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- Europa ed Italia insieme coinvolte nella crisi della liberal-democrazia (il tandem).
- Costituzionalismo e sovranità popolare.
- La ”unificazione politica” come luogo della democrazia.
- Senza inclusione economico-sociale non c'è omologazione istituzionale.
- Dal voto censuario al suffragio universale, alla perdita della “egemonia sul consenso”.
- Filtri anti-democratici.
- Il liberalismo reale riapproda al suo alter ego: il nazionalismo.
- Nella post-globalizzazione, la sovranità popolare può vivere nelle lotte sociali e di liberazione.
Destini
incrociati
Nello
spazio temporale di poco più di un decennio sono venuti ad
incrociarsi i destini costituzionali d'Italia e d'Europa.
In
Italia assistiamo ad una tenace preservazione da parte della
maggioranza popolare di una Costituzione, quella del 1948, che sia il
contesto interno che quello internazionale sembravano avere ridotto
alle enunciazioni di principio, racchiuse nella sua parte prima.
Nell'arco di dieci anni, nel 2006 e poi nel 2016, ben due tentativi
di revisione a senso unico, volti al rafforzamento dell'esecutivo e
collegati a leggi elettorali ultra-maggioritarie, sono andati
respinti.
In
Europa, se le Costituzioni dei singoli Stati-nazione non sono state
sovra-ordinate da una superiore Carta continentale, necessariamente
sovra-nazionale, sempre lo si deve a maggioranze popolari, espressesi
in Francia ed in Olanda nel 2005. Anch'esse non si sono “adeguate”
ai mutati contesti, ai quali avrebbero “dovuto” giocoforza
obbedire.
Benché
nel dibattito mainstream
raramente affiori un collegamento analitico tra questi dinieghi ed
ancor meno ci si interroghi sui sottostanti perduranti motivi, i
fatti invocano spiegazione.
Cosa
ha impedito il compiersi di trasformazioni per le quali intere
“classi dirigenti” si sono spese, andando incontro a clamorosi
fallimenti?
Quali
contraddizioni, immediate e di più lunga durata, sono venute a galla
in oltre un decennio?
D'acchito,
in superficie, vediamo una frattura insinuarsi nel rapporto tra
costituzionalismo liberale e sovranità popolare, la cui fusione è
posta alla base della democrazia dello Stato occidentale moderno.
«Più
in particolare, la democrazia moderna identifica quella specifica
forma di Stato in cui i principi del costituzionalismo liberale si
sono fusi con il principio della sovranità popolare.»1
Ciò
accade perché il suffragio universale mostra maggioranze che
rifiutano i nuovi vestiti istituzionali confezionati dal liberalismo
realizzato.
Eppure,
per chi voglia andare oltre la frattura manifesta, è possibile
intravvedere una faglia sottostante, materiale e di più lunga
durata: il liberalismo reale si muove in rotta di collisione con i
popoli e lo storico tandem denominato “liberal-democrazia” è in
via di disfacimento. Le cause e le dinamiche di tale disfacimento
sono poste al centro di questo scritto, nel tentativo di comprendere
il nuovo contesto che ne scaturirà.
Qui,
Italia
La
storiografia ufficiale ci racconta che la Prima Repubblica durò dal
1948 al 1994, sicché la subentrante Seconda Repubblica sarebbe nata
in seguito ad un terremoto partitico ed alla connessa legge
elettorale maggioritaria,2
sostitutiva del proporzionale puro.
Ma,
nonostante il continuo arrovellarsi delle prevalenti forze politiche,
questo passaggio non ha avuto mai modo di compiersi pienamente. Esse,
pur aderendo tutte al “pensiero unico”, al liberismo ed alla
globalizzazione che annunciavano la fine della storia, non si sono
mai trovate altrettanto concordi nello stabilire in cosa consistesse
la Seconda Repubblica in cui dicevano di ritrovarsi.
Una
prima riforma costituzionale, promossa dalla coalizione capeggiata da
Silvio Berlusconi, fu bocciata al referendum del 25-26 giugno del
2006, con una forte percentuale di No (61,29%), dopo che in aprile
alle elezioni politiche aveva prevalso di stretta misura il
centro-sinistra di Romano Prodi.
A
distanza di 10 anni, il 4 dicembre 2016, è la riforma voluta dal
governo di centro-sinistra di Renzi e dalla seconda presidenza di
Giorgio Napolitano a raccogliere un netto diniego (59,12%). Un
diniego reso più grande dall'affluenza al voto che, compreso
l'estero, fu del 65,47% nel 2016 rispetto al 52,46% raggiunto nel
2006. In termini assoluti ben 3.636.211 persone si sono aggiunte alle
fila del NO!
Entrambe
le revisioni vennero promosse dall'alto di vertici governativi e da
una sola parte politica. Entrambe si proponevano accentramenti di
potere nelle disponibilità dell'esecutivo, in nome della
“governabilità” e, a ragione, molti costituzionalisti vi hanno
scorto una sostanziale continuità d'intenti. Anche per via delle
collegate leggi elettorali: il Porcellum (dicembre 2005) e l'Italicum
(giugno 2016).3
Se
non è una forzatura intravvedere nei disegni riformatori
l'intenzione di sopperire alla mancanza di consenso alle politiche
liberiste, attraverso lo svilimento di ogni democrazia partecipativa
e della stessa democrazia della rappresentanza, corre l'obbligo di
una constatazione: in dieci anni l'avversione a tali disegni si è
fatta dilagante e ogni tentativo di reiterazione appare perdente.
Fuori
tempo
A
marcare la differenza tra i due fallimenti italiani, segnalo alcuni
aspetti salienti.
La
revisione del centro-destra precedeva la recessione del 2007-2008,
mentre quella del centro-sinistra sopravviene dopo di essa e alla
fine di un ciclo storico, fuori tempo massimo, poiché, nel
frattempo, sia il liberismo e la connessa globalizzazione, sia loro
interpretazione in chiave europea sono entrati in profonda crisi. A
questa crisi le “classi dirigenti” politico-economiche italiane,
responsabili della liberazione degli “spiriti animali del
capitalismo” in patria e delle relative politiche continentali,
hanno cercato di rispondere, riproponendo i medesimi indirizzi
intrapresi sin dagli anni ottanta del secolo scorso.
Pertanto,
l'ultimo tentativo di revisione costituzionale, per adeguare il
“vestito” al “corpo”, non ha superato la prova referendaria,
non solo e non tanto per l'opposizione dei partiti politici esclusi
dalla sua elaborazione, quanto per il tramutarsi dello sfascio
sociale in suo diffuso rifiuto, soprattutto da parte dei giovani,
chiamati a consegnarsi ad un teorico “futuro” di cui sperimentano
già nel presente quotidiano tutti i suoi perversi risvolti pratici.
La stessa ragione per cui alle elezioni politiche del febbraio 2013
la cosiddetta Seconda Repubblica si scoprì, improvvisamente, non più
bipolare bensì tripolare.
In
definitiva, nell'espressione referendaria della sovranità popolare
si sentenzia che, in assenza di un reale processo d'unificazione
politica, largamente condiviso, la pretesa di sovrapporgli un nuovo
patto costitutivo è opera fittizia, quando le divaricazioni
economiche e sociali poste in atto nel Paese minano continuamente le
basi stesse dell'unificazione e della condivisione.
Allo
scopo non è servita neppure la “vigoria anagrafica” dei suoi più
giovani recenti propugnatori.
Destini
che incrociano il caso italiano con quello europeo. Anche a livello
continentale il piano delle élites
dominanti è fallito e, poiché le medesime cause sociali ed
economiche si sono nel frattempo rafforzate, fallirebbe oggi a
maggior ragione.
Qui,
Europa
Nel
2005 il processo d'integrazione europea sembrava essere maturo per il
gran salto istituzionale: dare al vecchio continente una sua
Costituzione.
Tutte
le condizioni per farlo si supponevano propizie: il liberalismo,
reimportato nella forma politico-culturale statunitense4
e sotto le sembianze di un restaurato liberismo degli “spiriti
animali” economico-finanziari, si era affermato ed andava, protetto
dalla Nato, progressivamente estendendosi da Ovest a Est; un buon
numero di Paesi si era raggruppato nella moneta unica, nel solco
tracciato dal Trattato di Maastricht; a disperdere ogni resistenza
sociale avevano contribuito anche le socialdemocrazie, oramai
omologate alle politiche liberiste; l'Anschluß
della DDR da parte della Germania Federale e la guerra nella
ex-Jugoslavia, catalogate tra le inevitabili tortuosità del
progresso storico, erano cadute nell'oblio, con tutto il loro carico
di rivincita nazionalistica e di riemergenti piccole patrie
etnico-confessionali.
Nonostante
anni di elaborazione delle “migliori menti”, tra il 2002 ed il
2003, la cosiddetta Costituzione di Laeken [vedi
riquadro “Convenzione di Laeken”]
viene bocciata in Francia ed Olanda nei referendum popolari del 2005.
Convenzione
di Laeken
E' istituita, su proposta del Presidente della Commissione Prodi, dalla
Dichiarazione di Laeken (dic. 2001) del Consiglio Europeo dei capi di
Stato e di governo.
A
presiederla viene chiamato Giscard d'Estaing, affiancato da due
vicepresidenti, Giuliano Amato ed il belga Dahaene. La compongono i
rappresentanti dei capi di Stato e di governo degli allora 15 Stati
membri, dai rappresentanti dei rispettivi parlamenti nazionali, del
parlamento e della Commissione dell'Unione e dalle rappresentanze dei
10 Paesi all'epoca candidati.
Inizia
i propri lavori nel marzo del 2002 e li conclude nel 2003.
Infine,
dopo vari tentativi di correzione ed aggiunte, in quasi 800 pagine
viene raccolto il prodotto finale: la “Costituzione europea” vera
e propria (oltre 300 pagine); la Carta Europea dei Diritti
Fondamentali; 36 protocolli e 2 allegati; 39 dichiarazioni di
completamento.
Quanto
di più prolisso ed indivulgabile per nascondere l'ennesimo trattato
internazionale privo delle caratteristiche costitutive di un nuovo
Stato unitario.
I
referendum francese ed olandese si esprimono in ambito nazionale,
perché non esiste un ambito europeo nel quale farlo, ovvero uno
spazio politico unificato continentale: l'europarlamento è di fatto
un'assemblea consultiva della Commissione Europea, a sua volta
proponente verso il Consiglio intergovernativo, l'unico organo
deliberativo. Sicché nell'Unione il potere esecutivo coincide con
quello legislativo (sotto forma di Trattati vincolanti): un mostro,
secondo gli standards
della democrazia liberale pensata e teorizzata, ma non di quella
praticata e realizzata.
Com'è
noto, le prevalenti forze politiche italiane tutte, nonostante
proclamassero l'Europa nuova patria comune, hanno sempre riservato a
se stesse le scelte europee. Tra le innumerevoli riforme
istituzionali, non hanno mai ritenuto di introdurne una che, tramite
referendum, coinvolgesse direttamente ed attivamente il popolo
italiano in tali scelte, confinandole nella categoria dei “trattati
internazionali”.5
Nemmeno per sottoscrivere quei trattati, importantissimi, mediante i
quali venivano cedute tre potestà nazionali basilari: monetaria
valutaria e di bilancio. In
particolare, l'adozione della moneta unica è stata avocata alla
“competenza tecnica” di ristrette cerchie.
Questo
perché le scelte dovevano essere sottratte a pubblico dibattito per
meglio celarne contenuti e conseguenze sociali: per decenni è stato
praticata l'oligarchia, spacciandola per democrazia.6
Di
conseguenza, le bocciature referendarie del 2005 furono rappresentate
come momentanee “battute d'arresto”, da superare nelle “sedi
più adatte”, con il consolidato metodo delle mediazioni
d'interesse che, sino ad allora, si diceva avesse dato buoni
risultati.
Eppure,
in ambiti “specialistici”, una certa discussione non mancò ed è
utile farvi riferimento, in quanto, essendo precedente al biennio
2007-2008, non poteva essere influenzata dai terremoti successivi.
Prove
insuperate
Secondo
il professor Gaspare Nevola7,
che ne riportò ampiamente posizioni e congetture, la Costituzione di
Laeken in effetti era un Trattato internazionale, forzato nelle sue
finalità, nel tentativo di superare la mancanza di “unificazione
politica” attraverso la strategia della “costituzionalizzazione”.
Perché
fu messa in cantiere?
«(...)
almeno per una parte delle élites
politiche e culturali, [tale strategia era] una forte componente
simbolica e retorico-strumentale, a copertura di finalità o problemi
di altra natura rispetto a quelli pubblicamente proclamati.»
Già
allora l'Unione Europea non era vista come un “sistema democratico
moderno o liberal democrazia di massa”, a cui mancavano gran parte
dei presupposti fondativi. Benché ai suoi occhi e sino al 2006, sul
piano economico-finanziario il bilancio dell'Unione fosse da
considerarsi “moderatamente positivo”, seppur controverso per gli
effetti sui singoli Paesi, mentre il bilancio sul piano della
“cittadinanza sociale” (welfare)
derivante dal “modello Maastricht” si mostrasse “tendente al
negativo”.
A
ricondurre i problemi di ordine economico-finanziario, monetario e
sociale alla necessaria “democratizzazione politica” concorreva
la constatazione che, una volta prese in sede europea le decisioni
d'indirizzo generale, toccava in seguito ai singoli governi nazionali
imporne le misure attuative. Di contro, questa consapevolezza non
giungeva fino al punto di vedere che proprio le potestà trasferite a
Bruxelles e Francoforte (per non parlare di quelle effettivamente
riposte a Berlino) privavano i governi ed i parlamenti nazionali dei
necessari strumenti per gestire adeguatamente i problemi interni,
relegandoli alla mera esecuzione dei “compiti a casa” prescritti.
Ossia a far trangugiare le più amare medicine, perché “lo voleva
l'Europa”.
Ad
ogni buon conto, l'Unione Europea, avviata sulla via del liberalismo
di foggia liberista, doveva “andare oltre Maastricht” ed
approdare senz'altro alla necessaria “democratizzazione”.
Ma
come? Per Nevola, superare il fallimento della cosiddetta
Costituzione di Laeken, significava uscire da un equivoco
concettuale:
«I
termini della questione non sono, infatti, se lo Stato-nazione sia
oppure no il “luogo” per definizione o esclusivo della
democrazia. Il punto cruciale è piuttosto un altro: l'ambito (o la
base) per ogni ordinamento democratico, almeno fino ad oggi, è
l'unità
politica,
ossia l'esistenza di uno “spazio politico unificato”, di cui lo
Stato-nazione rappresenta una complessa forma storica. (…)»
«Nei
processi storici di institution
building,
l'unificazione politica precede la democratizzazione. La condizione
affinché un sistema politico possa superare il “test della
democratizzazione” è il superamento del “test dell'unificazione
politica”. »
Non
disponendo di uno spazio politico unificato, la democratizzazione non
ha un luogo, un “dove” concretizzarsi. Uno spazio pur sempre
“fisico”, “geografico”, politicamente unificato.
Viceversa,
quando tale “non-luogo”, rappresentato dall'Unione, verrà
sottoposto ai tests
pratici del “processo d'integrazione” degli ultimi dieci anni
(2006-2016), imboccherà la via della disintegrazione: l'unificazione
politica diventerà una chimera e la democratizzazione un pio
desiderio.
Ciò
vale per l'unificazione politica da raggiungere passo dopo passo
tramite il “processo d'integrazione”, ma ancor più per la
“unificazione politica”, secondo lo schema interpretativo del
Professor Nevola [vedi
riquadro “Il test
dirimente”].
Il
test
dirimente
«Presentato
nei suoi lineamenti essenziali, il test di unificazione politica è
costituito da una congiuntura
critica (o
da una serie
di congiunture critiche)
che si pone come banco di prova sul quale un “sistema con pretese
politiche” si cimenta con la sfida, la possibilità e la capacità
di prendere esso (e
solo esso, quando ritiene di far- lo)
decisioni autoritative valide solo per se stesso (e per tutto
se stesso, quando ritiene che così debba essere).
In questo senso sono congiunture critiche quelle situazioni che
rivelano la presenza e la dislocazione dell'”autorità” e delle
“lealtà” politiche.
Il
superamento del test dell'unificazione politica implica che un
sistema, sulla base di sue proprie risorse materiali, organizzative,
normative e simboliche, sia in condizioni di governare i processi di
“assegnazione autoritativa
dei
valori” e i processi di “riconoscimento leale della comune
cittadinanza”, non solo nelle situazioni di “stato ordinario”,
ma anche – e soprattutto – in quelle di “stato straordinario”
(o “stato d'eccezione”). In particolare, nelle situazioni
critiche dello “stato di eccezione” i rischi di conflitto acuto,
di disordine o di disgregazione, di paralisi decisionale o di
ingovernabilità del sistema sono argina- bili, ovvero risolti,
attraverso una (ri)strutturazione del “monopolio dell'autorità”
e del “monopolio della lealtà” nell'ambito dello spazio
politico definito (o ridefinito). L'acquisizione del monopolio
dell'autorità e della lealtà in caso di crisi è
fondata sulla possibilità/capacità, da parte di un sistema con
pretese politiche, di disporre di, e all'occorrenza mobilitare, due
risorse politiche essenziali: il “potere” e l'”identità
collettiva”. Ossia, rispettivamente, i “legami di comando” e i
“legami di appartenenza”.»
In
base al ragionamento sin qui seguito, il processo di
democratizzazione dovrebbe contenere in sé, se non la preliminare,
almeno la contemporanea creazione di uno “spazio politico
unificato”.
In
particolare, il problema consiste nel come unificare l'attuale potere
europeo dislocato:
- a Bruxelles, politico-economico, secondo patti tra governi degli Stati-nazione, regolati nelle minuzie dall'apparato burocratico e tecnocratico;
- a Francoforte, finanziario, nella Banca Centrale Europea, volutamente resa “autonoma” dalle interferenze da ogni democrazia politica;
- a Berlino, sede effettiva della decisione ultima, giacché lo sviluppo di rapporti asimmetrici tra Paesi europei hanno posto al centro dell'Unione la Germania, “troppo piccola” per il mondo, ma “troppo grande” per l'Europa.
Ciò
significa che, qualora nei Paesi periferici prevalessero forze
favorevoli alla unificazione-democratizzazione, niente potrebbe
vincolare la Germania ed i suoi più stretti alleati, alle loro
istanze unificatrici e paritetiche. Nella forma e nella sostanza.
Inoltre, fino a quando i Paesi periferici potranno sopportare le
divaricazioni, le spoliazioni economiche e di sovranità, attuate ai
loro danni ed insite nella strutturazione del potere europeo vigente?
Alla
ricerca dell'identità europea
Restando
all'analisi di Nevola, l'unificazione politica doveva disporre di due
risorse: il potere (“legami di comando”) e l'identità collettiva
(“legami di appartenenza”).
La
natura e la dislocazione dei poteri nell'Unione consentono “legami
di comando” precari, provvisori ed a(nti)-democratici; in difetto
di una identità collettiva i “legami di appartenenza” sono
inesistenti. Manca un'idea-forza, quale fu l'idea nazionale
nell'Ottocento, che dia vigore ad una identità condivisa, una
costruzione obbligatoriamente culturale ed “ideologica”, non
essendo una pianta spontanea.
Tuttora
e più che mai ci si interroga su quale sia questa identità,
sovranazionale ma non a-nazionale.
Spesso
vengono evocati “valori di civiltà e cultura” che ci
accomunerebbero, in quanto specifica parte di quelli occidentali.
Cospicua
parte di tali “valori” occidentali vanno esplicitamente
rigettati, poiché intimamente connessi al ruolo plurisecolare
dell'Europa verso il resto del mondo, presa nell'insieme o per
singoli Stati-nazione, dal seno dei quali scaturirono i peggiori
regimi di repressione interna e di dominio esterno coloniale ed
imperialista, forieri di guerra.
Recuperare
l'identità religiosa cristiano-giudaica è operazione passatista e,
alla stessa stregua del fondamentalismo islamico che insanguina il
conflitto tra sunniti e sciiti, ci riporta in balia persino delle
piccole patrie etnico-confessionali, com'è accaduto nella
ex-Jugoslavia ed accade non solo nell'Est europeo.
Poiché
liberalismo e nazionalismo si sono associati o alternati nella
pratica attuazione dei suddetti “valori”, cosa rimane da
rivalutare “in positivo”?
Non
vedo altro che i “valori” portati dai conflitti sociali, civili e
democratici, dai movimenti di lotta, di solidarietà e liberazione,
con le loro alterne vicende, passati tra rivoluzioni e repressioni,
affermazioni e restaurazioni. Sicché tocca fare i conti, anche ed
inevitabilmente, con la terza grande corrente di pensiero-azione
dell'Ottocento-Novecento: il socialismo.
Quando,
al contrario, si resta negli angusti e conservativi limiti
liberal-democratici, lo sforzo di trovare il minimo comun
denominatore positivo, perviene tuttalpiù a congetture teoriche che
riportano alla “costituzionalizzazione” e …. alla Nazione.
Infatti,
Nevola, dopo un dotto esame critico, giunge a prediligere la teoria
del “patriottismo europeo della cittadinanza multinazionale”.
Essa, tra l'altro, avrebbe il merito di superare i limiti del solo
“patriottismo costituzionale” elaborato da Jürgen Habermas,
eminente maître
à penser
dell'europeismo.
«Un
patriottismo il quale tenga insieme identificazione con principi
formali,
astratti ed universalistici
della cittadinanza democratica (costituzionalismo; appartenenza
costituzionale; lealtà democratica) e identificazione con ambiti di
vita politico-culturali sostanziali,
concreti e particolaristici
radicati nelle storie e nelle strutturazioni di spazi politici
nazionali (patriottismo; appartenenza nazionale; lealtà nazionale).»
La
lealtà democratica sarebbe assicurata dalla identificazione della
cittadinanza in principi formali ed astratti, fissati in una
Costituzione. Ma su quale base sostanziale e concreta poggia questa
lealtà democratica se non, in definitiva, su quella nazionale?
Ora
che, a distanza di un decennio, il corso delle cose ha preso il senso
inverso a quello prospettato, è sin troppo facile vedere quel
pensiero europeista aggirarsi di continuo in un circuito vizioso.
Come può prender vita il processo d'unificazione politica senza il
suo “naturale” protagonista, chiamato a svolgere non un ruolo
gregario e di mero supporto?
In
realtà, ciò che mancava allora, e gli svolgimenti politici attuali
confermano mancare, è il “popolo” protagonista o, se preferite,
i “popoli”, da cui derivare la sovranità democratica, che oggi
non si riconoscono, non danno “consenso” ai rapporti materiali e
reali pre-posti in essere dal dilagare del liberismo sul piano
transnazionale. E ciò è avvenuto ed avviene sia nel contesto
europeo, sia negli ambiti nazionali. Emblematico, a questo proposito,
è il caso italiano.
La
democrazia del liberalismo
A
questo punto occorre non solo distinguere tra i liberalismi
realizzati, ma anche in seno alla democrazia com'è divenuta al loro
seguito.
Non
prima di una nota di linguaggio e di una precisazione storica solo
tratteggiata.
La
lingua italiana consente, al contrario di quella inglese, di
distinguere tra liberalismo come corrente politica generale e
liberismo sul piano economico-sociale. Essi non coincidono
necessariamente, così come possono non coincidere con il
libero-scambismo nei rapporti commerciali: più volte il liberalismo
politico ha fatto uso del protezionismo, privilegiando gli interessi
della propria Nazione, quando l'ha ritenuto opportuno e conveniente.
D'altro
canto, in ogni fase storica di mondializzazione, non è mai venuto
meno l'intimo nesso tra Stato-nazione e capitalismo. Sin dagli albori
del capitalismo mercantile nel Cinquecento, si strutturò e consolidò
il connubio tra forza (armata) dello Stato e borghesia, originando il
“mostruoso attrezzo” occidentale, capace di aggredire e
soggiogare gran parte del resto del mondo: dalle Americhe all'Estremo
e Vicino Oriente, all'Africa.8
Nel processo di accumulazione, l'espropriazione non fu solo una fase
originale interna alle nazioni occidentali in cui nacque il
capitalismo, bensì loro incessante pratica ai danni del resto del
mondo.
Nell'Ottocento,
al giacobinismo che individuava nella democrazia diretta della polis
greca il modello a cui riferirsi, il liberalismo oppose un proprio
modello basato sulla “libertà dei moderni” al tempo del
capitalismo e della borghesia.
Per
il liberalismo in un moderno Stato nazionale il numeroso popolo
composto da milioni di persone non poteva, a differenza della polis
greca, esprimersi per democrazia assembleare diretta, ma attraverso
la delega e la rappresentanza.
A
caratterizzare in senso progressista questo passaggio concorreva la
critica, rivolta dai bourgeois
ai citoyens
rivoluzionari francesi, che nella democrazia delle antiche
città-stato gli schiavi erano esclusi, in quanto non-cittadini. Poco
importava che la schiavitù e la non-cittadinanza, abolita sul
moderno territorio metropolitano,9
venisse tuttavia riaffermata in quello “eterno” coloniale.
Agli
albori dello Stato moderno e come nelle comunità antiche, la piena
cittadinanza appartenne al maschio adulto soldato (moderno oplita
dell'esercito
nazionale non più professionale), sicché donne e giovani ottennero
una cittadinanza minore e subalterna.
In
aggiunta, poiché il governo della nazione basava il proprio operato
sulla gestione delle entrate derivanti dal gettito fiscale, ossia sul
potere di bilancio, solo chi allora vi contribuiva, in quanto
possidente, acquisiva diritto di voto.
A
conti fatti, solo una ristretta minoranza su base censuaria, poté
inizialmente accedere al suffragio, ancora non dichiarato “segreto”.
Per
semplificare, il liberalismo reale nasceva attorno ad una concezione
della democrazia che assomiglia più al diritto di voto in una
società per azioni, in cui il numero di voti espressi corrisponde al
numero delle azioni possedute, piuttosto che ad un sistema in cui
vige il principio di una testa - un voto, nella disponibilità di
tutti i cittadini, sia pure “nullatenenti”.
Non
può meravigliare, dunque, che la democrazia liberale, “dei
moderni” dell'Ottocento, venga ritenuta da molti storici una forma
assai vicina alla oligarchia delle classi proprietarie,
nell'esercizio privilegiato della piena libertà individuale dei suoi
componenti.
Al
centro della elaborazione ideologica liberale si situa il
fondamentale rapporto tra libertà dell'individuo proprietario, nel
“godimento pacifico dell'indipendenza privata”, e potere politico
statuale, possibile fonte di dispotismo.
Benjamin Constant |
È
questa la principale preoccupazione della emergente borghesia
liberale, espressa nel suo celebre “Discorso sulla libertà degli
antichi e dei moderni” (1819), dal liberale Benjamin Constant.
Nulla dal potere politico poteva e doveva incombere minaccioso sulla
ricchezza e sul denaro.
In
sintonia con questa concezione del potere politico, da tenere
controllato e pure “ingannato”, la sovranità popolare nella
pratica liberale viene “filtrata” in duplice modo: dall'accesso
al suffragio e dai sistemi elettorali.
Il
primo corrisponde al processi d'integrazione sociale ed
all'omologazione politica nelle istituzioni;10
i secondi permettono di selezionare le rappresentanze e di
determinare le maggioranze parlamentari, predisponendo confacenti
aritmetiche elettorali, in base al la suddivisione territoriale dei
collegi e/o ad opportuni premi in seggi. Lungo sarebbe l'elenco delle
variabili inserite ad
hoc:
dall'uninominale “secco” di collegio, di tipo inglese, al
proporzionale italiano con capilista “bloccati” e messi al riparo
dalle preferenze; dai premi di maggioranza con relative soglie, ai
ballottaggi... Tutto purché i governi risultanti potessero e possano
invariabilmente oscillare, a pendolo, tra conservazione
dell'esistente e riforme compatibili con gli assetti sistemici.11
Inclusione
progressiva
Benché
il liberalismo venga oggi identificato con il suffragio universale,
come espressione della sovranità popolare ed a superamento dei
limiti della democrazia antica, la sua storia dice altro.
Se
prestiamo attenzione alle vicende che portarono il liberalismo a
superare le iniziali esclusioni, scorgiamo un allargamento
essenzialmente dovuto al prorompere di movimenti di lotta, di classe
e di “razza”, di sesso e generazionali, imposto a ristrette
cerchie privilegiate di ricchi, bianchi, maschi, istruiti ed adulti.
In un andamento affatto lineare: l'inclusione non è avvenuta per
“naturale evoluzione” del sistema, né per gentile concessione,
se non in sporadici casi motivati da lotte interne alle classi
dominanti, come nella Germania di Otto von Bismarck. [Vedi
riquadro “Non era universale”]
Non
era universale
Per
tutto l'Ottocento e per parte del Novecento, nei Paesi di tradizione
liberal-democratica l'accesso al voto fu discriminato in base al
sesso, alla “razza”, all'età, al censo ed all'istruzione.
L'abbattimento di queste barriere discriminatorie si deve in
larghissima parte a movimenti e lotte durate lunghi anni, solo in
pochi casi a “concessioni”, quale fu in Germania,
nel 1866, l'introduzione del suffragio universale maschile, decisa
dal cancelliere Otto von Bismarck, peraltro un avversario dei
liberali del tempo.
In
Inghilterra
il suffragio universale maschile risale al 1918 e quello femminile al
1928.
In
Francia
alle elezioni del 1818 partecipò un esiguo corpo elettorale, su base
censuaria, di 88.000 persone; il suffragio universale maschile è del
1848, segreto dal 1869 ed allargato alle donne dal 1945.
In
Italia
il primo ampliamento del diritto di voto, ancora con i criteri del
censo e dell’istruzione, è del 1882. Nel 1913 il suffragio diventa
semi-universale (per i maschi compiuti i 30 anni). Nel 1946 viene
aperto finalmente alle donne e, dal 1975, ai diciottenni.
Negli
Stati
Uniti d'America
il precoce suffragio universale del 1787 fu limitato su base razziale
ai maschi bianchi. Nel 1870 venne eliminato il limite della “razza”,
ma di fatto solo nel 1965 il voting
rights act
abolisce le
discriminazioni ancora esistenti negli Stati del Sud nei confronti
dei neri. L'esclusione delle donne bianche cessò dal 1920 e dal 1924
quella verso gli indiani.
Non
solo, essa ha attraversato la crisi del liberalismo a cavallo tra
fine Ottocento e primo Novecento, in rapporto con il liberismo
economico-sociale, con il nazionalismo e, poi, con il fascismo.
Liberalismo
e nazionalismo si accomunarono nello scatenamento del primo
conflitto mondiale. Si identificarono nel “patriottismo” dello
Stato-nazione in guerra per la supremazia del proprio imperialismo,
al quale si associò la socialdemocrazia, abiurando allo scopo
“l'internazionalismo proletario”.
Successivamente,
all'affermazione dei regimi fascisti e nazisti contribuì, salvo
poche eccezioni (in Italia, Piero Gobetti), la maggioranza dei
liberali del tempo, temendo innanzitutto il movimento operaio ed il
socialismo. Pochi ricordano che Benedetto Croce, all'indomani del
delitto Matteotti, andò in Senato a votare la fiducia al governo
Mussolini e definì tale scelta “prudente e patriottica”.
Solo
in seguito alla grande crisi del '29, sia le liberal-democrazie che
il fascismo ed il nazismo si staccarono dal liberismo
economico-sociale. Fu il tempo del new
deal
di Franklin Delano Roosevelt negli Stati Uniti, del Mefo
di Hjalmar Schacht nella
Germania hitleriana e del tardivo abbandono della quota
90
da parte di Mussolini.
Nel
dopoguerra le politiche di “stampo keynesiano” prevalsero in
tutto l'Occidente.
Per
grandi linee si evidenziano almeno
tre aspetti:
- una cesura storica separa le liberal-democrazie esistenti prima della Grande Guerra rispetto a quelle successive alla seconda guerra mondiale;
- la pratica dell'inclusione democratica delle liberal-democrazie arriva al suo culmine durante i trente glorieuses12 del secondo dopoguerra, in presenza di uno sviluppo economico interno di grande successo, dovuto a politiche di “stampo keynesiano” (anti-liberiste), nella duplice posizione: verso il Terzo Mondo, di Paesi ricchi post-colonialisti ed imperialisti; verso l'Urss ed i Paesi socialisti, di auto-difesa e preservazione per combattere il comunismo e vincere il confronto-competizione tra “sistemi”;
- la persistente capacità del liberalismo di esercitare la propria egemonia ideologico-culturale, servendosi di centrali di pensiero (think-tanks) direttamente finanziati in propri istituti e/o insediati in istituti ed università pubbliche, nonché della detenzione dei principali strumenti mediatici.
La
rottura
Senonché,
in seguito alla crisi della seconda metà degli anni settanta del
Novecento, interviene la rottura del patto democrazia-lavoro ed il
liberalismo riabbraccia via via il liberismo, il capitalismo degli
“spiriti animali”, bandisce le politiche di “stampo keynesiano”
e, quasi contemporaneamente, avvia una nuova pervasiva fase di
globalizzazione.
Giova
qui ricordare che John Maynard Keynes si auto-definiva un liberale e,
ciò nondimeno, considerava aberranti le idee di Friedrich von Hayek,
reputato uno dei fondatori, insieme a Milton Friedman, della Scuola
liberale e liberista di Chicago.
Dagli
anni ottanta del '900 il liberalismo reale, ridivenuto liberista e
libero-scambista, avvia un processo internazionale ed interno, che
ora ritorna come un boomerang
a mettere in crisi la propria egemonia di consenso. In seguito ad
esso, sono
venuti a meno:
- la credibilità del racconto liberista, dopo il crollo finanziario del 2007-2008, con una ripresa che, laddove avviene, non consente di ripristinare né i livelli d'integrazione sociale precedenti (tantomeno di allargarli agli immigrati), né la posizione ed il ruolo delle classi medie;
- la leadership unitaria sulla globalizzazione della triade USA-UE-Giappone, per la competitività dei Paesi emergenti, da un lato, e, dall'altro, per l'abnorme vantaggio acquisito dalla Germania riunificata con il suo neomercantilismo esportativo (anche grazie all'euro);
- il dominio dei flussi in-formativi, dato dal concomitante diffondersi nel mondo delle tecnologie della comunicazione e dell'uso della Rete, all'interno della quale la libertà individuale si è “socializzata”, connettendo in-formazione, cultura e politica.
L'inclusione
in
progress
si è arrestata e si è tramutata in esclusione. Nell'esclusione
risiede
l'impossibile omologazione istituzionale voluta dal
neo-costituzionalismo liberale. Invano il liberalismo ha alzato
alcune bandiere per nasconderla ed autoproclamarsi ancora portatore
di “progresso”. Ad esempio: cosa rimane di “progressista” dei
mille giorni del governo Renzi, se non le (imperfette) “unioni
civili”?
Olinda Denise, Disgregazione |
Un
sostanziale arretramento epocale e generale avvolge il benché minimo
“progresso”.
Cosa
resta della declamata libertà di movimento individuale? I migranti
fuggiaschi dai disastri economici si mischiano ai profughi dalle
guerre “geo-politiche”, ma entrambi sono dovuti principalmente
alle liberal-democrazie occidentali o per interventismo militare o
per imposizione di rapporti economici “asimmetrici” a proprio
esclusivo vantaggio (o per i due motivi insieme).
Il
corpo rifiuta il vestito
La
democrazia delegata e della rappresentanza è il sistema attraverso
la quale il costituzionalismo liberale vuole sia determinata la
maggioranza di governo, nonché salvaguardate le prerogative delle
minoranze.
Ma
cosa succede se tale maggioranza non si raccoglie intorno ad un
partito/coalizione e, al contempo, nega consenso all'assetto
socio-economico sottostante? Nel caso italiano, la si deve
“reinventare” con un combinato disposto di revisione
costituzionale e di legge elettorale maggioritaria. L'una per
accentrare i poteri in capo all'esecutivo a detrimento degli altri
poteri (parlamentare e giudiziario), l'altra per relegare le
minoranze (che sommate sono in verità in maggioranza) ad un ruolo
secondario ed ininfluente.
A
questo proposito, nel maggio del 2013, ad invocare l'”aggiustamento”
dei Paesi mediterranei, fu esplicitamente JP
Morgan Chase & Co., una società leader
nei servizi finanziari globali:13
«I
sistemi politici dei Paesi periferici furono adottati in seguito
alla dittatura e definite in base a quella esperienza. Le
Costituzioni tendono a mostrare una forte influenza socialista (…).
I sistemi politici nella periferia presentano tipicamente le
seguenti caratteristiche: esecutivi deboli; stati centrali deboli
nei confronti delle regioni; tutele costituzionali dei diritti del
lavoro; sistemi di costruzione del consenso fondate sul clientelismo
politico; ed il diritto di protestare se i cambiamenti sono sgraditi
è congeniale al mantenimento dello status quo.»
Indifferenti
al fallimento della “costituzionalizzazione” messa in atto in
Europa, in una stupefacente coazione a ripetere ad opera degli stessi
imperturbabili ideologhi,14
anche in Italia s'è voluta la medesima forzatura. Finalizzata ad una
“costituzionalizzazione” che, nondimeno, mancava di un reale
processo di riunificazione politica attorno ad una Seconda
Repubblica, in tutta fretta proclamata dopo aver celebrato gli
sbrigativi funerali della Prima.
I
motivi della resistenza popolare sono oramai chiari. Risiedono nel
rifiuto di aderire all'implicito nuovo “patto” che tali revisioni
contengono, basato su disgregazione, esclusione, crescente povertà,
divaricazione territoriale, corrispondenti all'arricchimento di
ristrette minoranze ed ai loro crescenti privilegi.
Si
tratta della già descritta “pera sociale”,15
in divenire della quale non è possibile il rinnovo della
unificazione politica nazionale, a presupposto della ri-Costituzione,
e le riforme sono state vissute come una pretesa di imprigionare la
maggioranza in un inaccettabile e non accettato stato di cose
presente.
La
vestizione di un corpo
La
Costituzione repubblicana del '48 nacque nel dopoguerra, in un quadro
internazionale determinato dalle forze vittoriose sul nazi-fascismo.
Ereditava l'unità nazionale nella duplice condizione: di Paese
belligerante sconfitto, eppure rigenerato dalla Resistenza, in cui fu
decisivo l'apporto di un antifascismo di classe, civile e popolare.
Secondo
l'articolata elaborazione di Luciano Barra Caracciolo,16
le Costituzioni democratiche post-belliche sono pluriclasse:
«attribuiscono
la sovranità al popolo inteso come insieme indistinto di cittadini
di pari dignità e capacità politico-sociale e, come conseguenza di
ciò, individuano
gli elementi del capitalismo che vengono considerati compatibili con
gli interessi popolari.»
Si
può arguire che la definizione “pluriclasse” non si attagli ad
un sistema pur sempre capitalistico, in cui le classi non godono di
“pari dignità” sostanziale. Tuttavia, quelle Costituzioni
contemplano un capitalismo mitigato e calibrato sulla conoscenza
critica delle vicende storiche precedenti: conflittuali, traumatiche
e periodicamente distruttive della stabilità sociale.
In
particolare, la Costituzione italiana ha potuto reggere per diversi
decenni, perché le diverse e prevalenti forze politiche sociali e
culturali, spesso in aspro contrasto tra loro, hanno sì “giocato
allo stesso gioco” in un campo delimitato dall'accettazione delle
regole di quel gioco, ma soprattutto perché il capitalismo era
obbligato al rispetto del patto “democrazia-lavoro” da coloro che
nella lotta antifascista e con la Resistenza l'avevano imposto e
continuavano ad imporlo.
Di
conseguenza la pluralità conflittuale venne contenuta nell'unità,
grazie alle mediazioni politiche di cui il patto fondativo fu luogo e
garanzia.
Come
ciò sia potuto avvenire, a quale prezzo e con quali conseguenze,
deve essere oggetto di buona memoria, giacché il presente è pur
sempre erede di quel passato non proprio remoto e dei suoi nodi
irrisolti.
A
distanza di più di due decenni dal 1994, registriamo che
l'affannarsi riformatore delle forze politiche, nel periodo
prevalenti, non ha prodotto alcun abito istituzionale per vestire a
nuovo lo Stato nazionale.
D'altro
canto nella stessa Costituzione erano state introdotte modifiche
piuttosto rilevanti, pur nel complesso non del tutto stravolgenti:
dalla riforma del Titolo V nel 2001,17
alla legge Tremaglia dello stesso anno,18
per consentire il voto degli italiani all'estero, all'introduzione
nel 2012 del pareggio di bilancio19
in totale ossequio ai vincoli europei.
I
motivi di tanta “incompiutezza” vanno ricercati
in
profondità e sono da ascrivere alla intervenuta rottura sociale ed
alla corrispondente crisi della democrazia della rappresentanza.
Infatti,
il reiterato rifiuto della maggioranza popolare di convalidare
revisioni sostanziali, tese a snaturare la democrazia costituzionale
a favore di un accentramento dei poteri in capo a partiti minoritari
nel Paese ed ai loro esecutivi, va ricondotto alla non accettazione
della disgregazione materiale a cui è stato costretto il corpo
sociale. Le classi povere ed impoverite, ivi comprese quelle medie di
consumo e di proprietà, ed in particolare le giovani generazioni, si
rifiutano di avallare lo stato di cose presente, accettando il
vestito istituzionale in cui verrebbe preservato.
Nei
giorni successivi al 4 dicembre, abbiamo assistito alla riedizione di
quanto era avvenuto all'indomani della Brexit e delle elezioni
presidenziali statunitensi. Coloro che supponevano di indirizzare il
consenso, tramite i soverchianti mezzi di cui dispongono, erano
sconcertati e non trovarono di meglio che imputare al “populismo”
ed alla “anti-politica” la loro sconfitta.
Ma
come? La maggioranza non segue più il coro mass-mediale? Per
assicurare la vittoria del sì,
perché non sono bastati le televisioni, i grandi giornali, gli
endorsements
di celebrità dello spettacolo e capi di Stato, le minacce
provenienti dai mercati finanziari? Non avevamo “tutti” stabilito
che eravamo nella società del potere mediatico, nella quale vince
chi questo potere detiene?
Allo
sconcerto del rovescio referendario si accompagna, inoltre, la
desolante constatazione di avere dichiarato inservibili ed
“ideologiche” le vecchie strutture partitiche, obsoleti i “corpi
intermedi” (sindacati, associazioni varie di categoria e
settoriali), rottamandole o riducendole a sopravvivenze marginali,
insomma dismesse “militanze” ed “appartenenze”, per infine
ritrovarsi non solo di fronte ad un chiaro pronunciamento di classe e
generazionale, ma pure, politicamente, ad “un'isola che non c'è”:
la II Repubblica.
In
essa lo strapotere della televisione era stato consacrato dall'epopea
berlusconiana e l'offerta politica doveva incontrare nel marketing
elettorale gli acquirenti, individui o tuttalpiù famiglie (non a
caso le sole entità “esistenti” per la signora Thatcher), posti
nella condizione di passivi consumatori, politicamente analfabeti.
Una
volta resa liquida20,
supponevano che la società fosse anch'essa definitivamente
liquidata.
Assai
probabilmente nel prossimo futuro assisteremo ad un profluvio di
analisi, alla ricerca di una modo per uscire dall'impasse,
rimettendo il liberalismo alla guida del tandem con una parvenza di
democrazia delegata a pedalare dietro, subalterna e soggiogata.
Al
momento si scorgono due ambiti in cui attuare questo soggiogamento:
la regolazione della partecipazione alle elezioni ed alla
rappresentanza; il controllo della Rete.
Nuovi
filtri
Ai
movimenti degli anni sessanta e settanta del Novecento veniva
rimproverato di essere “extraparlamentari”, mentre quelli del
nuovo secolo li si vuole forzare ad essere tali.
Questo
è il senso del ddl a firma dei senatori Anna Finocchiaro e Luigi
Zanda, presentato in Senato nel maggio del 2013,21
per il quale alle elezioni non potevano presentarsi soggetti senza
personalità giuridica e senza statuto pubblicato in Gazzetta
Ufficiale.
Veniva
richiamato l'art. 49 della Costituzione, mai prima reso attuativo da
una legge, perché le diverse correnti di pensiero politico
novecentesche avevano prodotto modi di intendere le democrazie
partitiche assai diversi tra loro. E l'eventuale test a cui
sottoporre il “centralismo democratico” del Partito Comunista, a
cui i suoi parlamentari dovevano disciplinarsi, avrebbe comportato un
esame del sistema di scambio mafioso e clientelare di voto da porre
in capo alla Democrazia Cristiana.
A
prescindere dalle sue “nobili intenzioni”, legate al problema
delle garanzie democratiche interne di partiti e movimenti che
anelano ad ottenere rappresentanza nelle istituzioni, appare evidente
la volontà politica ad
excludendum verso
qualsiasi movimento non omologato.
Finocchiaro
e Zanda si resero poi protagonisti del varo del combinato disposto
della riforma costituzionale ed elettorale. A dar loro manforte, a
conferma della persistente propensione ad ideare nuovi filtri per
“aggiustare” la democrazia, nel solco della tradizione del
liberalismo prima descritta, ma in regressione rispetto agli
allargamenti storicamente imposti ed accettati, è intervenuto un
altro autorevole ideologo del diritto: Sabino Cassese. Anch'egli
sostenitore attivo della revisione costituzionale fallita, in un
recente articolo23
trova vi sia incompatibilità tra democrazia diretta e della
rappresentanza, nonché l'autonomia di quest'ultima sia compromessa
da compagini, non democratiche secondo i suoi criteri, i cui capi
possano vincolare alle loro imposizioni la libertà degli eletti.
L'insigne
giurista non trovò nulla di illegittimo nello strano rigiro
istituzionale, attuato sotto la regia di Giorgio Napolitano. Nel
2013, una maggioranza di deputati eletti grazie all'incostituzionale
Porcellum sulla base di un programma di coalizione di centro-sinistra
(capeggiata da Pier Luigi Bersani), dopo una ridicola pantomima della
democrazia “interna” al solo PD, divenne di Matteo Renzi e resse
il suo nuovo governo, insieme ad una pattuglia di senatori transfughi
dalla coalizione concorrente di centro-destra.
Non
vi fu obbedienza ad una imposizione esterna di un capo di partito? E
quella elezione di Renzi a segretario del PD, a quali requisiti
democratici corrispose?
Fatto
sta che da lungo tempo il trasformismo dei parlamentari, divenuto da
tempo “mestiere” ben pagato,24
appare accettabile, mentre non lo è affatto il vincolo di mandato,
per giunta remunerato come puro servizio pubblico. Questo è il
punto.
Dopodiché
sarebbe limitativo vedere esclusivamente il bersaglio immediato (M5S)
e non comprendere l'inversione d'indirizzo: dalla inclusione alla
esclusione, nel rifiuto di accettare lo sviluppo democratico insito
nella estensione della democrazia diretta, sia essa veicolata dal
maggior ricorso al voto referendario, sia in futuro tramite la Rete.
Estensioni che la vecchia “classe dirigente” non vuole, perché
già in questa fase di passaggio non controlla più il consenso.
“Sinceri
democratici”
Nel
2016, in retromarcia dal “processo d'integrazione” europeo, è
intervenuta la Brexit,25
quando già sul vecchio continente campeggiavano i nuovi muri
nazionalistici: di filo spinato sulla rotta migratoria balcanica e di
frontiere respingenti su quella peninsulare italiana.
Sul
recente échec
italiano, la elaborazione del lutto da parte della “classe
dirigente” è ancora in corso. Non sembra condurre a ripensamenti
effettivi, anche tra coloro che hanno appoggiato la riforma renziana
turandosi il naso.
Alcuni
“sinceri democratici” pretendono di separare l'esito dell'ultimo
referendum dalla pratica governativa di chi l'ha voluto, come se in
quella pratica non fosse manifesta la vera anima politica della
revisione costituzionale. Per costoro la sovranità popolare sarebbe
stata indotta ad esprimersi “di pancia”, quand'era chiamata
invece a dare un giudizio “di testa”, scevro da ogni superficiale
percezione emotiva.
Poiché
ben pochi si sarebbero pronunciati “nel merito”, preferendo i più
la via sbrigativa di trarre un bilancio sommario dal vissuto
quotidiano, i “sinceri democratici”, invece di misurare la
propria distanza da quel vissuto, s'interrogano aristocraticamente se
al popolo debba essere concesso di essere consultato su questioni
tanto complesse che, si sottende, non è in grado di capire [Vedi
riquadro “Questioni complesse” a pag. 10].
Questioni
complesse
Da
un'intervista di Pier Luigi Vercesi a Lilli Gruber, “2016, l'anno
in cui le élite hanno perso la strada”, Sette,
magazine del Corriere
della Sera,
30 dicembre 2016.
...Vercesi
chiede del fenomeno Trump.
LG:
«La disoccupazione negli Usa è al 5% circa, ma i salari sono
peggiorati e la classe media scivola verso il basso. Si lavora di più
e si viene pagati di meno. Trump indica Wall Street e la finanza
internazionale come i cattivi. C'è del vero, naturalmente.»
PLV:
«Ma lui non è il loro miglior rappresentante?»
LG:
«Questo la dice lunga su come i fatti diventano irrilevanti quando
l'opinione pubblica è arrabbiata. Noi, con il nostro referendum, ne
siamo un esempio. Renzi l'ha personalizzato, e se anche non l'avesse
fatto lui l'avrebbero fatto le opposizioni: era chiaro da mesi che
stavamo andando verso un plebiscito su di lui. Quelli che hanno
votato sulla Costituzione alla fine sono un'esigua minoranza, e c'è
da chiedersi se questioni molto complesse debbano essere sottoposte a
consultazione popolare. In Italia abbiamo una democrazia
rappresentativa, quindi eleggiamo chi pensiamo possa rappresentarci
al meglio e, si presume, con competenza. Ma ormai si è fatta una
gran confusione. E in Europa è ancora peggio. Troppo spesso gli
eurodeputati dicono una cosa a Bruxelles e il suo esatto contrario
nel loro Paese(...)»
Ahinoi,
dice Lilli Gruber, pur vigendo la democrazia della rappresentanza,
non si può fare affidamento sulla “competenza” delegata ai
deputati! Quelli europei hanno la lingua biforcuta e negano in patria
ciò che sostengono a Bruxelles. Eppoi c'è troppa “confusione”
in un momento in cui:
«Populismo
e post-verità sono complementari, e l'intreccio rischia di diventare
fatale.»26
Scambiando
la trave per pagliuzza e la pagliuzza per trave, questa leva di
“sinceri democratici” evita accuratamente di gettare lo sguardo
proprio sulla grossolana distorsione della rappresentanza, permessa
dal Porcellum, che ha consentito ad una maggioranza premium
(PD),
inesistente nelle urne, di inventarsi una delega alla riforma
costituzionale mai chiesta né ottenuta dalla volontà popolare, per
vedersela rigettata “al dunque” dalla maggioranza reale.
L'elenco
delle ottusità mentali potrebbe proseguire. Al fondo c'è
l'impossibilità di ammettere la radicale contrapposizione che sta
dietro la perdita della via maestra delle “classi dirigenti”: da
un lato le arroccate oligarchie globalizzatrici italiano-europee,
fautrici del neo-costituzionalismo liberale; dall'altra la volontà
popolare, alias
la democrazia che, quando può esprimersi, si oppone alla loro
direzione.
Una
presa d'atto di realtà dalla quale non si scampa: né con “opportuni
accenni” a qualche suo macroscopico fenomeno, quando gli enormi
dislivelli di distribuzione della ricchezza trascurano i sistemici
rapporti in cui si generano le diseguaglianze; né mettendo nello
stesso sacco forze contrapposte, le xenofobe, razziste e neo-fasciste
con le democratiche ed alternative, sotto l'etichetta unica
stigmatizzante “dell'antipolitica” e del “populismo”; né
cercando di stabilire delle “verità” ufficiali, ammesse dal
potere.
La
Veritàaaa27
In
questione è la Rete che, dopo i successi nell'uso dei “social”
ottenuto da Obama nelle sue campagne elettorali, sembrava essere
sotto controllo.
Perché
il libero confronto oggi non è più auspicabile ma diviene
insostenibile e sarebbe addirittura “fatale” per la democrazia?
Bufale
mediatiche28
vengono sistematicamente diffuse dall'establishment
e
dai suoi potenti mezzi. Non di rado a supporto di operazioni belliche
micidiali: ricordate le “armi di distruzione di massa” detenute
da Saddam Hussein?
Quando
le “classi dirigenti” supponevano di dominare la scena mediatica
nessun “controllo di verità” è stato mai invocato. Ora, invece,
si scomoda persino l'Europarlamento e, al seguito, l'Autority
italiana preposta alla libera concorrenza, per bocca di Giovanni
Pitruzzella,29
il quale così giustifica l'inutilità ai fini anti-trust
della
istituzione di cui è capo.
Subito
si scatena un coro per mettere all'indice “populismo” e
“post-verità”. Ma anche in questo caso sarebbe molto riduttivo
vedervi solo una polemica, per altro sterile, verso il Movimento 5
Stelle, intorno al criterio di verità ed a come stabilire quali
siano le fake
news, le
bufale da uccidere nel grembo del Web.
Nella
risoluzione dell'Europarlamento del 23 novembre 2016,30
si predica la limitazione della libertà d'espressione e del
pluralismo, nonché la creazione di una lista nera di tutti coloro
(Stati compresi) che fanno “disinformazione” e “propaganda
ostile nei confronti della UE”, o tendono “screditare le
istituzioni UE e i partenariati transatlantici”, ossia Nato e TTIP.
Se
consideriamo che dietro al bersaglio della Russia di Putin ci sono
gli Stati Uniti del neo-presidente Donald Trump, si comprende che il
delirio
maccartista dell'Europarlamento esala l'ultimo respiro di un'intera
strategia europea.
Il
liberalismo reale ci ha ricondotti direttamente, volutamente o meno,
nella braccia del nazionalismo.
L'alter
ego
del liberalismo
Dopo
aver cercato invano di riprendersi “benevolmente” la guida del
mondo insieme all'Europa ed al Giappone, contro i BRICS ed in
particolare contro Russia e Cina, gli Stati Uniti cambiano rotta. Non
negano né il liberalismo, né il liberismo, né la volontà di
supremazia. Vorrebbero disgiungerli da una globalizzazione avviata al
declino dalle stesse politiche dell'amministrazione Obama.
Per
favorire le loro produzioni nazionali pensano di abbassare
l'imposizione fiscale interna, alzando dazi all'importazione, mentre
completano muri e ripristinano frontiere selettive di merci e mano
d'opera. In tempi di economia mondiale finanziarizzata, grazie a
forsennate deregulations,
quale sarà la sorte della “libera circolazione dei capitali”?
In
attesa di comprendere come l'amministrazione Trump uscirà dalle
numerose contraddizioni insite nel suo programma, risalta la virata
nazionalistica “per rifare grande l'America”.
Il
liberalismo riapproda al nazionalismo, suo alter
ego.
Fa
impressione la celebrazione all'annuale vertice di Davos della Cina
come campione della globalizzazione e del libero-scambismo, mentre
l'Unione Europea viene considerata da Washington un cartoccio tramite
il quale si realizza la politica mercantile della riunificata
Germania. Pare che Trump punti ad un'intesa con la Federazione Russa,
per indebolire il fronte degli emergenti, isolando la Cina, e di
condizionare la Germania in Europa, anche tramite un rapporto
privilegiato con il Regno Unito in uscita dall'Unione.
Resta
da capire come la ripresa in grande stile dell'appoggio
all'espansionismo israeliano possa combinarsi con un mondo arabo ed
islamico in subbuglio e, soprattutto, con la lotta all'Isis ed al
fondamentalismo jihadista sunnita patrocinato dall'Arabia Saudita.
Nel
complesso, dopo aver avviato le deregulations
e la globalizzazione mercantile e finanziaria, Usa e UK prendono atto
che proseguire sulla via da loro stessi avviata, non conviene più.
Cambiano strategia.
Gli
States
sconfessano il TTP sul Pacifico e la continuazione della guerra
fredda contro la Federazione Russa in Europa, chiedendo che la Nato
sia spesata da chi ne trae utilità. In uscita dall'Unione, lo United
Kingdom
è disponibile ad un accordo bilaterale privilegiato di libero
scambio, ma vorrebbe al contempo conservare buoni rapporti con i
Paesi del Nor-Est europeo. Il TTIP, la “Nato economica” come ebbe
a definirla la signora Clinton, sul quale contava il governo Renzi,
non sembra avere futuro.
Il
ritorno al nazionalismo mette in crisi tutte le teorie cosmopolite
sulla globalizzazione, vista esulando dai rapporti politici reali e
dalla persistente presenza (armata) delle maggiori potenze, se non
addirittura spacciata da taluni per internazionalismo. Come se
l'Impero sia mai vissuto senza imperialismo...
Tandem: il liberalismo guida la democrazia |
Il
tandem
è
definitivamente avviata la post-globalizzazione? Di sicuro ritorna il
nazionalismo che, rafforzando le cause qui esposte, spinge al
disfacimento dello storico tandem, a raffigurazione della
liberal-democrazia.
Minato
dalla disgregazione e dall'esclusione sociale che ha pervicacemente
generato, in perdita della egemonia mass-mediale sul consenso di
massa, in disgiungimento dalla democrazia, il liberalismo reale
riapproda al nazionalismo, con il suo immancabile portato di
xenofobia, razzismo e neo-fascismo.
In
controtendenza, se con la globalizzazione il capitalismo cercò di
sfuggire ai movimenti di lotta, sociali e di liberazione,
disperdendoli, come teorizzò il liberale e liberista Friedrich von
Hayek nel corso del secondo conflitto mondiale, il ritorno allo
Stato-nazione permette a quei movimenti di avere maggior presa.
Il
nazionalismo non significa indipendenza nazionale, né ripristino
della sovranità popolare in quella nazionale. Per i Paesi periferici
dell'UE, fortemente indeboliti negli ultimi lustri, le “due
sovranità” vanno riconquistate insieme, proprio contro il
nazionalismo che invariabilmente finisce per contrapporle.
In
questo cimento, la sovranità popolare e democratica o vive nel
potere dei “poveri”, di lavoro, di reddito, di libertà sociali e
civili sostanziali, per la liberazione e la solidarietà tra i
popoli, o soccombe.
Ci
troviamo in uno passaggio stretto e, forse, prolungato, da percorrere
con tutti coloro che vogliono e vorranno sbarazzarsi della
globalizzazione
delle oligarchie finanziarie, impedendo al subentrante
liberal-nazionalismo
di imporsi. Abbiamo conosciuto le “nuove” conseguenze dell'una e
sappiamo già riconoscere le conseguenze dall'altro.
Note:
1
http://www.treccani.it/enciclopedia/democrazia/
2
Si tratta del Mattarellum, ritornato agli onori della cronaca.
3
La Suprema Corta ha bocciato sia il Porcellum (dicembre 2013) sia
l'Italicum (gennaio 2017) e li ha “depurati” di alcune loro
parti.
4
Reimportato in Europa nella quale era nato, come sostiene Samir
Amin, in “Il virus liberale”, Asterios e Punto Rosso, 2004.
5
In forza dell'art. 80 non
è ammesso il referendum
per
le leggi di autorizzazione a ratificare trattati internazionali.
6
Che un guru del giornalismo
nazionale come Eugenio Scalfari (su La
Repubblica di inizio ottobre) non distingua tra democrazia ed
oligarchia, appare perciò perfettamente comprensibile.
7
Gaspare Nevola, “Democrazia, costituzione, identità –
Prospettive e limiti dell'integrazione europea”, Liviana, 5/2007.
Le citazioni virgolettate in paragrafo e nel riquadro “Test
dirimente”, sono tratte da questo testo.
8
Vedasi in particolare Fernand Braudel, “I tempi del mondo –
Civiltà materiale, economia e capitalismo (secoli XV-XVIII)”,
Giulio Einaudi, 1982 (edizione francese 1979).
9
Non negli Stati Uniti d'America, dove la schiavitù fu abolita
formalmente solo dopo la guerra di secessione (1861-1865).
10
In Italia, nel 1913, il patto Gentiloni rimosse il divieto ai
cattolici, frapposto dal Vaticano, di partecipare alla vita politica
attiva del Regno. Nello stesso anno il suffragio diventò
semi-universale.
11
Vedasi a questo proposito: Luciano Canfora, “La democrazia –
Storia di un'ideologia”, Laterza 2004, ultima edizione 2010.
12
Periodo dal 1946 al 1975, definito i “Trenta Gloriosi” nel
titolo di una pubblicazione dell'economista francese Jean Fourastié,
comparsa nel 1979.
13
J.P.
Morgan, “The Euro area adjustment: about halfway there”,
capitolo
“The journey of national political reform”, Europe Economic
Research, 28 May 2013.
14
Tra gli altri Giuliano Amato ed Augusto Barbera, attuali giudici
costituzionali, in carica per scelta di Giorgio Napolitano e del PD.
15
Vedi nel Blog, il Post “La pera sociale”, dicembre 2016.
16
Luciano Barra Caracciolo, “Euro e (o) democrazia costituzionale –
La convivenza impossibile tra Costituzione e Trattati europei”,
Dike, settembre 2013.
17
Diede piena attuazione e copertura costituzionale alla riforma
denominata “Federalismo a Costituzione invariata” del 1997.
18
Per consentire il voto degli italiani all'estero fu necessario
introdurre in Costituzione la circoscrizione estero, non prevista
alla sua stesura nel 1948.
19
Con legge costituzionale venne introdotto in Costituzione il
“principio del pareggio di bilancio”, modificando gli articoli
81, 97, 117 e 119 della Carta.
20
Secondo
la nota interpretazione di Zygmunt
Bauman.
22
Anche per l'opposizione
dell'allora sindaco di Firenze Matteo Renzi che disse: "Così
si fa vincere Grillo".
23
Unità.tv@unitaonline·
23 dicembre
2016
24
Nel 1906 i deputati della III Repubblica francese si aumentarono di
ben volte, da 9.000 a 27.000 franchi, l'indennità.
25
Nel Regno Unito la disputa legale sollevata davanti alla Suprema
Corte, per invalidare il responso referendario, altro non dimostrano
se non il conflitto tra democrazia delegata, parlamentare, e
democrazia diretta popolare.
26
Lilli Gruber nell'intervista citata nel riquadro “Questioni
complesse” a pag. 10.
27
Dal titolo del film di Cesare Zavattini, uscito nel 1982, che poneva
la questione a livelli assai diversi rispetto agli attuali.
28
Vedasi anche Vladimiro Giacché, “La fabbrica del falso”,
Imprimatur, 2016.
29
Intervista al ”Financial times”, 30 dicembre 2016.
https://www.ft.com/content/e7280576-cddc-11e6-864f-20dcb35cede2
30
Risoluzione del Parlamento europeo del 23 novembre 2016 sulla
comunicazione strategica dell'UE per contrastare la propaganda nei
suoi confronti da parte di terzi (2016/2030(INI)).
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