giovedì 27 ottobre 2016

Mesopotamica II

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Mesopotamica 2

Adriano Sofri e Paolo Mieli, uniti nella lotta contro i pacifisti della Perugia-Assisi, chiamano in causa pure Papa Francesco, che ha il torto di non aderire all'ennesima “giusta guerra”.


Differenze su misura
La guerra contro lo Stato Islamico, ora che viene condotta dai “nostri” in appoggio alle truppe di Baghdad per liberare Mosul, riempie di entusiasmo e carica le penne di certi commentatori come se fossero bombardieri strategici.
Non pari entusiasmo, anzi qualche malcelato mal di pancia, avevano suscitato analoghe operazioni contro il Califfato da parte del regime siriano appoggiato dall'aviazione russa.
Ma tant'è. Neanche il tempo di avvertire dell'imminente arrivo di “bombe amiche”1 che, dalle colonne del Corriere della Sera Paolo Mieli2, in aperta polemica con i pacifisti, chiama in causa pure il Papa.
«Il popolo cattolico, gli stessi religiosi pregano per una cosa a Roma o ad Assisi, per un'altra a Sirte, per una terza a Mosul, per una quarta ad Aleppo. Per mettersi la coscienza a posto, basta che tutti, compreso il Santo Padre, facciano poi finta di non vedere la disparità di motivazioni che inducono all'inginocchiamento (…)»
Allo scopo il Papa dovrebbe dotarsi e dotare il suo popolo di «un'unità di misura che consenta di esprimere giudizi coerenti in merito al complicato conflitto.»
Un'unità di misura che soppesi le differenze:
«Come non vedere, poi, la differenza tra l'ignobile carneficina di Aleppo e la (per ora) più contenuta offensiva contro Mosul? I pacifisti potrebbero obiettare che anche ad Aleppo, nei primi giorni, la controffensiva siriana sembrava in grado di chiudere il caso in poco tempo. E se i jihadisti di Mosul fossero capaci di resistere casa per casa come quelli di Aleppo, cosa dovrebbero fare i “liberatori”? Rallentare? Lasciar perdere?»
En passant se ne deduce, a fil di logica, che l'entità della carneficina dipende dallo sperabile diverso comportamento militare dei tagliagole di Abu Bakr al-Baghdadi, restando tuttavia salva, per misteriose ragioni, la bontà intenzionale delle “nostre” bombe.
Ma è nella parte iniziale dell'articolo che la retorica della dura-necessità-della-guerra trova una sorprendente argomentazione.
Mieli, richiamandosi ad un articolo di Adriano Sofri su l'Unità, si associa alla polemica con i pacifisti della Perugia-Assisi, i quali osano affermazioni del tipo: “Aleppo o Mosul non fa differenza!”; “la guerra è un crimine insopportabile sempre e comunque”; “a finire sotto le bombe è sempre la povera gente”.
Verità tanto inoppugnabili da “costringere” il sodale Sofri a rimproverare ai pacifisti di andare ad Assisi, standosene al sicuro, piuttosto che rischiare la vita marciando verso Aleppo o Mosul! Una critica solo ad un passo dall'accusa di “panciafichismo” di triste memoria...
A supporto della sua tesi, Sofri aveva portato il comprensibile plauso all'offensiva anti-Califfatto di un gruppo di profughi cristiani in attesa di rientrare nei luoghi d'origine. Essi, a differenza dei cattolici di Assisi e Roma, si “inginocchiano” per la giusta guerra e sanno vedere le differenze.
Come se la storia, anche recente, delle epurazioni religiose ed etniche in Medio Oriente si potesse politicamente restringere al sentimento di una sola tra le comunità colpite.
Usa e getta
Ma chi ha scatenato la lunga sequenza di guerre in Medio Oriente, riducendo infine la Mesopotamia all'attuale disastro di scontri tra religioni e tribù?
Anche se solo ci soffermassimo un attimo sulla più recente nascita ed affermazione dell'Isis troveremmo sempre e comunque le medesime responsabilità.
Accadde prima con Saddam Hussein e con al-Queda: inizialmente usati e poi oggetto di “guerre giuste”, quando pretesero di essere ricompensati “oltremisura” per i servigi resi.
Viene il fondato sospetto che anche Erdogan abbia temuto di venire violentemente scaricato. È infatti piuttosto “strana” la coincidenza tra il suo “contro-golpe” in patria, con relative accuse agli Stati Uniti, e la decisione di dare il via alla operazione “Scudo dell'Eufrate”. Formalmente per mostrarsi impegnato contro il Califfato, ma in pratica rivolta contro la lotta di liberazione dei curdi e la possibile nascita, alla sua frontiera siriana, di un'entità statuale curda indipendente.
Di certo la stessa scena si è ripetuta quando, staccandosi da al-Nusra (al-Queda in Siria), al-Baghdadi, vista la malaparata della guerra contro il regime di Damasco3, decise di allargarsi dalla Siria ai pozzi petroliferi iracheni, rianimando il ricatto del terrorismo internazionale.
O si vuol sostenere che il Califfato non è stato, tramite l'Arabia Saudita e la Turchia, “nostri” preziosi alleati nell'area, opportunamente ispirato, foraggiato e tenuto in vita? O quei regimi tanto democratici hanno fatto tutto a “nostra” insaputa?
Stringente realismo
I nostri realistici commentatori cantano una mezza messa.
Si faccia attenzione alla dinamica dei fatti. Non volendo mettere gli “scarponi a terra”, salvo qualche reparto speciale sotto copertura, hanno armato truppe indigene per muovere contro l'Isis. Ma questa ennesima operazione bellica è mossa da un'unica preoccupazione: impedire alla concorrenza, della Russia e della “mezzaluna sciita” a guida iraniana, di mettere in discussione il ruolo dominante delle potenze occidentali in Medio Oriente. È umanitarismo o cinismo?
Una volta eliminato lo Stato Islamico, vorrebbero una pacificazione mesopotamica a loro misura geopolitica. Tuttavia, non sono più in grado di ri-ordinare a piacimento il caos generato dalle loro stesse scelte politiche.
Sicché i commentatori di casa nostra non trovano di meglio che attaccare il pacifismo, che pone alla radice la questione dell'uso della forza e della guerra per regolare le relazioni internazionali.
Come ben sanno navigati politici quali Mieli e Sofri, avendo in una lontana gioventù frequentato i movimenti di lotta, tra la fine degli anni sessanta e gli inizi dei settanta, il pacifismo non implica necessariamente negare il diritto dei popoli aggrediti ed oppressi di scegliersi quale resistenza mettere in atto. Neanche il cattolicesimo nega che essa, alle strette, possa divenire autodifesa armata, altrimenti non avremmo avuto cattolici nella nostra Resistenza.
Indicando un albero per nascondere la foresta chiamano in causa pure Francesco. Il Papa ha il torto di non essere caduto nella trappola di applaudire una guerra per difendere la “cristianità violentata”, quando proprio le precedenti guerre d'aggressione, i delitti più efferati e continue intromissioni violente hanno volutamente scatenato lo scontro tra religioni ed etnie, di cui le comunità cristiane sono vittime. Preferirebbero che seguisse l'esempio di Wojtila, che patrocinò le piccole patrie etnico-confessionali a disgregare nel sangue la Jugoslavia.
Botero, Abu Ghraib
Il realismo stringente dei fautori della guerra è sempre quello dell'adesso, focalizzato sul particolare per imporre la logica generale dell'emergenza immediata, dimentico del prima (le cause) e del poi (le conseguenze).
TINA, There is no alternative4
Ora ci prospettano una pacificazione mesopotamica, che Mieli vorrebbe veicolata da un “controllo internazionale” nei territori liberati dall'Isis. Sanno che, nel migliore dei casi, ci consegneranno un gracile compromesso basato su momentanei equilibri spartitori tra potenze grandi, più o meno riconosciute tali, instabili potenze subalterne “di teatro” e substrato di locali forze in permanente scontro identitario.
Eppure continuano a ripeterci: “Va bene, avrete pure ragione sulle passate guerre, ma ora che si fa di fronte alla centrale del terrorismo?”
Ci spieghino i sostenitori della “guerra giusta”, le ragioni per le quali i governi delle capitali occidentali non hanno nemmeno tentato una strategia alternativa, pur praticabile e possibile.
Li riconosciamo tutti grandi esperti nell'imporre sanzioni, embarghi e quant'altro5, non esitando nemmeno a privare la popolazione civile di medicine essenziali. Quanti bambini sono morti in Iraq tra la prima guerra del Golfo e la seconda?
Dispongono di tecnologie planetarie le più sofisticate che usano anche per spiarsi a vicenda.
Conoscono perfettamente per quali canali da anni passano danaro, armi e combattenti esteri (foreign figthers), i traffici di petrolio, di reperti archeologici e pure di profughi e migranti.
Potevano “soffocare” il Califfato colpendolo con maggiore precisione dei loro droni.
Perché non l'hanno fatto?
The answer, my friend, is blowin' in the wind. The answer in blowin' in the wind...6

Note
1 Riquadro inerito nel precedente Post “Mesopotamica”, ottobre 2016.
2 Paolo Mieli, “Un controllo internazionale nei territori liberati dall'Isis”, Corriere della Sera, 24 ottobre 2016.
3 Sul punto di dare il via ai bombardamenti contro al-Assad, accusato di uso di armi chimiche, Obama decise all'ultimo di soprassedere.
4 Non c'è alternativa, slogan reso famoso da Margaret Thatcher.
5 L'altra faccia del liberoscambismo pro domo sua.
6 Bob Dylan, “The Freewheelin'”, 1962, Yes, 'n' how many times must the cannonballs fly. Before they're forever banned? The answer, my friend, is blowin' in the wind, The answer is blowin' in the wind...”. Traducibile in: "Sì, e quante volte i proiettili dovranno fischiare prima di venir banditi per sempre? La risposta, amico mio, soffia nel vento. La risposta soffia nel vento...

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lunedì 24 ottobre 2016

Mesopotamica


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Mesopotamica

Ancora una volta il popolo curdo rischia di pagare per il gioco di dominio occidentale.
Nella crisi della globalizzazione, i riassetti geopolitici non sono in grado di risolvere i problemi e dare stabilità.


Dabiq, Rojava, Kurdistan
Il 16 ottobre da Dabiq, piccolo centro siriano ai confini con la Turchia, è stato cacciato lo Stato Islamico (Isis). Alla liberazione della cittadina hanno partecipato l'Esercito Siriano Libero (ESL) e le forze armate turche, nell'ambito queste ultime dell'operazione “Scudo dell'Eufrate”. La campagna ebbe inizio ad agosto, quando l'esercito turco entrò in Siria contro il Califfato di Abu Bakr al-Baghdadi, ma prioritariamente per combattere i “terroristi” curdi siriani delle Unità di protezione del popolo, le Ypg (Yekîneyên Parastina Gel), armate anche da Washington contro l'Isis. L'obiettivo dichiarato del governo Erdogan è di impedire la sovranità curda sul territorio riunificato della Rojava e la creazione ai propri confini siriani di uno Stato curdo.
Messo alle strette, Obama tra i due alleati aveva scelto quello strategico turco e voltato per l'ennesima volta le spalle ai curdi1, costretti a ritirarsi ad est dell'Eufrate. D'altro canto Erdogan era appena scampato ad un tentativo di golpe ed imputava gli Stati Uniti, minacciando la solidità stessa della Nato, di avere avuto parte in causa nella fosca faccenda.
Tutti presi dalla “profezia islamica”2 e dal luogo simbolico3, i media italiani si sono “dimenticati” che Dabiq è in Rojava [vedi cartine geografiche in pagina], territorio curdo. La questione non è di poco conto, perché riguarda una lotta popolare di liberazione a carattere nazionale e, di converso, il ruolo dell'ESL.
L'Esercito Siriano Libero, presentato dall'Occidente come la componente più democratica ed affidabile del fronte anti-Assad, tende a radunare le sue residue forze nella “zona cuscinetto” stabilita in Siria dall'intervento militare turco, trasformandosi, di conseguenza, da forza di liberazione contro il regime siriano, in forza di occupazione, per conto di Ankara, di un territorio rivendicato dalla nazione curda.
Realismo
Sui media occidentali si è fatta strada l'idea che i confini di Siria Iraq Yemen e Libia (i cosiddetti “Stati falliti”4), tracciati dalle grandi potenze sulle ceneri dell'Impero ottomano, siano obsoleti e debbano essere ridisegnati.
Amano sfoggiare un encomiabile realismo.
I più critici riconoscono che sono stati commessi degli “errori”, con riferimento alle guerre dei Bush ed ai vari interventi militari nell'area, tra i quali quello in Libia, ma sorvolano bellamente sul fatto che la politica di Usa ed alleati al seguito ha voluto far fallire questi Stati, puntando espressamente sulla disgregazione interna e sull'inasprimento delle rivalità etniche, tribali e religiose. Hanno seguito il vecchio motto: divide et impera.
Allo scopo sono serviti anche i governi amici di Turchia ed Arabia Saudita, salvo poi rimproverare loro, ipocritamente, pesanti “ambiguità” nelle vicende che hanno consentito la nascita e l'affermazione dello stesso Stato Islamico. Appare davvero “strano” che governi abituati ad imporre micidiali misure di embargo, si siano trovati improvvisamente impotenti di fronte a consistenti flussi di denaro, armi e foreign figthers, a commerci di petrolio e reperti archeologici, vitali per l'esistenza dell'Isis.
Ora, però, si deve prendere atto della realtà e “pacificare”. Come? Ovviamente riconoscendo quella “realtà” che si è voluta determinare e cercando di ricomporre il puzzle, ritagliando pezzi che altrimenti non si incastrano.
Anche Angelo Panebianco, già fautore dell'Europa dei cannoni5, dalla prima del Corriere della sera6 auspica che una futura Conferenza di pace dia luogo ad una risistemazione estesa a tutta l'area mediorientale. Vinto il Califfato, alla Conferenza il compito di separare, su basi tribali e religiose, la popolazione araba che vive in Siria-Iraq, dando a ciascuna delle “comunità confessionali”, un proprio Stato.
A conti fatti, curdi a parte, i nuovi Stati sarebbero tre: uno sciita-alawita nella Siria costiera; uno sunnita, di mezzo, ad includere parti della Siria e dell'Iraq attuali7; uno sciita nell'Iraq centro-meridionale. In questa pacificazione mesopotamica andrebbe risolta anche la secolare questione nazionale curda, sicché ai tre se ne aggiungerebbe un quarto.
Questo criterio divisorio, secondo Panebianco, varrebbe anche per lo Yemen, situato a sud della penisola arabica, affacciato tra Mar Rosso e Golfo di Aden sulla rotta del Canale di Suez. Il Paese è a maggioranza sciita (famiglia zaidita) e viene da mesi bombardato dell'Arabia Saudita in appoggio ai sunniti locali.
Afghanistan (20-25% di sciiti) e Libano (due quinti) non figurano nella ridefinizione dei confini e resta da capire a quale futuro sarebbe destinato il piccolo ma strategico Bahrein, sul Golfo Persico, dove la maggioranza sciita è oppressa e repressa, con la benevolenza occidentale, da un re sunnita sotto protezione saudita.
In Libia, divisa da appartenenze “solo” tribali, sponsorizzate però da vari Stati e da multinazionali dell'energia, par di capire si potrebbe arrivare ad una soluzione condivisa da tutte le componenti in campo, con una mediazione internazionale a cui contribuirebbe l'indaffarato governo italiano.

Bombe amiche
Le cronache quotidiane ci consegnano immagini strazianti di bambini e civili colpiti dall'aviazione russa che opera in appoggio alle truppe di Damasco. Per snidare dai quartieri orientali di Aleppo le milizie ribelli, Putin ed Assad fanno tabula rasa compiendo stragi tra la popolazione intrappolata negli scontri.
Senonché in questo giorni gli stessi media, nei reportages sull'offensiva dell'esercito di Baghdad e dei peshmerga curdo-iracheni per sottrarre Mosul all'Isis, informano che i raids aerei ed i colpi delle artiglierie, di Usa ed alleati in loro appoggio, “potrebbero” fare vittime civili. Questo perché il Califfato usa le popolazioni come “scudi umani” ed i trafficanti hanno alzato il “prezzo della fuga” per coloro che possono pagarlo.
Se ne deduce che le milizie fondamentaliste islamiche (tra le quali quelle dell'Isis e di al-Nusra) ad Aleppo est si stanno comportando in modo diverso da quelle del Califfato in Iraq.
Solo così sarebbe spiegabile il motivo per cui le vittime civili dei “nostri” bombardamenti sarebbero effetti collaterali non voluti, mentre i bombardamenti “loro” (dei russi) sarebbero, quelli sì, i soli ad essere cinici e sanguinari.


...e Realpolitik
Sulla via della “pacificazione” ci sono però parecchi ostacoli, superabili con una sorta di Realpolitik.
Non si tratta solo di eliminare l'Isis, ma, secondo Panebianco, di affidare alle “grandi potenze” la prima mossa, lasciando l'ultima agli attori locali, ai quali le soluzioni non possono essere imposte.
Tra gli attori locali figurano i vari raggruppamenti etnici, tribali e confessionali, sortiti dalla disgregazioni degli “Stati falliti”, ma pure potenze di teatro quali la Turchia, l'Arabia Saudita e l'Iran.
Su come “sistemare” il conflitto tra queste ultime due il columnist del Corriere tace. E neppure menziona la questione israelo-palestinese, incontestabilmente uno dei punti nevralgici se non la madre della crisi mediorientale. In tal modo disegna una geopolitica mesopotamica ristretta su misura per la propria idea di risistemazione.
Invece la Turchia, forse perché, oltre ad occupare la menzionata “zona cuscinetto” in Rojava, è direttamente impegnata pure in Iraq, dovrebbe ricevere delle “ricompense” non meglio precisate ed in particolare da chi sarebbero pagate. Al momento sembrano i curdi a doverlo fare, in contraddizione con la soluzione per loro prospettata nell'articolo.8
In qualsiasi modo in quest'area così definita (e ristretta), una Realpolitik non comporterebbe solo il coinvolgimento consensuale delle forze locali, ma anche l'adozione di una strategia che sappia cointeressare i russi riducendoli, al contempo, alla ragione. Pertanto Panebianco sostiene: «Con un “falco” antirusso come Clinton alla Casa Bianca, potrebbero calmarsi, ridurre l'attuale eccesso di aggressività. Per paradosso, proprio un presidente tutt'altro che compiacente verso i russi potrebbe allettarli riconoscendo loro lo status internazionale che essi vogliono.»
Giovanni Battista Piranesi, Arco gotico
Geopolitiche del dominio
Non ripeterò qui i motivi per cui la Federazione Russa “eccede in aggressività”.
Se, per un verso, un braccio di ferro tra “falchi” alla Casa Bianca ed al Cremlino rischia di precipitare il mondo in una pericolosa escalation, per l'altro è dar prova si scarso realismo pensare che Putin si possa accontentare di un formale riconoscimento di status, senza chiedere dimostrazioni concrete di abbandono della nuova guerra fredda che, in Siria come in Ucraina, è divenuta furiosamente calda.
È questa la direzione in cui vorrà andare la futura presidenza degli Stati Uniti? Cosa significherebbe per l'espansionismo della Nato in Europa? E quali corrispondenze avrebbe nel Pacifico rispetto alla Cina e, più ampiamente, con il reiterato tentativo di tenere i Paesi emergenti (non solo i BRICS) in posizione subalterna?
Inoltre, la soluzione geopolitica mesopotamica, per quanto focalizzata, non fa i conti con le irrisolte criticità interne all'area.
Quanto reggerebbe il Regno Saudita se smettesse di fungere da centro propagatore del fondamentalismo jihadista salafita, in contrasto con l'Iran sciita?
Per “rassicurare” Erdogan, il futuro Kurdistan dovrebbe limitarsi al nord dell'odierno Iraq, escludendo la Rojava ed i diritti della minoranza curda in Turchia.
I nuovi “staterelli”, fondati sull'appartenenza religiosa e tribale, sarebbero comunque instabili, in perenne conflitto interno ed esterno perché alla continua ricerca della “omogeneità identitaria” e dediti, di conseguenza, all'esercizio della “pulizia etnica” in reciproco contrasto.
A ben vedere e nonostante gli sforzi per presentarla come innovativa, una pacificazione siffatta si fonda su vecchie logiche spartitorie, su giochi di equilibrio tra potenze grandi e piccole, nonché sulla riesumazione delle rivalità identitarie tanto care al fu colonialismo. In questo generale tripudio di “passatismo” ogni riassetto geopolitico mesopotamico in Medio Oriente risulterà precario, solo un momentaneo passaggio tra questa crisi e la prossima.
Occorre andare oltre.
In generale va bandito lo strumento della guerra ed il reiterato ricorso al diktat delle armi per la soluzione delle controversie internazionali.
In particolare, semmai non sia venuto ancora una volta in chiaro, va rovesciata innanzitutto la pretesa unipolare di dominare il mondo restando al timone di una globalizzazione in piena crisi. Magari cercando soluzioni geopolitiche locali, tanto funzionali a tale pretesa quanto illusorie di stabile pace.

Note
1 Sui voltafaccia Usa verso il popolo curdo vedi anche http://znetitaly.altervista.org/art/19322.
2 La profezia si ritrova nell'Hadith (Racconto), parte della Sunna, l'insieme dei testi della dottrina. L'Hadith 6924 recita: "L'ultima ora suonerà solo quando i Romani arriveranno a Dabiq. Allora verrà da Medina per contrastarli un esercito formato dagli uomini migliori dei popoli della terra".
3 Tanto che il Califfato pubblica una rivista intitolata, appunto, “Dabiq”.
4 Si noti che dall'elenco viene sistematicamente derubricato l'Afghanistan.
5 In questo Blog, vedi il post “Cul de sac”, febbraio 2016.
6 Angelo Panebianco, “L'illusione di poter salvare i confini di Iraq e Siria”, Corriere della sera, 17 ottobre 2016.
7 Territorio sul quale si è installato l'ISIS (Islamic State of Iraq and Syria).
8 Nell'articolo citato Panebianco scrive: «Ai turchi dovranno essere date, certamente, compensazioni varie ma ciò che non trovò soluzione, uno sbocco accettabile, al termine della Prima guerra mondiale, dovrà trovarlo (a beneficio dei curdi ma anche della stabilizzazione dell'area) un secolo dopo.»

giovedì 13 ottobre 2016

Rileggendo il Manifesto di Ventotene

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I federalisti al confino temevano il risorgere, nel dopo-guerra, della vecchia Europa. Ma è alla caduta del muro che il passato ripassa. La Germania si riunifica, mentre gli altri attorno si dividono. Ritornano nazionalismi e patrie etniche, in un contesto europeo e mondiale inedito. La riforma della società voluta da Ventotene si “dimenticò” del liberalismo e dei suoi effetti. Oggi la liberal-democrazia è al bivio, soprattutto in un'Europa presa tra supremazie, subalternità e sovranità popolare.


  • Nei giorni del loro vertice agostano, Hollande, Merkel e Renzi hanno reso omaggio alla tomba di Altiero Spinelli, considerato uno dei padri dell'Unione Europea.
  • Nell'agosto del 1941, al confino fascista di Ventotene, Spinelli, Ernesto Rossi ed Eugenio Colorni, avevano scritto il Manifesto “Per un'Europa libera e unita”, trasformando l'idea federalista in programma politico.
  • Sono pagine che mostrano importanti “assenze” e contraddizioni, nell'analisi e sul piano storico, con qualche sorprendente vitalità “di ritorno”.
  • Non solo e non tanto per il bilancio che si può trarre da quanto è avvenuto nel dopo-guerra (trascorsi più di 70 anni), quanto per gli svolgimenti del dopo-muro, da cui ci separa appena il tempo di una generazione.
  • Rileggerlo, con attenzione ad alcuni concetti chiave, è tutt'altro che un ozioso esercizio.
Prefigurazioni
Qual era la situazione sui campi di battaglia del secondo conflitto mondiale, quando nell'agosto del 1941 i tre confinati a Ventotene scrissero il Manifesto federalista? Cosa lasciava presagire, politicamente, l'andamento bellico?
A giugno con l'Operazione Barbarossa era iniziato l'attacco nazista all'Urss. Benché coinvolti a sostegno della Gran Bretagna (legge Affitti e Prestiti)1, solo il 14 agosto gli Stati Uniti si legano alle sue sorti e sottoscrivono la Carta Atlantica. L'attacco giapponese a Pearl Harbour avverrà sul finire dell'anno, il 7 dicembre. Mese in cui anche Cina ed India dichiareranno guerra al Giappone. Sicché nell'agosto del '41 il quadro delle alleanze mondiali andava delineandosi, ma non poteva dirsi ancora compiuto.
Sul piano militare la Germania deteneva l'iniziativa strategica e, pur incontrando crescenti resistenze, era all'attacco e sembrava vincente. Ciò nonostante l'Italia, il suo principale alleato europeo, avesse palesato grandi difficoltà ed impreparazione nei teatri in cui era stata impegnata.
Al confino l'estrema fiducia nella vittoria finale dell'antifascismo, data dall'apertura del secondo fronte orientale contro l'Urss e dalla resistenza dell'Inghilterra, non poteva condurre anche ad una chiara previsione dei modi in cui sarebbe stata ottenuta e dei futuri assetti dell'Europa.
Non era immaginabile che Hitler riuscisse a trascinare nella propria totale sconfitta l'intero establishment della Germania2, coinvolgendovi anche il fascismo italiano, dal quale si separarono tra il 25 luglio e l'8 settembre del '433, nell'estremo tentativo di salvarsi, la monarchia sabauda e larga parte dei gruppi dirigenti nazionali che avevano condiviso il potere nel ventennio mussoliniano.
Non era immaginabile che i futuri alleati rifiutassero tutti ogni pace separata.
Tante cose non potevano essere previste.
Per questo motivo, forse, il quadro post-bellico immaginato da Ventotene non si distanzia nettamente da quello sperimentato all'indomani del primo conflitto mondiale. Con una differenza sostanziale: la convinzione che, in questo secondo dopo-guerra, una scelta “di civiltà” sarebbe stata matura, necessaria e preliminare rispetto ad ogni altra trasformazione: l'unità europea, per la quale impegnare le forze autenticamente internazionaliste.
Gli estensori del Manifesto erano consapevoli che la sconfitta tedesca non avrebbe portato automaticamente al nuovo ordine unitario dell'Europa.4 Non sarebbe mancato il tentativo di ricostruire i vecchi organismi statali. «Ed è probabile che i dirigenti inglesi, magari d'accordo con quelli americani, tentino di spingere le cose in questo senso, per riprendere la politica dell'equilibrio delle potenze nell'apparente immediato interesse del loro impero.»
Nello scontro con le forze progressiste, le forze conservatrici e reazionarie avrebbero cercato di fare leva sulla «restaurazione dello stato nazionale». «Se raggiungessero questo scopo avrebbero vinto. Fossero pure questi stati in apparenza largamente democratici o socialisti, il ritorno del potere nelle mani dei reazionari sarebbe solo questione di tempo.» Dopo il quale: «I generali tornerebbero a comandare, i monopolisti ad approfittare delle autarchie, i corpi burocrati a gonfiarsi, i preti a tener docili le masse.»
Si verrebbe in tal modo ad imporre l'armarsi l'uno contro l'altro ed il ricorso alla guerra.
Confluivano a dar forza alla scelta della «definitiva abolizione della divisione dell'Europa in stati nazionali sovrani»:
  • il crollo già avvenuto nella guerra della maggior parte degli Stati del continente;
  • l'impossibilità di «un equilibrio di stati europei indipendenti con la convivenza della Germania militarista a parità di condizioni con gli altri paesi», non potendo «spezzettare la Germania e tenerle il piede sul collo una volta che sia vinta»;
  • la necessità di svelenire la vita continentale dalle contese sui confini, sulle minoranze, sugli sbocchi al mare (e da questioni come quelle balcanica ed irlandese) adottando nella «Federazione Europea la più semplice soluzione, come l'hanno trovata in passato i corrispondenti problemi degli staterelli entrati a far parte delle più vaste unità nazionali (...)»;
  • la fine del senso di sicurezza della Gran Bretagna nella splendid isolation, la dissoluzione dell'esercito e della repubblica francese; con il riconoscimento dell'indipendenza indiana e la perdita dell'impero francese sarebbe stato più agevole «la sistemazione europea dei problemi coloniali»;
  • la scomparsa di alcune dinastie monarchiche e l'aprirsi di una prospettiva repubblicana;
  • la garanzia unica, costituita dalla federazione europea, per i popoli asiatici ed americani di nuovi rapporti internazionali su base pacifica e cooperativa.
Da questa nuova situazione veniva uno scompiglio, un mutamento. Coloro che, sebbene democratici e socialisti, avessero insistito nel concepire come campo centrale la conquista del potere «nel vecchio stampo» dello Stato nazionale avrebbero di fatto permesso il ritorno delle «vecchie assurdità». S'imponeva una «nuovissima» linea di demarcazione tra reazionari e progressisti federalisti, protesi, questi ultimi, alla «creazione di un solido stato internazionale» europeo e poi, in futuro, mondiale.
Come andò

Nel dopo-guerra le cose andarono diversamente da come avevano sperato e temuto Spinelli, Rossi e Colorni: gli Stati nazionali vennero sì ripristinati, ma l'Europa invece di molteplici divisioni, ne ebbe una, quella tra Est ed Ovest, a tal punto prevalente da mettere in sub-ordine le altre. Tali Stati, raccolti nelle alleanze militari contrapposte, prima della Nato e poi del Patto di Varsavia, non disponevano di sovranità né assoluta né relativa e cooperativa, bensì limitata.5 Nonostante «nel vecchio stampo» continentale ad Oriente avesse prevalso il socialismo e ad Occidente il capitalismo, la pace (armata) durò dal '45 al '91, anno di inizio della guerra nella ex-Jugoslavia.
Il Novecento che sembrò “secolo breve”6 alla caduta del muro di Berlino, si mostrò assai più lungo, tanto da apparire ancor oggi in-concluso.
Alla vecchia linea di demarcazione tra partiti progressisti e reazionari non subentrò la nuovissima perorata dai federalisti. La vecchia lotta tra le classi si intrecciò con la nuova lotta tra i due blocchi.
Quanto ai Paesi sottoposti al colonialismo e all'imperialismo, la storia seguì un percorso piuttosto accidentato e diversificato, in cui il ruolo degli Stati Uniti fu primario ed in contrasto con l'affermazione delle sovranità e dell'indipendenza di popoli e nazioni del mondo in via di sviluppo.
Qui giunti, credo utile focalizzare l'attenzione su alcuni passaggi storici che possono essere posti in relazione con il Manifesto di Ventotene: la riunificazione della Germania e gli svolgimenti nei Balcani (Jugoslavia ed Albania non appartenevano al Patto di Varsavia) e nell'Est europeo.
Germania vinta e divisa
Nelle intenzioni di Washington, come previsto dal piano Morgenthau7, la Germania sconfitta doveva essere smembrata ed il suo apparato industriale smantellato. Tuttavia, in seguito alla guerra fredda, dalle ceneri del terzo Reich nacquero due Stati: la Repubblica Federale Tedesca ad Ovest e la Repubblica Democratica Tedesca ad Est (con Berlino divisa all'interno del territorio della Rdt). L'economia tedesca nell'insieme non venne affatto ridotta allo “stato agro-pastorale”, pur con una diversa base di partenza tra i due Stati8.
Il muro di Berlino, simbolo della divisione della guerra fredda, fu eretto più tardi, nel 1961, quando a Mosca governava Nikita Kruščëv, in procinto di divenire alfiere della “coesistenza pacifica” tra i due blocchi. Sicché «il piede sul collo» della Germania consistette nel tenerla divisa e vincolata a contrapposte alleanze militari dipendenti dalle due superpotenze.
Nel 1989, alla caduta del muro, si pose il problema della riunificazione tedesca. Il cancelliere Helmut Kohl ottenne da Mosca il consenso alla riunificazione, in cambio di consistenti aiuti finanziari e con l'iniziale promessa che la Germania orientale non sarebbe stata inclusa nella Nato.9
Inclusione che invece avvenne anche per tutte le repubbliche ad Est della ex “cortina di ferro”, comprese una parte di quelle formatesi in seguito al disfacimento dell'Urss, fino a spingere l'alleanza militare euro-atlantica ai confini con la Federazione Russa. [Vedi cartina in pagina.] Ragione non secondaria del conflitto oggi in corso nel Donbas ucraino e delle tensioni con Mosca.
Per la superpotenza globale statunitense la Nato e la sua estensione sono la garanzia della limitazione di sovranità dell'Europa, al cui interno contenere la riunificata Germania quale potenza “zoppa”, non autonoma sul piano militare, nonché della riduzione della Russia a “potenza regionale”10, opportunamente tenuta fuori dall'Unione Europea. Ciò si traduce in una sorta di continuazione della guerra fredda, pur essendo sparito il blocco militare contrapposto.
e riunificata
Nella ricostruzione di Vladimiro Giacché, poc'anzi citata in nota, la riunificazione della Germania è Anschluß della Rdt alla Rft ed evoca lo spettro della annessione dell'Austria al terzo Reich nazista.
Quando si tenga conto dei modi e degli strumenti adottati per la sua seconda unità nazionale11, anche il carattere dell'azione politica tedesca in Europa appare meglio interpretabile.
  1. Con l'unificazione monetaria immediata (1° luglio 1990), il Deutsche Mark occidentale è stato imposto alla Rdt come un grande maglio a devastare la sua struttura economica, rimodellandola subalterna a quella della Rft. Al tempo 1 marco dell'Ovest era scambiato con 4,44 marchi dell'Est. Mediamente venne convertito 1:1,15! La rivalutazione shock mise fuori mercato tutte le imprese orientali e trasformò d'acchito un'economia produttiva autosufficiente in una economia assistita e di consumo dipendente.
  2. Seguì la privatizzazione furente della proprietà pubblica, compreso suolo e sottosuolo. Il ruolo principe fu affidato alla Treuhandanstalt (1990-1994), quale holding incaricata di dismettere il patrimonio industriale della Rdt. Gli oligopoli industriali e finanziari della Rft poterono acquisire le proprietà “del popolo” a prezzi di svendita, riducendo le imprese orientali a proprie succursali ed impadronendosi delle sue linee di export nell'Europa dell'Est (la Rdt esportava il 50% della sua produzione industriale). La desertificazione produttiva comportò una forte disoccupazione ed infoltì ulteriormente l'emigrazione della mano d'opera più qualificata verso i Länder occidentali.
  3. Mediante la totale estensione ad Est della sovranità politica e giuridico-istituzionale della Rft, si determinò l'eliminazione di qualsiasi autonomia, anche transitoria, della Rdt. L'intero ceto intellettuale orientale fu imputato di connivenza col regime socialista ed emarginato, compresi coloro che avevano dato vita alle manifestazioni per la democrazia ed i diritti civili che portarono alla caduta del muro. Una epurazione di tipo radicale, in particolare se confrontata con la denazificazione all'acqua di rose realizzata da Adenauer nel dopo-guerra.
Rilevante fu il ruolo della moneta, delle privatizzazioni e della spesa statale.
Un Blitzkrieg attuato con l'arma monetaria. Parafrasando Carl von Clausewitz l'imposizione del marco occidentale è stata la prosecuzione della politica con altri mezzi.12 Alla sua dirompente funzione si è accompagnata una privatizzazione con un buco a saldo di 256 miliardi di marchi, costi sociali elevatissimi e la “meridionalizzazione” dei territori della ex Rdt, a tutto vantaggio delle grandi imprese industriali e bancarie dell'Ovest. Complessivamente, esse fruirono della spesa straordinaria dello Stato unificato come di un imponente programma keynesiano di stimolo della congiuntura. Inoltre poterono meglio attuare la loro penetrazione nei mercati dell'Est e, più in generale, affermare il primato nazionalistico del neo-mercantilismo tedesco in Europa.

La Rdt non ha avuto modo di adottare un suo socialismo democratico, sperimentando un assetto strutturale assai simile a quello sostenuto dal Manifesto di Ventotene (parte terza), né di confederarsi con una propria diversità e relativa indipendenza con la Rft. La Repubblica Federale ha incorporato la Rdt in un modo aggressivo, totalizzante e colonizzante, avendola, senza mediazioni, violentemente privata di qualsivoglia autonomia statuale e giuridica insieme alla sua base economica ed industriale. L'emarginazione riservata all'intero ceto intellettuale tedesco orientale contrasta con il ruolo ipotizzato per esso da Ventotene, che lo vedeva alleato delle classi lavoratrici nel movimento del socialismo federalista europeo.
In sintesi, la Germania mostra persistenti propensioni alla “sovranità assoluta” dello Stato-nazione.
La reconquista dell'Est
Le condizioni che furono poste per ottenere gli aiuti del piano Marshall (1947) alla ricostruzione dell'economia continentale distrutta dalla guerra, implicavano un pesante condizionamento, da parte degli Stati Uniti, delle politiche interne dei Paesi che le avessero accettate.
D'altro canto, il piano si poneva all'interno di una strategia volta alla creazione di un blocco di alleanze politiche e militari da contrapporre all'”espansionismo sovietico”.
Mentre l'Europa è distrutta, gli Stati Uniti escono dalla guerra con una economia rafforzata. Trovandosi in sovra-produzione e nella necessità di difendere i propri livelli occupazionali, con il dollaro in posizione dominante, disponibilità di capitali e facilità di accesso alle materie prime, nutrivano nullo o scarso interesse acché i Paesi orientali riprendessero la posizione di “dipendenza coloniale” verso quelli occidentali. Privati dei vantaggi derivanti dai rapporti “asimmetrici” con l'Est, questi ultimi sarebbero stati più facilmente indotti a dipendere dall'alleato strategico d'oltre Atlantico.
Inoltre va ricordato che nei Paesi dell'Est europeo, data la nuova situazione post-bellica, anche consistenti forze non comuniste miravano ad uno sviluppo nazionale indipendente.
Ad ogni buon conto, come scrisse lo storico D. F. Fleming: «la vera causa della grande rivalità fra Est ed Ovest era il fatto che l'Europa orientale era stata sottratta al rapporto di dipendenza coloniale nei confronti dell'Europa occidentale e dei suoi finanzieri.»13
Il piano Marshall ebbe successo ad Ovest e contribuì alla divisione dell'Europa.
All'indomani della caduta del muro, i Paesi più forti, Germania in testa, possono riprendere le vecchie relazioni diseguali con i Paesi orientali, a cui a suo tempo dovettero rinunciare.
Nei Paesi in procinto di aderire alla Nato e all'Unione Europea, si impongono forze politiche di doppia derivazione. O scaturiscono dal trasformismo delle vecchie numenklature del “socialismo reale”, pronte ad appropriarsi delle imprese e dei beni statali privatizzandoli “in proprio”; o/e si riaggregano secondo identità nazionalistiche ed etnico-religiose, quando non apertamente neofasciste.
A differenza dei Paesi occidentali, le cui costituzioni continua[va]no a rappresentare, dal dopo-guerra, il compromesso detto socialdemocratico ed il tentativo di coniugare democrazia e lavoro, nei Paesi orientali e balcanici il “bambino viene gettato con l'acqua sporca”. Vi si impongono via via regimi con forti caratteri autoritari e xenofobi14, basati su ricostruzioni “revisioniste”15 della propria storia, nonché tutti aderenti al liberismo, divenuto nel frattempo il Verbo imperante.
E la preoccupazione dei governi europei a guida dell'Unione è indirizzata unicamente alla loro inclusione, in quanto mercati di merci, capitali e mano d'opera a basso prezzo, nei quali imporsi nel ripristino dei rapporti diseguali del passato.
Piccole patrie risorgono
Un particolare destino nefasto è inflitto alla Federazione Jugoslava, tanto osannata quando con Tito nel 1948 decise di sottrarsi all'influenza sovietica.
Al manifestarsi di aspri contrasti all'interno della Federazione degli slavi del Sud, invece di appoggiare una politica di ricomposizione dei problemi interni e di pace, Germania, Austria, Italia (e Vaticano) si precipitano nella corsa ai riconoscimenti delle proclamate piccole patrie etnico-confessionali, patrocinandole e contribuendo decisamente a tramutare lo scontro in guerra. Salvo, poi, con la solita ipocrisia ed in modo unilaterale (avendo a bersaglio privilegiato, “capro espiatorio” unico, la componente serba), gridare allo scandalo delle pulizie etniche, insite nell'assunzione identitaria assoluta dei nuovi Stati (Serbia inclusa).
Quella corsa ai riconoscimenti, dal retrogusto “revanscista”, produce molteplici effetti: restaura gli «staterelli», come li avevano definiti i federalisti di Ventotene, disgregando la Jugoslavia che, restando unita, avrebbe avuto ben altro peso in Europa; segna una stagione di appoggio a tutto quanto, anche di forze xenofobe e neo-fasciste, si muova purché immediatamente confacente ai propri interessi di supremazia; data la propensione dei governi euro-occidentali a meglio posizionarsi in reciproca rivalità, consente agli Stati Uniti di ergersi ancora una volta a dominus16, tanto che l'ultimo intervento in Kosovo (1999) è da essi diretto e la pax imposta diviene americana.
In sostanza, rispetto al dichiarato fine della pacifica integrazione europea, l'aspetto principale è l'aver riacceso la guerra nel vecchio continente nello sfascio di una federazione esistente, quando si pretende, al contempo, di costruirne una futura più ampia e di pace, comprendente tutti i popoli europei.
Se ricomponiamo il puzzle, dall'Anschluß della Rdt (1990-1991) alla guerra nella ex-Jugoslavia (1991-1999), dalle restaurazioni nazionalistiche alla separazione tra Cechia e Slovacchia (dal 1° gennaio 1993), fino all'attuale guerra in Ucraina, per tacere di altri conflitti più limitati, oltre ai vincoli stabiliti a Maastricht ed a quelli connessi alla moneta unica, appaiono gettati gran parte dei presupposti della odierna deriva europea.
Il passato ripassa (ma si trova spaesato)
In Europa occidentale, per superare i crescenti timori destati dalla nuova deutsche Einigung, il consenso all'unificazione fu dato in cambio di una singolare contropartita. Il presidente francese François Mitterrand chiese ed ottenne che la Germania rinunciasse al suo Deutsche Mark a favore di una moneta europea, il futuro euro. Supponeva di “imbrigliarla”.
La qual cosa non testimonia unicamente della mancanza di Realpolitik della dirigenza francese, ottenebrata dalla propria grandeur, mentre la pragmatica Margaret Thatcher già dava per scontato che il continente sarebbe caduto sotto egemonia tedesca. La “contropartita” affidava le sorti politiche europee alla funzione salvifica della moneta unica, maieutica promotrice dell'integrazione politica. Ne scaturì, invece, una strutturazione della già latente dicotomia continentale, tra un centro (ad egemonia tedesca) e differenziate periferie. In queste ultime si sarebbero collocate le future nuove adesioni dall'Est e dai Balcani, in aggiunta a quelle mediterranee.
Nel 1991, con Maastricht ed i suoi inevitabili risvolti politici e sociali, vengono completate le premesse dell'attuale crisi dell'Unione Europea.
L'insieme dei fatti sembra quasi ricondurre il corso della storia, dopo una deviazione durata alcuni decenni, sullo sciagurato binario paventato da Ventotene per il dopo-guerra. Riecheggia il monito: «Se [i reazionari] raggiungessero questo scopo avrebbero vinto.»
Ma il rientro «nel vecchio stampo» ha avuto preliminarmente bisogno di togliere di mezzo sia il “socialismo reale” che quello “democratizzato” e di restaurare il nazionalismo e persino l'etnico-centrismo, tutti fattori che ora remano contro l'integrazione europea. Rivalità, contenziosi, recriminazioni reciproche contribuiscono a ripristinare le logiche relazionali della vecchia Europa che parevano superate dalla storia.
Gli attuali governi dell'Est, tanto petulanti quanto subalterni nella questua per i fondi di Bruxelles in quanto “europei”, non esitano ad ergersi a difensori della “cristianità minacciata dall'invasione musulmana”. Cavalcano la xenofobia, praticano lo “scontro di civiltà” ed erigono nuovi muri.

In questo contesto il Lebensraum tedesco, suo supposto spazio vitale geopolitico, è occupato non con i carri armati, né disponendo della minaccia di una potenza militare autonoma, sovranità questa demandata alla Nato a guida statunitense. L'annessione totalizzante della Rdt non è ripetibile verso altri Stati dell'Europa. Sicché la propensione alla «sovranità assoluta», paventata da Ventotene, non può che rimanere a mezza strada, al momento semi-assoluta. Mentre, di contro, è affermata la sovranità limitata e semi-limitata dei differenziati Paesi periferici, sottoposti alla duplice supremazia politico-economica nell'Unione e strategico-militare atlantica.
La riforma della società
Come s'è visto il Manifesto mostra una certa validità ancora oggi nel paventare le restaurazioni degli Stati-nazione, contraddetto però nei tempi (e di conseguenza dal contesto) e dalle modalità politiche in cui i “ricorsi storici” sono venuti ad attuarsi. Nell'espansione ad Est e nei Balcani il rovesciamento del “socialismo reale” combacia con la riabilitazione dei nazionalismi, delle identità etnico-religiose, delle esclusioni xenofobe e di ogni tendenza autoritaria, compreso il neo-fascismo.
Analogo destino avvolge anche la riforma della società, indicata come seconda priorità del dopo-guerra?
La parte terza17 annuncia: «Un'Europa libera e unita è premessa necessaria del potenziamento della civiltà moderna, di cui l'era totalitaria rappresenta un arresto. La fine di questa era sarà riprendere immediatamente in pieno il processo storico contro la disuguaglianza ed i privilegi sociali. Tutte le vecchie istituzioni conservatrici che ne impedivano l'attuazione, saranno crollanti o crollate, e questa loro crisi dovrà essere sfruttata con coraggio e decisione. La rivoluzione europea, per rispondere alle nostre esigenze, dovrà esser socialista, cioè dovrà proporsi l'emancipazione delle classi lavoratrici e la creazione per esse di condizioni più umane di vita.»
Segue la critica «alla statalizzazione generale dell'economia» del modello sovietico e l'idea per cui «Le gigantesche forze di progresso, che scaturiscono dall'interesse individuale» non vadano «spente nella morta gora» della collettivizzazione burocratica, bensì «esaltate ed estese offrendo loro una maggiore possibilità di sviluppo ed impiego» e contemporaneamente arginate e convogliate «verso obiettivi di maggiore utilità per tutta la collettività.»
In sintesi: «La proprietà privata deve essere abolita, limitata, corretta, estesa, caso per caso, non dogmaticamente in linea di principio.»
La prospettiva liberatrice federalista e socialista richiedeva alle classi lavoratrici una lotta contro il «dominio dei ceti padronali» capitalistici, evitando di cadere nella «tirannide burocratica» comunista.
Visto il clamore mondiale all'epoca suscitato, nell'agosto del '41 era difficile negare che l'industrializzazione sovietica, tra il 1928 ed il 1939, fosse stata un grande successo: «il reddito pro-capite salì del 5 per cento l'anno, un tasso incredibilmente rapido in un mondo nel quale in genere il reddito cresceva dell'1-2 per cento.»18 Correvano gli anni della grande depressione successiva al crollo di Wall Street del '29. Se in Urss l'iniziativa privata era stata spenta nella «morta gora» burocratica, il resto del mondo non poteva certo rivendicarne le virtù progressiste in toto, visto che ne stava subendo i disastrosi risultati.

Di contro, non era ancora stato tratto un bilancio dei costi umani sostenuti dai popoli dell'Urss, ancora oggi oggetto di disputa, che furono comunque ingenti e non compaiono, né potevano comparire, tra le motivazioni critiche del Manifesto.
A quei costi si aggiunsero quelli sostenuti per resistere all'aggressione nazista (20 milioni di morti), al cui insuccesso contribuì non poco la precedente industrializzazione a tappe forzate.
Avere alle spalle un sufficiente tempo storico ci aiuta ad esercitare una critica al socialismo sovietico meglio motivata, più ampia, articolata e profonda, meno condizionata dallo stato di isolamento dell'Urss e dalle coazioni del “comunismo di guerra”.
Diverse furono le fasi di una storia durata settanta anni. Riferita al dopoguerra, la critica al burocratismo appare piuttosto superficiale ed insufficiente a spiegare le dinamiche interne di quel socialismo realizzato. Si consideri, ad esempio, che all'interno del sistema di gestione delle imprese di proprietà statale, nominalmente “del popolo”, si era venuto a formare il potere di una classe di possesso autoreferenziale, al cui controllo sociale mancava un sistema di base, politicamente democratico, e non demandato semplicemente al vertice di governo. Ricorre oggi la tesi che il partito comunista si sia “mangiato” lo Stato, quando a me pare sia avvenuto esattamente il contrario...
Ma l'aspetto di gran lunga più importante, da parte degli estensori del Manifesto, è nell'individuazione dei nemici, tra i quali manca una minima critica al liberalismo, di cui il liberismo è, per così dire, la faccia “economica”. Non si accenna neanche ad una distinzione tra diversi modi di intenderlo.
L'enfasi posta sulle virtù progressiste costituite dall'interesse e dall'iniziativa individuale privata rivela una concezione “naturalistica” delle forze economiche, tipica del liberalismo, e, parallelamente, “razionalistica” dei canali nei quali dovrebbero essere ricondotte dalla politica dello Stato.
Liberalismo assente
In effetti nel dopo-guerra, ad Ovest, il compromesso europeo detto socialdemocratico ha sì ingabbiato gli “spiriti animali” del capitalismo, ma per l'ansia di non perdere il confronto col socialismo dell'Est. Bisognava evitare che il ripetersi di crolli finanziari generasse una disoccupazione di massa.
Un capitalismo temperato, dal volto umano almeno in Europa, era necessario anche per resistere all'avanzare di grandi movimenti interni, operai giovanili e civili, che andavano collegandosi con la decolonizzazione e le lotte di liberazione del Terzo Mondo. Questi i motivi per i quali prevalse una soluzione di sopravvivenza, se si vuole di “razionalità” politica, ma dettata dalla paura di perdere tutto pur di non concedere nulla.
Venuti meno i precedenti rapporti di forza, il liberalismo senza “lacci e lacciuoli”, ha accantonato dagli anni '80 le politiche di stampo keynesiano ed ha ripreso linfa dalle proprie radici, riesprimendosi nella sua forma primordiale. Una forma reimportata dall'altra sponda dell'Atlantico dov'era nel frattempo trasmigrata.
Verso di esso tuttora prevale una critica confinata all'ambito economico, tuttalpiù allargata al sociale. Come se non fosse nel suo DNA agire politicamente servendosi di mezzi in apparenza puramente economici, a suo dire “naturali”, senza trascurare all'occorrenza di fare ricorso alla guerra: ieri con le cannoniere portatrici di una superiore “civiltà” verso popoli arretrati e “barbari”, razzialmente inferiori; oggi con droni “umanitari” e “per la democrazia” contro “Stati canaglia”, con popoli culturalmente sempre da educare ai superiori “nostri valori occidentali”.
Si poteva escludere dal panorama critico il liberalismo e la sua lunga storia, coloniale ed imperialista?
Proprio la riaffermazione di un ruolo dell'iniziativa privata nel socialismo federativo europeo comportava una precisa critica al liberalismo realizzato.
A tale riguardo mi premono alcune osservazioni.
La prima registra la contraddizione, presente nel Manifesto, tra il riconoscimento delle «gigantesche forze di progresso» ed i propositi di riforma radicale che dovevano limitare alquanto i campi in cui l'iniziativa privata poteva attivarsi, oltre i quali «si dovrà procedere senz'altro a nazionalizzazioni su scala vastissima, senza alcun riguardo per i diritti acquisiti».
La seconda chiama in causa l'idea stessa di progresso, in auge fino a pochi anni fa ed ora in crisi, dato che l'illimitato sviluppo delle forze produttive è entrato in evidente collisione con i popoli, le società e l'ambiente in cui vivono.
Accade che le evocate «gigantesche forze» esproprino le risorse, naturali e non, di intere aree del pianeta in una espansione del modello occidentale di produzioni e consumi dai tratti sempre più devastanti ed insostenibili per la vita umana.
Non a caso si parla, non senza qualche ragione, di “decrescita felice” nei Paesi ricchi, a fronte di quella “infelice” comunque in atto. Mentre nei Paesi emergenti, in via di sviluppo e nei più poveri, dove la popolazione impegnata in agricoltura è ben superiore al nostro 4-5%, risale all'ordine del giorno la questione agraria: ossia come consentire a poco meno della metà della popolazione della Terra di non finire in immense bidonvilles o/e di non dover emigrare a milioni e milioni.
Una loro grande industrializzazione, anche se prodigiosa (con quali ricadute ambientali?) e “permessa” dalle odierne relazioni internazionali e dai suoi cerberi guardiani pro-occidentali (Gatt, Fmi e Banca mondiale), sarebbe largamente insufficiente. Serve innanzitutto garantire l'accesso generalizzato dei contadini alla terra in una rinnovata agricoltura, liberata dal dominio delle multinazionali delle sementi, dei pesticidi, degli organismo geneticamente modificati (OGM) e del cibo.19
La terza osservazione tiene conto degli svolgimenti connessi alla globalizzazione finanziaria, dopo il crack del 2007-2008. Gli estensori del Manifesto non potevano non sapere del nesso esistente tra la globalizzazione liberista della belle époque ed i successivi conflitti in Europa e nel mondo. In particolare non dovevano sottostimare le dinamiche insite nell'internazionalismo e nel “libero scambio” (diseguale) del grande capitale industriale e finanziario, concentrando le loro attenzioni sul “collegato disposto”: la rivalità tra gli Stati-nazione più potenti, in competizione per il dominio, da cui il militarismo aggressivo e le chiusure protezionistiche, tanto perentoriamente sancite per preservare i propri interessi, quanto negate alle necessità di sviluppo altrui.
La Grande Guerra, al contrario di quanto ebbe a sostenere Luigi Einaudi nelle sue “Lettere politiche di Junius”20, non fu l'inevitabile alternativa imperiale, tentata dalla Germania, alla mancata unificazione continentale, resa necessaria dalle interdipendenze create dalla rivoluzione industriale, a cui le democrazie liberali avrebbero dovuto provvedere pacificamente. Fu primo atto di uno scontro tra opposti imperialismi per il dominio sul mondo.
Inghilterra, Francia e Stati Uniti (per non parlare della Russia zarista) non erano più democratiche di Germania ed Austria-Ungheria, come ben ha saputo spiegare Luciano Canfora21. E non vi furono trascinate loro malgrado.
Ad ogni buon conto, la linea di demarcazione a separare da un lato la sfera d'intervento dello Stato con adeguata protezione delle produzioni nazionali e, dall'altro, la sfera riservata all'iniziativa privata e di libero scambio internazionale, deve essere necessariamente mobile e realizzata su misura delle differenziate condizioni locali territoriali. Questo richiede nel mondo odierno il diverso grado di sviluppo dei singoli Paesi e delle diverse aree. E non potrà bastare.
Fatto salva l'urgenza di una ripresa democratica del pubblico sul privato, a partire dal governo della moneta e dal ripristino della “repressione finanziaria”, possiamo pensare di uscire dalle enormi contraddizioni del nostro tempo senza cambiare il paradigma generale su cui si basa la nostra stessa “civiltà”?
Proprio su questo punto, «La crisi della civiltà moderna», nel Manifesto di Ventotene trattato in apertura, si conclude la mia rilettura.
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Tra parentesi
Negli anni della ricostruzione postbellica italiana e della sua trasformazione in Paese industriale, da prevalentemente agricolo qual era, si dimostrò assai più vitale, a confronto con quella grande privata, la grande imprenditoria pubblica.
Dopo quel periodo non fu la burocrazia del partito unico di Stato, ma la “partitocrazia” della Repubblica, spartitoria ed auto-finanziatrice, a metterla in difficoltà.
In seguito alla crisi degli anni settanta, inerente all'insieme del capitalismo occidentale, si trovò nel sistema delle imprese statali il provvidenziale capro espiatorio; sull'onda del liberismo si finì per privatizzare con risultati, per “le gigantesche forze di progresso”, assai deludenti.
Più di recente, il Paese ha perso un quarto della sua base industriale, limitando i danni solo grazie alla piccola-media impresa ed alla sua parziale internazionalizzazione. Ma può bastare a reggere le sorti della “seconda potenza industriale d'Europa”? A non renderla succursale subalterna di poteri politici ed economici accentrati altrove?
Intanto, tra i grandi gruppi privati finanziarizzati, che avevano beneficiato di rilevantissimi sostegni pubblici, perché il bene per loro coincideva con il bene per la nazione, s'è fatta strada la pratica di collocare le proprie sedi fiscali altrove in Europa, pur continuando a voler dettare le linee della politica italiana.
Ci si interroga dove sia finito il capitalismo italiano.

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Civiltà da salvare22
«La civiltà moderna ha posto come proprio fondamento il principio della libertà, secondo il quale l'uomo non deve essere un mero strumento altrui, ma un autonomo centro di vita.»
Benché l'affermazione di un «eguale diritto di tutte le nazioni di organizzarsi in stati indipendenti» sia stato «un potente lievito di progresso», l'ideologia dell'indipendenza nazionale «portava in sé i germi del nazionalismo imperialista, che la nostra generazione ha visto ingigantire fino alla formazione degli Stati totalitari ed allo scatenarsi delle guerre mondiali.» La nazione, pertanto, è divenuta una «entità divina, un organismo che deve pensare solo alla propria esistenza ed al proprio sviluppo, senza in alcun modo curarsi del danno che gli altri possono risentirne. La sovranità assoluta degli stati nazionali ha portato alla volontà di dominio sugli altri (…) In conseguenza lo stato, da tutelatore della libertà dei cittadini, si è trasformato in padrone di sudditi, tenuti a servirlo con tutte le facoltà per rendere massima l'efficienza bellica.»
Inoltre: «Gli stati totalitari sono quelli che hanno realizzato nel modo più coerente la unificazione di tutte le forze, attuando il massimo di accentramento e di autarchia, e si sono perciò dimostrati più adatti all'odierno ambiente internazionale.»
Ciò è potuto accadere perché:
  • l'estensione delle libertà di stampa, di associazione ed il suffragio universale avevano reso «sempre più difficile la difesa dei vecchi privilegi mantenendo il sistema rappresentativo», dal momento che di quegli strumenti ne facevano uso i «nullatenenti» per dare «concreto contenuto» ai propri diritti;
  • gli ordinamenti democratico-liberali sono diventati strumenti degli interessi particolari di «giganteschi complessi industriali e bancari» in lotta tra loro.
La Germania nazista rappresentava questa «reazionaria civiltà di potenza» e, insieme alla vassalla Italia ed al Giappone, «si è lanciata nell'opera di sopraffazione» su scala mondiale. Contro le potenze totalitarie si sono schierate «immense masse di uomini e di ricchezze» e «tutte le forze progressiste»: le «parti più illuminate delle classi lavoratrici»; «gli elementi più consapevoli dei ceti intellettuali»; «imprenditori, che sentendosi capaci di nuove iniziative, vorrebbero liberarsi dalle bardature burocratiche, e dalle autarchie nazionali, che impacciano ogni loro movimento.»
Sovranità in contraddizione
Al compromesso detto socialdemocratico ed all'ingabbiamento degli “spiriti animali” del capitalismo ha concorso il matrimonio tra liberalismo e democrazia-lavoro. Dagli anni ottanta in poi è intervenuto un divorzio, per cui il lavoro e la democrazia si trovano, di fatto, in antagonistica lotta con un liberalismo d'impronta nord-americana. Le istituzioni liberal-democratiche, comprese le costituzioni, sono al bivio.
Ciò premesso, con le conseguenze che ne derivano per la lotta tra le classi, mi pare che il Manifesto di Ventotene soffra di un basilare eurocentrismo e di concezioni della indipendenza e della sovranità piuttosto unilaterali, soprattutto in rapporto col resto del mondo.
L'unità federale europea avrebbe potuto garantire una risoluzione dei problemi coloniali e, più in generale, un nuovo assetto cooperativo e pacifico dei rapporti con i popoli degli altri continenti?
Forse, ma ad almeno due irrinunciabili condizioni: che l'Europa divenisse socialista certamente e non opzionalmente, non dunque solo unita, libera e federata; che gli Stati Uniti d'America (presi ad esempio per il federalismo europeo) non subentrassero al colonialismo con una nuova forma di dominio.
Ad ogni modo, la sovranità politica dei popoli basata sull'indipendenza nazionale, vista su scala mondiale, non aveva e non ha esaurito affatto la sua funzione liberatrice. Indipendenza e sovranità vanno oggi diversamente intese rispetto al periodo coloniale e post-coloniale di nascita delle moderne entità statuali, non fosse altro perché ai problemi della pace si sono sommati quelli dell'ambiente a porre con urgenza la necessità che l'interdipendenza di fatto si tramuti da assoluta/limitata in sovranità relativa, paritaria e cooperante.
Il mondo è tuttora diviso ed i “tre mondi” hanno subito una trasformazione ed una riconfigurazione: il primo mondo dei Paesi ricchi, composto da Nord-America, Europa e Giappone (G7) deve fare i conti con il secondo mondo dei Paesi emergenti (più esteso dei BRICS); in fondo alla scala, scalciata da chi sta in cima, permane un terzo mondo di Paesi alla ricerca di una propria via allo sviluppo.
Intrecciata a questa divisione va considerata la scala sociale che attraversa l'intero globo, giacché la ricchezza prodotta è andata concentrandosi nelle mani di esigue minoranze oligopolistiche.

La globalizzazione non ha estinto gli Stati-nazione: ha indebolito la sovranità e la “tenuta” stessa di quelli periferici e semi-periferici. Né ha creato un Impero sovranazionale. Il capitale non si si è scisso dal “mostruoso attrezzo” che gli ha aperto ogni via di penetrazione ed espansione, con la forza della sopraffazione sin dal Cinquecento. Multinazionali ed oligopoli finanziarizzati mantengono un saldo ancoraggio alla potenza patrocinante dei “loro” rispettivi Stati ed al sistema delle loro alleanze. Altrimenti non si spiegherebbero le guerre commerciali, fiscali e monetarie, né il business delle armi ed i conflitti armati in corso, né tantomeno il pullulare di basi militari sul pianeta.
In questo contesto, alcuni Stati nazionali esercitano effettivamente una sovranità assoluta e semi-assoluta. Altri, di converso necessariamente, si ritrovano a subire una sovranità limitata e semi-limitata.
L'interdipendenza della nuova globalizzazione non ha generato una universale sovranità relativa ed equilibrata, nella quale sciogliersi nell'internazionalismo: qui sta il nodo politico irrisolto di un mondo che deve diventare multipolare se vuole collaborare ai fini della pace e della sopravvivenza dei popoli sul pianeta.
In controtendenza, rispetto all'obiettivo della sovranità relativa cooperante, si è andata costruendo l'Unione Europea.
Nell'insieme è a sovranità limitata rispetto a quella assoluta, esercitata soprattutto tramite la Nato dagli Stati Uniti, superpotenza unica e traballante che fatica ad imporle il TTIP, mentre si interroga se le convenga sottoscrivere23 il suo gemello transpacifico (TTP), dopo averlo fortemente voluto.
In seno all'Europa l'egemonia tedesca si scopre “vulnerabile”24 perché tutt'altro che benevola verso le differenziate periferie continentali, caratterizzata dalla ricerca della supremazia da parte di un establishment totalizzante (come s'è visto nelle vicende del dopo-muro) ed indisponibile a condividere i costi economici dell'Unione, a fronte degli enormi ricavi ottenuti in regime di moneta unica.
Come previde Spinelli, l'integrazione funzionale intergovernativa, attualmente praticata, non funziona. Come previde Einaudi, un'unione monetaria senza stato sovranazionale, non può sopravvivere.
Date le contraddizioni esposte in queste righe, alla deriva ed alla disgregazione non è possibile (né sarebbe auspicabile) contrapporre una integrazione che sbocchi in uno Stato sovranazionale europeo a guida germanica, seppure in tandem (instabile) con la Francia.
Per rimettere in cammino un'Europa realmente comunitaria, di conseguenza, mi pare indispensabile sia la sua interna decostruzione, a partire dall'area valutaria e dai Trattati, sia la forza di un blocco storico sociale e politico che ci porti ad una rinnovata sovranità nazionale sulla via della cooperazione paritaria.

Note
1 La legge affitti e prestiti (Lend-Lease Act, marzo 1941) permise agli Stati Uniti, con ampie facoltà discrezionali delegate al presidente, di fornire materiali bellici, materie prime e supporto finanziario ai Paesi impegnati contro la Germania, restando formalmente neutrale.
2 Con l'attentato del 20 luglio 1944 fallì il tentativo, assai tardivo ed isolato, di rovesciarlo e “limitare i danni”.
3 Nella notte tra i 24 ed il 25 luglio del '43 Mussolini viene esautorato dal Gran Consiglio del Fascismo. Il nuovo primo ministro nominato dal re, Pietro Badoglio, dopo aver proclamato la continuazione della guerra, annuncia, l'8 settembre, il raggiunto armistizio con gli anglo-americani.
4 Le citazioni (a sfondo giallo) dal Manifesto che seguono nel paragrafo sono tratte dalla parte II: “I compiti del dopo guerra - L'unità europea”.
5 Leonid Brežnev, dopo l'invasione sovietica della Cecoslovacchia (agosto 1968), sostenne la “sovranità limitata” per il “campo socialista”. Anche nel “campo capitalista” europeo occidentale, come in Italia, la “sovranità limitata” venne praticamente esercitata dagli Usa, con molteplici mezzi ma meno diretti.
6 Mi riferisco al libro dello storico inglese Eric J. Hobsbawm, “Il Secolo breve”, Rizzoli, 1995 (1994).
7 Ministro del Tesoro dell'amministrazione Roosevelt.
8 In marchi ovest del 1953, le riparazioni di guerra pagate dalla Rdt ammontarono a 99,1 miliardi, contro i 2,1 miliardi pagati dalla Rft. Calcolata per abitante la proporzione fu di 130 a 1.
9 Il resoconto che ne fa Valerio Castronovo, (“L'Europa e la rinascita dei nazionalismi”, Laterza, giugno 2016) è parziale e sbrigativo. Un quadro esaustivo viene da Vladimiro Giacché (“Anschluss – L'annessione”, Imprimatur, 2013) che ricostruisce una serie di passaggi cruciali, tra i quali emerge la responsabilità di Gorbačëv nell'aderire alla richiesta Usa di consentire l'ingresso della Germania unificata nella Nato, abbandonando la Rdt ed il governo Modrow (succeduto ad Honecker) in balia dell'annessione.
10 La definizione è di Barack Obama nel marzo del 2014.
11 La prima unificazione, deutsche Einigung, fu completata tra il 1867 ed il 1871 ad opera della Prussia di Bismarck.
12 La celebre frase di Clausewitz è: “La guerra non è se non la continuazione del lavoro politico, al quale si frammischiano altri mezzi.” Traduzione di:Der Krieg ist nicht anderes als eine Fortsetzung des politischen Verkehrs mit Einmischung anderer Mittel.”
13 D. F. Fleming, “Storia della guerra fredda, 1947-1960”, Feltrinelli, 1964, pag. 604.
14 Anche in Polonia dove Solidarność, nata operaia nei cantieri di Danzica e con un'impronta cattolica, non produsse alcun indirizzo politico e sociale alternativo. La Polonia partecipa al gruppo di Visegrad (nato nel 1991), con Ungheria, Cechia e Slovacchia, e alla politica delle barriere anti-immigrati.
15 A titolo di esempio, nel Post “Ucraina. La seconda guerra europea – settembre 2015”, ho portato il caso di Stepan Bandera.
16 Mi riferisco agli accordi di accordi di Dayton (1995) in Ohio del 1995.
17 Le citazioni dal Manifesto che seguono in questo paragrafo e nel successivo sono tratte dalla parte III: I compiti del dopo guerra – La riforma della società.
18 Ha-Joon Chang, “Economia”, il Saggiatore, 2015 (2014), pag. 76; in nota si avverte che i calcoli derivano da Angus Maddison, The World Economy: Historical Statistics, Ocd, Paris 2003, pag. 100, tabella 3c.
19 Proprio di queste settimane è la notizia dell'imminente fusione dei colossi Monsanto e Bayer che crea un monopolio su un quarto dei diserbanti e un terzo delle sementi consumati in tutto il mondo.
20 La cui lettura a Ventotene ispirò gli autori del Manifesto. Vedi Sergio Pistone, “Luigi Einaudi e Altiero Spinelli”, http://www.cr.piemonte.it/dwd/organismi/cons_euro/2011/einaudi_spinelli_federalismo_europeo.pdf
21 Luciano Canfora, “La democrazia – Storia di un'ideologia”, Laterza, 2004 e “1914”, Sellerio, 2006.
22 Le citazioni che seguono sono tratte dalla sua parte prima.
23 Pressata da Donald Trump, Hillary Clinton ha scritto che non intende farlo. Il Congresso statunitense non l'ha ancora approvato.
24 A tale proposito si veda Gian Enrico Rusconi, “Egemonia vulnerabile – La Germania e la sindrome di Bismarck”, il Mulino, 2016. Una lettura utile per capire il dibattito tedesco, uscendo dall'inconsistenza di quello italiano presente sui grandi media.