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Gli Stati Uniti restano centro della finanza globale e prima potenza finché il petrolio si scambia in dollari - Motivi della crisi venezuelana. La minaccia di un intervento militare esterno. Il difficile passaggio ad un mondo multilaterale. Il ruolo delle armi nucleari.
Nell'agosto
del 1990 una coalizione internazionale capeggiata dagli Stati Uniti
intervenne contro l'Iraq di Saddam Hussein che, per ripagarsi dei
servizi loro resi aggredendo l'Iran di Khomeyni (la guerra Iraq-Iran
fu sanguinosissima e durò dal 1980 al 1988) si era annesso il
Kuwait. Fu la prima Guerra del Golfo di Bush padre, alla quale seguì
la seconda (2003) di Bush figlio. Nell'aspro dibattito sulla
“legittimità” di quel primo intervento bellico,1
dal mondo cattolico pacifista fu posta la domanda: "Che
avrebbero fatto Bush e i suoi alleati se il Kuwait avesse prodotto
solo broccoli?"2
Quella
domanda oggi si ripresenta: se il sottosuolo del Venezuela non
celasse la più grande riserva di petrolio mondiale ed altri minerali
strategici e preziosi, gli Stati Uniti considererebbero “sul
tavolo” anche l'opzione militare? Aggiungo: la crisi venezuelana
avrebbe assunto i connotati internazionali ed interni che le vengono
attribuiti?
Ovviamente
i “broccoli” del Venezuela sono le sue risorse minerarie. Ma non
solo. Lo sono anche i progetti, tra cui quello venezuelano,3
di sostituire il dollaro nelle transazioni petrolifere, andando a
minare le basi monetarie e finanziarie del dominio statunitense.
Perciò lo scontro interno ed esterno al Venezuela coinvolge gli
assetti del mondo e le relazioni internazionali, ivi comprese quelle
dipendenti dagli armamenti convenzionali e nucleari.
A
scavare nella crisi del Golfo ed ai reali motivi delle guerre dei
Bush fu un vasto movimento per la pace che seppe andare oltre
l'oggetto immediato del contendere: il petrolio. Quel movimento, non
caso, divenne “no global”.
Oggi
come allora, per comprendere la crisi venezuelana, occorre partire
dai suoi “broccoli” per andare oltre, tenendo presente che, nel
frattempo, il mondo ha vissuto significativi cambiamenti. Proprio a
causa della globalizzazione in quegli anni vincente ed ora in crisi.
Di
fronte agli Stati Uniti di Donald Trump che, riesumando la dottrina
Monroe,4
sembrano non voler dismettere il vecchio ruolo di gendarmi del mondo,
a cominciare dal “cortile di casa”, qualcuno rimpiange Obama e la
sua politica estera, scordando che fu lo stesso Obama a varare le
prime sanzioni sulla base dell'accusa rivolta al Venezuela di
costituire «una minaccia insolita e straordinaria per la sicurezza
nazionale e la politica estera degli Stati Uniti».
Fatto
sta che tra sanzioni, riconoscimenti, aiuti umanitari e minaccia di
guerra umanitaria, pare di rivedere un vecchio film, nel quale gli
usuali strumenti di Washington si combinano in una strategia di
révanche. Un film nel
quale ancora una volta l'autonomia politica della Unione europea si
smarrisce. Benché, e non è poca cosa, alcuni Paesi europei, tra cui
Italia Grecia e Norvegia, non si siano prontamente e pavlovianamente
allineati.
Sul
fronte decisamente opposto troviamo Cina e Russia, divenuti nel
frattempo “paesi emergenti”, i quali, nella difesa del presidente
Maduro e nel ribadire il principio di non ingerenza negli affari
interni del Venezuela, mostrano di non volere rinunciare ad un
riassetto multilaterale del mondo.
Il
braccio di ferro
Il
governo del Venezuela è disputato da “due presidenti.” Nicolás
Maduro,
erede di Hugo
Chávez, nel 2018 è stato eletto presidente da un suffragio
boicottato
dall'opposizione, la quale, in maggioranza nel parlamento (eletto nel
2015), ha nominato Juan Guaidó presidente ad
interim.
La
costituzione bolivariana non prevede un simile caso, se non in
presenza di una vacanza di potere presidenziale. Poiché una tale
vacanza non è riscontrabile, continuando Maduro ad esercitare i suoi
poteri, la lettura del dettato costituzionale da parte
dell'opposizione è capziosa.
A
dare forza al “golpe bianco” di Guaidó sono le manifestazioni di
massa in suo favore e l'emergenza umanitaria in cui versa il paese,
attanagliato da una forte crisi economica, nonché i riconoscimenti
internazionali, degli Stati Uniti in primo luogo e di molti governi
al seguito.
Non si tratta però, come viene spesso affermato, della
“comunità internazionale”, salvo che da essa, Cina e Russia al
pari di tanti altri stati, ne vengano espulsi per decreto mediatico.
Juan Guaidò mostra il ritratto di Simon Bolivar |
Per
esercitare i poteri di governo Guaidó ha bisogno delle forze armate
che, tranne limitate defezioni, sembrano saldamente schierate con
Maduro. Ciò ha indotto Guaidó a dichiarare5
che qualora i militari non lo abbandonino, non avranno l'amnistia
promessa dalla Organizzazione degli Stati americani e dal Gruppo di
Lima.6
Perdurando
l'atteggiamento delle forze armate a sostegno di Nicolás
Maduro,
il braccio di ferro tra i “due presidenti” è destinato a
continuare, a meno che un intervento militare dall'esterno non
trasformi il “golpe bianco” in “golpe nero”. Ne potrebbe
derivare un sanguinoso scontro armato in terra venezuelana e gravi
ricadute sulle relazioni internazionali.
All'interno
Maduro non gode solo di un appoggio
attivo da parte dei soldati e dei settori popolari
che non hanno dimenticato i programmi contro la dilagante povertà
messi in atto dalla revolución
bolivariana,
ma pure di un appoggio
passivo della borghesia nazionale.
Quest'ultima, legata ai graduati dell'esercito, teme di ritornare
alla IV repubblica dominata da una oligarchia di poche famiglie e dal
sottobosco della borghesia compradora,
subalterne
al Grande Fratello nord-americano. Buona parte della borghesia
nazionale pur non amando Maduro, diffida di Guaidó, il quale ne
cerca insistentemente il consenso, presentandosi nella veste
democratica nazionale, rispettoso della costituzione bolivariana e
fautore della “transizione incruenta”. Consenso che si
allontanerebbe, qualora si rendesse responsabile di un'intervento
armato esterno anti-nazionale, privo di una “suprema”
motivazione. Da qui l'insistente narrazione di aiuti umanitari
bloccati alle frontiere, i quali, nel caso, potrebbero richiedere
l'uso di una “coalizione internazionale” per essere consegnati a
soccorso della popolazione stremata, affamata e malata.
Mancando
l'avallo dell'ONU, sarebbe un'aggressione in violazione del diritto
internazionale, travestita da “guerra umanitaria”. Ossimoro in
uso dalla guerra del Kosovo voluta da Bill Clinton, a cui partecipò
il governo D'Alema.7
Di
solo petrolio
Come
un Paese tra i più ricchi al mondo di risorse minerarie [vedi
sotto la finestra dedicata] sia
potuto precipitare in una così grave emergenza umanitaria, di
carenza alimentare e sanitaria, non può essere spiegato unicamente
dagli errori del governo di Nicolás
Maduro.
Risorse
minerarie
Petrolio
e gas,
gestiti dalla società statale PDVSA, sono le principali risorse
minerarie di cui il Venezuela era il primo
produttore mondiale.
Le
sue riserve petrolifere sono le prime al mondo e, stimate in barili,
superano quelle dell'Arabia Saudita, come risulta dal grafico (dati
OPEC).
Il
Venezuela figura anche tra i maggiori produttori mondiali di
oro
e ferro,
bauxite, cobalto
e
altri, tra i quali: diamanti,
asfalto, amianto, magnesite, carbone e fosfati.
Benché
sia presente una corruzione non sufficientemente repressa, il governo
bolivariano è soprattutto responsabile di una “monocoltura”, in
questo caso non agricola bensì petrolifera. Quando negli anni della
presidenza di Hugo Chávez, pressati dalla immediata necessità di
sollevare i milioni di poveri dalla miseria, si pensò forse di poter
contare per lungo tempo sui ricavi provenienti dall'export del
barile. La mancanza di una sufficiente articolazione e
diversificazione dell'economia venezuelana doveva inevitabilmente
presentare il conto. Nello stesso settore minerario le iniziative,
che evitassero di puntare tutto su petrolio e gas, giunsero tardive,
sebbene impostate in modo eco-compatibile.8
Pertanto,
la crisi attuale è venuta proprio e soprattutto da quel settore su
cui si è fatto quasi esclusivo affidamento. In mancanza dei ricavi a
suo tempo garantiti dal petrolio, le importazioni, di cui il
Venezuela ha assoluta necessità, si sono bloccate. Ciò non è
avvenuto senza il contributo decisivo del Grande Fratello
nord-americano, il quale ha colpito il Venezuela nel suo punto debole
(che sembrava quello forte).
Elenco
i momenti della crisi in sequenza temporale:
- il crollo del prezzo del barile in seguito alla crisi del 2007-2008, che ha ricominciato a salire solo tra il 2017 ed il 2018, dopo aver raggiunto nel 2016 il suo minimo dal 2006;
- l'esodo di personale tecnico addetto all'estrazione-produzione, attratto dalle remunerazioni offerte dalle maggiori compagnie mondiali del petrolio;
- le sanzioni volute dagli Stati Uniti che hanno provocato effetti negativi sia sul commercio (colpendo l'export e l'import), sia su quello finanziario (accesso al credito);
- il forte calo delle estrazioni che nel solo mese di novembre del 2018 sono diminuite di 216mila barili al giorno, portando la perdita nell'anno a quasi -30%;
Il
ruolo delle sanzioni
Tenendo
presente la sequenza di cui sopra, appare chiaro il ruolo delle
sanzioni [vedi nella finestra “Sanzioni USA”,
in pagina]. Un Paese che dipende dalle esportazioni di un
unico prodotto, il petrolio, viene colpito al cuore se è sottoposto
a sanzioni. Esse impediranno ai Paesi destinatari di importare e di
essere “pagati” in valuta per i beni che volessero, a loro volta,
esportare verso quel Paese.
Sanzioni
USA
Legate
al narco-traffico (Bush figlio).
La
mancata firma di Hugo Chávez
all'Addendum al Memorandum
of Undertanding
bilaterale del 1978 sarebbe stata la causa di queste sanzioni.
Secondo Chávez
l'addendum, fornendo fondi per progetti congiunti di lotta al
narcotraffico ed istituendo programmi di formazione anti-riciclaggio,
rendeva permeabile la struttura di governo bolivariana ai voleri di
Washington. Nell'occasione furono espulsi i funzionari della DEA
(Drug
Enforcement Administration)
statunitense che vennero accusati di attività di spionaggio,
sabotaggio, traffico di droga, infiltrazioni e violazione della legge
per screditare il Venezuela nella lotta al narcotraffico.
Legate
al terrorismo (Bush figlio).
Vengono
istituite nel 2006 per le relazioni intrattenute dal Venezuela con
gli “stati canaglia” Cuba e Iran.
Legate
alla tratta delle persone, alle azioni antidemocratiche e alla
violazione dei diritti umani (Barack Obama).
Istituite
dal 2014. Il Venezuela viene inserito dal Dipartimento di Stato degli
Stati Uniti tra i paesi del livello 3, quelli i cui governi non
rispettano pienamente gli standard minimi di legge (statunitense)
sulla protezione delle vittime di tratta. A fine 2014, il congresso
USA promulga la “Legge sulla difesa dei diritti dell'uomo e della
società civile in Venezuela”.
A
marzo del 2015 Obama emette l'ordine esecutivo 13692 che, oltre a
colpire chi aveva contribuito a fermare la guerriglia nel 2014,
stabilisce che il Venezuela “costituisce una minaccia insolita e
straordinaria per la sicurezza nazionale e la politica estera degli
Stati Uniti.” Pertanto Obama dichiara “l'emergenza nazionale per
fra fronte a tale minaccia.”
Di
ordine economico (Donald Trump).
Trump
rinnova ed estende le precedenti sanzioni, di “emergenza
nazionale”, e ne impone di ulteriori di ordine economico. Le
motivazioni sono sempre in difesa dei diritti umani, della democrazia
e contro la repressione dell'opposizione politica.
Nell'agosto
del 2017 Trump emette l'ordine esecutivo 13808 che limita fortemente
l'accesso ai mercati finanziari statunitensi da parte del governo
venezuelano e dalla sua compagnia petrolifera statale (PDVSA). Trump
estende le sanzioni a tutti coloro che negozino con un'istituzione
pubblica venezuelana.
Poi,
nel marzo 2018, emette l'ordine esecutivo 13827 contro l'entrata in
vigore della fase operativa della criptovaluta Pedro (annunciata da
Maduro): proibisce le transazioni connesse all'uso della moneta
digitale che viene ritenuta pericolosa per l'egemonia del dollaro,
soprattutto nel commercio del petrolio OPEC.
Con
l'ordine esecutivo 13835, del maggio 2018, vieta le transazioni
relative al debito venezuelano, compresi i crediti, e di qualsiasi
debito verso il Venezuela impegnato come collaterale. Il 1° novembre
dello stesso anno, tramite l'ordine esecutivo 13850, congela il
patrimonio di qualsiasi persona operi nel settore dell'oro o, a
discrezione, in qualsiasi altro settore dell'economia, sia
responsabile o complice in transazioni che implichino “pratiche
ingannevoli o corruzione”.
Tutte
le sanzioni prendono a bersaglio singoli individui, identificati
quali responsabili venezuelani delle violazioni della legge
“universale” stabilita dagli Stati Uniti. Inoltre, per quanto
concerne l'economia, prevedono delle esclusioni a tutela degli
interessi di persone ed imprese statunitensi.
[Liberamente
tratto da:
Le
sanzioni prima di Bush junior e Obama, poi di Trump, sono tese
non solo a bloccare i commerci, ma pure a preservare il ruolo
dominante del dollaro USA nelle transazioni internazionali.
Inoltre,
aspetto collegato al ruolo del diritto ed alla sua validità,
esprimono tutto il desiderio di imporre le proprie leggi come
“universali”, con la sottintesa minaccia che, qualora gli
“imputati” cadessero nelle loro mani, verrebbero giudicati
secondo tali leggi. Se vi fosse qualche dubbio, a riguardo, sono le
stesse parole prima citate di Guaidó a proposito dell'amnistia, a
fugarle. Insieme alla propensione del “presidente ad interim” ad
assecondare la strategia del Grande Fratello ai danni della sovranità
suo paese.
Alla
escalation
delle sanzioni è venuta ad aggiungersi, a suggello, la pratica dei
riconoscimenti internazionali. Essa subentra, dopo che il
Paese è stato spinto in condizione di grave crisi umanitaria, per
destituire il presidente Maduro dall'esterno, riconoscendo come
legittimo quello alternativo di Guaidó, autoproclamatosi tale.
In
tal modo la sua sovranità viene avocata e la sua indipendenza
minacciata da un intervento militare che pretende di assumere sul
piano internazionale sia la veste umanitaria che legale.
Il
nervo scoperto
Nel
dibattito sulla posta in gioco attorno alla crisi del Venezuela si è
inserita la voce controcorrente di Pino Arlacchi. In due articoli,
apparsi su “Il Fatto Quotidiano”, prende chiara e motivata
posizione contro le pretese degli Stati Uniti.
è
professore ordinario di Sociologia generale presso
l'Università
di Sassari.
Amico
dei
giudici Chinnici, Falcone e Borsellino, è stato presidente onorario
della Fondazione Falcone e tra gli ideatori della strategia antimafia
italiana negli anni Novanta dello scorso secolo. Deputato e senatore
del Partito democratico della sinistra e vicepresidente della
Commissione parlamentare antimafia, si è dimesso dal Senato per
ricoprire l'incarico, dal
1997 al 2002
di vicesegretario
generale dell'ONU.
Direttore esecutivo dell'Onodc (United
Nations Office on Drugs and Crime)
è stato anche direttore generale dell'ufficio delle Nazioni unite di
Vienna. Deputato al Parlamento europeo con L'Italia
dei Valori, ha poi aderito al PD e al gruppo dell'Alleanza
progressista dei socialisti e dei democratici europei.
È
autore del libro “I
padroni della finanza mondiale – Lo strapotere che ci minaccia e i
contromovimenti che lo combattono”,
uscito nel 2018 per Chiarelettere, nel quale fa riferimento alle idee
di Karl
Polanyi.
Nel
primo articolo9
riprende i dati e l'analisi contenuti nel rapporto dell'esperto Onu
Alfred De Zayas,
il
quale, dopo la visita effettuata in Venezuela nel 2017, propose il
deferimento degli Stati Uniti alla Corte Penale Internazionale per i
crimini contro l’umanità perpetrati in Venezuela dopo il 2015.
Nel
secondo articolo,10
oltre alla «voglia delle élite americane di afferrare finalmente in
Venezuela la preda agognata, sfuggitagli in Russia negli anni '90, e
in Iraq e Libia dopo: le riserve di un grande produttore di
idrocarburi (...)», mette in luce «un'ulteriore, poco conosciuta,
matrice di ostilità: la
sfida all'egemonia del dollaro lanciata da Chavez-Maduro proprio
all'alba della de-dollarizzazione dell'economia mondiale.
La decisione del Venezuela di evitare l'uso del dollaro nelle
compravendite di petrolio e di creare un sistema di scambi con
l'estero, il
Sucre,
basato su una cripto-moneta, il
Pedro,
garantita dal suo petrolio e da altre risorse, ha toccato il nervo
scoperto della finanza americana. E ne ha scatenato la collera.»
Quanto
all'Europa, Arlacchi aggiunge: «(...) la minaccia euro alla
supremazia del dollaro si è sgonfiata poco dopo la creazione della
moneta unica. Il suo peso nelle transazioni globali è sceso dal 30%
delle origini al 20% attuale. Per i padroni della finanza mondiale è
sufficiente mantenere l'attuale frattura tra Ue e Russia perché
l'euro resti dove si trova.»
Moneta
e dominio
Condividendo
le osservazioni di Arlacchi, mi preme evidenziare due aspetti
ulteriori.
La
prima attiene al ruolo della moneta in generale: non è un semplice
“velo” che copre gli scambi senza alcuna influenza sui fenomeni
reali. Non è “neutrale” in meri rapporti economici, tanto più
in un mondo finanziarizzato, bensì uno strumento di politica
economica connessa alle pratiche internazionali di dominio. Se così
non fosse, gli Stati Uniti trascurerebbero di preservare la posizione
preminente del loro dollaro ed avrebbero aderito alla proposta cinese
di dar vita ad una nuova valuta internazionale di riserva, sul
modello del bancor
proposto da J.M. Keynes in vista della conferenza di Bretton Woods
del luglio 1944.
La
storiella della moneta “velo”, basata sulla teoria quantitativa
classica, è stata raccontata anche allorché venne introdotto
l'euro. Anche in questo caso smentita dai fatti, come conferma un
recente studio di un think
tank
tedesco, liberista e conservatore.11
La
qual cosa dimostra che, alla base del calo dell'uso dell'euro negli
interscambi globali, sta la subalternità dell'Ue agli Stati Uniti ed
al suo centro finanziario (come sostiene Arlacchi) che, tuttavia,
non
basterebbe
se non si aggiungesse alla sua cronica inconsistenza politica, minata
all'interno dalla dilatazione degli squilibri tra le sue economie
nazionali, alla quale la moneta unica ha fortemente contribuito.
Se
traballa il dollaro, non riuscendo a nascondere la decadenza
dell'imperialismo statunitense, non di meno traballa l'euro, dietro
al quale invano si nasconde il nazionalismo egemonico teutonico (a
sua insaputa?) sul vecchio continente, fonte permanente di
disgregazione, inaccettabile ed inaccettato.
Bombe
Nella
disamina di Arlacchi colpisce la connessione tra ruolo del dollaro ed
armamenti nucleari:
«La
de-dollarizzazione è in pericolo mortale. I suoi segnali vanno
soffocati sul nascere. Come? Nel caso di Paesi relativamente
marginali e non dotati di armi nucleari, perché disarmati in
precedenza dall'Onu come l'Iraq o convinti ad abbandonare i programmi
nucleari come la Libia, si può andare per le spicce. L'Iraq è stato
invaso perché non aveva l'atomica.
Nel
caso dell'Iran – potenza di medio rango in via di
de-dollarizzazione che produce petrolio senza dipenderne
integralmente e in grado di acquisire in tempi brevi l'atomica –
occorre più cautela. L'ideale è spingere il Paese a disarmare e poi
colpirlo e ri-dollarizzarlo. (...)»
Il
rapporto tra imperio del dollaro, della sua finanza, ed armi nucleari
era già stata sollevata, tra gli altri, da Elido Fazi nel 2012.12
Secondo
Fazi, per riaffermare la signoria del dollaro, gli States
erano passati dal dollar
exchange standard ad
uno standard dollaro-petrolio:
«Cos'era
successo, Gli Stati Uniti avevano dovuto abdicare al cambio fisso con
l'oro, che aveva permesso loro di far crescere l'economia per tre
decenni. Per questo, avevano architettato un sistema per legare la
loro moneta al petrolio. L'accordo siglato con i sauditi portò ben
presto anche tutti gli altri membri dell'opec a seguire la medesima
strada. Si
era di fatto stabilito uno standard.
Tutti i paesi che dovevano importare petrolio erano obbligati a
conservare vaste riserve di dollari per acquistare il greggio. Chi,
invece, lo esportava, otteneva in cambio dollari, che venivano
reinvestiti per lo più nell'economia americana.»
Negli
sviluppi successivi, tuttavia, gli Stati Uniti videro crescere un
enorme deficit della loro bilancia dei pagamenti, di cui quella
commerciale è solo una parte. Sono anni in cui il dollaro corre nel
vuoto. Sicché «gli squilibri strutturali degli usa non sarebbero
stati sostenuti in eterno, a
meno che non venissero difesi con una serie continua di guerre.»
A
tale proposito Elido Fazi ricorda le funeste previsioni del suo amico
Gore Vidal, contenute nel suo “La fine della libertà”,
pubblicato all'indomani dell'11 settembre 2001.13
Tra queste “Iraq
first, Iran next”,
perché il «petrolio rappresentava, da un certo punto di vista,
l'ultimo grande laccio che teneva la comunità internazionale
indissolubilmente legata alla valuta americana».
è considerato
il più grande scrittore statunitense del Novecento.
Tra
i suoi numerosi libri: “Impero”, Fazi Editore, 2002.
Le
guerre di Bush junior
confermarono le previsioni di Vidal, mentre il ritiro dall'accordo
sul nucleare iraniano da parte di Washington (non disconosciuto
dall'Ue) lasciano aperta la possibilità che l'Iran sia il prossimo
bersaglio, a cui potrebbe fare da battistrada un intervento in
Venezuela.
D'altro
canto, è pur vero che Trump ha intavolato una trattativa col
“diavolo nord-coreano”, detentore della bomba, mentre si rifiuta
di farlo con l'Iran e minaccia tutti coloro che intrattengono
rapporti con Teheran di subire severe sanzioni.
Cose
nostre
Date
le motivazioni, Pino Arlacchi rappresenta una anomalia in seno al PD.
Non è comunque il solo a nutrire delle riserve. Agli inizi di
febbraio, quando il Parlamento europeo votò a larga maggioranza per
il riconoscimento di Juan Guaidó, 5 europarlamentari del PD
(Benifei, Bettini, Briano, Cozzolino, Kyenge) si astennero, insieme a
quelli del M5S e della Lega. Mentre i pentastellati si riconoscevano
nella posizione del governo italiano, la Lega si astenne solo per non
contrapporvisi, avendo Salvini dichiarato ai quattro venti che stava
dalla parte di Washington.
In
questa controversa vicenda ritroviamo alcuni elementi dirimenti sulle
scelte politiche di fondo, in questo caso non nazionali (vedi TAV) ma
internazionali. Mentre Salvini ancora una volta mostra una
opportunistica e pericolosa disinvoltura nel passare da una posizione
all'altra, dalla difesa della sovranità nazionale al suo opposto,
dall'elogio a Mosca al suo opposto, compattandosi con Forza Italia e
Fratelli d'Italia, il PD (come sul TAV) mostra di condividere le
posizioni del vecchio regime europeo, e di Salvini, piuttosto che
discostarsene.
In
base a queste scelte, qualora cadesse il governo Conte, sarebbe più
logico che gli subentrasse un governo di “larga coalizione”, con
il solo Movimento 5 Stelle all'opposizione, visto che anche LeU sulla
questione venezuelana (come sul TAV) è divisa, incerta e confusa.
Solo una componente (capeggiata da Stefano Fassina) di Sinistra
Italiana, a sua volta aderente a LeU, diverge da quella di coloro i
quali, sebbene si siano separati dal PD, ne hanno una totale
nostalgia e gli restano aggrappati pur far parte di una coalizione di
centro-sinistra. Essa dovrebbe ricomporsi per rieditare il
bipolarismo, in alternativa ad un ricomposto centro-destra, dal quale
comunque, sui temi essenziali, non riesce a distinguersi.
Mi
pare importante sottolineare, ai fini della presente analisi, che
nella presentazione del Manifesto per la Sovranità Costituzionale,
Fassina,14
di cui sono note le critiche al sistema euro, faccia espresso
riferimento
al “momento
Polanyi”:
«La
nostra valutazione è che la Brexit, l'elezione di Trump, il nostro
referendum del 4 Dicembre 2016 e, dopo, i risultati di tutte le
elezioni politiche nei Paesi europei segnano un passaggio di fase. La
regolazione liberista, propria del capitalismo globale trainato dalla
finanza, si è rivelata insostenibile sul piano ambientale,
economico, sociale e democratico.
"History
is back",
scriveva The Economist nell'editoriale dopo il terremoto alla Casa
Bianca. Per noi, siamo al "momento Polanyi": la società,
in particolare le classi medie, si ribella al dominio dell'economia e
invoca il ritorno della Politica a sua difesa.»
Nel
riferimento al “momento Polanyi”, Fassina incontra Pino Arlacchi
e la spiegazione del “Contromovimento” della società in
opposizione al dominio della finanza, presente nel suo ultimo libro.
Addomesticamenti
Guardando
in casa nostra, in Italia ed in Europa, si direbbe che non solo il
Venezuela è vittima di un addomesticamento. Certo non da fame, come
Washington tenta di fare ai danni del Venezuela sottoposto ad
embargo, ma politico.
Sennonché
seguire l'alleato nord-americano sulla via del petrolio-dollaro porta
alla guerra. E qui, dopo aver lanciato il sasso, la mano europea si
ritrae timorosa e spaventata dagli effetti, come se non fossero
prevedibili. Dopo avere baldanzosamente riconosciuto Guaidó, ora la
Ue, come altri Stati dell'America Latina, teme che ai pronunciamenti
possa seguire un ricorso alle armi, al quale però si dice contraria.
È
in questa contraddizione che l'atteggiamento del governo italiano, se
confermata, mostra di essere più lungimirante di quello dettato dal
parlamento e dalla maggioranza dei governi europei. Giacché lascia
un più ampio margine al negoziato, alla ricerca di una soluzione
pacifica, la quale ha bisogno di una mediazione internazionale. Ad
essa può contribuire papa Francesco, al quale si è espressamente
rivolto il presidente Maduro.
La
china è assai pericolosa, perché l'Iran da un addomesticamento da
fame del Venezuela o, peggio, da un intervento bellico a guida
statunitense, ricaverà immediatamente la conseguenza che non dotarsi
della bomba nucleare significa dover sottostare poi ai voleri di
Washington e, nel vicino Oriente, del governo israeliano (dotato di
bomba nucleare) che non ha mai fatto mistero delle sue intenzioni.
Analogamente
altri Stati potrebbero trarre le medesime conclusioni, scatenando una
corsa agli armamenti nucleari.
Perciò
opporsi all'addomesticamento del Venezuela, tanto più per via
militare, è di vitale importanza per la pace mondiale.
Se,
come sostiene Carlin Petrini, siamo alla vigilia di un nuovo '68, un
nuovo movimento non potrà che unire la coscienza ambientalista, per
la salvezza della vita umana sul pianeta, alla coscienza contro la
guerra che nutre anch'essa la medesima finalità.
Note
1
Saddam si era impadronito di uno Stato confinante e coloro che gli
si opposero annunciarono l'intervento militare in nome del diritto
internazionale violato.
2
http://www.fmboschetto.it/utopiaucronia/Grande_Muraglia_Romana_7.htm
3
Il Venezuela ha assunto
nell'anno in corso la presidenza di turno dell'OPEC.
4
La
dottrina Monroe (1823),
esprime l'idea della supremazia degli Stati Uniti sul continente
americano.
Di recente, vi
ha fatto esplicito riferimento il consigliere di Trump per la
sicurezza, John Bolton.
5
Guido Gazzoli, intervista a Juan Guaidó,
“I militari mollino Maduro o non avranno l'amnistia”, il Fatto
Quotidiano, 3 marzo 2019.
6
Formato da 12 paesi dell'America del Nord e del Sud. È considerato
il “blocco anti-Maduro”. Tra
i fondatori di tale blocco vi sono Argentina, Brasile, Colombia,
Canada e Messico. Per il momento, gli Usa hanno deciso di
partecipare alle iniziative del forum soltanto in qualità di “Paese
osservatore”.
7
L'intervento militare della NATO (1999) nella crisi del Kosovo
contro la Serbia, voluto dal presidente Clinton, assunse il nome di
“guerra umanitaria”. Il governo D'Alema concesse alla NATO l'uso
delle basi aeree in Italia.
8
“Venezuela, le miniere saranno l'alternativa alla schiavitù del
petrolio”, Greenreport, 29 agosto 2016.
9
Pino Arlacchi, “Io,
ex vicesegretario dell’Onu vi spiego il grande imbroglio della
crisi in Venezuela, tra Wall Street e petrolio”, Il Fatto
Quotidiano, 27/2/2019.
10
Pino Arlacchi, “Dollari
& Petrolio: perché l'America azzanna Caracas”, Il Fatto
Quotidiano, 9/3/2019.
11
Il
Center
for european politicy
ha fatto i conti dei guadagni e delle perdite di reddito di ciascun
Paese, dal 1997 al 2017. In miliardi di euro, risultano in attivo:
Germania (+1.893) ed Olanda (+346). In passivo: Spagna (-224),
Portogallo (-424),
Francia (-3.591) ed Italia
(-4.325).
12
Elido Fazi, “La terza guerra mondiale? - La verità sulle banche,
Monti e l'Euro”, Fazi Editore, febbraio 2012.
13
Gore Vidal, “La fine della libertà – Verso un nuovo
totalitarismo?”, Fazi Editore, 2001.
14
Il 7 febbraio, le associazioni
Patria
e Costituzione, Senso Comune e Rinascita! hanno presentato il
Manifesto
per la Sovranità Costituzionale.
Vedi anche:
https://www.huffingtonpost.it/stefano-fassina/perche-il-manifesto-per-la-sovranita-costituzionale_a_23664881/.
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