vissuto come individuale, sembra prevalere
immancabilmente prima l'euforia e poi il panico. I moniti lasciano il
tempo che trovano, in assenza di precise norme ed istituzioni
vincolanti.
Da
questo lato, praticamente nulla di nuovo è comparso sotto il cielo
dopo il 2007-2008. Nessuna novità perché, se Obama aveva introdotto
alcune blande limitazioni4
alla finanza speculativa, Trump agisce in senso contrario per
smantellarle.
Willy
informato
Scarsa
attenzione politica è data alla corsa finanziaria che come Willy il
coyote5
del celebre cartone animato, per inseguire la preda, prende velocità
sul terreno e, incurante dell'improvviso precipizio, prosegue
staccato nell'aria fin quando volge lo sguardo verso il basso e si
rende conto del vuoto sottostante. Solo allora precipita.
En
passant,
va ricordato che molta critica liberista al modello economico
sovietico pianificato si basò:
a)
sulla burocratica ed inadeguata informazione di cui poteva godere il
pianificatore centrale, fatto che lo induceva inevitabilmente in
errore;
b)
sull'insuperabile sistema informativo fornito dai prezzi di un libero
mercato, perciò posto in grado di autoregolarsi.
Gli
indicatori di pericolo, del tipo di quelli poc'anzi citati, tutto
sommato seguono questo credo auto-salvifico: mirano ad offrire una
tempestiva sintesi macro-economica, capace di fornire un supplemento
informativo, per orientare i comportamenti dei soggetti che agiscono
nel mercato, allo scopo di indurli ad autoregolarsi senza cadere
nella tentazione di facili guadagni. Ma, in assenza di una più
stringente repressione finanziaria governativa ed in presenza delle
convenienze immediate prospettate da Wall Street, sarà sufficiente
informare Willy il Coyote dei possibili crepacci che potrebbero
aprirsi sotto i suoi piedi, per dissuaderlo da intraprendere folli
corse?
D'altro
canto, in un sistema internazionale finanziariamente interdipendente,
non proprio rassicurante è la constatazione che il sistema bancario
ufficiale sia stato reso “più sicuro, snello e giusto”,6
perché i rischi possono essere migrati altrove. Nuovi pericoli
nascerebbero dall'eccesso di cash
in mano a nuovi attori fuori controllo, in specie dal proliferare
della finanza dell'hi-tech, come avverte l'economista Mohammed El
Erian.7
Benché
avvisato, Willy è solo “mezzo salvato”.
Precipizi
Se
spostiamo l'attenzione dalla corsa, più o meno folle, alla
sottostante economia reale ed all'eventuale aprirsi di precipizi,
senza disgiungere i due fenomeni possiamo ricavare un quadro più
completo della situazione. Anche sul piano politico.
Significativamente,
gli indicatori di Robert Schiller, allorché pongono a confronto le
valorizzazioni delle Big
Five
in Borsa con le economie di alcune aree statunitensi, evidenziano il
distacco ed il profilarsi dei vuoti.
Vuoti
interni che alimentano i persistenti disavanzi commerciali esteri
della superpotenza, cruccio di Donald Trump.
Barack
Obama aveva elaborato una risposta strategica basata sui due trattati
free-trade,
il TTP transpacifico ed il TTIP transatlantico, nell'ambito di un
multilateralismo imperniato su una rinnovata e benevola leadership
di Washington, allo scopo di riprendere, insieme ad Unione Europea e
Giappone, il controllo della globalizzazione sfuggita di mano. La
riunificata Germania andava “contenuta” nella triplice maglia:
UE, Nato, TTIP.
Con
la presidenza Trump è stata inaugurata una strategia parzialmente
alternativa, finalizzata a “rifar grande l'America” sulla base di
accordi bilaterali, misure protezionistiche selettive ad
hoc
(in aggiunta a quelle già presenti) e mettendo sul tavolo la pistola
della superpotenza militare. Un approccio che assume a bersaglio
diretto non solo la Cina ad Est ma pure la Germania ad Ovest: le due
maggiori economie in surplus
commerciale, già oggetto di reiterate critiche da parte
dell'amministrazione Obama.
Di
contro, non risulta che né l'una né l'altra presidenza abbiano mai
messo in discussione il ruolo dominante della finanza internazionale
ed il liberalismo finanziario.
Eccedenze
polarizzate
Intesa
come integrazione economica, la globalizzazione ha prodotto forti
squilibri nella economia reale, prima del tonfo finanziario del
2007-2008, come scrive Mervyn King [vedi
riquadro “Lo squilibrio”],
dall'angolo visuale di ex governatore di una banca centrale, la Bank
of England.
«La
spesa desiderata è troppo bassa per assorbire la capacità
produttiva delle nostre economie. I risultati sono crescita debole e
disoccupazione elevata (nei paesi dell’euro), crescita a singhiozzo
della produttività (negli Stati Uniti e in Gran Bretagna) e surplus
commerciali potenzialmente ampi accompagnati da piena occupazione (in
Germania, Giappone e Cina). (…)»
«A
partire dai primi anni novanta, i tassi d’interesse reali a lungo
termine sono fortemente diminuiti, e ciò ha avuto per tutte le
nostre economie, come abbiamo visto, implicazioni gigantesche. Stati
Uniti, Regno Unito e alcuni paesi europei si sono trovati, di fatto,
ad avere un deficit commerciale strutturale. Questo deficit – che è
il risultato di un’eccedenza delle importazioni sulle esportazioni
– si è tradotto in un costante freno per la domanda. Perciò le
banche centrali dei paesi in deficit, per allineare la domanda totale
(domanda interna meno disavanzo commerciale) alla capacità
produttiva dell’economia, hanno tagliato i tassi ufficiali al fine
di spingere la domanda interna. Ciò ha creato uno squilibrio
all’interno di quei paesi, poiché la spesa era troppo elevata
rispetto ai redditi attuali e potenziali. In paesi con surplus
commerciali, come Cina e Germania, la spesa era invece troppo bassa
rispetto ai probabili redditi futuri. E lo squilibrio tra paesi in
forte avanzo o disavanzo commerciale non si è riassorbito.»
Da
Mervyn King, “La fine dell'alchimia”, il Saggiatore, 2017 (2016).
Nella versione Kindle, posizioni 920-932.
Sottolineo:
ancora nel 2016, «(...)
lo squilibrio tra paesi in forte avanzo o disavanzo commerciale non
si è riassorbito.»
Un
economista inglese più noto di lui,
J.
M. Keynes, aveva già evidenziato che le eccedenze nell'export
costituiscono un problema ancora maggiore dei deficit.8
Tali eccedenze distribuiscono disoccupazione nei Paesi in disavanzo
ed accentrano occupazione in quelli in surplus.
I
primi si ritrovano automaticamente in carenza di domanda interna,
mentre i secondi continuano a deprimerla per mantenere il primato
mercantilista acquisito. Ciò spinge verso una depressione generale.
Sempre
più finanziarizzata, la globalizzazione odierna può venire così
descritta:
- alle delocalizzazioni produttive, basate sui dislivelli salariali tra Paesi a diversi gradi di sviluppo, corrispondono l'integrazione verticale delle forniture delocalizzate in funzione dei prodotti finiti delle aziende committenti e la concentrazione in capo ad una parte di esse, le grandi multinazionali finanziarizzate, dei governi di processo (progettazione, produzione, marketing) e dei profitti derivanti dalla delocalizzazione-integrazione;
- tutto ciò non si distribuisce in modo bilanciato su tutti i Paesi, ma produce sbilanci commerciali, sicché si verifica una polarizzazione in capo ad alcuni Paesi del vantaggio mercantile esportativo (surplus), dalla quale deriva un indebitamento privato e pubblico nei/dei Paesi in costante disavanzo.
D'altro
canto, se è vero che l'integrazione permette grandi economie di
scala9
e vantaggi comparati,10
il prezzo ultimo consiste nel penalizzare fortemente il resto
dell'economia, soprattutto territoriale, alla quale è legata la vita
della stragrande maggioranza delle popolazioni e la stessa stabilità
degli Stati.
Quando
consideriamo, inoltre, la tendenza a destinare gli enormi profitti11
delle principali multinazionali al circuito finanziario,piuttosto che
a Main
Street,
come nei casi anche altrove illustrati in questo Blog, il cerchio
potrebbe infaustamente chiudersi con crisi debitorie e crolli
finanziari.
Sennonché
il vantaggio mercantile polarizzato in alcuni Paesi non coincide con
quello delle “loro” multinazionali. O meglio coincide solo per la
Germania e per la Cina, a causa della loro interna strutturazione
industrial-finanziaria, supportata dai rispettivi governi. Ai
successi delle Big
Five
nordamericane non corrisponde il primato esportativo degli Stati
Uniti, da anni in costante grande disavanzo. Viceversa, ai successi
delle multinazionali tedesche corrisponde un enorme surplus
della Germania, accompagnato però da persistenti difficoltà dei
Paesi periferici della zona euro.
In
due note consecutive al capitolo quarto del suo più recente libro,
Joseph E. Stiglitz12
afferma sornionamente che l'avanzo commerciale della Cina nel 2014
(pari al 3,7% del Pil) è minore di quello della Germania (6,7% del
Pil), mentre è tutto da dimostrare che il surplus
cinese sia dovuto alla manipolazione del cambio:
«Le
politiche tedesche in materia di salari e spesa pubblica sono tra i
fattori che contribuiscono all'eccedenza commerciale del paese. In
effetti, all'inizio del 2016, è stato grazie ad un intervento
diretto del governo sul tasso di cambio che la valuta cinese non ha
subito una svalutazione accentuata [ndr,
che avrebbe potenziato il suo export].
Per contro, nella sua periodica verifica dell'economia tedesca (cioè
le consultazioni ai sensi dell'articolo VI) del 2014, l'Fmi ha
stimato che il tasso di cambio della Germania fosse sottovalutato
dal 5 al 15 per cento.»
Chiarita
questa non secondaria differenza tra Cina e Germania, va compreso il
dilemma visto dall'Eurozona e dagli Stati Uniti.
Depressioni
orizzontali
Avvalendosi
di un tasso di cambio sottovalutato, dalla nascita della moneta unica
in poi, la Germania ha aumentato il suo surplus
commerciale, stimato complessivamente in 260 miliardi di euro nel
2016, con conseguente crescita della propria posizione creditoria. Da
tale posizione è parzialmente rientrata in particolare verso i Paesi
periferici europei, considerati a rischio.
Negli
ultimi anni il surplus
tedesco si è concentrato su Stati Uniti, Regno Unito e Francia,
consolidandosi verso Spagna ed Italia.
In
presenza della rigidità del cambio, data dall'euro, i tradizionali
aggiustamenti degli sbilanci commerciali tra i Paesi della zona
valutaria comune (eurozona) tramite svalutazioni esterne non sono più
possibili. In aggiunta, ciascuno di essi ha dovuto rinunciare al
controllo dei propri tassi d'interesse. Entrambi gli strumenti sono
però necessari ad una politica di piena occupazione.
Impossibilitati
ad usare i tassi d'interesse per incentivare consumi ed investimenti,
nonché i tassi di cambio per stimolare le esportazioni, i Paesi
europei periferici in difficoltà non hanno potuto nemmeno ricorrere
alle politiche di bilancio, ingabbiati dalle regole del Fiscal
Compact.
Al contrario, il loro rispetto ha comportato la riduzione della spesa
pubblica e l'aumento della pressione fiscale.
Non
restava che la svalutazione interna, data dalla diminuzione dei
prezzi nel proprio Paese, per rilanciare l'export e limitare
l'import. In larga parte essa è stata perseguita attraverso la
deflazione salariale, invariabilmente accompagnata dalla
disoccupazione necessaria ad imporla. Al posto della svalutazione
competitiva della moneta è stata praticata la svalutazione
competitiva del lavoro.
Dopodiché
l'insieme di queste misure, definite beffardamente di “austerità
espansiva”, si é rivelata un flop per i cosiddetti PIIGS. Ha
prodotto nuova caduta recessiva, portando con sé ulteriore deficit
ed accumulo di debito pubblico.13
In Italia ciò è accaduto con il governo Monti, il “podestà
straniero” da Varese insediato da Giorgio Napolitano con l'appoggio
unanime di centro-sinistra e centro-destra.
Giacché
fu l'aumento del disavanzo commerciale a generare debito,
inizialmente in prevalenza privato, su questa “esternalità”
andavano concentrate attenzione ed azione: non,
sulle “riforme di struttura” interne e sui rapporti di lavoro,
come richiesto dai vertici europei. L'accumulo di deficit e debito
pubblici (Spagna ed Irlanda non ne avevano) era stato, infatti,
conseguente all'accumulo di debito privato e non viceversa.
Ciò
chiarito, importa qui mettere in rilievo un aspetto che rimanda alle
iniziali considerazioni sul vuoto sottostante la corsa di Willy il
coyote.
La
svalutazione interna ha allargato il divario tra i due terzi
dell'economia nontraded
ed il restante terzo dell'economia traded
[vedi
riquadro “Traded
e
nontraded”].
«(...)
le svalutazioni interne venivano viste come un modo sia per
correggere uno squilibrio esterno sia per sostenere una macroeconomia
debole, perché un aumento delle esportazioni avrebbe comportato una
crescita dell'economia. La Troika è stata sempre smentita (…).
Nelle
loro analisi, gli esperti hanno commesso due errori sostanziali.
Innanzitutto, non hanno dedicato la giusta attenzione a ciò che
sarebbe successo al grande ed importante settore dei cosiddetti
nontraded
goods,
che include le attività e le professioni più varie – dai
ristoranti ai parrucchieri, dai medici agli insegnanti – e in
genere rappresenta circa due terzi del Pil. (I prodotti
manifatturieri, come per esempio i tessili e le automobili, sono
invece definiti traded
goods
e formano oggetto di scambio). La contrazione della domanda e della
produzione nei settori nontraded,
ossia non manifatturieri, ha ampiamente superato la lenta risposta
dell'export e questo spiega il calo massiccio del Pil.
Quando
i paesi (o le aziende e le famiglie all'interno di un paese)
contraggono debiti in euro (o in valuta estera), una svalutazione
interna aumenta la leva finanziaria, vale a dire il rapporto fra i
debiti delle famiglie, delle imprese e anche dei governi rispetto al
loro reddito (nominale). Alla leva finanziaria molto elevata si
attribuisce in parte la responsabilità della Grande recessione. La
svalutazione interna aumenta la fragilità economica portando un
sempre maggior numero di famiglie e imprese sull'orlo della
bancarotta. Inevitabilmente, queste finiscono per tagliare la spesa
su tutto. I tagli alle importazioni sono stati una delle ragioni per
cui la bilancia commerciale è sembrata migliorare; i tagli alla
produzione manifatturiera nazionale sono una delle ragioni per cui il
Pil è diminuito in maniera così considerevole.»
Da
Joseph E. Stiglitz, “L'EURO – Come una moneta comune minaccia il
futuro dell'Europa”, Einaudi, 2017 (2016). Pagg. 104-105.
Nonostante
le notevoli differenze tra gli USA, che è uno Stato Federale, e
l'Eurozona, cuore di una Unione di più Stati, la relazione
divaricante riguarda entrambi.
Distretti
salvifici
I
distretti produttivi italiani hanno rappresentato un esempio di come,
non essendo verticalizzati, si possa sviluppare un'economia locale
efficiente: piccole-medie imprese di pari forza, operanti in filiera,
hanno dato luogo ad un modello orizzontale, spalmato sul territorio e
pure in grado di esportare.
Corrado
Passera, quand'era a capo di IntesaSanPaolo, auspicò che in ciascun
distretto emergesse un “campione”, capace di leadership
e più fortemente capitalizzato, sì da consolidare l'insieme
attorno e dargli prospettiva.
Non
pare che l'aspettativa abbia trovato riscontro pratico. Tuttavia, la
stampa economica italiana ha esultato di fronte ai recenti dati sulle
performances
esportative dei nostri distretti industriali che, indubbiamente,
danno prova di una certa vitalità. Non è mancata la solita polemica
con i “gufi”.
Dallo
studio annuale sui distretti di IntesaSanPaolo veniamo a conoscenza
solo dei dati export e, non disponendo ancora di adeguate analisi sui
mutamenti avvenuti al loro interno, sarebbe prematuro tranciare
giudizi. Questo
il quadro offerto al pubblico: nel primo trimestre 2017 le vendite
estere dei nostri 147 distretti hanno registrato una crescita del
6,4% rispetto al primo trimestre 2016; +24,1 miliardi di euro di
maggiori esportazioni e saldo commerciale a +15,6 miliardi; i
distretti sono l'80% dell'avanzo commerciale dell'intera industria
manifatturiera italiana.
Coinvolti
nella crescita 112 distretti su 147: non succedeva dal terzo
trimestre 2011.
In
presenza di una modesta accelerazione degli scambi mondiali, i
distretti hanno saputo reagire tempestivamente, inserendosi nelle
filiere internazionali. «Non
è un caso, infatti, che l'Italia sia prima per contributo al valore
aggiunto della filiera francese della moda e al secondo posto come
fornitore della metalmeccanica tedesca, preceduta di poco dalla
Cina.»14
Dopo
aver registrato il primato della pelletteria e delle calzature di
Firenze (+119%) e dei metalli di Brescia (oltre il 100%), nonché di
altri importanti distretti, emergono i rilevanti incrementi
percentuali ottenuti verso diversi Paesi, quali Svizzera (+17,7%) e
Federazione Russa (28,2%).
Il
punto debole dei distretti, secondo lo studio, sarebbe rappresentato
dalla mancanza di una valida rete di distribuzione autonoma, a causa,
in particolare, della operatività business
to business,
ovvero della produzione in funzione di capi-filiera risiedenti
altrove, i quali, si suppone, dispongano delle chiavi di accesso ai
mercati finali di vendita.
Per
parte mia, in ordine al tema qui trattato, vorrei porre l'accento su
alcuni punti che rendono ancora più necessario un approfondimento:
- tra i primi 15 distretti di maggior successo la stragrande maggioranza è situata al Nord, tra Piemonte (3) Lombardia (3) Veneto (3) ed Emilia-Romagna (2); salvo la Toscana (3) nessuno sta al Centro Italia; nel Mezzogiorno e nelle Isole si distingue 1 solo distretto (la meccanotronica barese);
- non è ancora chiaro quale sia l'entità dello shopping effettuato dai grandi gruppi internazionali nei distretti negli anni della crisi, né quali conseguenze comporterà questa nuova verticalità;
- l'assenza di “campioni” locali propri a ciascun distretto (auspicio di Corrado Passera) può significare una subalternità a filiere e capi-filiera esteri e la concentrazione altrove sia dei profitti che delle future decisioni produttive;
- la vitalità dei distretti è destinata, come avvenne già dopo il terzo trimestre 2011, a venire assai smorzata, in assenza di una politica economica nazionale adeguata, sia generale che dedicata agli assetti industriali locali.
Inoltre,
il pur ragguardevole incremento non mostra di poter sovvertire la
gerarchia delle nostre esportazioni, principalmente rivolte, per
valori e volumi, verso le destinazioni tradizionali: Germania,
Francia e Stati Uniti, seguiti da Regno Unito, Svizzera e Spagna (ai
primi 6 posti). Nonostante l'enfasi giornalistica, gli sbocchi
orientali ed estremo orientali pesano ancora relativamente poco.
Dicotomie
nord-americane
La
prosperità delle multinazionali globalizzate statunitensi si erge su
uno squilibrio permanente e strutturale. In altri termini viaggia su
un vuoto non occasionale, dato dal disgiungimento del loro sviluppo
da quello dell'economia nazionale.
Negli
Stati Uniti a riempire tale vuoto dovrebbe contribuire una forte
ripresa generale dell'economia che, se avvenisse rompendo la
globalizzazione commerciale attuale, a seguito di misure
protezionistiche volte a riattivare la propria base industriale
interna, con sé trascinando la promessa occupazione, comporterebbe
contromisure ritorsive da parte dei Paesi che sono anche i luoghi di
destino e consumo dei prodotti di eccellenza15
della West
Coast,
oltreché luoghi a monte delle filiere delocalizzate.
Le
Big
Five
rappresentano il fior fiore delle multinazionali yankee
e
della globalizzazione made
in USA.
Il loro successo dipende dal massimo grado di delocalizzazione e
d'integrazione verticale raggiunto dalla catena delle forniture
necessarie all'implementazione del prodotto finito. Alle case madri
serve il controllo del processo di produzione e dei mercati di
sbocco, che perciò devono rimanere aperti tanto agli scambi quanto
ai capitali.
D'altro
canto, una recente simulazione dell'economista di Harvard, Dani
Rodrik [nella foto] mette in luce un passaggio nella globalizzazione odierna,
riguardante il problema delle barriere doganali:
«(...)
se viene rimossa una tariffa del 40 per cento c'è un crollo del
19,44% dei salari per i lavoratori non specializzati, ma un aumento
dell'economia reale del 4 per cento. La variazione negativa per le
vittime è 4,9 volte maggiore di quella positiva per la collettività.
Se invece la tariffa iniziale è molto bassa, il 3 per cento, il
guadagno in efficienza dell'economia è basso, con una crescita
soltanto del 0,02 per cento, mentre il cambiamento dei salari dei
lavoratori poco qualificati è meno 1,72%. Quindi le vittime
subiscono un danno che è 76,6 volte maggiore del beneficio
sperimentato dagli altri.»16
Se
è confermato che i “vinti” restano comunque i lavoratori poco
qualificati, i quali sono i primi a sprofondare nella povertà,
viene in chiaro che il residuo gioco free-trade
non vale più la candela.
«Una
volta abbattuto il grosso delle barriere – come è successo negli
ultimi 15 anni - ulteriori integrazioni generano benefici marginali
ma con costi comunque rilevanti per i più esposti alla concorrenza
internazionale.»
Questo
aspetto va collegato sia alla dicotomia tra successo delle
multinazionali della Silicon Valley e restante economia territoriale
e nazionale, sia al disavanzo commerciale statunitense.
Sicché
da parte governativa appare assai complicato soddisfare insieme due
esigenze opposte: quella delle imprese tipo Big
Five,
liete di conservare lo status
quo (salvo
chiedere, in modo politicamente corretto, qualche regolamentazione
concordata che ne consolidi l'habitat)
e quella del rilancio dell'economia nazionale, della domanda interna
allargata, dell'occupazione, del ripianamento del disavanzo
commerciale nazionale con conseguente limitazione o fine
dell'indebitamento verso l'estero.
Seppure
in condizioni di grande privilegio, stante la possibilità di pagare
in dollari i debiti contratti (semplicemente stampandoli), la
difficoltà in cui si dibatte l'establishment
USA, non solo la presidenza Trump, sono la spia di queste
contraddizioni.
Riordini
È
significativo che il WTO (Organizzazione Mondiale del Commercio) viva
una fase di stallo da prima del tonfo del 2008, a testimonianza del
fatto che la crisi della globalizzazione ha preceduto il crollo
finanziario, venendo da esso amplificata ed approfondita. Pertanto,
la conoscenza delle cause endogene ai crolli della “economia di
carta”, oggetto di appropriati studi, alcuni dei quali divenuti nel
tempo dei “classici, ci aiuta a comprendere perché Willy il coyote
sia spinto a correre nel vuoto, ma non ci esime affatto dall'indagare
per quali ragioni venga a crearsi il vuoto medesimo.
Parimenti,
ove si rivolga lo sguardo al disordine globalizzato, qualsivoglia
nuovo assetto realmente multilaterale (non per rimettere in sella
vecchie supremazie) che disinneschi pericolose derive belliche già
in
itinere,
dovrà porre mano politica ad alcune delle più stridenti e congenite
contraddizioni della globalizzazione reale. Dalla liberalizzazione
finanziaria agli assetti valutari, dalle macro-dicotomie territoriali
e tra Paesi, ivi compresi gli sbilanci commerciali, alle verticalità
delle multinazionali.
La
Cina continua a perseguire una strategia commerciale basata
soprattutto sulle vie marittime e sui porti della “collana di
perle”, benché venga enfatizzata la via terrestre della Seta.
Essa,
anche in virtù di investimenti nelle nuove tecnologie di medio-lungo
termine non assillata da ritorni immediati, dispone comunque di un
vasto entroterra su cui poggiare un eventuale riequilibrio a trazione
interna. Se saprà resistere alle sirene che vorrebbero una sua
maggiore apertura alle logiche finanziarie globali.
Al
momento il punto critico, oltre a quello costituito dagli USA, è
rappresentato dall'Europa, più precisamente dal sistema euro a
dominanza tedesca. O il governo della Germania rinuncia, magari
costretto dai popoli e Paesi europei periferici, al suo ruolo di
supremazia nazionalistica ed ad un sistema valutario su misura di
tale supremazia, rinunciando a farsi grande nel mondo sulle spalle
dell'Europa periferica, o niente potrà salvare l'Unione Europea
dalla disgregazione dovuta alle sue interne divaricazioni.
Certo,
come argomenta Stiglitz, esistono molteplici misure e strumenti per
ovviare alla mancanza dei presupposti necessari all'adozione di una
moneta unica, risalenti all'epoca in cui fu varata. Ma sia la sua
successiva pratica governance,
sia l'opposizione all'introduzione a posteriori anche solo di una
parte di tali misure e strumenti, mostrano come il nodo politico
consista nella propensione teutonica alla supremazia nazionalistica,
perseguita dai diversi governi, in sintonia con un blocco
finanziario-industriale di storica compattezza.
Inutilmente
questa politica si ammanta di europeismo e si cela sotto il manto
della condanna indistinta del “populismo”, facendovi rientrare
chiunque non voglia supinamente sottostare.
L'eurozona
non è un luogo win
win,
in cui basterebbe seguire l'esempio di Berlino perché tutti possano
vincere. Non è un maiale tutto di prosciutti.
E,
nel frattempo, non ci si potrà aspettare che gli Stati Uniti stiano
passivamente a guardare, pur essendo (o proprio perché sono) l'altro
epicentro del traballante ordine mondiale da riordinare.
Note
1
Maria Teresa Cometto, “I giganti di Wall Street gonfiano la bolla?
Un Nobel svela gli indizi”, Corriere della Sera, L'Economia,
12/06/2017. Dati e citazioni nel paragrafo sono tratti dallo stesso
articolo.
2
Adotto questa definizione universalmente usata, nonostante sia
evidente che le attività finanziarie non siano meno ”reali”
delle attività di produzione di merci e servizi. Se non bastasse
l'essenziale funzione sistemica “reale” della finanza, sono le
conseguenze dei crolli finanziari sull'insieme economico a
dimostrare quanto la finanza appartenga alla sfera del “reale”.
3
Riccardo Viale, “Il toro americano (scatenato o drogato)”,
Corriere della Sera, L'Economia, 26/06/2017. Dati e citazioni nel
paragrafo sono tratti dallo stesso articolo.
4
La legge Dodd-Frank, non paragonabile alla Steagall-Glass del 1933,
abrogata durante la presidenza di Bill Clinton.
5
Il
momento in cui Willy il coyote precipita è stato ironicamente
paragonato al “momento Minsky”. Secondo la teoria di Hyman P.
Minsky il momento del crollo non richiede necessariamente il
sopraggiungere di shock esterni per verificarsi, essendo il
risultato di una dinamica interna (endogena) al culmine di una
economia capitalistica finanziarizzata.
6
Per “proteggere i contribuenti” da “inevitabili” azioni di
salvataggio, giacché, come
ironicamente ricorda l'ex governatore della Banca d'Inghilterra,
Mervyn King, le
banche sono “internazionali in vita, ma nazionali quando muoiono.”
7
Mohammed
El
Erian, (Chief Economic Adviser presso Allianz), “Tre rischi per la
finanza: hi-tech, liquidità e regole”, Corriere l'Economia,
17/07/2017 .
8
J. M. Keynes, “Teoria generale dell'occupazione, dell'interesse e
della moneta”, Cap. 23, Note sul Mercantilismo, ecc., Utet, 2010
(1926-1936).
9
Giacché i costi unitari diminuiscono all'aumentare della scala
produttiva.
10
Per la maggiore efficienza derivante dalla specializzazione relativa
di ciascun fornitore o/e del territorio-Paese in cui opera in
filiera.
11
Attratte da un indice di redditività del capitale proprio del 25%,
che secondo Deutsche Bank dovrebbe essere la norma.
12
J. E. Stiglitz, “L'EURO – Come una moneta comune minaccia il
futuro dell'Europa”, Einaudi, 2017 (2016). Note 39 e 40.
13
Significativo è l'andamento del rapporto tra debito pubblico e Pil
nei Paesi della zona euro. Nei
PIIGS (tranne l'Irlanda) è aumentato più dal
2011-2016 che non dal 2007-2010; cioè il debito è aumentato di più
nella seconda recessione, accompagnata da austerità, che non nella
prima, accompagnata da politiche blandamente espansive e dal
salvataggio delle banche. In
Germania, dal 2011, si è invece ridotto di parecchio
l'aumento del debito, tornato quasi ai livelli del 2007 (solo +4
punti di Pil). Dati e grafico in la
Repubblica Affari&Finanza,
26/06/2017.
14
Dario
Di Vico, Corriere L'Economia, “Distretti
d'Italia. Da Verona a Bari è record con l'alleanza tra piccoli e
big”, 26 giugno 2017. I dati in paragrafo sono tratti dal suo
articolo.