lunedì 12 dicembre 2016

La pera sociale

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La mappa del voto referendario, specchio del disagio diffuso.
Crescono povertà e divaricazione sociale, in un Paese sempre più spinto alla periferia d'Europa.
Un'intera “classe dirigente” è posta di fronte ai suoi fallimenti.

Alla ricerca delle motivazioni della schiacciante vittoria del No nel referendum costituzionale, può servire un rapido sguardo alla distribuzione geografica e generazionale del voto.
Dove è più alto il disagio popolare ha prevalso più nettamente il rifiuto, mentre ovunque si è resa esplicita la disillusione giovanile verso lo stato di cose presente. Di contro, dai quartieri metropolitani abitati dalle classi ad alto reddito e ricchezza, è venuto il più elevato consenso alle scelte ed alle riforme governative.
Non si tratta solo e tanto della conferma di espressioni politiche già presenti alle ultime amministrative, quanto e soprattutto del riproporsi della questione sociale.
Interno Italia
Sapevamo che negli ultimi anni in Italia la povertà era aumentata. Una ulteriore conferma ci è venuta dal rapporto annuale del Censis1 [riquadro "Il rapporto 2016 del Censis"] che, insieme alla più recente foto dell'ISTAT [riquadro "La fotografia ISTAT"], ci offrono elementi per interpretare i fenomeni oltre i dati e le osservazioni fatte dai ricercatori.

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Il rapporto 2016 del Censis
Secondo il Censis in Italia sono in condizioni di “deprivazione materiale grave” 6,9 milioni di persone (dati del 2014), 2,6 milioni in più rispetto al 2010.
Rispetto ai coetanei di 25 anni fa, chi è nato dopo il 1980 dispone di un reddito inferiore del 26,5%, mentre quello degli over 65 è cresciuto del 24,3%. Molti giovani emigrano.
In un Paese primo nell'Unione Europea per quota di ragazzi che non studiano né lavorano (dati Istat), l'aspettativa generale è al peggioramento, sicché solo il 22% degli italiani intende fare investimenti, mentre il 56,7% punta a risparmiare ed il 51,7% vuol tagliare ancora le spese.
Tra gli italiani che contano su rendite le aspettative sono piatte o negative. Il 60,2% dei benestanti è impaurito dal downsizing* generazionale”.
Rispetto all'inizio della crisi del 2007 la liquidità aggiuntiva ha raggiunto la notevole cifra di 114,3 miliardi di euro “un valore superiore al Pil di un Paese intero come l’Ungheria”. Insomma, l’Italia rentier “si limita a utilizzare le risorse di cui dispone senza proiezione sul futuro, con il rischio di svendere pezzo a pezzo l’argenteria di famiglia”.
Poiché si tende ad andare in pensione più tardi, per effetto di carriere contributive più lunghe, il reddito medio del totale delle pensioni è aumentato, dal 2008 al 2014, del 5,3%.
Per 7,8 milioni di famiglie i trasferimenti pensionistici formano oltre il 75% del reddito disponibile, mentre per 3,3 milioni sono l'unico reddito familiare. Nondimeno sono stimati in 1,7 milioni i pensionati che hanno ricevuto un aiuto economico da parenti e amici. Ma i pensionati non possono essere considerati solo come recettori passivi di risorse e servizi di welfare, perché sono anche protagonisti di una redistribuzione orizzontale di risorse economiche: sono 4,1 milioni quelli che hanno prestato ad altri un aiuto economico.
http://www.censis.it/9
*Traducibile in: ridimensionamento.
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Il rapporto Censis fa tabula rasa della rappresentazione mass-mediale del giovane “mammone” che non se ne va a vivere per conto proprio e, “schizzinoso” (choosy, secondo la Fornero), non accetta i lavori disponibili, preferendo campare sulle spalle dei genitori. Mostra una realtà di costrizione, all'interno della quale, tuttavia, non compare la viva esperienza umana di troppi giovani, anche tra i “fortunati” occupati stabili, i cui rapporti di lavoro sono tornati al tempo dei “padroni delle ferriere”.
Indubitabilmente in Italia alle carenze del welfare state, inadeguato verso i senza lavoro né reddito, ha cercato di porre rimedio una sorta di welfare familiare, reso possibile da una cultura cattolica nazionale, a suo modo solidale.
Nelle famiglie delle fasce sociali più deboli, talvolta con disabili a carico, i figli e nipoti, disoccupati precari2 sottopagati, vengono sostenuti, con diversa disponibilità economica, fino a:
  • sprofondare tutti insieme in grave deprivazione materiale;
  • indurre anche minimi risparmi di spesa per accantonamenti cautelativi in vista di tempi peggiori;
  • erodere sensibilmente risparmi e piccole proprietà accumulati nei decenni precedenti.
Coloro che si trovano nella fascia sociale appena superiore, nella quale i giovani dispongono di redditi sufficienti per sposarsi ed avere dei bambini, le famiglie d'origine comunque solidalmente risparmiano, perché percepiscono il pericolo derivante dal fatto che tali giovani sovente sono con “negozi in avviamento” o “partite IVA” o “privi di articolo 18” e con un mutuo casa da pagare.
Parimenti si risparmia nelle famiglie in cui s'è puntato ad una elevata formazione professionale dei figli, poiché per loro non ci sono all'orizzonte ritorni ripaganti e rassicuranti.
Se, come indicano i dati sui consumi, così ampie fasce di popolazione non comprano perché già in difficoltà o percepiscono difficoltà e minacce dietro l'angolo, il contenimento della spesa di queste fasce si traduce in fuga dagli investimenti per produrre merci e servizi loro destinati.
E qui arrivano gli accantonamenti degli strati più ricchi, collocati nel collo ristretto della “pera sociale”, immagine contemporanea della distribuzione di redditi e ricchezza, in cui la stragrande maggioranza, comprese le classi medie di consumo, è schiacciata verso il basso. I ceti situati nel collo della “pera”, pur nutrendo il florido mercato del lusso, accumulano in posizione di reali rentiers. Come le altre componenti sociali mancano della famosa “fiducia”, ma nel loro caso questa mancanza li spinge ad una comoda surplace, in attesa di tempi meno rischiosi.
In sintesi, l'aspettativa al peggioramento è stata tanto generale da determinare, dal 2007 ad oggi, una montagna di risparmio aggiuntivo che ha superato i 114 miliardi di euro.
Il rapporto del Censis chiarisce anche l'effettivo stato in cui versano i pensionati, dipinti spesso come una massa di privilegiati e contrapposti, per tagliare indistintamente le loro “rendite”, ai giovani.
Tra i pensionati più poveri, una parte significativa tira avanti con l'aiuto di parenti ed amici. Un'altra, in posizione medio-bassa e media, regge la protezione del welfare familiare prima accennato.
Solo quella in alto è in attesa di investire, quando i rischi si ridurranno.
L'andamento dell'indice Gini, che misura le diseguaglianze di reddito, è inequivocabile, in particolare se paragonato ad altri Paesi euro-mediterranei.
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La fotografia ISTAT


Rispetto al 2014, nel 2015 i residenti a rischio povertà o esclusione sociale passano dal 28,3% al 28,7%. Il rischio riguarda il 46,7 della popolazione meridionale, contro il 24% al Centro ed il 17,4% al Nord.
Sul reddito equivalente totale il 20% più ricco delle famiglie percepisce il 37,3%, il 20% più povero solo il 7,7%.
Dal 2009 al 2014 il reddito in termini reali cala più per le famiglie appartenenti al 20% più povero, ampliando la distanza dalle famiglie più ricche il cui reddito passa da 4,6 a 4,9 volte quello delle più povere.
L'indice Gini, che misura la diseguaglianza di distribuzione del reddito, colloca l'Italia (0,324) tra i Paesi UE del Mediterraneo appena prima di Cipro (0,336), Portogallo (0,340), Grecia (0,342) e Spagna (0,346).

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Interno Europa
L'Osservatorio Minghetti dell'Istituto milanese Bruno Leoni aggiorna periodicamente un suo indicatore sintetico (Super-indice) a misura del divario dell’economia italiana rispetto ad altri Paesi comparabili nell’Unione Europea.
Tale misura è basata su alcune importanti dimensioni macroeconomiche:
  • tasso di crescita del PIL in termini reali;
  • tasso di disoccupazione;
  • rapporto tra deficit del bilancio statale e PIL;
  • rapporto tra debito pubblico e PIL;
  • rapporto delle partite correnti rispetto al PIL.
Al di là di ogni critica alla composizione del Super-indice Minghetti, dobbiamo prendere atto che i fautori del “libero mercato” dell'Istituto Leoni qualcosa di rilevante ci dicono.
Attestano che l'economia italiana diverge strutturalmente sempre più dagli altri Paesi della zona euro e tende a sprofondare nelle differenziate periferie d'Europa [grafico "Indicatore della distanza macroeconomica: Italia-Eurozona"].

Sorprende, ma non troppo, che pure la Francia, la quale supponeva di appartenere stabilmente all'asse centrale dell'Eurozona, tenda a seguire l'Italia.
Nell'aggiornamento del 21 novembre3 gli osservatori sintetizzano:
«Dopo essersi notevolmente ridotto negli anni che precedettero la crisi finanziaria del 2008, il grado di divergenza fra le economie dell’area dell’Euro ha raggiunto e superato nell’anno in corso i livelli precedenti all’introduzione della moneta unica
Se l'euro si proponeva l'obbiettivo di conseguire una maggiore convergenza, il suo fallimento è conclamato e riguarda il 48% della popolazione dell'Eurozona, mentre ai “Paesi convergenti”, Germania in testa, appartiene solo il 29% della popolazione dell'area euro.
Ne deriva una semplice inevitabile constatazione:
«Il tema della incompatibilità fra il grado di disomogeneità dell’Eurozona e il funzionamento ordinato di un’area valutaria peculiare come l’area dell’Euro rimane dunque al centro delle questioni europee
Persino la tanto lodata immissione di denaro, il Quantitative Easing di Mario Draghi e della Banca Centrale Europea (Bce), si è risolta, secondo l'analista Marcello Minenna4, fresco dimissionario dalla giunta di Virginia Raggi al Comune di Roma, nel far crescere il divario tra Germania ed Italia grazie all'andamento dei tassi di interesse reali [grafico "Un divario che cresce"].
Scrive Minenna:
«(...) in Germania i tassi stanno sì salendo ma con molta moderazione mentre l'inflazione è cresciuta significativamente; dunque i tassi reali sono diventati negativi, quasi al -1%! Questo implica che investire in Bund è più costoso di quello che sembra, mentre il governo tedesco ringrazia per via della svalutazione del debito dovuta alla più alta inflazione. Quindi non solo Berlino beneficia dei tassi nominali negativi sui Bund fino a oltre gli 8 anni, ma riceve anche un aiuto dall'inflazione.»

In Italia, invece, il tasso nominale dei buoni al 2% si somma alla deflazione (inflazione al negativo) a -0,1%, sicché il risultato è un tasso reale più elevato che fa costare il debito “sovrano” quanto nel 2012.
Nelle condizioni date, in cui le due economie continuano a divergere, la Germania può permettersi di opporsi all'estensione a tutto il 2017 del Quantitative Easing5, pur guadagnandoci, per mantenere in sospeso sulla testa del nostro Paese la spada di Damocle dell'esplosione dello spread6 e dell'intervento della Troika, qualora l'Italia entro l'anno prossimo non adempia agli obblighi prestabiliti in sede europea.
Ce n'est qu'un début
Per l'Istituto Leoni e per la corrente politica liberista la soluzione consiste nell'attuazione delle famigerate “riforme di struttura”, essendo la divergenza di tipo strutturale. Il governo “tecnico” di Monti (novembre 2011 – aprile 2013) agì seccamente in tale direzione, ma la sua pretesa “austerità espansiva” ottenne risultati recessivi: il Pil nel 2012 scese del 2,3%.
Per i social-liberisti, nella congiuntura attuale segnata dalla troppo bassa inflazione interna, con punte di deflazione, e dal ristagno economico, occorre procedere sì alle suddette “riforme strutturali”, ma in parallelo disporre di una maggiore flessibilità di spesa pubblica in deroga alle “compatibilità di bilancio” fissate dai Trattati. Il governo Renzi ha agito su questa linea ambigua e di piccolo cabotaggio, combinando misure strutturali come il Jobs Act e bonus per il rilancio dei consumi. Ma la ripresa si è impantanata in insignificanti zero virgola, mentre crescevano povertà e divaricazioni in Italia e tra Paesi dell'Eurozona.
Non disponendo delle leve macroeconomiche di autogoverno (le potestà monetaria, valutaria e di bilancio) e continuando a soffrire nell'euro e nel “rispetto” dei Trattati, l'Italia appare risucchiata in una palude ristagnante: i più vengono “sommersi” o minacciati di sprofondare verso il basso, allorché tra i “salvati” un ristretto numero continua a trarne vantaggio.
Il No popolare ha messo in chiaro che con l'austerità dichiarata, o di mezza misura retorica, la maggioranza non vuole andare avanti.
Ma l'ammissione della sconfitta del governo Renzi non contempla l'ammissione del fallimento delle politiche che ne sono alla fonte e di un'intera “classe dirigente”, la quale da anni agisce in sintonia d'interessi con le oligarchie economico-finanziarie e con i poteri accentrati in Europa.
Conforta il fatto che, nel difficile momento, continueremo a disporre della Costituzione del 1948. Un ambito più propizio per risolvere la lotta in corso a favore della democrazia e delle classi popolari, senza le quali essa non esiste e non può vivere.
Note
1 Censis, Centro Studi Investimenti Sociali, 50° Rapporto sulla situazione sociale del Paese/2016.
2 Tra loro il “popolo dei vouchers” che comprende un milione e 400 mila persone, in maggioranza sotto i 35 anni.
3 http://www.brunoleoni.it/superindice-ibl-%E2%80%93-nota-di-aggiornamento-n-5.
4 Marcello Minenna, “Perché siamo tornati a fare i conti con lo spread”, Corriere Economia, 28 novembre 2016.
5 Il capo della Bundesbank, Jens Weidmann, ha votato contro l'estensione del Quantitative Easing deciso dalla Bce il 9/11/2016.
6 Differenza o “allargamento” (spread in inglese) di rendimento tra i titoli di Stato (come i BTP) italiani e quelli tedeschi (“Bund”) giudicati tra i più affidabili. Al rialzo dello spread corrisponde una maggiore spesa per interessi sul debito pubblico.

sabato 3 dicembre 2016

Comunque vada

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Potestà cedute
Roberto Scarpinato, attuale procuratore generale presso la Corte d'Appello di Palermo, il 22 novembre scorso in un seminario [vedi riquadro in fondo] sulla riforma costituzionale, ha mostrato una bella lucidità.
Dalla sua critica non emerge solo una circostanziata ricostruzione dei complicati meccanismi tecnico-giuridici, attraverso i quali la riforma Boschi peggiora democrazia e rappresentanza. Egli svela la finalità politica non dichiarata ed indicibile che sostanzia il “combinato disposto” (riforma costituzionale + legge elettorale Italicum).
Portando in chiaro innumerevoli fatti, Scarpinato dimostra che non è certo la Costituzione ad impedire l'efficienza dell'azione di governo contro il ristagno economico, il declino industriale ed il regresso sociale. E si chiede:
«Quali sono dunque le reali cause che ostacolano la governabilità nel nuovo scenario macro politico e macroeconomico venutosi a creare nella Seconda Repubblica per fattori nazionali ed internazionali verificatisi dalla seconda metà degli anni Novanta del secolo scorso?»
La risposta è netta: la rinuncia ad alcune prerogative essenziali per l'esercizio di sovranità.
Con i trattati europei firmati dal 1992 in poi, tre potestà essenziali, monetaria valutaria e di bilancio, non sono più nella disponibilità nazionale. Sono state delocalizzate, cedute a Commissione europea, Bce (e Fondo monetario internazionale), organi privi di legittimazione democratica, disconnessi dalla sovranità popolare ma fortemente connessi ai grandi centri di potere economico-finanziario. Pertanto, l'esecutivo non dispone delle indispensabili leve per governare la politica economica del Paese.
Invece di trarre ispirazione dalla Costituzione del 1948 per riprendere vitalità democratica e rappresentativa, la scelta di revisione va nella direzione esattamente opposta, quella voluta dai “mercati finanziari”.
Illuminante il riferimento1 alla relazione che accompagna il disegno di riforma costituzionale, laddove afferma esplicitamente che essa risolverà i problemi del Paese, rimediando
«l'esigenza di adeguare l'ordinamento interno alla recente evoluzione della governance economica europea e alle relative stringenti regole di bilancio».
Seguendo il ragionamento di Scarpinato possiamo arrivare ad ulteriori considerazioni circa il nostro prossimo futuro.
Scelte inevitabili
Secondo Scarpinato, l'arretramento istituzionale consentirebbe a ristrette cerchie di consolidare un regime oligarchico paragonabile a quello vigente agli inizi dello scorso secolo. Con tutta evidenza, tuttavia, non si tratterebbe di un “ricorso storico”, secondo la celebre teoria di Giambattista Vico, bensì di un corso inedito e persino peggiorativo. Rispetto a quel periodo interviene una decisiva differenza: la subalternità nazionale a poteri oligarchici sovranazionali.
Comunque vada il referendum, il governo del Paese sarà di fronte a determinate scelte:
    1) mantenendosi nell'obbligo dei patti sottoscritti in Europa, dovrà eseguire i compiti2 dettati dalle “potestà” delocalizzate a Bruxelles-Francoforte (e Berlino);
    2) alle prese con continue querelles e rimpalli di responsabilità su muri, migranti e margini di flessibilità di bilancio, potrebbe imboccare la via delle recriminazioni nazionalistiche (come già oggi fa) e prendere le distanze dall'Unione non portandoci tuttavia fuori dal guado, sicché continueremmo a sprofondare inermi nella stagnazione periferica;
    3) andando l'euro e l'Unione in ulteriore crisi per l'accentuarsi delle note dicotomie strutturali, potrebbe essere costretto a prenderne atto e ritrovarsi a fare da sé, a doversi riprendere le potestà cedute;
    4) rimettere in discussione i patti e uscire da incertezze ed ambiguità, senza attendere passivamente eventi più dirompenti, e sganciarsi dall'euro cercando di ri-contrattare la partecipazione all'Unione.
L'attuale linea governativa, di “navigare bordeggiando” tra le prime due opzioni, è precaria, ci condanna ad una instabilità di base, sistemica, a cui vuole sovrapporre una gabbia istituzionale per preservare l'establishment politico-economico. Salvo miracoli, è destinata a divenire sempre più antipopolare ed impopolare. L'accentramento di poteri in capo al partito-governo, consentito dal prevalere del Sì, si tradurrebbe nell'impotenza verso l'esterno Paese e, sul piano interno, in un maggior potere unicamente rivolto ad imporre alla maggioranza degli italiani medicine che aggraverebbero la malattia.
Solo poco tempo guadagnato, di fronte alle restanti due opzioni, che richiederanno proprio quella ripresa di vitalità di democrazia e rappresentanza che la riforma Boschi nega, in mancanza della quale saremo maggiormente esposti all'avventurismo politico.
Note
1 Nella sintesi in riquadro a pag. 2 questo riferimento alla relazione di accompagnamento, presente nell'intervento di Scarpinato, è stato omesso per evitare inutili ripetizioni.

2 Nell'ottobre 2011 Renzi disse al Sole-24ore: “Mi ritrovo nella lettera della Bce. E non condivido l'atteggiamento prevalente del Pd che evoca l'Europa quando conviene e ne prende le distanze se propone riforme scomode.” Erano le riforme poi realizzate dal cosiddetto governo tecnico di Mario Monti, ora sconfessate per demagogia elettorale referendaria.

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Roberto Scarpinato
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Sostiene Scarpinato

«(...) questa riforma non è affatto una revisione della Costituzione vigente, (…), ma (…) una diversa Costituzione, alternativa e antagonista nel suo disegno globale a quella vigente, mutando in profondità l’organizzazione dello Stato, i rapporti tra i poteri ed il rapporto tra il potere ed i cittadini.»
Viene abrogato il diritto di eleggere direttamente i senatori, sicché alla crisi di democrazia e rappresentanza, i riformatori rispondono restringendo gli spazi di democrazia e di rappresentanza.
Dopo aver indicato al nocciolo in cosa consista il superamento del bicameralismo paritario, con riferimento alla legge elettorale detta Italicum, prosegue:
«Alla sostanziale desovranizzazione del popolo, alla disattivazione della separazione tra potere esecutivo e potere legislativo e, quindi, del ruolo di controllo di quest’ultimo sul primo, si somma poi la disattivazione del ruolo delle minoranze che, sempre grazie all’Italicum, sono condannate per tutta la legislatura alla più totale impotenza, avendo a disposizione in totale solo 290 deputati rispetto ai 340 della maggioranza governativa.» Nonostante le minoranze siano in realtà la maggioranza reale del Paese.
Nelle mani del governo si verrebbe, pertanto, a concentrare un potere di supremazia sugli tutti gli apparati in cui si articola lo Stato (Rai, Partecipate pubbliche, enti economici pubblici, varie Autority, vertici di polizia e servizi segreti).
Ma altro è il punto centrale del suo ragionamento critico.
« (…) se le ragioni della riforma dichiarate non sono radicate nella realtà, se ne deve dedurre che vi sono altre ragioni che non si ritiene politicamente pagante esplicitare. (…) Quali sono dunque le reali cause che ostacolano la governabilità nel nuovo scenario macro politico e macroeconomico venutosi a creare nella seconda repubblica per fattori nazionali e internazionali verificatisi dalla seconda metà degli anni Novanta del secolo scorso?»
Gli strumenti indispensabili per governare la politica economica di un Paese sono essenzialmente tre:
«La potestà valutaria, cioè il potere di svalutare la moneta nazionale in modo da fare recuperare margini di competitività all’economia nazionale nei periodi di crisi. La potestà di bilancio, cioè il potere di finanziare il rilancio dell’economia mediante spesa pubblica in deficit, senza attenersi alla regola del pareggio tra entrate ed uscite.»
«(...) il governo non ha potuto azionare quelle leve per un deficit di governabilità nazionale determinato non dalla Costituzione del 1948, come sostengono i fautori del Si, ma dai trattati europei firmati dal 1992 in poi. Il deficit di governabilità così venutosi a determinare è a sua volta il frutto di un grave deficit di democrazia. Infatti le leve fondamentali per governare la politica economica nazionale, non sono state cedute al Parlamento europeo o ad altro organo espressione della sovranità popolare, ma sono state cedute agli organi prima menzionati – la Commissione europea, la Bce (e per certi versi il Fondo monetario internazionale) – privi di legittimazione e rappresentanza democratica, disconnessi dalla sovranità popolare ma fortemente connessi invece ai grandi centri del potere economico e finanziario.»
Nonostante i riformatori affermino di essere proiettati al futuro: «a me sembra che con questa riforma si rischi di riportare indietro l’orologio della Storia all’epoca del primo Novecento quando prima dell’avvento della Costituzione del 1948, il potere politico era concentrato nelle mani di ristrette oligarchie, le stesse che detenevano il potere economico.»

Riassunto e passi citati da:
Roberto Scarpinato, incontro seminariale “Il referendum sulla Costituzione: sì e no a confronto”, Palermo, Palazzo di Giustizia, 22/11/2016.
Testo intero: http://temi.repubblica.it/micromega-online/scarpinato-%E2%80%9Ctutte-le-ragioni-per-votare-no-a-una-riforma-oligarchica-e-antipopolare%E2%80%9D/