mercoledì 26 luglio 2017

Willy il coyote

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Willy il coyote

corse e cadute, nei crepacci
Euforia a Wall Street. L'investimento in borsa migliore alternativa.
Supplementi informativi per dissuadere da folli corse. Basteranno?
Anche i rischi emigrano.
Sbilanci commerciali e polarizzazione dei surplus tra imprese e Paesi.
Integrazioni verticali e depressioni orizzontali, territoriali. I nostri distretti.
Dicotomie in Europa e negli USA.

Le bolle della borsa e le dinamiche interne alla finanza possono spiegare cadute e crolli. Ma ancor prima di essi sono i crepacci nella economia sottostante, a cui contribuisce la logica finanziaria, a creare le condizioni delle crisi storiche.
A poco meno di dieci anni dall'ultimo grande crack, le principali agenzie informative allontanano lo sguardo del vasto pubblico dalle dicotomie strutturali che la globalizzazione ha recato con sé e, pur piuttosto malmessa, continua a generare.
Preferiscono diffondere “fiducia”.
Nonostante le relazioni politiche tra gli Stati ne siano fortemente condizionate.
Euforia Big Five
Siamo di fronte ad una nuova bolla finanziaria, dal cui scoppio possono derivare nuove pesanti conseguenze per tutto l'andamento economico?
Al solito, a destare allarme è Wall Street.
«Anche il massimo esperto di Bolle speculative, il Nobel per l'Economia Robert Schiller, crede che i livelli attuali delle quotazioni siano molto elevati: il loro rapporto con i profitti degli ultimi dieci anni al netto dell'inflazione (Cape, cyclically adjusted price-to-earning ratio) è 29 contro la media storica di 17.»1
Al centro dell'attenzione sono i titoli tecnologici dei Big Five (Apple, Google, Microsoft, Amazon e Facebook), saliti del 21% da inizio anno contro una media dell'8%.
«Robert Schiller mette in guardia gli investitori: Apple e Google valgono 1.479 miliardi di dollari, più di tutte le banche e finanziarie europee e giapponesi, pari a 1.310 miliardi di dollari.»
Google (682 miliardi di dollari) ha raggiunto un valore azionario maggiore dell'intera economia di Chicago (581), misurata in merci e servizi prezzati in un anno. Similmente Amazon (479) supera l'area di Washington, DC (454). Sembra di rivivere l'euforia che caratterizzò i rialzi ed il successivo crollo dei dot.com, agli inizi degli anni 2000. Gli indizi sono molteplici. Colpisce tra tutti il dislivello tra l'andamento della capitalizzazione di Borsa e quello della economia reale.2
Questione di tassi?
Di fronte al pubblico del Cfa Institute a Philadelphia, tra Robert Schiller e Jeremy Siegel, altro guru nord-americano della macro-economia, si è aperta una disputa. Per Siegel l'allarme di Schiller è infondato: prendendo a riferimento un indice più ampio ed inclusivo del reddito nazionale, nonché di tutti i prodotti industriali (Nipa – National Income and Products Account), lo scostamento tra andamento dei profitti e valutazioni di Borsa è minimo. Escludendo l'imminenza dello scoppio di una bolla speculativa, l'attesa di Schiller per i prossimi 10 anni è poco meno dell'1% di guadagni al netto dell'inflazione, mentre secondo Siegel la previsione si aggira attorno al 5%.
«Entrambi sostengono, per ragioni differenti, che il futuro sarà contrassegnato da bassi tassi di interesse, bassa inflazione e moderata crescita. (…) Se questo è vero, allora l'investimento in borsa rappresenterà per anni la migliore alternativa per allocare i risparmi familiari ed aziendali.»3
In altri termini, per questi ultimi sarà più conveniente andare verso Wall Street piuttosto che verso Main Street (l'economia reale).
Borsa di Milano, scultura di Maurizio Cattelan
Cosa garantirà poi che le valutazioni di Borsa non salgano oltremisura, fino a superare “troppo” anche l'indice più rappresentativo dell'andamento economico? Cosa impedirà il dilatarsi di una bolla speculativa, sino allo scoppio?
Al contrario dell'ottimista Siegel, il pessimista Schiller avverte segnali di pericolo e pensa che, adeguatamente informati, gli investitori dovrebbero attenersi a criteri di maggiore “raziocinio”, rinunciando a folli corse. In passato, richiami in tal senso non pare abbiano sortito rimarchevoli effetti dissuasivi. Nel comportamento di gruppo, spesso vissuto come individuale, sembra prevalere immancabilmente prima l'euforia e poi il panico. I moniti lasciano il tempo che trovano, in assenza di precise norme ed istituzioni vincolanti.
Da questo lato, praticamente nulla di nuovo è comparso sotto il cielo dopo il 2007-2008. Nessuna novità perché, se Obama aveva introdotto alcune blande limitazioni4 alla finanza speculativa, Trump agisce in senso contrario per smantellarle.
Willy informato
Scarsa attenzione politica è data alla corsa finanziaria che come Willy il coyote5 del celebre cartone animato, per inseguire la preda, prende velocità sul terreno e, incurante dell'improvviso precipizio, prosegue staccato nell'aria fin quando volge lo sguardo verso il basso e si rende conto del vuoto sottostante. Solo allora precipita.
En passant, va ricordato che molta critica liberista al modello economico sovietico pianificato si basò:
a) sulla burocratica ed inadeguata informazione di cui poteva godere il pianificatore centrale, fatto che lo induceva inevitabilmente in errore;
b) sull'insuperabile sistema informativo fornito dai prezzi di un libero mercato, perciò posto in grado di autoregolarsi.
Gli indicatori di pericolo, del tipo di quelli poc'anzi citati, tutto sommato seguono questo credo auto-salvifico: mirano ad offrire una tempestiva sintesi macro-economica, capace di fornire un supplemento informativo, per orientare i comportamenti dei soggetti che agiscono nel mercato, allo scopo di indurli ad autoregolarsi senza cadere nella tentazione di facili guadagni. Ma, in assenza di una più stringente repressione finanziaria governativa ed in presenza delle convenienze immediate prospettate da Wall Street, sarà sufficiente informare Willy il Coyote dei possibili crepacci che potrebbero aprirsi sotto i suoi piedi, per dissuaderlo da intraprendere folli corse?
D'altro canto, in un sistema internazionale finanziariamente interdipendente, non proprio rassicurante è la constatazione che il sistema bancario ufficiale sia stato reso “più sicuro, snello e giusto”,6 perché i rischi possono essere migrati altrove. Nuovi pericoli nascerebbero dall'eccesso di cash in mano a nuovi attori fuori controllo, in specie dal proliferare della finanza dell'hi-tech, come avverte l'economista Mohammed El Erian.7
Benché avvisato, Willy è solo “mezzo salvato”.
Precipizi
Se spostiamo l'attenzione dalla corsa, più o meno folle, alla sottostante economia reale ed all'eventuale aprirsi di precipizi, senza disgiungere i due fenomeni possiamo ricavare un quadro più completo della situazione. Anche sul piano politico.
Significativamente, gli indicatori di Robert Schiller, allorché pongono a confronto le valorizzazioni delle Big Five in Borsa con le economie di alcune aree statunitensi, evidenziano il distacco ed il profilarsi dei vuoti.
Vuoti interni che alimentano i persistenti disavanzi commerciali esteri della superpotenza, cruccio di Donald Trump.
Barack Obama aveva elaborato una risposta strategica basata sui due trattati free-trade, il TTP transpacifico ed il TTIP transatlantico, nell'ambito di un multilateralismo imperniato su una rinnovata e benevola leadership di Washington, allo scopo di riprendere, insieme ad Unione Europea e Giappone, il controllo della globalizzazione sfuggita di mano. La riunificata Germania andava “contenuta” nella triplice maglia: UE, Nato, TTIP.
Con la presidenza Trump è stata inaugurata una strategia parzialmente alternativa, finalizzata a “rifar grande l'America” sulla base di accordi bilaterali, misure protezionistiche selettive ad hoc (in aggiunta a quelle già presenti) e mettendo sul tavolo la pistola della superpotenza militare. Un approccio che assume a bersaglio diretto non solo la Cina ad Est ma pure la Germania ad Ovest: le due maggiori economie in surplus commerciale, già oggetto di reiterate critiche da parte dell'amministrazione Obama.
Di contro, non risulta che né l'una né l'altra presidenza abbiano mai messo in discussione il ruolo dominante della finanza internazionale ed il liberalismo finanziario.
Eccedenze polarizzate
Intesa come integrazione economica, la globalizzazione ha prodotto forti squilibri nella economia reale, prima del tonfo finanziario del 2007-2008, come scrive Mervyn King [vedi riquadro “Lo squilibrio”], dall'angolo visuale di ex governatore di una banca centrale, la Bank of England.
Lo squilibrio

«La spesa desiderata è troppo bassa per assorbire la capacità produttiva delle nostre economie. I risultati sono crescita debole e disoccupazione elevata (nei paesi dell’euro), crescita a singhiozzo della produttività (negli Stati Uniti e in Gran Bretagna) e surplus commerciali potenzialmente ampi accompagnati da piena occupazione (in Germania, Giappone e Cina). (…)»
«A partire dai primi anni novanta, i tassi d’interesse reali a lungo termine sono fortemente diminuiti, e ciò ha avuto per tutte le nostre economie, come abbiamo visto, implicazioni gigantesche. Stati Uniti, Regno Unito e alcuni paesi europei si sono trovati, di fatto, ad avere un deficit commerciale strutturale. Questo deficit – che è il risultato di un’eccedenza delle importazioni sulle esportazioni – si è tradotto in un costante freno per la domanda. Perciò le banche centrali dei paesi in deficit, per allineare la domanda totale (domanda interna meno disavanzo commerciale) alla capacità produttiva dell’economia, hanno tagliato i tassi ufficiali al fine di spingere la domanda interna. Ciò ha creato uno squilibrio all’interno di quei paesi, poiché la spesa era troppo elevata rispetto ai redditi attuali e potenziali. In paesi con surplus commerciali, come Cina e Germania, la spesa era invece troppo bassa rispetto ai probabili redditi futuri. E lo squilibrio tra paesi in forte avanzo o disavanzo commerciale non si è riassorbito.»

Da Mervyn King, “La fine dell'alchimia”, il Saggiatore, 2017 (2016). Nella versione Kindle, posizioni 920-932.

Sottolineo: ancora nel 2016, «(...) lo squilibrio tra paesi in forte avanzo o disavanzo commerciale non si è riassorbito.»
Un economista inglese più noto di lui, J. M. Keynes, aveva già evidenziato che le eccedenze nell'export costituiscono un problema ancora maggiore dei deficit.8 Tali eccedenze distribuiscono disoccupazione nei Paesi in disavanzo ed accentrano occupazione in quelli in surplus. I primi si ritrovano automaticamente in carenza di domanda interna, mentre i secondi continuano a deprimerla per mantenere il primato mercantilista acquisito. Ciò spinge verso una depressione generale.
Sempre più finanziarizzata, la globalizzazione odierna può venire così descritta:
  1. alle delocalizzazioni produttive, basate sui dislivelli salariali tra Paesi a diversi gradi di sviluppo, corrispondono l'integrazione verticale delle forniture delocalizzate in funzione dei prodotti finiti delle aziende committenti e la concentrazione in capo ad una parte di esse, le grandi multinazionali finanziarizzate, dei governi di processo (progettazione, produzione, marketing) e dei profitti derivanti dalla delocalizzazione-integrazione;
  2. tutto ciò non si distribuisce in modo bilanciato su tutti i Paesi, ma produce sbilanci commerciali, sicché si verifica una polarizzazione in capo ad alcuni Paesi del vantaggio mercantile esportativo (surplus), dalla quale deriva un indebitamento privato e pubblico nei/dei Paesi in costante disavanzo.
D'altro canto, se è vero che l'integrazione permette grandi economie di scala9 e vantaggi comparati,10 il prezzo ultimo consiste nel penalizzare fortemente il resto dell'economia, soprattutto territoriale, alla quale è legata la vita della stragrande maggioranza delle popolazioni e la stessa stabilità degli Stati.
Quando consideriamo, inoltre, la tendenza a destinare gli enormi profitti11 delle principali multinazionali al circuito finanziario,piuttosto che a Main Street, come nei casi anche altrove illustrati in questo Blog, il cerchio potrebbe infaustamente chiudersi con crisi debitorie e crolli finanziari.
Sennonché il vantaggio mercantile polarizzato in alcuni Paesi non coincide con quello delle “loro” multinazionali. O meglio coincide solo per la Germania e per la Cina, a causa della loro interna strutturazione industrial-finanziaria, supportata dai rispettivi governi. Ai successi delle Big Five nordamericane non corrisponde il primato esportativo degli Stati Uniti, da anni in costante grande disavanzo. Viceversa, ai successi delle multinazionali tedesche corrisponde un enorme surplus della Germania, accompagnato però da persistenti difficoltà dei Paesi periferici della zona euro.
In due note consecutive al capitolo quarto del suo più recente libro, Joseph E. Stiglitz12 afferma sornionamente che l'avanzo commerciale della Cina nel 2014 (pari al 3,7% del Pil) è minore di quello della Germania (6,7% del Pil), mentre è tutto da dimostrare che il surplus cinese sia dovuto alla manipolazione del cambio:
«Le politiche tedesche in materia di salari e spesa pubblica sono tra i fattori che contribuiscono all'eccedenza commerciale del paese. In effetti, all'inizio del 2016, è stato grazie ad un intervento diretto del governo sul tasso di cambio che la valuta cinese non ha subito una svalutazione accentuata [ndr, che avrebbe potenziato il suo export]. Per contro, nella sua periodica verifica dell'economia tedesca (cioè le consultazioni ai sensi dell'articolo VI) del 2014, l'Fmi ha stimato che il tasso di cambio della Germania fosse sottovalutato dal 5 al 15 per cento.»
Chiarita questa non secondaria differenza tra Cina e Germania, va compreso il dilemma visto dall'Eurozona e dagli Stati Uniti.
Depressioni orizzontali
Avvalendosi di un tasso di cambio sottovalutato, dalla nascita della moneta unica in poi, la Germania ha aumentato il suo surplus commerciale, stimato complessivamente in 260 miliardi di euro nel 2016, con conseguente crescita della propria posizione creditoria. Da tale posizione è parzialmente rientrata in particolare verso i Paesi periferici europei, considerati a rischio.
Negli ultimi anni il surplus tedesco si è concentrato su Stati Uniti, Regno Unito e Francia, consolidandosi verso Spagna ed Italia.
In presenza della rigidità del cambio, data dall'euro, i tradizionali aggiustamenti degli sbilanci commerciali tra i Paesi della zona valutaria comune (eurozona) tramite svalutazioni esterne non sono più possibili. In aggiunta, ciascuno di essi ha dovuto rinunciare al controllo dei propri tassi d'interesse. Entrambi gli strumenti sono però necessari ad una politica di piena occupazione.
Impossibilitati ad usare i tassi d'interesse per incentivare consumi ed investimenti, nonché i tassi di cambio per stimolare le esportazioni, i Paesi europei periferici in difficoltà non hanno potuto nemmeno ricorrere alle politiche di bilancio, ingabbiati dalle regole del Fiscal Compact. Al contrario, il loro rispetto ha comportato la riduzione della spesa pubblica e l'aumento della pressione fiscale.
Non restava che la svalutazione interna, data dalla diminuzione dei prezzi nel proprio Paese, per rilanciare l'export e limitare l'import. In larga parte essa è stata perseguita attraverso la deflazione salariale, invariabilmente accompagnata dalla disoccupazione necessaria ad imporla. Al posto della svalutazione competitiva della moneta è stata praticata la svalutazione competitiva del lavoro.
Dopodiché l'insieme di queste misure, definite beffardamente di “austerità espansiva”, si é rivelata un flop per i cosiddetti PIIGS. Ha prodotto nuova caduta recessiva, portando con sé ulteriore deficit ed accumulo di debito pubblico.13 In Italia ciò è accaduto con il governo Monti, il “podestà straniero” da Varese insediato da Giorgio Napolitano con l'appoggio unanime di centro-sinistra e centro-destra.
Giacché fu l'aumento del disavanzo commerciale a generare debito, inizialmente in prevalenza privato, su questa “esternalità” andavano concentrate attenzione ed azione: non, sulle “riforme di struttura” interne e sui rapporti di lavoro, come richiesto dai vertici europei. L'accumulo di deficit e debito pubblici (Spagna ed Irlanda non ne avevano) era stato, infatti, conseguente all'accumulo di debito privato e non viceversa.
Ciò chiarito, importa qui mettere in rilievo un aspetto che rimanda alle iniziali considerazioni sul vuoto sottostante la corsa di Willy il coyote.
La svalutazione interna ha allargato il divario tra i due terzi dell'economia nontraded ed il restante terzo dell'economia traded [vedi riquadro “Traded e nontraded”].
Traded e nontraded

«(...) le svalutazioni interne venivano viste come un modo sia per correggere uno squilibrio esterno sia per sostenere una macroeconomia debole, perché un aumento delle esportazioni avrebbe comportato una crescita dell'economia. La Troika è stata sempre smentita (…).
Nelle loro analisi, gli esperti hanno commesso due errori sostanziali. Innanzitutto, non hanno dedicato la giusta attenzione a ciò che sarebbe successo al grande ed importante settore dei cosiddetti nontraded goods, che include le attività e le professioni più varie – dai ristoranti ai parrucchieri, dai medici agli insegnanti – e in genere rappresenta circa due terzi del Pil. (I prodotti manifatturieri, come per esempio i tessili e le automobili, sono invece definiti traded goods e formano oggetto di scambio). La contrazione della domanda e della produzione nei settori nontraded, ossia non manifatturieri, ha ampiamente superato la lenta risposta dell'export e questo spiega il calo massiccio del Pil.
Quando i paesi (o le aziende e le famiglie all'interno di un paese) contraggono debiti in euro (o in valuta estera), una svalutazione interna aumenta la leva finanziaria, vale a dire il rapporto fra i debiti delle famiglie, delle imprese e anche dei governi rispetto al loro reddito (nominale). Alla leva finanziaria molto elevata si attribuisce in parte la responsabilità della Grande recessione. La svalutazione interna aumenta la fragilità economica portando un sempre maggior numero di famiglie e imprese sull'orlo della bancarotta. Inevitabilmente, queste finiscono per tagliare la spesa su tutto. I tagli alle importazioni sono stati una delle ragioni per cui la bilancia commerciale è sembrata migliorare; i tagli alla produzione manifatturiera nazionale sono una delle ragioni per cui il Pil è diminuito in maniera così considerevole.»

Da Joseph E. Stiglitz, “L'EURO – Come una moneta comune minaccia il futuro dell'Europa”, Einaudi, 2017 (2016). Pagg. 104-105.

Nonostante le notevoli differenze tra gli USA, che è uno Stato Federale, e l'Eurozona, cuore di una Unione di più Stati, la relazione divaricante riguarda entrambi.
Distretti salvifici
I distretti produttivi italiani hanno rappresentato un esempio di come, non essendo verticalizzati, si possa sviluppare un'economia locale efficiente: piccole-medie imprese di pari forza, operanti in filiera, hanno dato luogo ad un modello orizzontale, spalmato sul territorio e pure in grado di esportare.
Corrado Passera, quand'era a capo di IntesaSanPaolo, auspicò che in ciascun distretto emergesse un “campione”, capace di leadership e più fortemente capitalizzato, sì da consolidare l'insieme attorno e dargli prospettiva.
Non pare che l'aspettativa abbia trovato riscontro pratico. Tuttavia, la stampa economica italiana ha esultato di fronte ai recenti dati sulle performances esportative dei nostri distretti industriali che, indubbiamente, danno prova di una certa vitalità. Non è mancata la solita polemica con i “gufi”.
Dallo studio annuale sui distretti di IntesaSanPaolo veniamo a conoscenza solo dei dati export e, non disponendo ancora di adeguate analisi sui mutamenti avvenuti al loro interno, sarebbe prematuro tranciare giudizi. Questo il quadro offerto al pubblico: nel primo trimestre 2017 le vendite estere dei nostri 147 distretti hanno registrato una crescita del 6,4% rispetto al primo trimestre 2016; +24,1 miliardi di euro di maggiori esportazioni e saldo commerciale a +15,6 miliardi; i distretti sono l'80% dell'avanzo commerciale dell'intera industria manifatturiera italiana.
Coinvolti nella crescita 112 distretti su 147: non succedeva dal terzo trimestre 2011.
In presenza di una modesta accelerazione degli scambi mondiali, i distretti hanno saputo reagire tempestivamente, inserendosi nelle filiere internazionali. «Non è un caso, infatti, che l'Italia sia prima per contributo al valore aggiunto della filiera francese della moda e al secondo posto come fornitore della metalmeccanica tedesca, preceduta di poco dalla Cina.»14
Dopo aver registrato il primato della pelletteria e delle calzature di Firenze (+119%) e dei metalli di Brescia (oltre il 100%), nonché di altri importanti distretti, emergono i rilevanti incrementi percentuali ottenuti verso diversi Paesi, quali Svizzera (+17,7%) e Federazione Russa (28,2%).
Il punto debole dei distretti, secondo lo studio, sarebbe rappresentato dalla mancanza di una valida rete di distribuzione autonoma, a causa, in particolare, della operatività business to business, ovvero della produzione in funzione di capi-filiera risiedenti altrove, i quali, si suppone, dispongano delle chiavi di accesso ai mercati finali di vendita.
Per parte mia, in ordine al tema qui trattato, vorrei porre l'accento su alcuni punti che rendono ancora più necessario un approfondimento:
  • tra i primi 15 distretti di maggior successo la stragrande maggioranza è situata al Nord, tra Piemonte (3) Lombardia (3) Veneto (3) ed Emilia-Romagna (2); salvo la Toscana (3) nessuno sta al Centro Italia; nel Mezzogiorno e nelle Isole si distingue 1 solo distretto (la meccanotronica barese);
  • non è ancora chiaro quale sia l'entità dello shopping effettuato dai grandi gruppi internazionali nei distretti negli anni della crisi, né quali conseguenze comporterà questa nuova verticalità;
  • l'assenza di “campioni” locali propri a ciascun distretto (auspicio di Corrado Passera) può significare una subalternità a filiere e capi-filiera esteri e la concentrazione altrove sia dei profitti che delle future decisioni produttive;
  • la vitalità dei distretti è destinata, come avvenne già dopo il terzo trimestre 2011, a venire assai smorzata, in assenza di una politica economica nazionale adeguata, sia generale che dedicata agli assetti industriali locali.
Inoltre, il pur ragguardevole incremento non mostra di poter sovvertire la gerarchia delle nostre esportazioni, principalmente rivolte, per valori e volumi, verso le destinazioni tradizionali: Germania, Francia e Stati Uniti, seguiti da Regno Unito, Svizzera e Spagna (ai primi 6 posti). Nonostante l'enfasi giornalistica, gli sbocchi orientali ed estremo orientali pesano ancora relativamente poco.
Dicotomie nord-americane
La prosperità delle multinazionali globalizzate statunitensi si erge su uno squilibrio permanente e strutturale. In altri termini viaggia su un vuoto non occasionale, dato dal disgiungimento del loro sviluppo da quello dell'economia nazionale.
Negli Stati Uniti a riempire tale vuoto dovrebbe contribuire una forte ripresa generale dell'economia che, se avvenisse rompendo la globalizzazione commerciale attuale, a seguito di misure protezionistiche volte a riattivare la propria base industriale interna, con sé trascinando la promessa occupazione, comporterebbe contromisure ritorsive da parte dei Paesi che sono anche i luoghi di destino e consumo dei prodotti di eccellenza15 della West Coast, oltreché luoghi a monte delle filiere delocalizzate.
Le Big Five rappresentano il fior fiore delle multinazionali yankee e della globalizzazione made in USA. Il loro successo dipende dal massimo grado di delocalizzazione e d'integrazione verticale raggiunto dalla catena delle forniture necessarie all'implementazione del prodotto finito. Alle case madri serve il controllo del processo di produzione e dei mercati di sbocco, che perciò devono rimanere aperti tanto agli scambi quanto ai capitali.
D'altro canto, una recente simulazione dell'economista di Harvard, Dani Rodrik [nella foto] mette in luce un passaggio nella globalizzazione odierna, riguardante il problema delle barriere doganali:
«(...) se viene rimossa una tariffa del 40 per cento c'è un crollo del 19,44% dei salari per i lavoratori non specializzati, ma un aumento dell'economia reale del 4 per cento. La variazione negativa per le vittime è 4,9 volte maggiore di quella positiva per la collettività. Se invece la tariffa iniziale è molto bassa, il 3 per cento, il guadagno in efficienza dell'economia è basso, con una crescita soltanto del 0,02 per cento, mentre il cambiamento dei salari dei lavoratori poco qualificati è meno 1,72%. Quindi le vittime subiscono un danno che è 76,6 volte maggiore del beneficio sperimentato dagli altri.»16
Se è confermato che i “vinti” restano comunque i lavoratori poco qualificati, i quali sono i primi a sprofondare nella povertà, viene in chiaro che il residuo gioco free-trade non vale più la candela.
«Una volta abbattuto il grosso delle barriere – come è successo negli ultimi 15 anni - ulteriori integrazioni generano benefici marginali ma con costi comunque rilevanti per i più esposti alla concorrenza internazionale.»
Questo aspetto va collegato sia alla dicotomia tra successo delle multinazionali della Silicon Valley e restante economia territoriale e nazionale, sia al disavanzo commerciale statunitense.
Sicché da parte governativa appare assai complicato soddisfare insieme due esigenze opposte: quella delle imprese tipo Big Five, liete di conservare lo status quo (salvo chiedere, in modo politicamente corretto, qualche regolamentazione concordata che ne consolidi l'habitat) e quella del rilancio dell'economia nazionale, della domanda interna allargata, dell'occupazione, del ripianamento del disavanzo commerciale nazionale con conseguente limitazione o fine dell'indebitamento verso l'estero.
Seppure in condizioni di grande privilegio, stante la possibilità di pagare in dollari i debiti contratti (semplicemente stampandoli), la difficoltà in cui si dibatte l'establishment USA, non solo la presidenza Trump, sono la spia di queste contraddizioni.
Riordini
È significativo che il WTO (Organizzazione Mondiale del Commercio) viva una fase di stallo da prima del tonfo del 2008, a testimonianza del fatto che la crisi della globalizzazione ha preceduto il crollo finanziario, venendo da esso amplificata ed approfondita. Pertanto, la conoscenza delle cause endogene ai crolli della “economia di carta”, oggetto di appropriati studi, alcuni dei quali divenuti nel tempo dei “classici, ci aiuta a comprendere perché Willy il coyote sia spinto a correre nel vuoto, ma non ci esime affatto dall'indagare per quali ragioni venga a crearsi il vuoto medesimo.
Parimenti, ove si rivolga lo sguardo al disordine globalizzato, qualsivoglia nuovo assetto realmente multilaterale (non per rimettere in sella vecchie supremazie) che disinneschi pericolose derive belliche già in itinere, dovrà porre mano politica ad alcune delle più stridenti e congenite contraddizioni della globalizzazione reale. Dalla liberalizzazione finanziaria agli assetti valutari, dalle macro-dicotomie territoriali e tra Paesi, ivi compresi gli sbilanci commerciali, alle verticalità delle multinazionali.
La Cina continua a perseguire una strategia commerciale basata soprattutto sulle vie marittime e sui porti della “collana di perle”, benché venga enfatizzata la via terrestre della Seta.
Essa, anche in virtù di investimenti nelle nuove tecnologie di medio-lungo termine non assillata da ritorni immediati, dispone comunque di un vasto entroterra su cui poggiare un eventuale riequilibrio a trazione interna. Se saprà resistere alle sirene che vorrebbero una sua maggiore apertura alle logiche finanziarie globali.
Al momento il punto critico, oltre a quello costituito dagli USA, è rappresentato dall'Europa, più precisamente dal sistema euro a dominanza tedesca. O il governo della Germania rinuncia, magari costretto dai popoli e Paesi europei periferici, al suo ruolo di supremazia nazionalistica ed ad un sistema valutario su misura di tale supremazia, rinunciando a farsi grande nel mondo sulle spalle dell'Europa periferica, o niente potrà salvare l'Unione Europea dalla disgregazione dovuta alle sue interne divaricazioni.
Certo, come argomenta Stiglitz, esistono molteplici misure e strumenti per ovviare alla mancanza dei presupposti necessari all'adozione di una moneta unica, risalenti all'epoca in cui fu varata. Ma sia la sua successiva pratica governance, sia l'opposizione all'introduzione a posteriori anche solo di una parte di tali misure e strumenti, mostrano come il nodo politico consista nella propensione teutonica alla supremazia nazionalistica, perseguita dai diversi governi, in sintonia con un blocco finanziario-industriale di storica compattezza.
Inutilmente questa politica si ammanta di europeismo e si cela sotto il manto della condanna indistinta del “populismo”, facendovi rientrare chiunque non voglia supinamente sottostare.
L'eurozona non è un luogo win win, in cui basterebbe seguire l'esempio di Berlino perché tutti possano vincere. Non è un maiale tutto di prosciutti.
E, nel frattempo, non ci si potrà aspettare che gli Stati Uniti stiano passivamente a guardare, pur essendo (o proprio perché sono) l'altro epicentro del traballante ordine mondiale da riordinare.
Note
1 Maria Teresa Cometto, “I giganti di Wall Street gonfiano la bolla? Un Nobel svela gli indizi”, Corriere della Sera, L'Economia, 12/06/2017. Dati e citazioni nel paragrafo sono tratti dallo stesso articolo.
2 Adotto questa definizione universalmente usata, nonostante sia evidente che le attività finanziarie non siano meno ”reali” delle attività di produzione di merci e servizi. Se non bastasse l'essenziale funzione sistemica “reale” della finanza, sono le conseguenze dei crolli finanziari sull'insieme economico a dimostrare quanto la finanza appartenga alla sfera del “reale”.
3 Riccardo Viale, “Il toro americano (scatenato o drogato)”, Corriere della Sera, L'Economia, 26/06/2017. Dati e citazioni nel paragrafo sono tratti dallo stesso articolo.
4 La legge Dodd-Frank, non paragonabile alla Steagall-Glass del 1933, abrogata durante la presidenza di Bill Clinton.
5 Il momento in cui Willy il coyote precipita è stato ironicamente paragonato al “momento Minsky”. Secondo la teoria di Hyman P. Minsky il momento del crollo non richiede necessariamente il sopraggiungere di shock esterni per verificarsi, essendo il risultato di una dinamica interna (endogena) al culmine di una economia capitalistica finanziarizzata.
6 Per “proteggere i contribuenti” da “inevitabili” azioni di salvataggio, giacché, come ironicamente ricorda l'ex governatore della Banca d'Inghilterra, Mervyn King, le banche sono “internazionali in vita, ma nazionali quando muoiono.”
7 Mohammed El Erian, (Chief Economic Adviser presso Allianz), “Tre rischi per la finanza: hi-tech, liquidità e regole”, Corriere l'Economia, 17/07/2017 .
8 J. M. Keynes, “Teoria generale dell'occupazione, dell'interesse e della moneta”, Cap. 23, Note sul Mercantilismo, ecc., Utet, 2010 (1926-1936).
9 Giacché i costi unitari diminuiscono all'aumentare della scala produttiva.
10 Per la maggiore efficienza derivante dalla specializzazione relativa di ciascun fornitore o/e del territorio-Paese in cui opera in filiera.
11 Attratte da un indice di redditività del capitale proprio del 25%, che secondo Deutsche Bank dovrebbe essere la norma.
12 J. E. Stiglitz, “L'EURO – Come una moneta comune minaccia il futuro dell'Europa”, Einaudi, 2017 (2016). Note 39 e 40.
13 Significativo è l'andamento del rapporto tra debito pubblico e Pil nei Paesi della zona euro. Nei PIIGS (tranne l'Irlanda) è aumentato più dal 2011-2016 che non dal 2007-2010; cioè il debito è aumentato di più nella seconda recessione, accompagnata da austerità, che non nella prima, accompagnata da politiche blandamente espansive e dal salvataggio delle banche. In Germania, dal 2011, si è invece ridotto di parecchio l'aumento del debito, tornato quasi ai livelli del 2007 (solo +4 punti di Pil). Dati e grafico in la Repubblica Affari&Finanza, 26/06/2017.
14 Dario Di Vico, Corriere L'Economia, “Distretti d'Italia. Da Verona a Bari è record con l'alleanza tra piccoli e big”, 26 giugno 2017. I dati in paragrafo sono tratti dal suo articolo.
15 Spesso l'enfasi sulle “eccellenze” a livello globale tende a nascondere i vuoti nelle sottostanti economie territoriali e nazionali.
16 Le citazioni in paragrafo sono tratte da Stefano Feltri, “Perché cresce l'ostilità alla globalizzazione”, il Fatto Economico, 5 luglio 2017.