martedì 31 gennaio 2017

Liberalismo Vs/ Democrazia

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  • Europa ed Italia insieme coinvolte nella crisi della liberal-democrazia (il tandem).
  • Costituzionalismo e sovranità popolare.
  • La ”unificazione politica” come luogo della democrazia.
  • Senza inclusione economico-sociale non c'è omologazione istituzionale.
  • Dal voto censuario al suffragio universale, alla perdita della “egemonia sul consenso”.
  • Filtri anti-democratici.
  • Il liberalismo reale riapproda al suo alter ego: il nazionalismo.
  • Nella post-globalizzazione, la sovranità popolare può vivere nelle lotte sociali e di liberazione. 
Destini incrociati
Nello spazio temporale di poco più di un decennio sono venuti ad incrociarsi i destini costituzionali d'Italia e d'Europa.
In Italia assistiamo ad una tenace preservazione da parte della maggioranza popolare di una Costituzione, quella del 1948, che sia il contesto interno che quello internazionale sembravano avere ridotto alle enunciazioni di principio, racchiuse nella sua parte prima. Nell'arco di dieci anni, nel 2006 e poi nel 2016, ben due tentativi di revisione a senso unico, volti al rafforzamento dell'esecutivo e collegati a leggi elettorali ultra-maggioritarie, sono andati respinti.
In Europa, se le Costituzioni dei singoli Stati-nazione non sono state sovra-ordinate da una superiore Carta continentale, necessariamente sovra-nazionale, sempre lo si deve a maggioranze popolari, espressesi in Francia ed in Olanda nel 2005. Anch'esse non si sono “adeguate” ai mutati contesti, ai quali avrebbero “dovuto” giocoforza obbedire.
Benché nel dibattito mainstream raramente affiori un collegamento analitico tra questi dinieghi ed ancor meno ci si interroghi sui sottostanti perduranti motivi, i fatti invocano spiegazione.
Cosa ha impedito il compiersi di trasformazioni per le quali intere “classi dirigenti” si sono spese, andando incontro a clamorosi fallimenti?
Quali contraddizioni, immediate e di più lunga durata, sono venute a galla in oltre un decennio?
D'acchito, in superficie, vediamo una frattura insinuarsi nel rapporto tra costituzionalismo liberale e sovranità popolare, la cui fusione è posta alla base della democrazia dello Stato occidentale moderno.
«Più in particolare, la democrazia moderna identifica quella specifica forma di Stato in cui i principi del costituzionalismo liberale si sono fusi con il principio della sovranità popolare.»1
Ciò accade perché il suffragio universale mostra maggioranze che rifiutano i nuovi vestiti istituzionali confezionati dal liberalismo realizzato.
Eppure, per chi voglia andare oltre la frattura manifesta, è possibile intravvedere una faglia sottostante, materiale e di più lunga durata: il liberalismo reale si muove in rotta di collisione con i popoli e lo storico tandem denominato “liberal-democrazia” è in via di disfacimento. Le cause e le dinamiche di tale disfacimento sono poste al centro di questo scritto, nel tentativo di comprendere il nuovo contesto che ne scaturirà.
Qui, Italia
La storiografia ufficiale ci racconta che la Prima Repubblica durò dal 1948 al 1994, sicché la subentrante Seconda Repubblica sarebbe nata in seguito ad un terremoto partitico ed alla connessa legge elettorale maggioritaria,2 sostitutiva del proporzionale puro.
Ma, nonostante il continuo arrovellarsi delle prevalenti forze politiche, questo passaggio non ha avuto mai modo di compiersi pienamente. Esse, pur aderendo tutte al “pensiero unico”, al liberismo ed alla globalizzazione che annunciavano la fine della storia, non si sono mai trovate altrettanto concordi nello stabilire in cosa consistesse la Seconda Repubblica in cui dicevano di ritrovarsi.
Una prima riforma costituzionale, promossa dalla coalizione capeggiata da Silvio Berlusconi, fu bocciata al referendum del 25-26 giugno del 2006, con una forte percentuale di No (61,29%), dopo che in aprile alle elezioni politiche aveva prevalso di stretta misura il centro-sinistra di Romano Prodi.
A distanza di 10 anni, il 4 dicembre 2016, è la riforma voluta dal governo di centro-sinistra di Renzi e dalla seconda presidenza di Giorgio Napolitano a raccogliere un netto diniego (59,12%). Un diniego reso più grande dall'affluenza al voto che, compreso l'estero, fu del 65,47% nel 2016 rispetto al 52,46% raggiunto nel 2006. In termini assoluti ben 3.636.211 persone si sono aggiunte alle fila del NO!
Entrambe le revisioni vennero promosse dall'alto di vertici governativi e da una sola parte politica. Entrambe si proponevano accentramenti di potere nelle disponibilità dell'esecutivo, in nome della “governabilità” e, a ragione, molti costituzionalisti vi hanno scorto una sostanziale continuità d'intenti. Anche per via delle collegate leggi elettorali: il Porcellum (dicembre 2005) e l'Italicum (giugno 2016).3
Se non è una forzatura intravvedere nei disegni riformatori l'intenzione di sopperire alla mancanza di consenso alle politiche liberiste, attraverso lo svilimento di ogni democrazia partecipativa e della stessa democrazia della rappresentanza, corre l'obbligo di una constatazione: in dieci anni l'avversione a tali disegni si è fatta dilagante e ogni tentativo di reiterazione appare perdente.
Fuori tempo
A marcare la differenza tra i due fallimenti italiani, segnalo alcuni aspetti salienti.
La revisione del centro-destra precedeva la recessione del 2007-2008, mentre quella del centro-sinistra sopravviene dopo di essa e alla fine di un ciclo storico, fuori tempo massimo, poiché, nel frattempo, sia il liberismo e la connessa globalizzazione, sia loro interpretazione in chiave europea sono entrati in profonda crisi. A questa crisi le “classi dirigenti” politico-economiche italiane, responsabili della liberazione degli “spiriti animali del capitalismo” in patria e delle relative politiche continentali, hanno cercato di rispondere, riproponendo i medesimi indirizzi intrapresi sin dagli anni ottanta del secolo scorso.
Pertanto, l'ultimo tentativo di revisione costituzionale, per adeguare il “vestito” al “corpo”, non ha superato la prova referendaria, non solo e non tanto per l'opposizione dei partiti politici esclusi dalla sua elaborazione, quanto per il tramutarsi dello sfascio sociale in suo diffuso rifiuto, soprattutto da parte dei giovani, chiamati a consegnarsi ad un teorico “futuro” di cui sperimentano già nel presente quotidiano tutti i suoi perversi risvolti pratici. La stessa ragione per cui alle elezioni politiche del febbraio 2013 la cosiddetta Seconda Repubblica si scoprì, improvvisamente, non più bipolare bensì tripolare.
In definitiva, nell'espressione referendaria della sovranità popolare si sentenzia che, in assenza di un reale processo d'unificazione politica, largamente condiviso, la pretesa di sovrapporgli un nuovo patto costitutivo è opera fittizia, quando le divaricazioni economiche e sociali poste in atto nel Paese minano continuamente le basi stesse dell'unificazione e della condivisione.
Allo scopo non è servita neppure la “vigoria anagrafica” dei suoi più giovani recenti propugnatori.
Destini che incrociano il caso italiano con quello europeo. Anche a livello continentale il piano delle élites dominanti è fallito e, poiché le medesime cause sociali ed economiche si sono nel frattempo rafforzate, fallirebbe oggi a maggior ragione.
Qui, Europa
Nel 2005 il processo d'integrazione europea sembrava essere maturo per il gran salto istituzionale: dare al vecchio continente una sua Costituzione.
Tutte le condizioni per farlo si supponevano propizie: il liberalismo, reimportato nella forma politico-culturale statunitense4 e sotto le sembianze di un restaurato liberismo degli “spiriti animali” economico-finanziari, si era affermato ed andava, protetto dalla Nato, progressivamente estendendosi da Ovest a Est; un buon numero di Paesi si era raggruppato nella moneta unica, nel solco tracciato dal Trattato di Maastricht; a disperdere ogni resistenza sociale avevano contribuito anche le socialdemocrazie, oramai omologate alle politiche liberiste; l'Anschluß della DDR da parte della Germania Federale e la guerra nella ex-Jugoslavia, catalogate tra le inevitabili tortuosità del progresso storico, erano cadute nell'oblio, con tutto il loro carico di rivincita nazionalistica e di riemergenti piccole patrie etnico-confessionali.
Nonostante anni di elaborazione delle “migliori menti”, tra il 2002 ed il 2003, la cosiddetta Costituzione di Laeken [vedi riquadro “Convenzione di Laeken”] viene bocciata in Francia ed Olanda nei referendum popolari del 2005.
Convenzione di Laeken
E' istituita, su proposta del Presidente della Commissione Prodi, dalla Dichiarazione di Laeken (dic. 2001) del Consiglio Europeo dei capi di Stato e di governo.
A presiederla viene chiamato Giscard d'Estaing, affiancato da due vicepresidenti, Giuliano Amato ed il belga Dahaene. La compongono i rappresentanti dei capi di Stato e di governo degli allora 15 Stati membri, dai rappresentanti dei rispettivi parlamenti nazionali, del parlamento e della Commissione dell'Unione e dalle rappresentanze dei 10 Paesi all'epoca candidati.
Inizia i propri lavori nel marzo del 2002 e li conclude nel 2003.
Infine, dopo vari tentativi di correzione ed aggiunte, in quasi 800 pagine viene raccolto il prodotto finale: la “Costituzione europea” vera e propria (oltre 300 pagine); la Carta Europea dei Diritti Fondamentali; 36 protocolli e 2 allegati; 39 dichiarazioni di completamento.
Quanto di più prolisso ed indivulgabile per nascondere l'ennesimo trattato internazionale privo delle caratteristiche costitutive di un nuovo Stato unitario.
I referendum francese ed olandese si esprimono in ambito nazionale, perché non esiste un ambito europeo nel quale farlo, ovvero uno spazio politico unificato continentale: l'europarlamento è di fatto un'assemblea consultiva della Commissione Europea, a sua volta proponente verso il Consiglio intergovernativo, l'unico organo deliberativo. Sicché nell'Unione il potere esecutivo coincide con quello legislativo (sotto forma di Trattati vincolanti): un mostro, secondo gli standards della democrazia liberale pensata e teorizzata, ma non di quella praticata e realizzata.
Com'è noto, le prevalenti forze politiche italiane tutte, nonostante proclamassero l'Europa nuova patria comune, hanno sempre riservato a se stesse le scelte europee. Tra le innumerevoli riforme istituzionali, non hanno mai ritenuto di introdurne una che, tramite referendum, coinvolgesse direttamente ed attivamente il popolo italiano in tali scelte, confinandole nella categoria dei “trattati internazionali”.5 Nemmeno per sottoscrivere quei trattati, importantissimi, mediante i quali venivano cedute tre potestà nazionali basilari: monetaria valutaria e di bilancio. In particolare, l'adozione della moneta unica è stata avocata alla “competenza tecnica” di ristrette cerchie.
Questo perché le scelte dovevano essere sottratte a pubblico dibattito per meglio celarne contenuti e conseguenze sociali: per decenni è stato praticata l'oligarchia, spacciandola per democrazia.6
Di conseguenza, le bocciature referendarie del 2005 furono rappresentate come momentanee “battute d'arresto”, da superare nelle “sedi più adatte”, con il consolidato metodo delle mediazioni d'interesse che, sino ad allora, si diceva avesse dato buoni risultati.
Eppure, in ambiti “specialistici”, una certa discussione non mancò ed è utile farvi riferimento, in quanto, essendo precedente al biennio 2007-2008, non poteva essere influenzata dai terremoti successivi.
Prove insuperate
Secondo il professor Gaspare Nevola7, che ne riportò ampiamente posizioni e congetture, la Costituzione di Laeken in effetti era un Trattato internazionale, forzato nelle sue finalità, nel tentativo di superare la mancanza di “unificazione politica” attraverso la strategia della “costituzionalizzazione”.
Perché fu messa in cantiere?
«(...) almeno per una parte delle élites politiche e culturali, [tale strategia era] una forte componente simbolica e retorico-strumentale, a copertura di finalità o problemi di altra natura rispetto a quelli pubblicamente proclamati.»
Già allora l'Unione Europea non era vista come un “sistema democratico moderno o liberal democrazia di massa”, a cui mancavano gran parte dei presupposti fondativi. Benché ai suoi occhi e sino al 2006, sul piano economico-finanziario il bilancio dell'Unione fosse da considerarsi “moderatamente positivo”, seppur controverso per gli effetti sui singoli Paesi, mentre il bilancio sul piano della “cittadinanza sociale” (welfare) derivante dal “modello Maastricht” si mostrasse “tendente al negativo”.
A ricondurre i problemi di ordine economico-finanziario, monetario e sociale alla necessaria “democratizzazione politica” concorreva la constatazione che, una volta prese in sede europea le decisioni d'indirizzo generale, toccava in seguito ai singoli governi nazionali imporne le misure attuative. Di contro, questa consapevolezza non giungeva fino al punto di vedere che proprio le potestà trasferite a Bruxelles e Francoforte (per non parlare di quelle effettivamente riposte a Berlino) privavano i governi ed i parlamenti nazionali dei necessari strumenti per gestire adeguatamente i problemi interni, relegandoli alla mera esecuzione dei “compiti a casa” prescritti. Ossia a far trangugiare le più amare medicine, perché “lo voleva l'Europa”.
Ad ogni buon conto, l'Unione Europea, avviata sulla via del liberalismo di foggia liberista, doveva “andare oltre Maastricht” ed approdare senz'altro alla necessaria “democratizzazione”.
Ma come? Per Nevola, superare il fallimento della cosiddetta Costituzione di Laeken, significava uscire da un equivoco concettuale:
«I termini della questione non sono, infatti, se lo Stato-nazione sia oppure no il “luogo” per definizione o esclusivo della democrazia. Il punto cruciale è piuttosto un altro: l'ambito (o la base) per ogni ordinamento democratico, almeno fino ad oggi, è l'unità politica, ossia l'esistenza di uno “spazio politico unificato”, di cui lo Stato-nazione rappresenta una complessa forma storica. (…)»
«Nei processi storici di institution building, l'unificazione politica precede la democratizzazione. La condizione affinché un sistema politico possa superare il “test della democratizzazione” è il superamento del “test dell'unificazione politica”. »
Non disponendo di uno spazio politico unificato, la democratizzazione non ha un luogo, un “dove” concretizzarsi. Uno spazio pur sempre “fisico”, “geografico”, politicamente unificato.
Viceversa, quando tale “non-luogo”, rappresentato dall'Unione, verrà sottoposto ai tests pratici del “processo d'integrazione” degli ultimi dieci anni (2006-2016), imboccherà la via della disintegrazione: l'unificazione politica diventerà una chimera e la democratizzazione un pio desiderio.
Ciò vale per l'unificazione politica da raggiungere passo dopo passo tramite il “processo d'integrazione”, ma ancor più per la “unificazione politica”, secondo lo schema interpretativo del Professor Nevola [vedi riquadro “Il test dirimente”].
Il test dirimente
«Presentato nei suoi lineamenti essenziali, il test di unificazione politica è costituito da una congiuntura critica (o da una serie di congiunture critiche) che si pone come banco di prova sul quale un “sistema con pretese politiche” si cimenta con la sfida, la possibilità e la capacità di prendere esso (e solo esso, quando ritiene di far- lo) decisioni autoritative valide solo per se stesso (e per tutto se stesso, quando ritiene che così debba essere). In questo senso sono congiunture critiche quelle situazioni che rivelano la presenza e la dislocazione dell'”autorità” e delle “lealtà” politiche.
Il superamento del test dell'unificazione politica implica che un sistema, sulla base di sue proprie risorse materiali, organizzative, normative e simboliche, sia in condizioni di governare i processi di “assegnazione autoritativa dei valori” e i processi di “riconoscimento leale della comune cittadinanza”, non solo nelle situazioni di “stato ordinario”, ma anche – e soprattutto – in quelle di “stato straordinario” (o “stato d'eccezione”). In particolare, nelle situazioni critiche dello “stato di eccezione” i rischi di conflitto acuto, di disordine o di disgregazione, di paralisi decisionale o di ingovernabilità del sistema sono argina- bili, ovvero risolti, attraverso una (ri)strutturazione del “monopolio dell'autorità” e del “monopolio della lealtà” nell'ambito dello spazio politico definito (o ridefinito). L'acquisizione del monopolio dell'autorità e della lealtà in caso di crisi è fondata sulla possibilità/capacità, da parte di un sistema con pretese politiche, di disporre di, e all'occorrenza mobilitare, due risorse politiche essenziali: il “potere” e l'”identità collettiva”. Ossia, rispettivamente, i “legami di comando” e i “legami di appartenenza”.»
In base al ragionamento sin qui seguito, il processo di democratizzazione dovrebbe contenere in sé, se non la preliminare, almeno la contemporanea creazione di uno “spazio politico unificato”.
In particolare, il problema consiste nel come unificare l'attuale potere europeo dislocato:
  • a Bruxelles, politico-economico, secondo patti tra governi degli Stati-nazione, regolati nelle minuzie dall'apparato burocratico e tecnocratico;
  • a Francoforte, finanziario, nella Banca Centrale Europea, volutamente resa “autonoma” dalle interferenze da ogni democrazia politica;
  • a Berlino, sede effettiva della decisione ultima, giacché lo sviluppo di rapporti asimmetrici tra Paesi europei hanno posto al centro dell'Unione la Germania, “troppo piccola” per il mondo, ma “troppo grande” per l'Europa.
Ciò significa che, qualora nei Paesi periferici prevalessero forze favorevoli alla unificazione-democratizzazione, niente potrebbe vincolare la Germania ed i suoi più stretti alleati, alle loro istanze unificatrici e paritetiche. Nella forma e nella sostanza. Inoltre, fino a quando i Paesi periferici potranno sopportare le divaricazioni, le spoliazioni economiche e di sovranità, attuate ai loro danni ed insite nella strutturazione del potere europeo vigente?
Alla ricerca dell'identità europea
Restando all'analisi di Nevola, l'unificazione politica doveva disporre di due risorse: il potere (“legami di comando”) e l'identità collettiva (“legami di appartenenza”).
La natura e la dislocazione dei poteri nell'Unione consentono “legami di comando” precari, provvisori ed a(nti)-democratici; in difetto di una identità collettiva i “legami di appartenenza” sono inesistenti. Manca un'idea-forza, quale fu l'idea nazionale nell'Ottocento, che dia vigore ad una identità condivisa, una costruzione obbligatoriamente culturale ed “ideologica”, non essendo una pianta spontanea.
Tuttora e più che mai ci si interroga su quale sia questa identità, sovranazionale ma non a-nazionale.
Spesso vengono evocati “valori di civiltà e cultura” che ci accomunerebbero, in quanto specifica parte di quelli occidentali.
Cospicua parte di tali “valori” occidentali vanno esplicitamente rigettati, poiché intimamente connessi al ruolo plurisecolare dell'Europa verso il resto del mondo, presa nell'insieme o per singoli Stati-nazione, dal seno dei quali scaturirono i peggiori regimi di repressione interna e di dominio esterno coloniale ed imperialista, forieri di guerra.
Recuperare l'identità religiosa cristiano-giudaica è operazione passatista e, alla stessa stregua del fondamentalismo islamico che insanguina il conflitto tra sunniti e sciiti, ci riporta in balia persino delle piccole patrie etnico-confessionali, com'è accaduto nella ex-Jugoslavia ed accade non solo nell'Est europeo.
Poiché liberalismo e nazionalismo si sono associati o alternati nella pratica attuazione dei suddetti “valori”, cosa rimane da rivalutare “in positivo”?
Non vedo altro che i “valori” portati dai conflitti sociali, civili e democratici, dai movimenti di lotta, di solidarietà e liberazione, con le loro alterne vicende, passati tra rivoluzioni e repressioni, affermazioni e restaurazioni. Sicché tocca fare i conti, anche ed inevitabilmente, con la terza grande corrente di pensiero-azione dell'Ottocento-Novecento: il socialismo.
Quando, al contrario, si resta negli angusti e conservativi limiti liberal-democratici, lo sforzo di trovare il minimo comun denominatore positivo, perviene tuttalpiù a congetture teoriche che riportano alla “costituzionalizzazione” e …. alla Nazione.
Infatti, Nevola, dopo un dotto esame critico, giunge a prediligere la teoria del “patriottismo europeo della cittadinanza multinazionale”. Essa, tra l'altro, avrebbe il merito di superare i limiti del solo “patriottismo costituzionale” elaborato da Jürgen Habermas, eminente maître à penser dell'europeismo.
«Un patriottismo il quale tenga insieme identificazione con principi formali, astratti ed universalistici della cittadinanza democratica (costituzionalismo; appartenenza costituzionale; lealtà democratica) e identificazione con ambiti di vita politico-culturali sostanziali, concreti e particolaristici radicati nelle storie e nelle strutturazioni di spazi politici nazionali (patriottismo; appartenenza nazionale; lealtà nazionale).»
La lealtà democratica sarebbe assicurata dalla identificazione della cittadinanza in principi formali ed astratti, fissati in una Costituzione. Ma su quale base sostanziale e concreta poggia questa lealtà democratica se non, in definitiva, su quella nazionale?
Ora che, a distanza di un decennio, il corso delle cose ha preso il senso inverso a quello prospettato, è sin troppo facile vedere quel pensiero europeista aggirarsi di continuo in un circuito vizioso. Come può prender vita il processo d'unificazione politica senza il suo “naturale” protagonista, chiamato a svolgere non un ruolo gregario e di mero supporto?
In realtà, ciò che mancava allora, e gli svolgimenti politici attuali confermano mancare, è il “popolo” protagonista o, se preferite, i “popoli”, da cui derivare la sovranità democratica, che oggi non si riconoscono, non danno “consenso” ai rapporti materiali e reali pre-posti in essere dal dilagare del liberismo sul piano transnazionale. E ciò è avvenuto ed avviene sia nel contesto europeo, sia negli ambiti nazionali. Emblematico, a questo proposito, è il caso italiano.
La democrazia del liberalismo
A questo punto occorre non solo distinguere tra i liberalismi realizzati, ma anche in seno alla democrazia com'è divenuta al loro seguito.
Non prima di una nota di linguaggio e di una precisazione storica solo tratteggiata.
La lingua italiana consente, al contrario di quella inglese, di distinguere tra liberalismo come corrente politica generale e liberismo sul piano economico-sociale. Essi non coincidono necessariamente, così come possono non coincidere con il libero-scambismo nei rapporti commerciali: più volte il liberalismo politico ha fatto uso del protezionismo, privilegiando gli interessi della propria Nazione, quando l'ha ritenuto opportuno e conveniente.
D'altro canto, in ogni fase storica di mondializzazione, non è mai venuto meno l'intimo nesso tra Stato-nazione e capitalismo. Sin dagli albori del capitalismo mercantile nel Cinquecento, si strutturò e consolidò il connubio tra forza (armata) dello Stato e borghesia, originando il “mostruoso attrezzo” occidentale, capace di aggredire e soggiogare gran parte del resto del mondo: dalle Americhe all'Estremo e Vicino Oriente, all'Africa.8 Nel processo di accumulazione, l'espropriazione non fu solo una fase originale interna alle nazioni occidentali in cui nacque il capitalismo, bensì loro incessante pratica ai danni del resto del mondo.
Nell'Ottocento, al giacobinismo che individuava nella democrazia diretta della polis greca il modello a cui riferirsi, il liberalismo oppose un proprio modello basato sulla “libertà dei moderni” al tempo del capitalismo e della borghesia.
Per il liberalismo in un moderno Stato nazionale il numeroso popolo composto da milioni di persone non poteva, a differenza della polis greca, esprimersi per democrazia assembleare diretta, ma attraverso la delega e la rappresentanza.
A caratterizzare in senso progressista questo passaggio concorreva la critica, rivolta dai bourgeois ai citoyens rivoluzionari francesi, che nella democrazia delle antiche città-stato gli schiavi erano esclusi, in quanto non-cittadini. Poco importava che la schiavitù e la non-cittadinanza, abolita sul moderno territorio metropolitano,9 venisse tuttavia riaffermata in quello “eterno” coloniale.
Agli albori dello Stato moderno e come nelle comunità antiche, la piena cittadinanza appartenne al maschio adulto soldato (moderno oplita dell'esercito nazionale non più professionale), sicché donne e giovani ottennero una cittadinanza minore e subalterna.
In aggiunta, poiché il governo della nazione basava il proprio operato sulla gestione delle entrate derivanti dal gettito fiscale, ossia sul potere di bilancio, solo chi allora vi contribuiva, in quanto possidente, acquisiva diritto di voto.
A conti fatti, solo una ristretta minoranza su base censuaria, poté inizialmente accedere al suffragio, ancora non dichiarato “segreto”.
Per semplificare, il liberalismo reale nasceva attorno ad una concezione della democrazia che assomiglia più al diritto di voto in una società per azioni, in cui il numero di voti espressi corrisponde al numero delle azioni possedute, piuttosto che ad un sistema in cui vige il principio di una testa - un voto, nella disponibilità di tutti i cittadini, sia pure “nullatenenti”.
Non può meravigliare, dunque, che la democrazia liberale, “dei moderni” dell'Ottocento, venga ritenuta da molti storici una forma assai vicina alla oligarchia delle classi proprietarie, nell'esercizio privilegiato della piena libertà individuale dei suoi componenti.
Al centro della elaborazione ideologica liberale si situa il fondamentale rapporto tra libertà dell'individuo proprietario, nel “godimento pacifico dell'indipendenza privata”, e potere politico statuale, possibile fonte di dispotismo.
Benjamin Constant
È questa la principale preoccupazione della emergente borghesia liberale, espressa nel suo celebre “Discorso sulla libertà degli antichi e dei moderni” (1819), dal liberale Benjamin Constant. Nulla dal potere politico poteva e doveva incombere minaccioso sulla ricchezza e sul denaro.
In sintonia con questa concezione del potere politico, da tenere controllato e pure “ingannato”, la sovranità popolare nella pratica liberale viene “filtrata” in duplice modo: dall'accesso al suffragio e dai sistemi elettorali.
Il primo corrisponde al processi d'integrazione sociale ed all'omologazione politica nelle istituzioni;10 i secondi permettono di selezionare le rappresentanze e di determinare le maggioranze parlamentari, predisponendo confacenti aritmetiche elettorali, in base al la suddivisione territoriale dei collegi e/o ad opportuni premi in seggi. Lungo sarebbe l'elenco delle variabili inserite ad hoc: dall'uninominale “secco” di collegio, di tipo inglese, al proporzionale italiano con capilista “bloccati” e messi al riparo dalle preferenze; dai premi di maggioranza con relative soglie, ai ballottaggi... Tutto purché i governi risultanti potessero e possano invariabilmente oscillare, a pendolo, tra conservazione dell'esistente e riforme compatibili con gli assetti sistemici.11
Inclusione progressiva
Benché il liberalismo venga oggi identificato con il suffragio universale, come espressione della sovranità popolare ed a superamento dei limiti della democrazia antica, la sua storia dice altro.
Se prestiamo attenzione alle vicende che portarono il liberalismo a superare le iniziali esclusioni, scorgiamo un allargamento essenzialmente dovuto al prorompere di movimenti di lotta, di classe e di “razza”, di sesso e generazionali, imposto a ristrette cerchie privilegiate di ricchi, bianchi, maschi, istruiti ed adulti. In un andamento affatto lineare: l'inclusione non è avvenuta per “naturale evoluzione” del sistema, né per gentile concessione, se non in sporadici casi motivati da lotte interne alle classi dominanti, come nella Germania di Otto von Bismarck. [Vedi riquadro “Non era universale”]
Non era universale
Per tutto l'Ottocento e per parte del Novecento, nei Paesi di tradizione liberal-democratica l'accesso al voto fu discriminato in base al sesso, alla “razza”, all'età, al censo ed all'istruzione. L'abbattimento di queste barriere discriminatorie si deve in larghissima parte a movimenti e lotte durate lunghi anni, solo in pochi casi a “concessioni”, quale fu in Germania, nel 1866, l'introduzione del suffragio universale maschile, decisa dal cancelliere Otto von Bismarck, peraltro un avversario dei liberali del tempo.
In Inghilterra il suffragio universale maschile risale al 1918 e quello femminile al 1928.
In Francia alle elezioni del 1818 partecipò un esiguo corpo elettorale, su base censuaria, di 88.000 persone; il suffragio universale maschile è del 1848, segreto dal 1869 ed allargato alle donne dal 1945.
In Italia il primo ampliamento del diritto di voto, ancora con i criteri del censo e dell’istruzione, è del 1882. Nel 1913 il suffragio diventa semi-universale (per i maschi compiuti i 30 anni). Nel 1946 viene aperto finalmente alle donne e, dal 1975, ai diciottenni.
Negli Stati Uniti d'America il precoce suffragio universale del 1787 fu limitato su base razziale ai maschi bianchi. Nel 1870 venne eliminato il limite della “razza”, ma di fatto solo nel 1965 il voting rights act abolisce le discriminazioni ancora esistenti negli Stati del Sud nei confronti dei neri. L'esclusione delle donne bianche cessò dal 1920 e dal 1924 quella verso gli indiani.
Non solo, essa ha attraversato la crisi del liberalismo a cavallo tra fine Ottocento e primo Novecento, in rapporto con il liberismo economico-sociale, con il nazionalismo e, poi, con il fascismo.
Liberalismo e nazionalismo si accomunarono nello scatenamento del primo conflitto mondiale. Si identificarono nel “patriottismo” dello Stato-nazione in guerra per la supremazia del proprio imperialismo, al quale si associò la socialdemocrazia, abiurando allo scopo “l'internazionalismo proletario”.
Successivamente, all'affermazione dei regimi fascisti e nazisti contribuì, salvo poche eccezioni (in Italia, Piero Gobetti), la maggioranza dei liberali del tempo, temendo innanzitutto il movimento operaio ed il socialismo. Pochi ricordano che Benedetto Croce, all'indomani del delitto Matteotti, andò in Senato a votare la fiducia al governo Mussolini e definì tale scelta “prudente e patriottica”.
Solo in seguito alla grande crisi del '29, sia le liberal-democrazie che il fascismo ed il nazismo si staccarono dal liberismo economico-sociale. Fu il tempo del new deal di Franklin Delano Roosevelt negli Stati Uniti, del Mefo di Hjalmar Schacht nella Germania hitleriana e del tardivo abbandono della quota 90 da parte di Mussolini.
Nel dopoguerra le politiche di “stampo keynesiano” prevalsero in tutto l'Occidente.
Per grandi linee si evidenziano almeno tre aspetti:
  1. una cesura storica separa le liberal-democrazie esistenti prima della Grande Guerra rispetto a quelle successive alla seconda guerra mondiale;
  2. la pratica dell'inclusione democratica delle liberal-democrazie arriva al suo culmine durante i trente glorieuses12 del secondo dopoguerra, in presenza di uno sviluppo economico interno di grande successo, dovuto a politiche di “stampo keynesiano” (anti-liberiste), nella duplice posizione: verso il Terzo Mondo, di Paesi ricchi post-colonialisti ed imperialisti; verso l'Urss ed i Paesi socialisti, di auto-difesa e preservazione per combattere il comunismo e vincere il confronto-competizione tra “sistemi”;
  3. la persistente capacità del liberalismo di esercitare la propria egemonia ideologico-culturale, servendosi di centrali di pensiero (think-tanks) direttamente finanziati in propri istituti e/o insediati in istituti ed università pubbliche, nonché della detenzione dei principali strumenti mediatici.
La rottura
Senonché, in seguito alla crisi della seconda metà degli anni settanta del Novecento, interviene la rottura del patto democrazia-lavoro ed il liberalismo riabbraccia via via il liberismo, il capitalismo degli “spiriti animali”, bandisce le politiche di “stampo keynesiano” e, quasi contemporaneamente, avvia una nuova pervasiva fase di globalizzazione.
Giova qui ricordare che John Maynard Keynes si auto-definiva un liberale e, ciò nondimeno, considerava aberranti le idee di Friedrich von Hayek, reputato uno dei fondatori, insieme a Milton Friedman, della Scuola liberale e liberista di Chicago.
Dagli anni ottanta del '900 il liberalismo reale, ridivenuto liberista e libero-scambista, avvia un processo internazionale ed interno, che ora ritorna come un boomerang a mettere in crisi la propria egemonia di consenso. In seguito ad esso, sono venuti a meno:
  • la credibilità del racconto liberista, dopo il crollo finanziario del 2007-2008, con una ripresa che, laddove avviene, non consente di ripristinare né i livelli d'integrazione sociale precedenti (tantomeno di allargarli agli immigrati), né la posizione ed il ruolo delle classi medie;
  • la leadership unitaria sulla globalizzazione della triade USA-UE-Giappone, per la competitività dei Paesi emergenti, da un lato, e, dall'altro, per l'abnorme vantaggio acquisito dalla Germania riunificata con il suo neomercantilismo esportativo (anche grazie all'euro);
  • il dominio dei flussi in-formativi, dato dal concomitante diffondersi nel mondo delle tecnologie della comunicazione e dell'uso della Rete, all'interno della quale la libertà individuale si è “socializzata”, connettendo in-formazione, cultura e politica.
L'inclusione in progress si è arrestata e si è tramutata in esclusione. Nell'esclusione risiede
Olinda Denise, Disgregazione
l'impossibile omologazione istituzionale voluta dal neo-costituzionalismo liberale. Invano il liberalismo ha alzato alcune bandiere per nasconderla ed autoproclamarsi ancora portatore di “progresso”. Ad esempio: cosa rimane di “progressista” dei mille giorni del governo Renzi, se non le (imperfette) “unioni civili”?
Un sostanziale arretramento epocale e generale avvolge il benché minimo “progresso”.
Cosa resta della declamata libertà di movimento individuale? I migranti fuggiaschi dai disastri economici si mischiano ai profughi dalle guerre “geo-politiche”, ma entrambi sono dovuti principalmente alle liberal-democrazie occidentali o per interventismo militare o per imposizione di rapporti economici “asimmetrici” a proprio esclusivo vantaggio (o per i due motivi insieme).
Il corpo rifiuta il vestito
La democrazia delegata e della rappresentanza è il sistema attraverso la quale il costituzionalismo liberale vuole sia determinata la maggioranza di governo, nonché salvaguardate le prerogative delle minoranze.
Ma cosa succede se tale maggioranza non si raccoglie intorno ad un partito/coalizione e, al contempo, nega consenso all'assetto socio-economico sottostante? Nel caso italiano, la si deve “reinventare” con un combinato disposto di revisione costituzionale e di legge elettorale maggioritaria. L'una per accentrare i poteri in capo all'esecutivo a detrimento degli altri poteri (parlamentare e giudiziario), l'altra per relegare le minoranze (che sommate sono in verità in maggioranza) ad un ruolo secondario ed ininfluente.
A questo proposito, nel maggio del 2013, ad invocare l'”aggiustamento” dei Paesi mediterranei, fu esplicitamente JP Morgan Chase & Co., una società leader nei servizi finanziari globali:13
«I sistemi politici dei Paesi periferici furono adottati in seguito alla dittatura e definite in base a quella esperienza. Le Costituzioni tendono a mostrare una forte influenza socialista (…). I sistemi politici nella periferia presentano tipicamente le seguenti caratteristiche: esecutivi deboli; stati centrali deboli nei confronti delle regioni; tutele costituzionali dei diritti del lavoro; sistemi di costruzione del consenso fondate sul clientelismo politico; ed il diritto di protestare se i cambiamenti sono sgraditi è congeniale al mantenimento dello status quo.»
Indifferenti al fallimento della “costituzionalizzazione” messa in atto in Europa, in una stupefacente coazione a ripetere ad opera degli stessi imperturbabili ideologhi,14 anche in Italia s'è voluta la medesima forzatura. Finalizzata ad una “costituzionalizzazione” che, nondimeno, mancava di un reale processo di riunificazione politica attorno ad una Seconda Repubblica, in tutta fretta proclamata dopo aver celebrato gli sbrigativi funerali della Prima.
I motivi della resistenza popolare sono oramai chiari. Risiedono nel rifiuto di aderire all'implicito nuovo “patto” che tali revisioni contengono, basato su disgregazione, esclusione, crescente povertà, divaricazione territoriale, corrispondenti all'arricchimento di ristrette minoranze ed ai loro crescenti privilegi.
Si tratta della già descritta “pera sociale”,15 in divenire della quale non è possibile il rinnovo della unificazione politica nazionale, a presupposto della ri-Costituzione, e le riforme sono state vissute come una pretesa di imprigionare la maggioranza in un inaccettabile e non accettato stato di cose presente.
La vestizione di un corpo
La Costituzione repubblicana del '48 nacque nel dopoguerra, in un quadro internazionale determinato dalle forze vittoriose sul nazi-fascismo. Ereditava l'unità nazionale nella duplice condizione: di Paese belligerante sconfitto, eppure rigenerato dalla Resistenza, in cui fu decisivo l'apporto di un antifascismo di classe, civile e popolare.
Secondo l'articolata elaborazione di Luciano Barra Caracciolo,16 le Costituzioni democratiche post-belliche sono pluriclasse:
«attribuiscono la sovranità al popolo inteso come insieme indistinto di cittadini di pari dignità e capacità politico-sociale e, come conseguenza di ciò, individuano gli elementi del capitalismo che vengono considerati compatibili con gli interessi popolari.»
Si può arguire che la definizione “pluriclasse” non si attagli ad un sistema pur sempre capitalistico, in cui le classi non godono di “pari dignità” sostanziale. Tuttavia, quelle Costituzioni contemplano un capitalismo mitigato e calibrato sulla conoscenza critica delle vicende storiche precedenti: conflittuali, traumatiche e periodicamente distruttive della stabilità sociale.
In particolare, la Costituzione italiana ha potuto reggere per diversi decenni, perché le diverse e prevalenti forze politiche sociali e culturali, spesso in aspro contrasto tra loro, hanno sì “giocato allo stesso gioco” in un campo delimitato dall'accettazione delle regole di quel gioco, ma soprattutto perché il capitalismo era obbligato al rispetto del patto “democrazia-lavoro” da coloro che nella lotta antifascista e con la Resistenza l'avevano imposto e continuavano ad imporlo.
Di conseguenza la pluralità conflittuale venne contenuta nell'unità, grazie alle mediazioni politiche di cui il patto fondativo fu luogo e garanzia.
Come ciò sia potuto avvenire, a quale prezzo e con quali conseguenze, deve essere oggetto di buona memoria, giacché il presente è pur sempre erede di quel passato non proprio remoto e dei suoi nodi irrisolti.
A distanza di più di due decenni dal 1994, registriamo che l'affannarsi riformatore delle forze politiche, nel periodo prevalenti, non ha prodotto alcun abito istituzionale per vestire a nuovo lo Stato nazionale.
D'altro canto nella stessa Costituzione erano state introdotte modifiche piuttosto rilevanti, pur nel complesso non del tutto stravolgenti: dalla riforma del Titolo V nel 2001,17 alla legge Tremaglia dello stesso anno,18 per consentire il voto degli italiani all'estero, all'introduzione nel 2012 del pareggio di bilancio19 in totale ossequio ai vincoli europei.
I motivi di tanta “incompiutezza” vanno ricercati in profondità e sono da ascrivere alla intervenuta rottura sociale ed alla corrispondente crisi della democrazia della rappresentanza.
Infatti, il reiterato rifiuto della maggioranza popolare di convalidare revisioni sostanziali, tese a snaturare la democrazia costituzionale a favore di un accentramento dei poteri in capo a partiti minoritari nel Paese ed ai loro esecutivi, va ricondotto alla non accettazione della disgregazione materiale a cui è stato costretto il corpo sociale. Le classi povere ed impoverite, ivi comprese quelle medie di consumo e di proprietà, ed in particolare le giovani generazioni, si rifiutano di avallare lo stato di cose presente, accettando il vestito istituzionale in cui verrebbe preservato.
Il fantasma del consenso
Nei giorni successivi al 4 dicembre, abbiamo assistito alla riedizione di quanto era avvenuto all'indomani della Brexit e delle elezioni presidenziali statunitensi. Coloro che supponevano di indirizzare il consenso, tramite i soverchianti mezzi di cui dispongono, erano sconcertati e non trovarono di meglio che imputare al “populismo” ed alla “anti-politica” la loro sconfitta.
Ma come? La maggioranza non segue più il coro mass-mediale? Per assicurare la vittoria del sì, perché non sono bastati le televisioni, i grandi giornali, gli endorsements di celebrità dello spettacolo e capi di Stato, le minacce provenienti dai mercati finanziari? Non avevamo “tutti” stabilito che eravamo nella società del potere mediatico, nella quale vince chi questo potere detiene?
Allo sconcerto del rovescio referendario si accompagna, inoltre, la desolante constatazione di avere dichiarato inservibili ed “ideologiche” le vecchie strutture partitiche, obsoleti i “corpi intermedi” (sindacati, associazioni varie di categoria e settoriali), rottamandole o riducendole a sopravvivenze marginali, insomma dismesse “militanze” ed “appartenenze”, per infine ritrovarsi non solo di fronte ad un chiaro pronunciamento di classe e generazionale, ma pure, politicamente, ad “un'isola che non c'è”: la II Repubblica.
In essa lo strapotere della televisione era stato consacrato dall'epopea berlusconiana e l'offerta politica doveva incontrare nel marketing elettorale gli acquirenti, individui o tuttalpiù famiglie (non a caso le sole entità “esistenti” per la signora Thatcher), posti nella condizione di passivi consumatori, politicamente analfabeti.
Una volta resa liquida20, supponevano che la società fosse anch'essa definitivamente liquidata.
Assai probabilmente nel prossimo futuro assisteremo ad un profluvio di analisi, alla ricerca di una modo per uscire dall'impasse, rimettendo il liberalismo alla guida del tandem con una parvenza di democrazia delegata a pedalare dietro, subalterna e soggiogata.
Al momento si scorgono due ambiti in cui attuare questo soggiogamento: la regolazione della partecipazione alle elezioni ed alla rappresentanza; il controllo della Rete.
Nuovi filtri
Ai movimenti degli anni sessanta e settanta del Novecento veniva rimproverato di essere “extraparlamentari”, mentre quelli del nuovo secolo li si vuole forzare ad essere tali.
Questo è il senso del ddl a firma dei senatori Anna Finocchiaro e Luigi Zanda, presentato in Senato nel maggio del 2013,21 per il quale alle elezioni non potevano presentarsi soggetti senza personalità giuridica e senza statuto pubblicato in Gazzetta Ufficiale.
Veniva richiamato l'art. 49 della Costituzione, mai prima reso attuativo da una legge, perché le diverse correnti di pensiero politico novecentesche avevano prodotto modi di intendere le democrazie partitiche assai diversi tra loro. E l'eventuale test a cui sottoporre il “centralismo democratico” del Partito Comunista, a cui i suoi parlamentari dovevano disciplinarsi, avrebbe comportato un esame del sistema di scambio mafioso e clientelare di voto da porre in capo alla Democrazia Cristiana.
Comunque, il ddl venne reputato una norma ad hoc contro il M5S e non passò.22
A prescindere dalle sue “nobili intenzioni”, legate al problema delle garanzie democratiche interne di partiti e movimenti che anelano ad ottenere rappresentanza nelle istituzioni, appare evidente la volontà politica ad excludendum verso qualsiasi movimento non omologato.
Finocchiaro e Zanda si resero poi protagonisti del varo del combinato disposto della riforma costituzionale ed elettorale. A dar loro manforte, a conferma della persistente propensione ad ideare nuovi filtri per “aggiustare” la democrazia, nel solco della tradizione del liberalismo prima descritta, ma in regressione rispetto agli allargamenti storicamente imposti ed accettati, è intervenuto un altro autorevole ideologo del diritto: Sabino Cassese. Anch'egli sostenitore attivo della revisione costituzionale fallita, in un recente articolo23 trova vi sia incompatibilità tra democrazia diretta e della rappresentanza, nonché l'autonomia di quest'ultima sia compromessa da compagini, non democratiche secondo i suoi criteri, i cui capi possano vincolare alle loro imposizioni la libertà degli eletti.
L'insigne giurista non trovò nulla di illegittimo nello strano rigiro istituzionale, attuato sotto la regia di Giorgio Napolitano. Nel 2013, una maggioranza di deputati eletti grazie all'incostituzionale Porcellum sulla base di un programma di coalizione di centro-sinistra (capeggiata da Pier Luigi Bersani), dopo una ridicola pantomima della democrazia “interna” al solo PD, divenne di Matteo Renzi e resse il suo nuovo governo, insieme ad una pattuglia di senatori transfughi dalla coalizione concorrente di centro-destra.
Non vi fu obbedienza ad una imposizione esterna di un capo di partito? E quella elezione di Renzi a segretario del PD, a quali requisiti democratici corrispose?
Fatto sta che da lungo tempo il trasformismo dei parlamentari, divenuto da tempo “mestiere” ben pagato,24 appare accettabile, mentre non lo è affatto il vincolo di mandato, per giunta remunerato come puro servizio pubblico. Questo è il punto.
Dopodiché sarebbe limitativo vedere esclusivamente il bersaglio immediato (M5S) e non comprendere l'inversione d'indirizzo: dalla inclusione alla esclusione, nel rifiuto di accettare lo sviluppo democratico insito nella estensione della democrazia diretta, sia essa veicolata dal maggior ricorso al voto referendario, sia in futuro tramite la Rete. Estensioni che la vecchia “classe dirigente” non vuole, perché già in questa fase di passaggio non controlla più il consenso.
Sinceri democratici”
Nel 2016, in retromarcia dal “processo d'integrazione” europeo, è intervenuta la Brexit,25 quando già sul vecchio continente campeggiavano i nuovi muri nazionalistici: di filo spinato sulla rotta migratoria balcanica e di frontiere respingenti su quella peninsulare italiana.
Sul recente échec italiano, la elaborazione del lutto da parte della “classe dirigente” è ancora in corso. Non sembra condurre a ripensamenti effettivi, anche tra coloro che hanno appoggiato la riforma renziana turandosi il naso.
Alcuni “sinceri democratici” pretendono di separare l'esito dell'ultimo referendum dalla pratica governativa di chi l'ha voluto, come se in quella pratica non fosse manifesta la vera anima politica della revisione costituzionale. Per costoro la sovranità popolare sarebbe stata indotta ad esprimersi “di pancia”, quand'era chiamata invece a dare un giudizio “di testa”, scevro da ogni superficiale percezione emotiva.
Poiché ben pochi si sarebbero pronunciati “nel merito”, preferendo i più la via sbrigativa di trarre un bilancio sommario dal vissuto quotidiano, i “sinceri democratici”, invece di misurare la propria distanza da quel vissuto, s'interrogano aristocraticamente se al popolo debba essere concesso di essere consultato su questioni tanto complesse che, si sottende, non è in grado di capire [Vedi riquadro “Questioni complesse” a pag. 10].

Questioni complesse
Da un'intervista di Pier Luigi Vercesi a Lilli Gruber, “2016, l'anno in cui le élite hanno perso la strada”, Sette, magazine del Corriere della Sera, 30 dicembre 2016.
...Vercesi chiede del fenomeno Trump.
LG: «La disoccupazione negli Usa è al 5% circa, ma i salari sono peggiorati e la classe media scivola verso il basso. Si lavora di più e si viene pagati di meno. Trump indica Wall Street e la finanza internazionale come i cattivi. C'è del vero, naturalmente.»
PLV: «Ma lui non è il loro miglior rappresentante?»
LG: «Questo la dice lunga su come i fatti diventano irrilevanti quando l'opinione pubblica è arrabbiata. Noi, con il nostro referendum, ne siamo un esempio. Renzi l'ha personalizzato, e se anche non l'avesse fatto lui l'avrebbero fatto le opposizioni: era chiaro da mesi che stavamo andando verso un plebiscito su di lui. Quelli che hanno votato sulla Costituzione alla fine sono un'esigua minoranza, e c'è da chiedersi se questioni molto complesse debbano essere sottoposte a consultazione popolare. In Italia abbiamo una democrazia rappresentativa, quindi eleggiamo chi pensiamo possa rappresentarci al meglio e, si presume, con competenza. Ma ormai si è fatta una gran confusione. E in Europa è ancora peggio. Troppo spesso gli eurodeputati dicono una cosa a Bruxelles e il suo esatto contrario nel loro Paese(...)»

Ahinoi, dice Lilli Gruber, pur vigendo la democrazia della rappresentanza, non si può fare affidamento sulla “competenza” delegata ai deputati! Quelli europei hanno la lingua biforcuta e negano in patria ciò che sostengono a Bruxelles. Eppoi c'è troppa “confusione” in un momento in cui:
«Populismo e post-verità sono complementari, e l'intreccio rischia di diventare fatale.»26
Scambiando la trave per pagliuzza e la pagliuzza per trave, questa leva di “sinceri democratici” evita accuratamente di gettare lo sguardo proprio sulla grossolana distorsione della rappresentanza, permessa dal Porcellum, che ha consentito ad una maggioranza premium (PD), inesistente nelle urne, di inventarsi una delega alla riforma costituzionale mai chiesta né ottenuta dalla volontà popolare, per vedersela rigettata “al dunque” dalla maggioranza reale.
L'elenco delle ottusità mentali potrebbe proseguire. Al fondo c'è l'impossibilità di ammettere la radicale contrapposizione che sta dietro la perdita della via maestra delle “classi dirigenti”: da un lato le arroccate oligarchie globalizzatrici italiano-europee, fautrici del neo-costituzionalismo liberale; dall'altra la volontà popolare, alias la democrazia che, quando può esprimersi, si oppone alla loro direzione.
Una presa d'atto di realtà dalla quale non si scampa: né con “opportuni accenni” a qualche suo macroscopico fenomeno, quando gli enormi dislivelli di distribuzione della ricchezza trascurano i sistemici rapporti in cui si generano le diseguaglianze; né mettendo nello stesso sacco forze contrapposte, le xenofobe, razziste e neo-fasciste con le democratiche ed alternative, sotto l'etichetta unica stigmatizzante “dell'antipolitica” e del “populismo”; né cercando di stabilire delle “verità” ufficiali, ammesse dal potere.
La Veritàaaa27
In questione è la Rete che, dopo i successi nell'uso dei “social” ottenuto da Obama nelle sue campagne elettorali, sembrava essere sotto controllo.
Perché il libero confronto oggi non è più auspicabile ma diviene insostenibile e sarebbe addirittura “fatale” per la democrazia?
Bufale mediatiche28 vengono sistematicamente diffuse dall'establishment e dai suoi potenti mezzi. Non di rado a supporto di operazioni belliche micidiali: ricordate le “armi di distruzione di massa” detenute da Saddam Hussein?
Quando le “classi dirigenti” supponevano di dominare la scena mediatica nessun “controllo di verità” è stato mai invocato. Ora, invece, si scomoda persino l'Europarlamento e, al seguito, l'Autority italiana preposta alla libera concorrenza, per bocca di Giovanni Pitruzzella,29 il quale così giustifica l'inutilità ai fini anti-trust della istituzione di cui è capo.
Subito si scatena un coro per mettere all'indice “populismo” e “post-verità”. Ma anche in questo caso sarebbe molto riduttivo vedervi solo una polemica, per altro sterile, verso il Movimento 5 Stelle, intorno al criterio di verità ed a come stabilire quali siano le fake news, le bufale da uccidere nel grembo del Web.
Nella risoluzione dell'Europarlamento del 23 novembre 2016,30 si predica la limitazione della libertà d'espressione e del pluralismo, nonché la creazione di una lista nera di tutti coloro (Stati compresi) che fanno “disinformazione” e “propaganda ostile nei confronti della UE”, o tendono “screditare le istituzioni UE e i partenariati transatlantici”, ossia Nato e TTIP.
Se consideriamo che dietro al bersaglio della Russia di Putin ci sono gli Stati Uniti del neo-presidente Donald Trump, si comprende che il delirio maccartista dell'Europarlamento esala l'ultimo respiro di un'intera strategia europea.
Il liberalismo reale ci ha ricondotti direttamente, volutamente o meno, nella braccia del nazionalismo.
L'alter ego del liberalismo
Dopo aver cercato invano di riprendersi “benevolmente” la guida del mondo insieme all'Europa ed al Giappone, contro i BRICS ed in particolare contro Russia e Cina, gli Stati Uniti cambiano rotta. Non negano né il liberalismo, né il liberismo, né la volontà di supremazia. Vorrebbero disgiungerli da una globalizzazione avviata al declino dalle stesse politiche dell'amministrazione Obama.
Per favorire le loro produzioni nazionali pensano di abbassare l'imposizione fiscale interna, alzando dazi all'importazione, mentre completano muri e ripristinano frontiere selettive di merci e mano d'opera. In tempi di economia mondiale finanziarizzata, grazie a forsennate deregulations, quale sarà la sorte della “libera circolazione dei capitali”?
In attesa di comprendere come l'amministrazione Trump uscirà dalle numerose contraddizioni insite nel suo programma, risalta la virata nazionalistica “per rifare grande l'America”. Il liberalismo riapproda al nazionalismo, suo alter ego.
Fa impressione la celebrazione all'annuale vertice di Davos della Cina come campione della globalizzazione e del libero-scambismo, mentre l'Unione Europea viene considerata da Washington un cartoccio tramite il quale si realizza la politica mercantile della riunificata Germania. Pare che Trump punti ad un'intesa con la Federazione Russa, per indebolire il fronte degli emergenti, isolando la Cina, e di condizionare la Germania in Europa, anche tramite un rapporto privilegiato con il Regno Unito in uscita dall'Unione.
Resta da capire come la ripresa in grande stile dell'appoggio all'espansionismo israeliano possa combinarsi con un mondo arabo ed islamico in subbuglio e, soprattutto, con la lotta all'Isis ed al fondamentalismo jihadista sunnita patrocinato dall'Arabia Saudita.
Nel complesso, dopo aver avviato le deregulations e la globalizzazione mercantile e finanziaria, Usa e UK prendono atto che proseguire sulla via da loro stessi avviata, non conviene più. Cambiano strategia.
Gli States sconfessano il TTP sul Pacifico e la continuazione della guerra fredda contro la Federazione Russa in Europa, chiedendo che la Nato sia spesata da chi ne trae utilità. In uscita dall'Unione, lo United Kingdom è disponibile ad un accordo bilaterale privilegiato di libero scambio, ma vorrebbe al contempo conservare buoni rapporti con i Paesi del Nor-Est europeo. Il TTIP, la “Nato economica” come ebbe a definirla la signora Clinton, sul quale contava il governo Renzi, non sembra avere futuro.
Il ritorno al nazionalismo mette in crisi tutte le teorie cosmopolite sulla globalizzazione, vista esulando dai rapporti politici reali e dalla persistente presenza (armata) delle maggiori potenze, se non addirittura spacciata da taluni per internazionalismo. Come se l'Impero sia mai vissuto senza imperialismo...
Tandem: il liberalismo guida la democrazia
Il tandem
è definitivamente avviata la post-globalizzazione? Di sicuro ritorna il nazionalismo che, rafforzando le cause qui esposte, spinge al disfacimento dello storico tandem, a raffigurazione della liberal-democrazia.
Minato dalla disgregazione e dall'esclusione sociale che ha pervicacemente generato, in perdita della egemonia mass-mediale sul consenso di massa, in disgiungimento dalla democrazia, il liberalismo reale riapproda al nazionalismo, con il suo immancabile portato di xenofobia, razzismo e neo-fascismo.
In controtendenza, se con la globalizzazione il capitalismo cercò di sfuggire ai movimenti di lotta, sociali e di liberazione, disperdendoli, come teorizzò il liberale e liberista Friedrich von Hayek nel corso del secondo conflitto mondiale, il ritorno allo Stato-nazione permette a quei movimenti di avere maggior presa.
Il nazionalismo non significa indipendenza nazionale, né ripristino della sovranità popolare in quella nazionale. Per i Paesi periferici dell'UE, fortemente indeboliti negli ultimi lustri, le “due sovranità” vanno riconquistate insieme, proprio contro il nazionalismo che invariabilmente finisce per contrapporle.
In questo cimento, la sovranità popolare e democratica o vive nel potere dei “poveri”, di lavoro, di reddito, di libertà sociali e civili sostanziali, per la liberazione e la solidarietà tra i popoli, o soccombe.
Ci troviamo in uno passaggio stretto e, forse, prolungato, da percorrere con tutti coloro che vogliono e vorranno sbarazzarsi della globalizzazione delle oligarchie finanziarie, impedendo al subentrante liberal-nazionalismo di imporsi. Abbiamo conosciuto le “nuove” conseguenze dell'una e sappiamo già riconoscere le conseguenze dall'altro.

Note:
1 http://www.treccani.it/enciclopedia/democrazia/
2 Si tratta del Mattarellum, ritornato agli onori della cronaca.
3 La Suprema Corta ha bocciato sia il Porcellum (dicembre 2013) sia l'Italicum (gennaio 2017) e li ha “depurati” di alcune loro parti.
4 Reimportato in Europa nella quale era nato, come sostiene Samir Amin, in “Il virus liberale”, Asterios e Punto Rosso, 2004.
5 In forza dell'art. 80 non è ammesso il referendum per le leggi di autorizzazione a ratificare trattati internazionali.
6 Che un guru del giornalismo nazionale come Eugenio Scalfari (su La Repubblica di inizio ottobre) non distingua tra democrazia ed oligarchia, appare perciò perfettamente comprensibile.
7 Gaspare Nevola, “Democrazia, costituzione, identità – Prospettive e limiti dell'integrazione europea”, Liviana, 5/2007. Le citazioni virgolettate in paragrafo e nel riquadro “Test dirimente”, sono tratte da questo testo.
8 Vedasi in particolare Fernand Braudel, “I tempi del mondo – Civiltà materiale, economia e capitalismo (secoli XV-XVIII)”, Giulio Einaudi, 1982 (edizione francese 1979).
9 Non negli Stati Uniti d'America, dove la schiavitù fu abolita formalmente solo dopo la guerra di secessione (1861-1865).
10 In Italia, nel 1913, il patto Gentiloni rimosse il divieto ai cattolici, frapposto dal Vaticano, di partecipare alla vita politica attiva del Regno. Nello stesso anno il suffragio diventò semi-universale.
11 Vedasi a questo proposito: Luciano Canfora, “La democrazia – Storia di un'ideologia”, Laterza 2004, ultima edizione 2010.
12 Periodo dal 1946 al 1975, definito i “Trenta Gloriosi” nel titolo di una pubblicazione dell'economista francese Jean Fourastié, comparsa nel 1979.
13 J.P. Morgan, “The Euro area adjustment: about halfway there”, capitolo “The journey of national political reform”, Europe Economic Research, 28 May 2013.
14 Tra gli altri Giuliano Amato ed Augusto Barbera, attuali giudici costituzionali, in carica per scelta di Giorgio Napolitano e del PD.
15 Vedi nel Blog, il Post “La pera sociale”, dicembre 2016.
16 Luciano Barra Caracciolo, “Euro e (o) democrazia costituzionale – La convivenza impossibile tra Costituzione e Trattati europei”, Dike, settembre 2013.
17 Diede piena attuazione e copertura costituzionale alla riforma denominata “Federalismo a Costituzione invariata” del 1997.
18 Per consentire il voto degli italiani all'estero fu necessario introdurre in Costituzione la circoscrizione estero, non prevista alla sua stesura nel 1948.
19 Con legge costituzionale venne introdotto in Costituzione il “principio del pareggio di bilancio”, modificando gli articoli 81, 97, 117 e 119 della Carta.
20 Secondo la nota interpretazione di Zygmunt Bauman.
22 Anche per l'opposizione dell'allora sindaco di Firenze Matteo Renzi che disse: "Così si fa vincere Grillo".
23 Unità.tv@unitaonline· 23 dicembre 2016
24 Nel 1906 i deputati della III Repubblica francese si aumentarono di ben volte, da 9.000 a 27.000 franchi, l'indennità.
25 Nel Regno Unito la disputa legale sollevata davanti alla Suprema Corte, per invalidare il responso referendario, altro non dimostrano se non il conflitto tra democrazia delegata, parlamentare, e democrazia diretta popolare.
26 Lilli Gruber nell'intervista citata nel riquadro “Questioni complesse” a pag. 10.
27 Dal titolo del film di Cesare Zavattini, uscito nel 1982, che poneva la questione a livelli assai diversi rispetto agli attuali.
28 Vedasi anche Vladimiro Giacché, “La fabbrica del falso”, Imprimatur, 2016.
29 Intervista al ”Financial times”, 30 dicembre 2016. https://www.ft.com/content/e7280576-cddc-11e6-864f-20dcb35cede2
30 Risoluzione del Parlamento europeo del 23 novembre 2016 sulla comunicazione strategica dell'UE per contrastare la propaganda nei suoi confronti da parte di terzi (2016/2030(INI)).


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