Prefigurazioni
Qual
era la situazione sui campi di battaglia del secondo conflitto
mondiale, quando nell'agosto del 1941 i tre confinati a Ventotene
scrissero il Manifesto federalista? Cosa lasciava presagire,
politicamente, l'andamento bellico?
A
giugno con l'Operazione Barbarossa era iniziato l'attacco nazista
all'Urss. Benché coinvolti a sostegno della Gran Bretagna (legge
Affitti e Prestiti),
solo il 14 agosto gli Stati Uniti si legano alle sue sorti e
sottoscrivono la Carta Atlantica. L'attacco giapponese a Pearl
Harbour avverrà sul finire dell'anno, il 7 dicembre. Mese in cui
anche Cina ed India dichiareranno guerra al Giappone. Sicché
nell'agosto del '41 il quadro delle alleanze mondiali andava
delineandosi, ma non poteva dirsi ancora compiuto.
Sul
piano militare la Germania deteneva l'iniziativa strategica e, pur
incontrando crescenti resistenze, era all'attacco e sembrava
vincente. Ciò nonostante l'Italia, il suo principale alleato
europeo, avesse palesato grandi difficoltà ed impreparazione nei
teatri in cui era stata impegnata.
Al
confino l'estrema fiducia nella vittoria finale dell'antifascismo,
data dall'apertura del secondo fronte orientale contro l'Urss e dalla
resistenza dell'Inghilterra, non poteva condurre anche ad una chiara
previsione dei modi in cui sarebbe stata ottenuta e dei futuri
assetti dell'Europa.
Non
era immaginabile che Hitler riuscisse a trascinare nella propria
totale sconfitta l'intero establishment della Germania,
coinvolgendovi anche il fascismo italiano, dal quale si separarono
tra il 25 luglio e l'8 settembre del '43,
nell'estremo tentativo di salvarsi, la monarchia sabauda e larga
parte dei gruppi dirigenti nazionali che avevano condiviso il potere
nel ventennio mussoliniano.
Non
era immaginabile che i futuri alleati rifiutassero tutti ogni pace
separata.
Tante
cose non potevano essere previste.
Per
questo motivo, forse, il quadro post-bellico immaginato da Ventotene
non si distanzia nettamente da quello sperimentato all'indomani del
primo conflitto mondiale. Con una differenza sostanziale: la
convinzione che, in questo secondo dopo-guerra, una scelta “di
civiltà” sarebbe stata matura, necessaria e preliminare rispetto
ad ogni altra trasformazione: l'unità europea, per la quale
impegnare le forze autenticamente internazionaliste.
Gli
estensori del Manifesto erano consapevoli che la sconfitta tedesca
non avrebbe portato automaticamente al nuovo ordine unitario
dell'Europa.
Non sarebbe mancato il tentativo di ricostruire i vecchi organismi
statali. «Ed
è probabile che i dirigenti inglesi, magari d'accordo con quelli
americani, tentino di spingere le cose in questo senso, per
riprendere la politica dell'equilibrio delle potenze nell'apparente
immediato interesse del loro impero.»
Nello
scontro con le forze progressiste, le forze conservatrici e
reazionarie avrebbero cercato di fare leva sulla «restaurazione
dello stato nazionale». «Se raggiungessero questo scopo avrebbero
vinto. Fossero pure questi stati in apparenza largamente democratici
o socialisti, il ritorno del potere nelle mani dei reazionari sarebbe
solo questione di tempo.» Dopo il quale: «I
generali tornerebbero a comandare, i monopolisti ad approfittare
delle autarchie, i corpi burocrati a gonfiarsi, i preti a tener
docili le masse.»
Si
verrebbe in tal modo ad imporre l'armarsi l'uno contro l'altro ed il
ricorso alla guerra.
Confluivano
a dar forza alla scelta della «definitiva
abolizione della divisione dell'Europa in stati nazionali sovrani»:
il crollo già
avvenuto nella guerra della maggior parte degli Stati del
continente;
l'impossibilità di
«un
equilibrio di stati europei indipendenti con la convivenza della
Germania militarista a parità di condizioni con gli altri paesi»,
non potendo
«spezzettare la Germania e tenerle il piede sul collo una volta che
sia vinta»;
la
necessità di svelenire la vita continentale dalle contese sui
confini, sulle minoranze, sugli sbocchi al mare (e da questioni come
quelle balcanica ed irlandese) adottando nella «Federazione
Europea la più semplice soluzione, come l'hanno trovata in passato
i corrispondenti problemi degli staterelli entrati a far parte delle
più vaste unità nazionali (...)»;
la
fine del senso di sicurezza della Gran Bretagna nella splendid
isolation,
la dissoluzione dell'esercito e della repubblica francese; con il
riconoscimento dell'indipendenza indiana e la perdita dell'impero
francese sarebbe stato più agevole «la
sistemazione europea dei problemi coloniali»;
la
scomparsa di alcune dinastie monarchiche e l'aprirsi di una
prospettiva repubblicana;
la
garanzia unica, costituita dalla federazione europea, per i popoli
asiatici ed americani di nuovi rapporti internazionali su base
pacifica e cooperativa.
Da
questa nuova situazione veniva uno scompiglio, un mutamento. Coloro
che, sebbene democratici e socialisti, avessero insistito nel
concepire come campo centrale la conquista del potere «nel
vecchio stampo» dello Stato nazionale avrebbero di
fatto permesso il ritorno delle «vecchie
assurdità».
S'imponeva una «nuovissima»
linea di demarcazione tra reazionari e progressisti
federalisti, protesi, questi ultimi, alla «creazione
di un solido stato internazionale»
europeo e poi, in futuro, mondiale.
Come
andò
Nel
dopo-guerra le cose andarono diversamente da come avevano sperato e
temuto Spinelli, Rossi e Colorni: gli Stati nazionali vennero sì
ripristinati, ma l'Europa invece di molteplici divisioni, ne ebbe
una, quella tra Est ed Ovest, a tal punto prevalente da mettere in
sub-ordine le altre. Tali Stati, raccolti nelle alleanze militari
contrapposte, prima della Nato e poi del Patto di Varsavia, non
disponevano di sovranità né assoluta né relativa e cooperativa,
bensì limitata.
Nonostante «nel
vecchio stampo» continentale ad Oriente avesse
prevalso il socialismo e ad Occidente il capitalismo, la pace
(armata) durò dal '45 al '91, anno di inizio della guerra nella
ex-Jugoslavia.
Il
Novecento che sembrò “secolo breve”
alla caduta del muro di Berlino, si mostrò assai più lungo, tanto
da apparire ancor oggi in-concluso.
Alla
vecchia linea di demarcazione tra partiti progressisti e reazionari
non subentrò la nuovissima perorata dai federalisti. La vecchia
lotta tra le classi si intrecciò con la nuova lotta tra i due
blocchi.
Quanto
ai Paesi sottoposti al colonialismo e all'imperialismo, la storia
seguì un percorso piuttosto accidentato e diversificato, in cui il
ruolo degli Stati Uniti fu primario ed in contrasto con
l'affermazione delle sovranità e dell'indipendenza di popoli e
nazioni del mondo in via di sviluppo.
Qui
giunti, credo utile focalizzare l'attenzione su alcuni passaggi
storici che possono essere posti in relazione con il Manifesto di
Ventotene: la riunificazione della Germania e gli svolgimenti nei
Balcani (Jugoslavia ed Albania non appartenevano al Patto di
Varsavia) e nell'Est europeo.
Germania
vinta e divisa
Nelle
intenzioni di Washington, come previsto dal piano Morgenthau,
la Germania sconfitta doveva essere smembrata ed il suo apparato
industriale smantellato. Tuttavia, in
seguito alla guerra fredda, dalle ceneri del terzo Reich nacquero due
Stati: la Repubblica Federale Tedesca ad Ovest e la Repubblica
Democratica Tedesca ad Est (con Berlino divisa all'interno del
territorio della Rdt). L'economia tedesca nell'insieme non venne
affatto ridotta allo “stato agro-pastorale”, pur con una diversa
base di partenza tra i due Stati.
Il
muro di Berlino, simbolo della divisione della guerra fredda, fu
eretto più tardi, nel 1961, quando a Mosca governava Nikita
Kruščëv,
in procinto di divenire alfiere della “coesistenza pacifica” tra
i due blocchi. Sicché «il
piede sul collo»
della Germania consistette nel tenerla divisa e vincolata a
contrapposte alleanze militari dipendenti dalle due superpotenze.
Nel
1989, alla caduta del muro, si pose il problema della riunificazione
tedesca. Il cancelliere Helmut Kohl ottenne da Mosca il consenso alla
riunificazione, in cambio di consistenti aiuti finanziari e con
l'iniziale promessa che la Germania orientale non sarebbe stata
inclusa nella Nato.
Inclusione
che invece avvenne anche per tutte le repubbliche ad Est della ex
“cortina di ferro”, comprese una parte di quelle formatesi in
seguito al disfacimento dell'Urss, fino a spingere l'alleanza
militare euro-atlantica ai confini con la Federazione Russa. [Vedi
cartina in pagina.] Ragione non secondaria del conflitto oggi
in corso nel Donbas ucraino e delle tensioni con Mosca.
Per
la superpotenza globale statunitense la Nato e la sua estensione sono
la garanzia della limitazione di sovranità dell'Europa, al cui
interno contenere la riunificata Germania quale potenza “zoppa”,
non autonoma sul piano militare, nonché della riduzione della Russia
a “potenza regionale”,
opportunamente tenuta fuori dall'Unione Europea. Ciò si traduce in
una sorta di continuazione della guerra fredda, pur essendo sparito
il blocco militare contrapposto.
… e
riunificata
Nella
ricostruzione di Vladimiro Giacché, poc'anzi citata in nota, la
riunificazione della Germania è Anschluß
della Rdt alla Rft ed evoca lo spettro della annessione dell'Austria
al terzo Reich nazista.
Quando
si tenga conto dei modi e degli strumenti adottati per la sua seconda
unità nazionale,
anche il carattere dell'azione politica tedesca in Europa appare
meglio interpretabile.
Con
l'unificazione monetaria immediata (1° luglio 1990), il Deutsche
Mark
occidentale è stato imposto alla Rdt come un grande maglio a
devastare la sua struttura economica, rimodellandola subalterna a
quella della Rft. Al tempo 1 marco dell'Ovest era scambiato con 4,44
marchi dell'Est. Mediamente venne convertito 1:1,15! La
rivalutazione shock mise fuori mercato tutte le imprese orientali e
trasformò d'acchito un'economia produttiva autosufficiente in una
economia assistita e di consumo dipendente.
Seguì
la privatizzazione furente della proprietà pubblica, compreso suolo
e sottosuolo. Il ruolo principe fu affidato alla Treuhandanstalt
(1990-1994),
quale holding incaricata di dismettere il patrimonio industriale
della Rdt. Gli oligopoli industriali e finanziari della Rft poterono
acquisire le proprietà “del popolo” a prezzi di svendita,
riducendo le imprese orientali a proprie succursali ed
impadronendosi delle sue linee di export nell'Europa dell'Est (la
Rdt esportava il 50% della sua produzione industriale). La
desertificazione produttiva comportò una forte disoccupazione ed
infoltì ulteriormente l'emigrazione della mano d'opera più
qualificata verso i Länder
occidentali.
Mediante
la totale estensione ad Est della sovranità politica e
giuridico-istituzionale della Rft, si determinò l'eliminazione di
qualsiasi autonomia, anche transitoria, della Rdt. L'intero ceto
intellettuale orientale fu imputato di connivenza col regime
socialista ed emarginato, compresi coloro che avevano dato vita alle
manifestazioni per la democrazia ed i diritti civili che portarono
alla caduta del muro. Una epurazione di tipo radicale, in
particolare se confrontata con la denazificazione all'acqua di rose
realizzata da Adenauer nel dopo-guerra.
Rilevante
fu il ruolo della moneta, delle privatizzazioni e della spesa
statale.
Un
Blitzkrieg
attuato con l'arma monetaria. Parafrasando Carl
von Clausewitz l'imposizione del marco occidentale è stata la
prosecuzione della politica con altri mezzi.
Alla sua dirompente funzione si è accompagnata una privatizzazione
con un buco a saldo di 256 miliardi di marchi, costi sociali
elevatissimi e la “meridionalizzazione” dei territori della ex
Rdt, a tutto vantaggio delle grandi imprese industriali e bancarie
dell'Ovest. Complessivamente, esse fruirono della spesa straordinaria
dello Stato unificato come di un imponente programma keynesiano di
stimolo della congiuntura. Inoltre poterono meglio attuare la loro
penetrazione nei mercati dell'Est e, più in generale, affermare il
primato nazionalistico del neo-mercantilismo tedesco in Europa.
La
Rdt non ha avuto modo di adottare un suo socialismo democratico,
sperimentando un assetto strutturale assai simile a quello sostenuto
dal Manifesto di Ventotene (parte terza), né di confederarsi con una
propria diversità e relativa indipendenza con la Rft. La Repubblica
Federale ha incorporato la Rdt in un modo aggressivo, totalizzante e
colonizzante, avendola, senza mediazioni, violentemente privata di
qualsivoglia autonomia statuale e giuridica insieme alla sua base
economica ed industriale. L'emarginazione riservata all'intero ceto
intellettuale tedesco orientale contrasta con il ruolo ipotizzato per
esso da Ventotene, che lo vedeva alleato delle classi lavoratrici
nel movimento del socialismo federalista europeo.
In
sintesi, la Germania mostra persistenti propensioni alla “sovranità
assoluta” dello Stato-nazione.
La
reconquista dell'Est
Le
condizioni che furono poste per ottenere gli aiuti del piano Marshall
(1947) alla ricostruzione dell'economia continentale distrutta dalla
guerra, implicavano un pesante condizionamento, da parte degli Stati
Uniti, delle politiche interne dei Paesi che le avessero accettate.
D'altro
canto, il piano si poneva all'interno di una strategia volta alla
creazione di un blocco di alleanze politiche e militari da
contrapporre all'”espansionismo sovietico”.
Mentre
l'Europa è distrutta, gli Stati Uniti escono dalla guerra con una
economia rafforzata. Trovandosi in sovra-produzione e nella necessità
di difendere i propri livelli occupazionali, con il dollaro in
posizione dominante, disponibilità di capitali e facilità di
accesso alle materie prime, nutrivano nullo o scarso interesse acché
i Paesi orientali riprendessero la posizione di “dipendenza
coloniale” verso quelli occidentali. Privati dei vantaggi derivanti
dai rapporti “asimmetrici” con l'Est, questi ultimi sarebbero
stati più facilmente indotti a dipendere dall'alleato strategico
d'oltre Atlantico.
Inoltre
va ricordato che nei Paesi dell'Est europeo, data la nuova situazione
post-bellica, anche consistenti forze non comuniste miravano ad uno
sviluppo nazionale indipendente.
Ad
ogni buon conto, come scrisse lo storico D. F. Fleming: «la
vera causa della grande rivalità fra Est ed Ovest era il fatto che
l'Europa orientale era stata sottratta al rapporto di dipendenza
coloniale nei confronti dell'Europa occidentale e dei suoi
finanzieri.»
Il
piano Marshall ebbe successo ad Ovest e contribuì alla divisione
dell'Europa.
All'indomani
della caduta del muro, i Paesi più forti, Germania in testa, possono
riprendere le vecchie relazioni diseguali con i Paesi orientali, a
cui a suo tempo dovettero rinunciare.
Nei
Paesi in procinto di aderire alla Nato e all'Unione Europea, si
impongono forze politiche di doppia derivazione. O scaturiscono dal
trasformismo delle vecchie numenklature del “socialismo
reale”, pronte ad appropriarsi delle imprese e dei beni statali
privatizzandoli “in proprio”; o/e si riaggregano secondo identità
nazionalistiche ed etnico-religiose, quando non apertamente
neofasciste.
A
differenza dei Paesi occidentali, le cui costituzioni continua[va]no
a rappresentare, dal dopo-guerra, il compromesso detto
socialdemocratico ed il tentativo di coniugare democrazia e lavoro,
nei Paesi orientali e balcanici il “bambino viene gettato con
l'acqua sporca”. Vi si impongono via via regimi con forti caratteri
autoritari e xenofobi,
basati su ricostruzioni “revisioniste”
della propria storia, nonché tutti aderenti al liberismo, divenuto
nel frattempo il Verbo imperante.
E
la preoccupazione dei governi europei a guida dell'Unione è
indirizzata unicamente alla loro inclusione, in quanto mercati di
merci, capitali e mano d'opera a basso prezzo, nei quali imporsi nel
ripristino dei rapporti diseguali del passato.
Piccole
patrie risorgono
Un
particolare destino nefasto è inflitto alla Federazione Jugoslava,
tanto osannata quando con Tito nel 1948 decise di sottrarsi
all'influenza sovietica.
Al
manifestarsi di aspri contrasti all'interno della Federazione degli
slavi del Sud, invece di appoggiare una politica di ricomposizione
dei problemi interni e di pace, Germania, Austria, Italia (e
Vaticano) si precipitano nella corsa ai riconoscimenti delle
proclamate piccole patrie etnico-confessionali, patrocinandole e
contribuendo decisamente a tramutare lo scontro in guerra. Salvo,
poi, con la solita ipocrisia ed in modo unilaterale (avendo a
bersaglio privilegiato, “capro espiatorio” unico, la componente
serba), gridare allo scandalo delle pulizie etniche, insite
nell'assunzione identitaria assoluta dei nuovi Stati (Serbia
inclusa).
Quella
corsa ai riconoscimenti, dal retrogusto “revanscista”, produce
molteplici effetti: restaura gli «staterelli»,
come li avevano definiti i federalisti di Ventotene, disgregando la
Jugoslavia che, restando unita, avrebbe avuto ben altro peso in
Europa; segna una stagione di appoggio a tutto quanto, anche di forze
xenofobe e neo-fasciste, si muova purché immediatamente confacente
ai propri interessi di supremazia; data la propensione dei governi
euro-occidentali a meglio posizionarsi in reciproca rivalità,
consente agli Stati Uniti di ergersi ancora una volta a dominus,
tanto che l'ultimo intervento in Kosovo (1999) è da essi diretto e
la pax imposta diviene americana.
In
sostanza, rispetto al dichiarato fine della pacifica integrazione
europea, l'aspetto principale è l'aver riacceso la guerra nel
vecchio continente nello sfascio di una federazione esistente, quando
si pretende, al contempo, di costruirne una futura più ampia e di
pace, comprendente tutti i popoli europei.
Se
ricomponiamo il puzzle,
dall'Anschluß
della
Rdt (1990-1991) alla guerra nella ex-Jugoslavia (1991-1999), dalle
restaurazioni nazionalistiche alla separazione tra Cechia e
Slovacchia (dal 1° gennaio 1993), fino all'attuale guerra in
Ucraina, per tacere di altri conflitti più limitati, oltre ai
vincoli stabiliti a Maastricht ed a quelli connessi alla moneta
unica, appaiono gettati gran parte dei presupposti della odierna
deriva europea.
Il
passato ripassa (ma
si trova spaesato)
In
Europa occidentale, per superare i crescenti timori destati dalla
nuova deutsche Einigung, il consenso all'unificazione fu dato
in cambio di una singolare contropartita. Il presidente francese
François Mitterrand chiese ed
ottenne che la Germania rinunciasse al suo Deutsche Mark a
favore di una moneta europea, il futuro euro. Supponeva di
“imbrigliarla”.
La
qual cosa non testimonia unicamente della mancanza di Realpolitik
della dirigenza francese, ottenebrata dalla propria grandeur,
mentre la pragmatica Margaret Thatcher già dava per scontato che il
continente sarebbe caduto sotto egemonia tedesca. La “contropartita”
affidava le sorti politiche europee alla funzione salvifica della
moneta unica, maieutica promotrice dell'integrazione politica. Ne
scaturì, invece, una strutturazione della già latente dicotomia
continentale, tra un centro (ad egemonia tedesca) e differenziate
periferie. In queste ultime si sarebbero collocate le future nuove
adesioni dall'Est e dai Balcani, in aggiunta a quelle mediterranee.
Nel
1991, con Maastricht ed i suoi inevitabili risvolti politici e
sociali, vengono completate le premesse dell'attuale crisi
dell'Unione Europea.
L'insieme
dei fatti sembra quasi ricondurre il corso della storia, dopo una
deviazione durata alcuni decenni, sullo sciagurato binario paventato
da Ventotene per il dopo-guerra. Riecheggia il monito: «Se
[i reazionari] raggiungessero questo scopo avrebbero vinto.»
Ma
il rientro «nel
vecchio stampo» ha avuto
preliminarmente bisogno di togliere di mezzo sia il “socialismo
reale” che quello “democratizzato” e di restaurare il
nazionalismo e persino l'etnico-centrismo, tutti fattori che ora
remano contro l'integrazione europea. Rivalità, contenziosi,
recriminazioni reciproche contribuiscono a ripristinare le logiche
relazionali della vecchia Europa che parevano superate dalla storia.
Gli
attuali governi dell'Est, tanto petulanti quanto subalterni nella
questua per i fondi di Bruxelles in quanto “europei”, non esitano
ad ergersi a difensori della “cristianità minacciata
dall'invasione musulmana”. Cavalcano la xenofobia, praticano lo
“scontro di civiltà” ed erigono nuovi muri.
In
questo contesto il Lebensraum
tedesco, suo supposto spazio vitale geopolitico, è occupato non con
i carri armati, né disponendo della minaccia di una potenza militare
autonoma, sovranità questa demandata alla Nato a guida statunitense.
L'annessione totalizzante della Rdt non è ripetibile verso altri
Stati dell'Europa. Sicché la propensione alla «sovranità
assoluta»,
paventata da Ventotene, non può che rimanere a mezza strada, al
momento semi-assoluta. Mentre, di contro, è affermata la sovranità
limitata e semi-limitata dei differenziati Paesi periferici,
sottoposti alla duplice supremazia politico-economica nell'Unione e
strategico-militare atlantica.
La
riforma della società
Come
s'è visto il Manifesto mostra una certa validità ancora oggi nel
paventare le restaurazioni degli Stati-nazione, contraddetto però
nei tempi (e di conseguenza dal contesto) e dalle modalità politiche
in cui i “ricorsi storici” sono venuti ad attuarsi.
Nell'espansione ad Est e nei Balcani il rovesciamento del “socialismo
reale” combacia con la riabilitazione dei nazionalismi, delle
identità etnico-religiose, delle esclusioni xenofobe e di ogni
tendenza autoritaria, compreso il neo-fascismo.
Analogo
destino avvolge anche la riforma della società, indicata come
seconda priorità del dopo-guerra?
La
parte terza
annuncia: «Un'Europa
libera e unita è premessa necessaria del potenziamento della civiltà
moderna, di cui l'era totalitaria rappresenta un arresto. La fine di
questa era sarà riprendere immediatamente in pieno il processo
storico contro la disuguaglianza ed i privilegi sociali. Tutte le
vecchie istituzioni conservatrici che ne impedivano l'attuazione,
saranno crollanti o crollate, e questa loro crisi dovrà essere
sfruttata con coraggio e decisione. La rivoluzione europea, per
rispondere alle nostre esigenze, dovrà esser socialista, cioè dovrà
proporsi l'emancipazione delle classi lavoratrici e la creazione per
esse di condizioni più umane di vita.»
Segue
la critica «alla
statalizzazione generale dell'economia»
del modello sovietico e l'idea per cui «Le
gigantesche forze di progresso, che scaturiscono dall'interesse
individuale»
non vadano «spente
nella morta gora»
della collettivizzazione burocratica, bensì «esaltate
ed estese offrendo loro una maggiore possibilità di sviluppo ed
impiego»
e
contemporaneamente arginate e convogliate «verso
obiettivi di maggiore utilità per tutta la collettività.»
In
sintesi: «La
proprietà privata deve essere abolita, limitata, corretta, estesa,
caso per caso, non dogmaticamente in linea di principio.»
La
prospettiva liberatrice federalista e socialista richiedeva alle
classi lavoratrici una lotta contro il «dominio
dei ceti padronali»
capitalistici,
evitando di cadere nella
«tirannide
burocratica»
comunista.
Visto
il clamore mondiale all'epoca suscitato, nell'agosto del '41 era
difficile negare che l'industrializzazione sovietica, tra il 1928 ed
il 1939, fosse stata un grande successo: «il reddito pro-capite salì
del 5 per cento l'anno, un tasso incredibilmente rapido in un mondo
nel quale in genere il reddito cresceva dell'1-2 per cento.»
Correvano gli anni della grande depressione successiva al crollo di
Wall Street del '29. Se in Urss l'iniziativa privata era stata spenta
nella «morta
gora»
burocratica, il resto del mondo non poteva certo rivendicarne le
virtù progressiste
in toto,
visto che ne stava subendo i disastrosi risultati.
Di
contro, non era ancora stato tratto un bilancio dei costi umani
sostenuti dai popoli dell'Urss, ancora oggi oggetto di disputa, che
furono comunque ingenti e non compaiono, né potevano comparire, tra
le motivazioni critiche del Manifesto.
A
quei costi si aggiunsero quelli sostenuti per resistere
all'aggressione nazista (20 milioni di morti), al cui insuccesso
contribuì non poco la precedente industrializzazione a tappe
forzate.
Avere
alle spalle un sufficiente tempo storico ci aiuta ad esercitare una
critica al socialismo sovietico meglio motivata, più ampia,
articolata e profonda, meno condizionata dallo stato di isolamento
dell'Urss e dalle coazioni del “comunismo di guerra”.
Diverse
furono le fasi di una storia durata settanta anni. Riferita al
dopoguerra, la critica al burocratismo appare piuttosto superficiale
ed insufficiente a spiegare le dinamiche interne di quel socialismo
realizzato. Si consideri, ad esempio, che all'interno del sistema di
gestione delle imprese di proprietà statale, nominalmente “del
popolo”, si era venuto a formare il potere di una classe di
possesso autoreferenziale, al cui controllo sociale mancava un
sistema di base, politicamente democratico, e non demandato
semplicemente al vertice di governo. Ricorre oggi la tesi che il
partito comunista si sia “mangiato” lo Stato, quando a me pare
sia avvenuto esattamente il contrario...
Ma
l'aspetto di gran lunga più importante, da parte degli estensori del
Manifesto, è nell'individuazione dei nemici, tra i quali manca una
minima critica al liberalismo, di cui il liberismo è, per così
dire, la faccia “economica”. Non si accenna neanche ad una
distinzione tra diversi modi di intenderlo.
L'enfasi
posta sulle virtù progressiste costituite dall'interesse e
dall'iniziativa individuale privata rivela una concezione
“naturalistica” delle forze economiche, tipica del liberalismo,
e, parallelamente, “razionalistica” dei canali nei quali
dovrebbero essere ricondotte dalla politica dello Stato.
Liberalismo
assente
In
effetti nel dopo-guerra, ad Ovest, il compromesso europeo detto
socialdemocratico ha sì ingabbiato gli “spiriti animali” del
capitalismo, ma per l'ansia di non perdere il confronto col
socialismo dell'Est. Bisognava evitare che il ripetersi di crolli
finanziari generasse una disoccupazione di massa.
Un
capitalismo temperato, dal volto umano almeno in Europa, era
necessario anche per resistere all'avanzare di grandi movimenti
interni, operai giovanili e civili, che andavano collegandosi con la
decolonizzazione e le lotte di liberazione del Terzo Mondo. Questi i
motivi per i quali prevalse una soluzione di sopravvivenza, se si
vuole di “razionalità” politica, ma dettata dalla paura di
perdere tutto pur di non concedere nulla.
Venuti
meno i precedenti rapporti di forza, il liberalismo senza “lacci e
lacciuoli”, ha accantonato dagli anni '80 le politiche di stampo
keynesiano ed ha ripreso linfa dalle proprie radici, riesprimendosi
nella sua forma primordiale. Una forma reimportata dall'altra sponda
dell'Atlantico dov'era nel frattempo trasmigrata.
Verso
di esso tuttora prevale una critica confinata all'ambito economico,
tuttalpiù allargata al sociale. Come se non fosse nel suo DNA agire
politicamente servendosi di mezzi in apparenza puramente economici, a
suo dire “naturali”, senza trascurare all'occorrenza di fare
ricorso alla guerra: ieri con le cannoniere portatrici di una
superiore “civiltà” verso popoli arretrati e “barbari”,
razzialmente inferiori; oggi con droni “umanitari” e “per la
democrazia” contro “Stati canaglia”, con popoli culturalmente
sempre da educare ai superiori “nostri valori occidentali”.
Si
poteva escludere dal panorama critico il liberalismo e la sua lunga
storia, coloniale ed imperialista?
Proprio
la riaffermazione di un ruolo dell'iniziativa privata nel socialismo
federativo europeo comportava una precisa critica al liberalismo
realizzato.
A
tale riguardo mi premono alcune osservazioni.
La
prima registra la contraddizione, presente nel Manifesto, tra il
riconoscimento delle «gigantesche
forze di progresso»
ed i propositi di riforma radicale che dovevano limitare alquanto i
campi in cui l'iniziativa privata poteva attivarsi, oltre i quali «si
dovrà procedere senz'altro a nazionalizzazioni su scala vastissima,
senza alcun riguardo per i diritti acquisiti».
La
seconda chiama in causa l'idea stessa di progresso, in auge
fino a pochi anni fa ed ora in crisi, dato che l'illimitato sviluppo
delle forze produttive è entrato in evidente collisione con i
popoli, le società e l'ambiente in cui vivono.
Accade
che le evocate «gigantesche
forze»
esproprino le risorse, naturali e non, di intere aree del pianeta in
una espansione del modello occidentale di produzioni e consumi dai
tratti sempre più devastanti ed insostenibili per la vita umana.
Non
a caso si parla, non senza qualche ragione, di “decrescita felice”
nei Paesi ricchi, a fronte di quella “infelice” comunque in atto.
Mentre nei Paesi emergenti, in via di sviluppo e nei più poveri,
dove la popolazione impegnata in agricoltura è ben superiore al
nostro 4-5%, risale all'ordine del giorno la questione agraria: ossia
come consentire a poco meno della metà della popolazione della Terra
di non finire in immense bidonvilles
o/e di non dover emigrare a milioni e milioni.
Una
loro grande industrializzazione, anche se prodigiosa (con quali
ricadute ambientali?) e “permessa” dalle odierne relazioni
internazionali e dai suoi cerberi guardiani pro-occidentali (Gatt,
Fmi e Banca mondiale), sarebbe largamente insufficiente. Serve
innanzitutto garantire l'accesso generalizzato dei contadini alla
terra in una rinnovata agricoltura, liberata dal dominio delle
multinazionali delle sementi, dei pesticidi, degli organismo
geneticamente modificati (OGM) e del cibo.
La
terza osservazione tiene conto degli svolgimenti connessi alla
globalizzazione finanziaria, dopo il crack del 2007-2008. Gli
estensori del Manifesto non potevano non sapere del nesso esistente
tra la globalizzazione liberista della belle
époque
ed i successivi conflitti in Europa e nel mondo. In particolare non
dovevano sottostimare le dinamiche insite nell'internazionalismo e
nel “libero scambio” (diseguale) del grande capitale industriale
e finanziario, concentrando le loro attenzioni sul “collegato
disposto”: la rivalità tra gli Stati-nazione più potenti, in
competizione per il dominio, da cui il militarismo aggressivo e le
chiusure protezionistiche, tanto perentoriamente sancite per
preservare i propri interessi, quanto negate alle necessità di
sviluppo altrui.
La
Grande Guerra, al contrario di quanto ebbe a sostenere Luigi Einaudi
nelle sue “Lettere politiche di Junius”,
non fu l'inevitabile alternativa imperiale, tentata dalla Germania,
alla mancata unificazione continentale, resa necessaria dalle
interdipendenze create dalla rivoluzione industriale, a cui le
democrazie liberali avrebbero dovuto provvedere pacificamente. Fu
primo atto di uno scontro tra opposti imperialismi per il dominio sul
mondo.
Inghilterra,
Francia e Stati Uniti (per non parlare della Russia zarista) non
erano più democratiche di Germania ed Austria-Ungheria, come ben ha
saputo spiegare Luciano Canfora.
E non vi furono trascinate loro malgrado.
Ad
ogni buon conto, la linea di demarcazione a separare da un
lato la sfera d'intervento dello Stato con adeguata protezione delle
produzioni nazionali e, dall'altro, la sfera riservata all'iniziativa
privata e di libero scambio internazionale, deve essere
necessariamente mobile e realizzata su misura delle differenziate
condizioni locali territoriali. Questo richiede nel mondo odierno il
diverso grado di sviluppo dei singoli Paesi e delle diverse aree. E
non potrà bastare.
Fatto
salva l'urgenza di una ripresa democratica del pubblico sul privato,
a partire dal governo della moneta e dal ripristino della
“repressione finanziaria”, possiamo pensare di uscire dalle
enormi contraddizioni del nostro tempo senza cambiare il paradigma
generale su cui si basa la nostra stessa “civiltà”?
Proprio
su questo punto, «La
crisi della civiltà moderna»,
nel Manifesto di Ventotene trattato in apertura, si conclude la mia
rilettura.
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Tra
parentesi
Negli
anni della ricostruzione postbellica italiana e della sua
trasformazione in Paese industriale, da prevalentemente agricolo qual
era, si dimostrò assai più vitale, a confronto con quella grande
privata, la grande imprenditoria pubblica.
Dopo
quel periodo non fu la burocrazia del partito unico di Stato, ma la
“partitocrazia” della Repubblica, spartitoria ed
auto-finanziatrice, a metterla in difficoltà.
In
seguito alla crisi degli anni settanta, inerente all'insieme del
capitalismo occidentale, si trovò nel sistema delle imprese statali
il provvidenziale capro espiatorio; sull'onda del liberismo si finì
per privatizzare con risultati, per “le gigantesche forze di
progresso”, assai deludenti.
Più
di recente, il Paese ha perso un quarto della sua base industriale,
limitando i danni solo grazie alla piccola-media impresa ed alla sua
parziale internazionalizzazione. Ma può bastare a reggere le sorti
della “seconda potenza industriale d'Europa”? A non renderla
succursale subalterna di poteri politici ed economici accentrati
altrove?
Intanto,
tra i grandi gruppi privati finanziarizzati, che avevano beneficiato
di rilevantissimi sostegni pubblici, perché il bene per loro
coincideva con il bene per la nazione, s'è fatta strada la pratica
di collocare le proprie sedi fiscali altrove in Europa, pur
continuando a voler dettare le linee della politica italiana.
Ci
si interroga dove sia finito il capitalismo italiano.
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Civiltà
da salvare
«La
civiltà moderna ha posto come proprio fondamento il principio della
libertà, secondo il quale l'uomo non deve essere un mero strumento
altrui, ma un autonomo centro di vita.»
Benché
l'affermazione di un «eguale
diritto di tutte le nazioni di organizzarsi in stati indipendenti»
sia stato «un
potente lievito di progresso», l'ideologia
dell'indipendenza nazionale «portava
in sé i germi del nazionalismo imperialista, che la nostra
generazione ha visto ingigantire fino alla formazione degli Stati
totalitari ed allo scatenarsi delle guerre mondiali.»
La nazione, pertanto, è divenuta una «entità
divina, un organismo che deve pensare solo alla propria esistenza ed
al proprio sviluppo, senza in alcun modo curarsi del danno che gli
altri possono risentirne. La sovranità assoluta degli stati
nazionali ha portato alla volontà di dominio sugli altri (…) In
conseguenza lo stato, da tutelatore della libertà dei cittadini, si
è trasformato in padrone di sudditi, tenuti a servirlo con tutte le
facoltà per rendere massima l'efficienza bellica.»
Inoltre:
«Gli
stati totalitari sono quelli che hanno realizzato nel modo più
coerente la unificazione di tutte le forze, attuando il massimo di
accentramento e di autarchia, e si sono perciò dimostrati più
adatti all'odierno ambiente internazionale.»
Ciò
è potuto accadere perché:
l'estensione
delle libertà di stampa, di associazione ed il suffragio universale
avevano reso «sempre
più difficile la difesa dei vecchi privilegi mantenendo il sistema
rappresentativo»,
dal
momento che di quegli strumenti ne facevano uso i «nullatenenti»
per
dare «concreto
contenuto»
ai propri diritti;
gli
ordinamenti democratico-liberali sono diventati strumenti degli
interessi particolari di «giganteschi
complessi industriali e bancari»
in lotta tra loro.
La
Germania nazista rappresentava questa «reazionaria
civiltà di potenza» e, insieme alla vassalla Italia
ed al Giappone, «si
è lanciata nell'opera di sopraffazione» su scala
mondiale. Contro le potenze totalitarie si sono schierate «immense
masse di uomini e di ricchezze» e «tutte le forze progressiste»:
le «parti
più illuminate delle classi lavoratrici»; «gli
elementi più consapevoli dei ceti intellettuali»;
«imprenditori,
che sentendosi capaci di nuove iniziative, vorrebbero liberarsi dalle
bardature burocratiche, e dalle autarchie nazionali, che impacciano
ogni loro movimento.»
Sovranità
in contraddizione
Al
compromesso detto socialdemocratico ed all'ingabbiamento degli
“spiriti animali” del capitalismo ha concorso il matrimonio tra
liberalismo e democrazia-lavoro. Dagli anni ottanta in poi è
intervenuto un divorzio, per cui il lavoro e la democrazia si
trovano, di fatto, in antagonistica lotta con un liberalismo
d'impronta nord-americana. Le istituzioni liberal-democratiche,
comprese le costituzioni, sono al bivio.
Ciò
premesso, con le conseguenze che ne derivano per la lotta tra le
classi, mi pare che il Manifesto di Ventotene soffra di un basilare
eurocentrismo e di concezioni della indipendenza e della sovranità
piuttosto unilaterali, soprattutto in rapporto col resto del mondo.
L'unità
federale europea avrebbe potuto garantire una risoluzione dei
problemi coloniali e, più in generale, un nuovo assetto cooperativo
e pacifico dei rapporti con i popoli degli altri continenti?
Forse,
ma ad almeno due irrinunciabili condizioni: che l'Europa divenisse
socialista certamente e non opzionalmente, non dunque solo unita,
libera e federata; che gli Stati Uniti d'America (presi ad esempio
per il federalismo europeo) non subentrassero al colonialismo con una
nuova forma di dominio.
Ad
ogni modo, la sovranità politica dei popoli basata sull'indipendenza
nazionale, vista su scala mondiale, non aveva e non ha esaurito
affatto la sua funzione liberatrice. Indipendenza e sovranità vanno
oggi diversamente intese rispetto al periodo coloniale e
post-coloniale di nascita delle moderne entità statuali, non fosse
altro perché ai problemi della pace si sono sommati quelli
dell'ambiente a porre con urgenza la necessità che l'interdipendenza
di fatto si tramuti da assoluta/limitata in sovranità relativa,
paritaria e cooperante.
Il
mondo è tuttora diviso ed i “tre mondi” hanno subito una
trasformazione ed una riconfigurazione: il primo mondo dei Paesi
ricchi, composto da Nord-America, Europa e Giappone (G7) deve fare i
conti con il secondo mondo dei Paesi emergenti (più esteso dei
BRICS); in fondo alla scala, scalciata da chi sta in cima, permane un
terzo mondo di Paesi alla ricerca di una propria via allo sviluppo.
Intrecciata
a questa divisione va considerata la scala sociale che attraversa
l'intero globo, giacché la ricchezza prodotta è andata
concentrandosi nelle mani di esigue minoranze oligopolistiche.
La
globalizzazione non ha estinto gli Stati-nazione: ha indebolito la
sovranità e la “tenuta” stessa di quelli periferici e
semi-periferici. Né ha creato un Impero sovranazionale. Il capitale
non si si è scisso dal “mostruoso attrezzo” che gli ha aperto
ogni via di penetrazione ed espansione, con la forza della
sopraffazione sin dal Cinquecento. Multinazionali ed oligopoli
finanziarizzati mantengono un saldo ancoraggio alla potenza
patrocinante dei “loro” rispettivi Stati ed al sistema delle loro
alleanze. Altrimenti non si spiegherebbero le guerre commerciali,
fiscali e monetarie, né il business delle armi ed i conflitti
armati in corso, né tantomeno il pullulare di basi militari sul
pianeta.
In
questo contesto, alcuni Stati nazionali esercitano effettivamente una
sovranità assoluta e semi-assoluta. Altri, di converso
necessariamente, si ritrovano a subire una sovranità limitata e
semi-limitata.
L'interdipendenza
della nuova globalizzazione non ha generato una universale sovranità
relativa ed equilibrata, nella quale sciogliersi
nell'internazionalismo: qui sta il nodo politico irrisolto di un
mondo che deve diventare multipolare se vuole collaborare ai fini
della pace e della sopravvivenza dei popoli sul pianeta.
In
controtendenza, rispetto all'obiettivo della sovranità relativa
cooperante, si è andata costruendo l'Unione Europea.
Nell'insieme
è a sovranità limitata rispetto a quella assoluta, esercitata
soprattutto tramite la Nato dagli Stati Uniti, superpotenza unica e
traballante che fatica ad imporle il TTIP, mentre si interroga se le
convenga sottoscrivere
il suo gemello transpacifico (TTP), dopo averlo fortemente voluto.
In
seno all'Europa l'egemonia tedesca si scopre “vulnerabile”
perché tutt'altro che benevola verso le differenziate periferie
continentali, caratterizzata dalla ricerca della supremazia da parte
di un establishment totalizzante (come s'è visto nelle
vicende del dopo-muro) ed indisponibile a condividere i costi
economici dell'Unione, a fronte degli enormi ricavi ottenuti in
regime di moneta unica.
Come
previde Spinelli, l'integrazione funzionale intergovernativa,
attualmente praticata, non funziona. Come previde Einaudi, un'unione
monetaria senza stato sovranazionale, non può sopravvivere.
Date
le contraddizioni esposte in queste righe, alla deriva ed alla
disgregazione non è possibile (né sarebbe auspicabile) contrapporre
una integrazione che sbocchi in uno Stato sovranazionale europeo a
guida germanica, seppure in tandem (instabile) con la Francia.
Per
rimettere in cammino un'Europa realmente comunitaria, di conseguenza,
mi pare indispensabile sia la sua interna decostruzione, a partire
dall'area valutaria e dai Trattati, sia la forza di un blocco storico
sociale e politico che ci porti ad una rinnovata sovranità nazionale
sulla via della cooperazione paritaria.
Note