sabato 23 maggio 2020

Karlsruhe e dintorni



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La Corte costituzionale tedesca pone limiti all'operato della Bce, assume a criterio guida la “proporzionalità” ed antepone il diritto delle nazioni a quello europeo. Reazioni e conseguenze. Mentre avanza la mediazione di Berlino (e Parigi) sul Recovery Fund, il sociologo Wolfgang Streeck, tedesco ed europeista, va controcorrente.


Infuria lo scontro sui finanziamenti che l'Unione dovrebbe garantire ai Paesi europei più coinvolti nella crisi economica, non solo indotta dall'emergenza pandemica. Chi dovrebbe erogarli? Saranno pure iniezioni monetarie o “prestiti e sussidi”? Ed a quali condizioni immediate e future?
C'è chi auspica che sia la Bce a svolgere il ruolo principale e, imitando la Fed statunitense, “stampi” ed inietti moneta per rivitalizzare l'economia. Ma i governi dell'Unione hanno già scelto: ai soliti meccanismi di prestito, seppur temporaneamente “mitigati” come il MES, si affiancherà l'ampliamento del bilancio europeo, all'interno del quale è collocato il nuovo strumento, il Recovery Fund, in via di definizione.
Ai primi di maggio, con una sentenza da tempo programmata, nell'agone politico è di fatto scesa la Corte suprema tedesca di Karlsruhe. In punta di diritto ha contestato alla Bce di essere andata oltre i propri limiti istituzionali e di avere assunto un ruolo improprio, operando sulla moneta a fini economico-fiscali. Ha inoltre fissato il criterio guida della “proporzionalità”, denso di possibili conseguenze non solo sulla Bce.
Benché alla sentenza di Karlsruhe non faccia riferimento, in quegli stessi giorni è comparsa un'intervista al sociologo tedesco Wolfgang Streeck attorno agli stessi temi, con lo sguardo rivolto ai motivi ed ai nodi della crisi dell'Ue. Rilasciata ad uno dei più autorevoli quotidiani tedeschi, la “Frankfurter Allgemeine Zeitung”, è indice di un dibattito in corso in Europa che i prevalenti media italiani troppo spesso e volutamente trascurano.
Intanto, Berlino e Parigi, rinnovando il loro asse privilegiato, hanno iniziato a delineare l'assetto del Recovery Fund, indirizzando la Commissione europea che dovrà presentare la proposta “definitiva”.
Si prospetta una soluzione di mediazione che offra un temporaneo “sollievo” ai Paesi mediterranei, riconducendo però l'insieme nell'alveo del vecchio corso e delle vecchie regole, incluso il rispetto dei Trattati. Appena superata la fase dell'emergenza.
Ho provato a mettere in relazione fatti ed idee, evidenziandone l'intreccio su alcuni punti dirimenti per le scelte politiche all'ordine del giorno.
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La sentenza di Karlsruhe 

(5 maggio 2020)

La Corte costituzionale tedesca si è pronunciata sulla presunta violazione dei Trattati (nello specifico l’articolo 5 del Trattato sul funzionamento dell’Ue) da parte della Bce, quando, Mario Draghi presidente, ha varato il programma di Quantitative easing (Qe). Sotto giudizio, in particolare, il Public sector purchase programme (Pspp), l’acquisto di titoli degli Stati europei che fu lanciato nel marzo 2015 ed è tutt’ora in corso.
Secondo l'accusa, la Bce aveva abusato del potere monetario e violato il divieto di finanziamento dei disavanzi pubblici. Nel 2018 la Corte di giustizia europea (CGUE) ha escluso entrambe le violazioni.
Rispetto al pronunciamento della CGUE, la Corte suprema della RFT ha concordato sul fatto che la Bce non ha violato il divieto di finanziamento monetario, ritenendo, però, che essa non abbia rispettato il principio di “proporzionalità”[1], ossia si sia discostata dai suoi fini istituzionali di garantire la stabilità monetaria.
«(...) i giudici tedeschi ritengono possibile che la Bce abbia agito in maniera troppo libera per raggiungere l’obiettivo statutario di una inflazione al di sotto ma prossima al 2%, ignorando gli effetti di politica economica, cioè di redistribuzione. Ancora più chiaramente: i tedeschi rimproverano alla Bce di fare politica economica.» [2]
Pur non vietando alla Bce di continuare gli acquisti sul mercato secondario, si ingiunge alla stessa di giustificare, entro 3 mesi, che i suoi acquisti «non sono sproporzionati rispetto agli effetti di politica economica e fiscale derivanti». Altrimenti la Bundesbank non potrà più partecipare al programma e dovrà vendere le obbligazioni già acquistate e detenute in portafoglio.
[1] In base al criterio di proporzionalità, la Bce dovrebbe comprare titoli pubblici di un Paese nei limiti della percentuale di capitale sottoscritto dalla banca centrale di quel Paese per partecipare alla stessa Bce. Pertanto, la Bce avrebbe acquistato titoli di Italia, Francia e Spagna al di sopra di tali limiti.
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Proporzionalità
In buona sostanza, la Corte suprema tedesca di Karlsruhe [vedi sopra, nella finestra dedicata] reputa le azioni della Bce non pienamente corrispondenti al suo mandato costitutivo, perché:
  1. tramite il Quantitative easing, ha acquistato titoli dei singoli Stati nazionali in modo “sproporzionato”, rispetto alla quota di capitale da ciascuno di essi detenuto (capital key) nella stessa Bce, dando luogo a trasferimenti di fatto;
  2. ha provocato effetti di politica economico-fiscale, invece di attenersi alla sua finalità di garantire la stabilità monetaria, nemmeno raggiungendo l'obiettivo dichiarato e prefissato di elevare l'inflazione europea a poco meno del 2%.
Sebbene la sentenza entri in contraddizione con quella della Corte di giustizia dell'Unione europea (CGUE) del 2018 ed abbia un indubbio impatto sull'assetto europeo ed anche sul Recovery Fund, essa fa perno sull'ambito nazionale, giacché la Bundesbank (la banca centrale della RFT) al diritto costituzionale ed alla sovranità democratica tedesche deve rispondere. Infatti, alla Bce si chiedono chiarimenti, mentre per la Bundesbank si prospettano, nel caso, ingiunzioni.
Ci si può chiedere, come l'economista Sergio Cesaratto,1 se l'Ue possa essere governata contro Berlino, nondimeno la risposta, rivolta agli altri partners, è data: potete fare ciò che volete, ma, nel caso, dovrete fare a meno della Germania.
Appare evidente che, con la richiesta di spiegazioni sulle passate acquisizioni del Quantitative easing (Qe) di Mario Draghi, la Corte si predispone a contestare quelle messe in campo sotto l'attuale presidenza francese di Christine Lagarde.
Al momento, il Qe della Bce costituisce il principale freno alla esplosione del famigerato spread.2 Questo differenziale, salendo, causa l'aumento degli interessi sul debito pubblico a carico del nostro Paese, con conseguente crescita dell'ammontare complessivo del debito stesso, in rapporto ad un Pil in sicura decrescita. A determinare lo spread sono i mercati finanziari internazionali, centrati su quelli statunitensi.
Posizioni italiane
Il pronunciamento delle “toghe rosse” tedesche ha suscitato una serie di reazioni, nel nostro Paese ovviamente in grande maggioranza avverse, tuttavia in base a motivazioni differenti e non sempre apertamente espresse.
La Lega ritiene coerente l'assunzione degli interessi tedeschi da parte della Corte di Karlsruhe, ma auspica, in contraddizione, un ruolo monetario della Bce che proprio la sentenza di Karlsruhe nega.
D'altro canto, tra le fila della destra italiana è evidente la soddisfazione per una sentenza che “sdogana” chi in Italia dice di volere rendere la pariglia. Spesso queste critiche scivolano nello sciovinismo ed alimentano un risentimento nazionalistico anti-germanico che fa il paio con quello imputato alla Corte. Era prevedibile che a fronte del progressivo esplicitarsi della dominanza tedesca, non solo attribuibile alla sentenza in questione, si facesse strada anche da noi, accanto ad una presa di coscienza dell'interesse nazionale, anche “il lato cattivo del nazionalismo”. Quest'ultimo approfitta delle diseguaglianze sociali e territoriali intra-europee, riprodotte ed accentuate dalla struttura della macchina dell'Unione, per affermare posizioni che pretendono di risolvere i problemi sociali riaffermando l'ordine economico liberista.
A questo proposito, è emblematica l'accanita difesa dell'antisociale modello sanitario lombardo.
Esattamente il contrario della necessaria politica che unifichi, invece, la tutela degli interessi dei lavoratori e delle classi subalterne a quello della rinascita nazionale, all'interno della quale porre la irrimandabile soluzione della questione europea.
Anche tra le fila “europeiste” è forte la critica. Si insiste sul carattere “anti-europeo” del pronunciamento di Karlsruhe, in base ad una tendenza “egoistica” della quale, ahinoi, soffrirebbe la Germania. Si suppone, altresì, che la posizione della Corte non sia in grado di prevalere, sul piano politico, in Germania e, in definitiva, essa debba sottostare a quella “sovraordinata” della CGUE con sede in Lussemburgo.
Sottotraccia prevale tra gli “europeisti” una speranza di riserva, legata alla possibile mediazione della cancelliera Angela Merkel.
Nel complesso, raramente il quadro politico tedesco è presentato per intero e se ne deve comprendere la ragione.
La mediazione di Angela Merkel
All'interno della CDU-CSU, il partito che guida il governo federale, le posizioni non sono così nette e contrapposte come vengono solitamente raffigurate dagli “europeisti” italiani, anche se le “sfumature” sono piuttosto importanti.
Wolfgang Schäuble
Il presidente del Bundestag ed ex ministro delle Finanze Wolfgang Schäuble, insieme al suo candidato alla cancelleria Friedrich Merz, sostengono che la Ue detenga una sovranità limitata, subordinata alla sovranità degli Stati nazionali. Ne consegue che il parere della Corte di Karlsruhe sia da loro visto, a tutti gli effetti, come positivo e vincolante.
Dalla posizione di Schäuble si discosta quella rappresentata da Angela Merkel, dal suo candidato alla successione alla cancelleria, Norbert Röttgen, e dalla presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen.
Angela Merkel
Mutti Merkel ha dichiarato: «Il giudizio della Corte va rispettato», ma «il governo tedesco darà un contributo per dare una risposta nel senso di un'Europa forte.»
Per Ursula von del Leyen: «l'ultima parola nel diritto europeo ce l'ha la Corte europea di Lussemburgo.»
Da queste parole non si può dedurre che il giudizio della Corte costituzionale tedesca possa a Berlino venire disatteso. D'altro canto, riconoscendo alla Corte di Lussemburgo l'ultima parola sul diritto europeo si dice l'ovvio e non lo si sovra-ordina rispetto a quello degli Stati nazionali, se non in base ai Trattati. Questi, di rimando, sanciscono una gerarchia tra gli Stati dell'Unione, conferendo alla Germania quello che, eufemisticamente, viene chiamato “ruolo trainante”.
Alla gerarchia implicita nei Trattati si attiene la mediazione politica della Merkel. La cancelliera cerca una via per salvare “capre e cavoli”, ossia l'interesse a mantenere integra l'attuale macchina dell'Unione, con le sue asimmetrie a vantaggio della Germania, non venendo a meno al mandato di sovranità nazionale ribadito dai supremi giudici tedeschi, eppure, al contempo, concedere qualcosa per apparire umanamente sensibili alle “grida di dolore” provenienti dai Paesi “bisognosi”, i più colpiti dalla pandemia.
Detto altrimenti, in relazione alle odierne scelte sui vari meccanismi di “solidarietà” europea, Berlino può accettare, in deroga, parziali e straordinari sussidi, purché la macchina dell'Unione rimanga qual è, capace di imporre a ciascun Paese percettore di prestiti la loro restituzione, secondo i vincoli e le salvaguardie stabilite per i creditori, nonché accetti di attuare le “riforme strutturali” liberiste, anelate pure dalle attuali classi dirigenti di Francia ed Italia.
Benché il parlamento europeo abbia chiesto un Recovery Fund di 2.000 mld, con una quota superiore di sussidi a fondo perduto rispetto ai finanziamenti a debito, la tendenza prevalente in Germania3 è orientata acché la quota di tali sussidi sia strettamente commisurata alla convenienza tedesca a preservare le proprie esportazioni verso i Paesi mediterranei, senza però sottrarli alla gabbia del debito, al quale, se vogliono accedere al grosso dei finanziamenti europei, dovranno continuare a sottostare. Sicché in quella gabbia - sotto minaccia di venire abbandonati allo spread ed ai mercati finanziari mondiali qualora volessero uscirne - i Paesi periferici in difficoltà si ritroveranno ancor più ristretti, appena passata la fase dell'emergenza.
D'altro canto, il criterio guida della “proporzionalità”, indicato dalla sentenza di Karlsruhe, dovrà venire applicato anche al Recovery Fund, in quanto parte del bilancio europeo. In definitiva: quanti miliardi potrà incassare in reali sussidi un Paese come l'Italia, a fronte di quelli da sborsare (in proporzione al proprio Pil) per partecipare al bilancio dell'Unione?
Mentre in Italia gli “europeisti” si apprestano a salutare la mediazione tedesca, di dominanza in apparenza soft, come un seppur parziale successo o piuttosto “un'offerta che non si può rifiutare” - date le condizioni in cui versano le nostre finanze pubbliche - una voce tedesca si distingue.
Una voce tedesca ed europeista scomoda
È quella del sociologo tedesco Wolfgang Streeck, tramite un'intervista all'autorevole quotidiano Frankfurter Allgemeine, significativamente intitolata: “La bomba è l'Italia. La crisi dell'UE è imminente”. [Vedi nella finestra dedicata, a seguire.]
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Wolfgang Streeck (1946) è un sociologo ed economista tedesco, direttore emerito dell'Istituto Max Planck per lo studio delle società, con sede a Colonia. È autore di numerose pubblicazioni, tra le quali: “How Will Capitalism End? - Essays on a Failing System”, Verso 2016; “Tempo guadagnato – La crisi rinviata del capitalismo democratico”, Feltrinelli 2013.

Estratto dall'intervista 
alla Frankfurter Allgemeine.*
Domanda: «Nell’attuale crisi, la Banca centrale europea fornirà 750 miliardi di euro e oltre duemila miliardi di euro acquistando obbligazioni emesse da governi nazionali. Che cosa significano queste misure?» 
Risposta: «Tutte le azioni importanti della BCE hanno conseguenze distributive asimmetriche tra i paesi che partecipano all’unione monetaria e sono anche piuttosto opache e oscure. Non esiste un Parlamento davanti al quale la Banca centrale europea deve rendere conto delle sue azioni. Gli Stati nazionali non possono mitigare la crisi creando il proprio denaro e devono raccogliere fondi sui mercati finanziari privati. 
I finanziamenti del governo – anche attraverso la BCE – sono esclusi dal trattato di Maastricht. Tuttavia, la BCE acquista obbligazioni da istituti di credito privati. Questi istituti di credito sono banche private che creano liberamente euro ottenendo un premio per quella funzione. Fondamentalmente la Banca centrale europea non fa nulla per sostituire questo denaro creato da banche private.»
D.: «Ciò significa che la BCE assumerebbe compiti politici senza controllo democratico e in contrasto con la legge della stessa UE. Perché i governi accettano questa politica monetaria?» 
R.: «Esistono molti strumenti oscuri per mantenere viva l’unione monetaria. Il governo tedesco li accetta perché il valore reale dell’euro viene svalutato a causa dell’adesione ai paesi più deboli. Questo in pratica favorisce l’esportazione di prodotti tedeschi. 
Questa politica monetaria impedisce ai paesi dell’Europa meridionale di superare le crisi. Finché la classe politica rimarrà “pro-europea”, il costo di queste crisi continuerà a essere pagato dai settori popolari. 
Quello che fa la BCE è il ruolo di una farmacia di emergenza che fornisce solo antidolorifici.»

* Per chi voglia leggere la versione integrale in italiano: https://www.sinistrainrete.info/europa/17747-wolfgang-streeck-la-bomba-e-l-italia-la-crisi-dell-ue-e-imminente.html
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Nell'occasione Streeck riprende le sue note tesi sul rapporto tra globalizzazione liberista ed aumento del debito degli Stati, in crisi fiscale, sulle politiche di austerità imposte a danno della sanità, del welfare e dei ceti popolari, sulla insostenibilità di tali politiche.
Rilevante la constatazione che le politiche di “modernizzazione strutturale” (le già citate “riforme strutturali”), non potendo venire realizzate all'interno dei quadri democratici del proprio Stato nazionale, hanno indotto le élites politiche italiane e francesi ad accettare l'euro come vincolo esterno. Traduzione: a violare la sovranità democratica nazionale, pur di affermare gli interessi delle loro classi dominanti.
Acuta la critica rivolta alla Bce.
Il giudizio di Streeck può così essere sintetizzato:
  • la Bce è fuori dal controllo democratico ed opera in modo opaco ed oscuro;
  • la Bce sottostà alla creazione di denaro da parte delle banche private;
  • gli Stati nazionali, non creando denaro in proprio, devono dipendere dai mercati finanziari;
  • la politica monetaria penalizza i Paesi dell'Europa meridionale e le classi popolari;
  • la Bce non risolve i problemi.
Scelte divergenti
In mancanza della possibilità per i singoli Stati nazionali di “stampare” denaro in proprio, per garantire il flusso di finanziamenti necessari a far fronte alla situazione di crisi e sventare il pericolo della depressione (quello dell'inflazione è in questa fase inesistente), il dibattito italiano si è incentrato su due opzioni.
Una corrente ha sostenuto l'opzione Bce, che avrebbe dovuto “fare il suo mestiere”, ossia fare come la Fed, la Banca centrale degli Stati Uniti. Sennonché, non essendo previsto dai Trattati, questo mestiere la Bce non lo può svolgere. Non a caso, l'appello dei 101 economisti4 chiedeva che per farlo si dovessero, contestualmente, sospendere i Trattati europei in vigore.
L'opzione Bce è stata accantonata dal momento in cui tutte le istituzioni europee hanno cominciato a discutere e decidere sia sui vecchi meccanismi (MES in primis), sia sul nuovo Recovery Fund. Su quest'ultimo sono riposte le residue speranze “europeiste”.
Nel proseguo dell'intervista, Streeck si spinge sino a suggerire delle soluzioni alla impasse nella quale versa l'Unione. Propone che all'euro si affianchino valute nazionali, con possibili diverse modalità di fluttuazione, per dare «una pausa» ai Paesi mediterranei.
Poiché ritiene impraticabile la rinuncia alla sovranità politica della Francia (e parla della Francia per non dire della Germania), indica come via d'uscita una Unione europea limitata, organizzata per «settori ed attività selezionate congiuntamente», «piattaforma per la cooperazione orizzontale volontaria, senza una direttiva gerarchica».
Rinunciando con realismo a competere militarmente con Stati Uniti e Cina, «l'Europa potrebbe sfruttare con successo la dualità emergente nella politica internazionale. In questo modo potremmo costruire una nicchia, in modo che la civiltà europea preservi la sua diversità e viva pacificamente senza ambizioni imperiali (interne o esterne)».
Pertanto, Streeck delinea scelte divergenti: rifiuta un'Europa imperialista, gerarchica e militarizzata, sia all'interno che all'esterno; si regala il «lusso di sognare» un'Europa orizzontale che la salvi, nella quale ciascun Paese riacquisti sovranità democratica e monetaria e possa cooperare pacificamente e per la pace.
Chiarito il contesto, il portato della sentenza di Karlsruhe, forse è più chiaro.
Se, dal lato più immediato, essa si presenta come una difesa nazionalistica degli interessi e delle prerogative tedesche, dall'altro, a futura memoria, costituisce una barriera ad un ruolo debordante della Bce che conferisce una centralità al sistema finanziario privato in chiave sovranazionale, in continuità con la globalizzazione contemporanea. Ruolo che è pur sempre una farmacia di antidolorifici. La Bce è considerata parte del problema, non la sua soluzione.
Allargando ulteriormente la prospettiva, a prescindere dal ruolo della Bce, una sentenza tedesca che riafferma la priorità della propria democrazia costituzionale, non esistendone una superiore europea, ammette che altrettanto possano fare gli altri Paesi membri dell'Unione, tra cui il nostro.
Stante la situazione, l'Italia prenda atto che non corre il pericolo di “restare sola”: è già sola e deve agire di conseguenza.

Note
1 Sergio Cesaratto, “Karlsruhe e il futuro: la Ue si governa contro Berlino?”, il Fatto Quotidiano, 20 maggio 2020.
2 Lo spread misura il differenziale d'interesse tra i titoli pubblici tedeschi e quelli degli altri Paesi europei, tra cui l'Italia.
3 L'accordo franco-tedesco del 18 maggio parla di un Recovery Fund a 500 mld: circa 165 mld per 3 anni. Per accedervi bisogna attuare “politiche economiche sane e un programma di riforme ambiziose”, il nuovo nome dell'austerità e delle riforme strutturali.
4 Vedasi in questo Blog: “Coronabond o Italexit?” - Aprile 2020.

sabato 2 maggio 2020

Debito pubblico e macchina europea

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Debito pubblico e macchina europea

Non è questione di un singolo meccanismo
(il MES), ma dell'intera macchina europea, per come è stata congegnata.
Dopo il fermo per pandemia, se la macchina Ue riprenderà a funzionare,
l'Italia in debito sarà la vittima designata.

In questo articolo ho cercato di rendere comprensibili alcune dinamiche economiche, troppo spesso raccontate in linguaggio per soli addetti e magari con parole chiave in inglese.
In questo tentativo so di essermi esposto a qualche semplificazione ed imprecisione. Era il prezzo da pagare. Mi riterrei soddisfatto del risultato solo se qualche lettore o lettrice volesse rendermi critica e giudizio. Ovviamente e non necessariamente ristretti al linguaggio.

Dopo poco più di un decennio dalla crisi del 2007-2008, dalla quale l'Italia non si era ripresa, soffiava già sull'Europa un vento di recessione, allorché la tempesta della pandemia è sopraggiunta, ponendoci di fronte alla immediata minaccia di una depressione, con il suo portato di durevole e vasta povertà.
Cosa fare per sventare la minaccia e rispondere all'emergenza, senza precludere al Paese una ripresa stabile, che gli eviti di sprofondare nel declino su cui era oramai avviato?
A questa domanda si possono dare risposte non univoche e certamente conflittuali, ma non è accettabile sia nascosta dietro una falsa rappresentazione della realtà e delle vere scelte politiche all'ordine del giorno.
La morsa
Alle prese con gli effetti devastanti del virus coronato il governo Conte cerca risorse. Deve sostenere un urto tremendo e l'alleanza che lo regge è disunita ed incerta. Di contro, quella che gli si oppone, dopo l'iniziale baldanza demagogica, mostra crepe evidenti ed è unita solo dalla voglia di potere.
Per coprire il grande fabbisogno di spesa, in tanti miliardi ancora da conteggiare, il governo non può poggiare su un gettito fiscale ridotto dalla crisi, né potrà nel prossimo futuro. Deve disporre di ingenti risorse straordinarie da subito, da somministrare anche a fondo perduto. La recessione rischia altrimenti di mutarsi in depressione, nonostante i molti miliardi straordinariamente attivati.
Il quadro riassunto dal Documento di Economia e Finanza del governo è davvero preoccupante. [Vedi nella finestra “I dati del DEF”, a seguire.] E potrebbe rivelarsi ottimistico. Alla concomitante caduta della domanda interna e degli investimenti corrisponde un crollo del Pil, di tali proporzioni da prospettare per il 2021 solo un parziale recupero in percentuale del Pil perso. L'emergenza sanitaria potrebbe durare due anni. Siamo dunque al cospetto di una crisi assai più grave di quella sperimentata dopo il crack finanziario del 2007-2008.
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I dati del DEF
Documento di Economia e Finanze*
Il governo prevede per il 2020:
1. Calo del Pil dell'8%;
2. Debito pubblico al 155,7% del Pil;
3. Disavanzo di Bilancio del 10,4% (di cui il 7,1% solo da pandemia).
Il calo del Pil è corrisponde alle diminuzioni:
- degli investimenti (-12,3%);
- dei consumi (-7,2%);
- dei redditi (-5,7%).
Per il 2021 prevede:
  • Recupero del Pil del 4,7%;
  • Debito al 152,7%;
  • Deficit dimezzato rispetto al 2020.
* 24 aprile 2020
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Per la comprensione degli attuali svolgimenti. non va dimenticato un fatto pregresso essenziale.
Ancora dalla precedente crisi non ci eravamo risollevati che i dati della produzione industriale tedesca,1 a cui una parte di quella italiana è legata in subfornitura, preannunciavano una ulteriore recessione per cause endogene. Prima del Covid-19, catalogato frettolosamente come “shock esterno” (esogeno). Esso è sì fenomeno naturale, ma derivante dal rapporto con la natura attuato dal modo di produzione e dal modello di consumo dominanti, quindi, in realtà e soprattutto, fenomeno sociale.
Disponendo di un ridotto gettito fiscale, a causa della contrazione economica, al governo non rimane che indebitare il Paese oltre il già accumulato: dal 134,8% del Pil 2019 si passerebbe al 155,7% nel 2020. Si tratta di una crescita debitoria non gestibile attraverso gli strumenti di politica finanziaria e monetaria di cui dispone uno Stato sovrano, giacché essi sono stati collocati nell'Unione e nella sua interna Zona euro: un non-Stato che però ha, di fatto, assunto il ruolo parallelo di “secondo Stato”.
Mai come in questo momento, la perdita di quote elevate della nostra sovranità è condizionante.
Il Paese, pertanto, si ritrova in balia da un lato dei liberalizzati mercati finanziari internazionali e, dall'altro, dei meccanismi operanti nell'Unione, in stretto e convergente legame coercitivo.
Da un lato preme il famigerato spread,2 sul quale pesa, seppure non automaticamente, la valutazione delle agenzie internazionali di rating, il “naso” dei mercati finanziari, che possono declassare il debito fin quasi a qualificarne i titoli come “spazzatura” (junk bonds). Aumentando il “rischio percepito” dagli investitori, nella misura dello spread, si alzano i tassi d'interesse sul nostro debito pubblico.
Le agenzie di rating, a loro volta, elaborano il loro outlook previsionale, con riferimento al grado di copertura assicurata dall'Europa, il cui assetto costituisce il secondo lato della morsa.
Affinché il contesto sia chiaro, va tenuto presente che, nei molti anni trascorsi in austerità, i risparmi ottenuti con i saldi primari di bilancio – entrate ed uscite al netto degli interessi - non sono serviti, proprio a causa dell'ammontare di quegli interessi, ad invertire la tendenza generale all'aumento del debito in rapporto al Pil. [Vedi grafico a seguire.]
La trattativa Stato-Unione
La manovra in via di attuazione, per tappe, da parte del governo [vedi nella finestra dedicata, a seguire], non è considerata da tutti sufficiente per coprire il fabbisogno, tanto dell'emergenza quanto della ripresa. Ragione per la quale le ansie e le aspettative si addensano sulle decisioni da prendere in ambito europeo.
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La manovra in corso
Il governo sta attuando una manovra complessiva da 150 mld (comprese le misure non impattanti sul Deficit).
In particolare:
- 12 mld per il pagamento dei debiti della Pubblica Amministrazione;
- 50 mld della Cassa Depositi e Prestiti per entrare nelle aziende in crisi, anche con “nazionalizzazioni temporanee”;
- 30 mld per le garanzie pubbliche alle liquidità erogate dal sistema bancario;
- 4 mld per il Fondo Garanzia Piccole-Medie Imprese;
- 24 mld per Cassa Integrazione (CIG), autonomi, Naspi, colf e badanti, congedi; di cui 3 mld per i reddito di emergenza dei lavoratori in nero ed atipici.
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Con qualche ritardo sugli inizi dello tsunami da epidemia, la Commissione europea, concordi gli Stati membri, ha sospeso l'arcigno Patto di Stabilità. La Banca centrale europea (Bce) ha messo sul tavolo il bazooka finanziario con un programma (Peep) di acquisti da 750 mld. Quest'ultimo non estingue i debiti sia pubblici che privati: si limita ad incorporarli. Ciò nonostante non è ben visto a Berlino, perché espande in modo “improprio” il ruolo della Bce. Il programma prevede l'acquisto dal mercato secondario3 di titoli di debito, buoni del Tesoro pubblici ed obbligazioni private, già in circolazione. In cambio restituisce liquidità al sistema bancario, che li tiene “in pancia”, onde consentirgli di erogare prestiti alle imprese ad un tasso agevolato rispetto al mercato. Se, in tal modo, lo spread è tenuto temporaneamente sotto controllo, non si può dire che sull'offerta di liquidità si possano nutrire soverchie speranze di successo.
Infatti, quando l'inventore dei bazooka, Mario Draghi, era ancora governatore della Bce, le grandi liquidità da lui immesse non indussero il “cavallo a bere” granché e l'economia a rimettersi in moto.
Chiariti i motivi di fondo, per cui l'andamento della trattativa tra i governi dell'Unione è divenuta così importante, occorre comprendere a quale punto essa è giunta.
Il 23 aprile, nell'ultima riunione del Consiglio europeo, i 27 capi di governo dei Paesi membri dell'Unione hanno stabilito che, dal 1° giugno, diventino operativi tre strumenti, considerati di “vecchio stampo”, cioè a debito, già indicati dai ministri delle Finanze (in ordine d'importanza):
  1. il MES (ex fondo salva-Stati), “senza condizioni” nei limiti delle spese sanitarie ed entro il 2% del Pil di ciascun Paese;
  2. i prestiti alle imprese della Banca europea per gli investimenti (Bei);
  3. il meccanismo “Sure” per la disoccupazione.
La messa in campo del MES è stata applaudita da alcune forze politiche (PD, IV, FI), benché siano da chiarire aspetti politici passati, come al solito, per “tecnici”, ovvero: se l'assenza di condizioni varrà per tutto il periodo della erogazione-restituzione del prestito; se il rientro in vigore del Patto di Stabilità, dopo la sospensione, potrà reimmettere di fatto le condizioni per ora accantonate; quanti siano realmente i miliardi a disposizione dell'Italia, qualora volesse accedervi. In teoria l'importo disponibile ammonterebbe a circa 37 mld, ma bisogna appurare se i soldi spesi per l'emergenza sanitaria verranno computati in modo “largo” o “ristretto”. Comunque, per aggirare una latente spaccatura (il M5S è contrario al MES) in seno alla maggioranza, Conte ha sospeso ogni giudizio in merito, in attesa di leggere il testo definitivo dell'accordo.
Poiché i tre succitati meccanismi implicano un ulteriore aumento del debito pubblico nazionale, in presenza di una generale caduta del Pil e delle entrate fiscali, le pressioni dei Paesi del Sud, tra cui l'Italia, si sono concentrati sull'unico strumento definito “nuovo”, ammesso all'esame, il Recovery Fund (RF) o Fondo comune per la ripresa.
Sulla natura del RF non c'è stata intesa, sicché la discussione tra i partners, riuniti in teleconferenza, ha sortito un nulla di fatto ed un rimando. Sarà la Commissione europea, nel cui prossimo bilancio (2021-2027) il RF è stato collocato e verrà gestito, a dover presentare agli inizi di maggio un progetto capace di raccogliere unanime consenso.
Non è un mistero quali siano i punti di disaccordo, focalizzati oltre ogni tecnicismo su:
  • l'entità complessiva del Fondo;
  • i termini della sua mutualizzazione;
  • l'eventuale bilanciamento tra la parte data in prestito (loan) e la parte data in trasferimento di sussidi senza restituzione (grant);
  • la priorità di accesso al Fondo per i Paesi più colpiti dalla pandemia.
Appare del tutto evidente che se al vertice s'è registrato “un passo avanti fuori da ogni attesa”, come ha sostenuto Conte in relazione al RF, - d'altronde la situazione è “fuori da ogni attesa”, per chi abbia trascurato l'avvertimento rappresentato dalle pandemie degli ultimi decenni – dalla definizione dei prima elencati punti molto dipenderà.
Non è dirimente il riconoscimento, contenuto nel comunicato finale, che il Fondo sia needed and urgent, necessario ed urgente.
In una prima proposta, la Commissione presieduta da Ursula von der Leyen aveva ipotizzato un RF attestato su 300 mld, da chiedere ai mercati in cambio di obbligazioni europee ed assegnabili in parte in prestiti ed in parte in sussidi. Macron e Sanchez hanno ribadito che il Fondo deve, invece, disporre di 1000-1500 mld, tutti assegnabili in sussidi agli Stati e sulla base dei reali danni subiti da ciascuno di essi a causa della pandemia. Sul versante opposto si sono schierati i “Paesi frugali”, Olanda in testa, che appartengono all'area core, capeggiata dalla Germania: non vogliono una grande entità del Fondo, né che sia assegnato in sussidi.
Lasciando ad altri la parte dei “cattivi”, Angela Merkel si è riservata una posizione mediatrice, pur opponendo un secco Nein ad un fondo per soli sussidi.
Nella stessa Germania gli orientamenti non sono univoci. Gli industriali hanno bisogno che la domanda interna ai Paesi mediterranei non crolli, al punto da inaridire il flusso delle esportazioni dei loro prodotti verso quei mercati. Nel suo complesso, però, il capitale tedesco è interessato a non intaccare gli attuali meccanismi asimmetrici, garantiti dalla macchina dell'Ue con al centro la moneta unica. In virtù di questa macchina, la Germania ha incamerato forti surplus e mantenuto sotto controllo il proprio debito pubblico. Sicché ha potuto già attivare, per proprio conto, 550 mld per rispondere alla crisi ed al contempo ristrutturarsi.
A determinare un ulteriore vantaggio nazionalistico di sistema concorre anche lo shock pandemico subito (sin qui) con minor danno, giacché la Germania ha potuto disporre di una sanità non falcidiata negli anni, come quella imposta ai Paesi periferici tramite l'austerità di bilancio.
Come può finire?
Ricorrere all'indebitamento dell'Unione per fare prestiti agli Stati membri, scartando l'ipotesi di affidare alla Bce il compito di “stampare” moneta, costituisce di per sé una scelta di fondo.
Il Recovery Fund è stato collocato all'interno del bilancio europeo gestito dalla Commissione,4 su proposta della Francia, la quale, per bocca del presidente Macron, ha sostenuto:
«Lo dico sinceramente: se l’Europa deve indebitarsi per fare prestiti agli Stati membri, allora non siamo all’altezza della risposta. Questi prestiti andranno ad aggiungersi al debito che questi Paesi già hanno e non risolveranno gli squilibri finanziari che ci sono nei Paesi più colpiti dalla crisi.»
Questo è il punto immediato. Di conseguenza, qualora, ipotesi altamente probabile, la “mediazione” della Germania si risolvesse nel darci un parziale sollievo in sussidi, che salvi le parvenze della “solidarietà” - e gli sbocchi per i propri prodotti industriali -, lasciando però che un nuovo debito pubblico si sommi a quello già accumulato, permanendo gli attuali Trattati europei e ripristinate le relative regole solo sospese, per l'Italia si schiuderebbe una via crucis.
Per non imboccarla, l'Italia, terzo Paese manifatturiero d'Europa, deve “fare da sola”. Per farlo non è priva delle risorse interne necessarie, né di spazi offerti dalla congiuntura internazionale.
Mi limito qui ad un solo aspetto. Quello dato dal forte risparmio privato italiano che, prima della pandemia, ammontava a circa 420 miliardi.
Questo risparmio, sicuramente assottigliato dalle impellenti necessità familiari, indotte dalla perdita di tante attività e dalla disoccupazione, si trova vieppiù esposto sia agli appetiti della finanza internazionale, che su di esso ha puntato gli occhi, sia alla normativa “bail-in” introdotta dall'Unione bancaria europea.
Il bail-in scatta in caso di crisi bancaria. È una modalità di salvataggio interno, tramite l'esclusivo e diretto coinvolgimento di azionisti, obbligazionisti e correntisti della banca in crisi.
Quale sia lo stato d'allerta in cui versano le banche, è desumibile dagli ostacoli burocratici frapposti alla erogazione effettiva dei prestiti alle piccole-medie imprese ed ai professionisti. Nonostante tali prestiti siano garantiti dallo Stato.
Ci si può chiedere: perché ricorrere ad onerosi e pericolosi prestiti europei ed internazionali, quando a casa nostra disponiamo di un risparmio di tale entità? Perché, in esecuzione del dettato costituzionale, non proteggerlo adeguatamente ed al tempo stesso mobilitarlo per la rinascita del Paese?
D'altro canto, il risparmio dei residenti potrebbe essere usato al fine di riprendere il controllo (come il Giappone) del debito pubblico nazionale, sottraendo quest'ultimo, in tempi e modi opportuni, alla soffocante morsa all'inizio descritta.
Contro ogni percorso d'interesse nazionale – e nell'interesse soprattutto dei lavoratori e delle parti sociali più impoverite - non mancano i soliti disponibili ad ogni “male minore”. Gli stessi che ci hanno condannato al male maggiore.
Non mancheranno nemmeno i sostenitori del “non c'è alternativa”, quando, al contrario, restare mal accompagnati è la peggior alternativa.
A dispetto di questi terroristi della sventura e raccoglitori di briciole dei pasti altrui, nei media così ben posizionati, nel breve giro di pochi anni - fors'anche di mesi - la realtà della via crucis si paleserà agli occhi della grande maggioranza del popolo italiano.
Non ci difenderemo “restando a casa”, ma prendendo pubblicamente e politicamente in mano il comune destino, con la forza e la fiducia che la resistenza al Covid-19 ha mostrato che abbiamo.
Il coraggio di quella partigiana ci sia d'esempio.

Note
2 Dato dalla differenza del tasso d'interesse tra i Bund tedeschi e gli altri titoli di debito pubblico emessi dai singoli Paesi membri.
3 A differenza del mercato primario, il mercato secondario è costituito da titoli ed obbligazioni già presenti sul mercato.
4 A differenza della “opzione Bce”, ed in linea per ora solamente teorica, in effetti, qualsivoglia mutualizzazione del RF è già solo parziale, poiché il debito europeo ricadrebbe, se “esigito”, sugli stessi Paesi in proporzione al rispettivo Pil.