venerdì 14 febbraio 2020

Il nostro uomo sulla luna

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Il nostro uomo sulla luna


Per Ursula von der Leyen [nella foto] lo european green deal sarà «il nostro uomo sulla luna». Un piano superiore a mille miliardi di euro in 10 anni!
Vediamolo più da vicino.
Ambiente. Il piano è focalizzato sull'aria e sulle emissioni di CO2; non affronta l'emergenza ambientale nel suo complesso e nelle sue interdipendenze. La “neutralità delle emissioni” sarebbe raggiunta nel 2050, oltre il limite massimo riconosciuto del 2030. Mancano specifici divieti di attivare nuovi gasdotti, trivellazioni e persino miniere di carbone. Non si interviene, per esempio, sul settore carni che è responsabile, al pari dei trasporti, del 14% delle emissioni globali. Al contrario, per consentire alle industrie europee di vendere le loro auto, continua la trattativa con i Paesi produttori di carne sudamericani che per far posto ai pascoli bruciano la foresta amazzonica.
Considerando l'obiettivo e la scala continentale, le misure del piano sono «deboli, parziali o assenti» (così le definisce Greenpeace). Se poste a confronto con lo statunitense Green new deal, sposato da Bernie Sanders, è pure poca cosa dal punto di vista finanziario e rischia di essere nocivo sul piano sociale e delle differenze territoriali. Proprio a causa di una visione parcellizzata e non ecologica generale: gli interventi privilegiano i territori ed i Paesi maggiori produttori di gas serra, che, guarda caso, sono anche i più ricchi; è assente sulle modalità di recupero-sviluppo dei livelli occupazionali.
Finanziamenti. Il 48% (503 mld) deriva dal bilancio comunitario, il quale dovrà sottrarre l'importo da altri scopi in misura del suo eventuale mancato aumento. L'11% (114 mld) viene dal co-finanziamento nazionale. Non potendo scorporarlo dal computo del deficit, per i Paesi non in regola con i parametri di Maastricht, come l'Italia, si prospetta la scelta tra rinunciarvi o stornarli da altre destinazioni di utilità sociale (sanità, scuola, ecc.). A nessun Paese sarà permesso di fare “green washing”.1
279 mld (il 27%) verrebbero attivati grazie al cosiddetto “effetto leva” sugli investimenti privati da parte di InvèstEU. In modo analogo, il Fondo per una transizione equa (Just Transition Fund, JFT) dovrebbe attivare, tra il 2021 ed il 2027, altri 143 mld (il 14%). Il JFT servirebbe ad attutire gli effetti della transizione energetica. Al momento 2 mld sarebbero destinati alla Polonia, fortemente dipendente dal carbone, e 365 milioni all'Italia (per l'ILVA di Taranto?), a fronte dei 900 milioni a noi richiesti per costituire il Fondo.
A dispetto del clamore con il quale è stato annunciato, il green european deal presenta le seguenti caratteristiche:
  • in prevalenza non promuove nuovi investimenti, ma storna vecchie “poste” prima destinate ad altri scopi o sociali o di riequilibrio territoriale, ponendo il problema a quali rinunciare;
  • è costituito soprattutto da investimenti pubblici; suppone che da essi derivino “effetti leva” su quelli privati, i quali, per essere attivati, dovranno ottenere percentuali di profitto concorrenti rispetto ad altri impieghi, ai quali, compresi quelli inquinanti, non viene posto divieto;
  • disgiunge l'emergenza ecologica generale da quella climatica, pretendendo di porre separatamente rimedio a quest'ultima e riducendola alla “neutralità delle emissioni” (nel 2050!);
  • reitera le logiche politiche poste a fondamento dell'attuale Unione monetaria ed economica, riproducendo ed allargando le dicotomie tra territori e tra Paesi, pure sul versante atmosferico;
  • non promuove un “cambio di rotta”, né un new deal di tipo rooseveltiano, capace di coniugare investimenti verdi con occupazione, anzi ribadisce le consunte politiche liberiste, o meglio ordo-liberiste.
In sintesi, invece di affrontare realmente il problema ambientale, l'ecologismo viene utilizzato come un “pennello verde” per legittimare ideologicamente la conservazione dell'attuale establishment.
Nota
1 Un modo per dire che è espressamente vietato lo scorporo (la “pulizia di bilancio”) degli investimenti verdi dal computo del deficit.

La crisi del M5S

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LA CRISI del M5S
i temi sui quali si verifica
Il Movimento 5 Stelle è in crisi.
Ad aprile terrà i suoi Stati generali per cercare di uscirne.
Dopo la vittoria alle politiche del 2018, agli inizi della legislatura poteva contare su circa il 35% di deputati e senatori, avendo ottenuto il 32,7% dei voti. In quanto forza di maggioranza relativa, ha partecipato ai due ultimi governi: il Conte I, con la Lega di Salvini; il Conte II, con il PD, Italia Viva e LeU.
Pur avendo realizzato alcuni punti assai importanti del proprio programma [vedi nella finestra “Bandiere”, in pagina] e dato impulso alla moralizzazione della cosa pubblica, si è molto indebolito sul piano elettorale. La sua immagine appare appannata e l'identità politica piuttosto incerta, mentre ha mostrato una crescente fragilità strutturale ed organizzativa, resa evidente dagli abbandoni, sul territorio di troppi attivisti e, al centro, di un non trascurabile numero di parlamentari.

Bandiere
Luigi di Maio ha «piantato in due anni quasi tutte le bandiere del M5S: il dl Dignità e il Reddito di cittadinanza; le leggi contro la corruzione, la prescrizione, il bavaglio sulle intercettazioni, la svuotacarceri, le trivelle, gli inceneritori, il gioco d'azzardo; i risarcimenti ai truffati dalle banche, il taglio dei vitalizi ai parlamentari e alle pensioni d'oro, i referendum propositivi, le manette agli evasori.»
Marco Travaglio, “L'onore delle armi”, il Fatto Quotidiano, 11 gennaio 2020.

Era inevitabile che dovesse pagare lo scotto dell'inesperienza del suo personale politico, con un leader che all'inizio del cimento governativo aveva soli 31 anni (ma Grillo più del doppio).
Altrettanto inevitabile era addivenire a compromessi e, almeno temporaneamente, dover accantonare alcuni obiettivi importanti, data la necessità di governare in colazione con almeno uno dei partiti politici coinvolti nei precedenti esecutivi.
Inoltre, quando si è soverchiati da forze avverse ed “opposte”, ma spesso convergenti nell'arroccamento sulle vecchie politiche, persino venire sconfitti per accerchiamento, come è accaduto sul TAV, può essere comprensibile.
Tutto ciò, in ogni modo, non basta a darci piena ragione dell'attuale crisi. Non persuadono quelle spiegazioni che imputano le difficoltà solo al passaggio all'età adulta o dall'opposizione al governo, o, ancora, agli errori del capo politico, Luigi di Maio.
Chi ha favorito la Lega?
All'indomani del voto del 4 marzo 2018, il PD rifiutava l'offerta del M5S di formare insieme il governo. Dopodiché, al M5S non rimase altra soluzione che rivolgere la stessa offerta alla Lega, che accettò.
Fu stipulato un Contratto di governo nel quale si aggiustavano alcuni obiettivi del Movimento con altri della Lega, avendo una reale convergenza solo sul comune “euroscetticismo”, peraltro fortemente condizionato dal presidente Mattarella. Questi, per dare il proprio placet al varo del Conte I, ottenne l'inserimento nell'esecutivo di due ministri a garanzia dei trattati internazionali, in posizioni chiave, all'Economia e agli Esteri.
Entrambe le forze al governo erano etichettate dal coro mass-mediale dell'establishment come “populiste” e “sovraniste”, nemiche del “Bene del Paese”, il quale consisterebbe nel “rimanere agganciati all'Europa” per “non venire schiacciati” in un mondo disputato da grandi entità statuali di dimensioni continentali. Un superiore Bene alimentato dalla paura del mare aperto, che non teme la prova dei fatti: come entità unitaria in politica estera, da decenni l'Europa continua a non esistere – come hanno confermato le vicende libiche -, intanto al suo interno a venire schiacciati sono sia le classi popolari che i Paesi deboli e periferici.
Tale insistente ed avversa campagna, condotta da destra e da sinistra, non sortì l'effetto di spostare il consenso verso le opposizioni, bensì in seno alla stessa coalizione di governo, dal Movimento alla Lega. Un effetto non voluto?
I 5 Stelle venivano raffigurati come “incapaci”, “dilettanti allo sbaraglio” e succubi della “più esperta” Lega, con Salvini assoluto protagonista. Ogni suo messaggio era amplificato sino a farlo figurare come il dominus nel governo. Soprattuto quando per gli uni “difendeva i confini dall'invasione dei migranti” e, per gli altri, si opponeva ai salvataggi in mare delle ONG, “chiudendo i porti”, sottacendo persino che, in realtà, la diminuzione degli sbarchi era dovuta in gran parte alle misure prima adottate da Minniti.1
Nel frattempo dal proscenio sparivano i successi dei 5 Stelle in campo sociale, il dl Dignità ed il Reddito di cittadinanza, ai quali si riservava poi un trattamento più subdolo, basato su un malcelato disprezzo per poveri, giovani e disoccupati.
Tuttora, per esempio, il Reddito di cittadinanza2 è accusato di fallimento da “opposti” versanti, con motivazioni convergenti. Non avrebbe creato posti di lavoro, incentivando la pigrizia di chi doveva cercarlo. Un'argomentazione falsa, giacché il suo compito non è mai stato di creare lavoro, ma di sostenere chi non ce l'ha ed è privo di reddito, aiutandolo a trovare il lavoro esistente, tramite la riorganizzazione del collocamento e delle sue agenzie territoriali. Agenzie che dovevano essere riorganizzate.
Vissuto da tutte le forze delle vecchia politica come una pericolosa anomalia, il M5S si è trovato a fronteggiare un coro mass-mediale che ha cantato la stessa messa, seppure con qualche diversità, per così dire, di “arrangiamento”. Pur di annichilire questa anomalia, magari supponendo di trarne vantaggio, anche la sinistra ha favorito il successo della Lega.
In soli 15 mesi di convivenza nel governo Conte I, la Lega ha potuto così logorare il M5S, sino a ribaltare nelle urne delle europee i precedenti rapporti di forza elettorali stabiliti dalle politiche.
Nemmeno il voltafaccia di Salvini, attuato per riandare subito al voto e patrimonializzare il consistente successo ottenuto nella primavera del 2019, invertì la tendenza elettorale, confermata dalle elezioni regionali umbre. Sicuramente a nulla è servito denunciare il “tradimento” del Contratto di governo, a suo tempo faticosamente discusso parola per parola, nell'ingenuo convincimento che bastasse la sua scrittura (scripta manent, verba volant) a squalificare chi non l'avesse in seguito rispettato.
Nel M5S si trascurò il non piccolo particolare che, sin dall'inizio, la Lega nutrì l'intenzione non tanto di collaborare al “governo del cambiamento”, quanto di fare un'incursione nel campo avverso per poi ritornare col bottino, in posizione maggioritaria, nel centro-destra e riproporsi in quello alla guida del Paese. Infatti, non rinnegò mai il bipolarismo della seconda Repubblica, né prese le distanze dal programma comune con Fd'I e FI, col quale si era presentato alle elezioni politiche. Anzi, sostenne di andare a compromesso col M5S pur di provare a realizzarlo.
Spazi regalati
Un simile esito era evitabile. Innanzitutto, occorreva impedire a Salvini di condurre una permanente campagna elettorale sui temi dell'immigrazione, accentuando vieppiù i toni xenofobi e razzisti, sfociati nei decreti Sicurezza che, oltretutto, attaccano le libertà di lotta sindacali e sociali. Inoltre, alla Lega sono state abbuonate tutte le circostanze nelle quali smentiva praticamente i suoi proclami “populisti” e “sovranisti”.
Si prenda il caso dello scontro sul Treno ad Alta Velocità Torino-Lione (TAV). Invece di poggiare sulla forza delle motivazioni ambientaliste3 e del movimento in Val di Susa, denunciando la confluenza d'interessi tra “prenditori” di grandi opere, finanza e forze dell'ancien régime - PD insieme a Lega e centro-destra - si è fatto leva soprattutto, se non unicamente, sul calcolo ragionieristico dei costi superiori ai benefici.4
Nonostante la strage del ponte Morandi, il medesimo scenario si è ripetuto sulle concessioni autostradali ai Benetton, protetti dalla Lega e dalle “opposte” opposizioni. Tuttora, il destino delle concessioni ai privati (Benetton, Gavio e Toto) è in ballo, pur in presenza di altri crolli, nonché della denuncia da parte della magistratura di rischi letali su tutta la rete, ammalorata dalla prolungata assenza delle indispensabili manutenzioni, anticipatamente strapagate dagli utenti ai caselli.
Cos'altro ci vuole perché questo “monopolio naturale” torni alla gestione pubblica?
Si risponderà che la soluzione privata rimane l'unica possibile, giacché quella statale mostrò a suo tempo totale inadeguatezza. Eppure questo è il punto. Una reale svolta implica la rifondazione dell'amministrazione della cosa pubblica. E non si avrà migliore occasione se non partire da un settore dove è conclamato il fallimento delle privatizzazioni, in un ambito decisivo, quello della sicurezza delle “persone”,5 per giunta a causa di un monopolio concesso a dispetto della retorica del “libero mercato”.6
Si aggiungerà che, una volta accettata la coabitazione al governo, non si poteva guerreggiare con l'alleato. Una risposta che suffraga un ulteriore lealismo ingenuo, dal momento in cui si veniva palesando un inaffidabile comportamento da parte dello stesso alleato, in combutta con le opposizioni.
Pluralità necessaria
Non potendo o non volendo condurre la “guerriglia” con la Lega in prima persona dall'interno del governo, la delegazione pentastellata avrebbe dovuto contare su un'azione esterna autonoma del Movimento. In tutte le occasioni di scontro - anche in quelle che descriverò più avanti -, in effetti, è mancata la sua molteplice presenza attiva nella società, sui territori e nella comunicazione in rete. Una presenza sufficientemente “altra” rispetto ai ministri ed ai parlamentari, da poterli entrambi tanto supportare quanto condizionare.
All'opposto della via che comportava la faticosa gestione della pluralità interna, canalizzata però in una costruttiva dialettica tra azione di governo e in parlamento, da un lato, ed attivismo nella società e nella comunicazione in rete, dall'altro, prevalse l'illusione di mantenere la propria coesione attraverso il comando concentrato nelle mani del capo politico unico e facendo coincidere la delega politica degli attivisti con quella degli elettori.
Ne è scaturito uno sfaldamento plurimo: molti attivisti si sono sentiti “tagliati fuori” ed hanno abbandonato; alcuni parlamentari, spesso discutibilmente candidati, hanno disatteso il mandato politico degli elettori,7 tenendosi pure quella parte di stipendio a cui dovevano rinunciare; la leadership è stata risucchiata nei meccanismi della mediazione ad oltranza, sino a smentire alcune linee strategiche in precedenza affermate.
Pessimo è stato il modo di usare la piattaforma Rousseau, alla quale inizialmente venne affidato il compito di mostrare le virtù della democrazia diretta. Un caposaldo dell'innovazione politica dei 5 Stelle, dimostrativo di come e quanto, tramite l'uso della Rete, si possa estendere la partecipazione informata e la decisione conseguente da parte dei cittadini, non solo degli iscritti. Pertanto, non meravigli che, tramite la stessa piattaforma, la base sia stata chiamata al voto più per convalidare decisione già prese, piuttosto che a decidere dopo una libera discussione pubblica.
Sicché l'odierna discussione se il Movimento deve farsi partito, e quale forma-partito debba assumere, diventa inutile, qualora esso non ritrovi motivazione, identità e vigore.
La riprova di quanto necessario fosse l'accennato contributo “plurale” è venuta, nonostante tutto, dallo svolgersi delle cose.
Le dimissioni di Luigi di Maio da capo politico (unico) sono state lette come una “mossa del cavallo”.8 In cosa potrebbe consistere? Nel ricorso a figure “esterne”, non impegnate nel governo ed in parlamento, come quella di Alessandro di Battista [nella foto],
non a caso considerato “movimentista”, con un largo seguito anche tra gli attivisti che si sono disamorati. O, con un carattere sì istituzionale ma locale e territoriale, come la sindaca di Torino, Chiara Appendino [nella foto].
Ad esse potrebbe essere affidato un recupero rigenerativo del Movimento. Rimedio valido, purché sia posto in autonomia dialettica rispetto alle delegazioni nel governo e nel parlamento.
Ad ogni buon conto, in futuro si dovranno superare diversi limiti, legati ad una concezione contrattualistica (illuministica) del M5S.
L'esperienza insegni. Va abbandonata l'idea di aggirare l'articolo 67 della Costituzione9 tramite un contratto, con relativa penale monetaria in caso di non rispetto, che vincoli al Movimento i suoi candidati una volta eletti. Nemmeno gli impegni raggiunti in funzione del governo centrale e locale possono venire fatti rispettare tramite un semplice “contratto politico”. La ragione non si ottiene in base ad un contratto per quanto ben scritto e precedentemente sottoscritto, o ad impegni formali, bensì alle forze su cui man mano, nella società, nella comunicazione e nelle istituzioni, si è in grado di fare leva.
Inoltre, va superato il limite che ritiene trascurabili i rapporti umani diretti nella partecipazione al Movimento, da considerare necessari almeno quanto la comunicazione tecnologica in rete.
La passione politica - senza la quale non c'è attivo coinvolgimento, né reale processo di formazione e conoscenza -, mal si adatta a venire sempre filtrata da una supposta asettica razionalità via web. Ha bisogno di momenti e luoghi fisici, di contatti e confronti diretti, non mediati. Ed il cambiamento, tanto più se radicale, non può venire generato espellendo il coinvolgimento emotivo e passionale, pur dovendolo ricondurre continuamente alla esperienza del ragionamento politico.
Perdita di identità
Max Short, Loss of Identity
Lo spazio concesso alla Lega ha raggiunto il massimo sulla politica estera ed europea.
Abbiamo assistito - sorpresi? - al subitaneo appoggio dato da Salvini alla dichiarazione di guerra degli Stati Uniti all'Iran, tramite l'assassinio del generale Qasem Soleimani.
Eppure, i prodromi di questa scelta “anti-sovranista”, da supino vassallo dell'impero, li si poteva leggere tutti allorché Salvini, in completa sintonia con l'establishment europeo ed italiano, si dissociò dal governo Conte I nel momento in cui non riconobbe l'autoproclamato presidente venezuelano Guaidó.10 Il capo della Lega stava rapidamente convergendo, con grande disinvoltura, sulle strategie belliche del Pentagono, seguendo le orme di Donald Trump. A distanza di pochi mesi scoppiò il caso Savoini e si seppe di una trattativa per ottenere rubli da Putin. Chi scoperchiò quella trattativa? Quale ruolo vi ebbero i servizi di intelligence? Certamente il Cremlino si è sentito “tradito”, ma pure Washington ha potuto dubitare dell'affidabilità di Salvini.
A parziale riparazione, Luigi di Maio, ora agli Esteri, ha fatto un appropriato affondo contro Salvini, quando, in relazione all'attacco all'Iran, ha messo in luce che se fosse per Lui, in dispregio dell'articolo 11 della nostra Carta, l'Italia sarebbe già in guerra.
Quanto al rapporto con l'Unione europea, la leadership del M5S si è fatta doppiamente impallinare.
Ad onor del vero, con il contributo decisivo del presidente Mattarella, il quale si è erto a paladino dei trattati, posti al di sopra della sovranità democratica nazionale. Per ottenere da Mattarella il via libera al primo governo Conte, tutte le componenti della maggioranza dovettero accettare di perseguire, tuttalpiù, la riforma concordata dei trattati. Ciò non obbligava a rinunciare all'unico obiettivo strategico che, al momento, dicevano di condividere: quello di fare a meno della moneta unica, la cui adozione implica la rovinosa rinuncia alla sovranità monetaria e di bilancio.
In ottemperanza a questo ripiego “tattico”, con la mediazione di Conte, la Lega accettava di candidarsi ad un posto nella Commissione europea,11 in cambio del voto per la sua presidenza ad Ursula von der Leyen. Senonché, al dunque, la Lega si sfilò dall'accordo, lasciando il M5S col cerino in mano, per poi accusarlo di essersi piegato ai poteri forti di Berlino e Bruxelles.
Che la manovra preludesse all'uscita dal Governo era oramai piuttosto chiaro. Ma all'”infortunio” non seguì il minimo ragionamento conseguente ed il M5S si ritrovò a passare dalla posizione “euroscettica” a quella “euroriformista”,12 con la conseguenza, una volta varato il Conte II, di vedere affidato a Paolo Gentiloni il posto italiano in Commissione europea.
L'idea verde
Si dirà che è valsa la pena di votare la von der Leyen,13 perché si è impegnata a varare il salario minimo europeo ed un piano per la trasformazione ecologica del continente.
Siamo in attesa di conoscere quali misure verranno adottate per affermare il promesso salario minimo europeo. Intanto constatiamo che il piano ecologico proposto dalla von der Leyen più che annunciare l'affermazione di un sistema eco-compatibile, appare compatibile soprattutto con la funzione egemone della Germania, con le sue urgenti necessità d'investimento, in una riverniciatura verde dell'Unione. [Vedi il Post “Il nostro uomo sulla luna”, a seguire.]
L'european green deal non si annuncia come un “cambio di rotta”, né come un new deal rooseveltiano capace di coniugare investimenti verdi con occupazione, anzi ribadisce le consunte politiche liberiste, o meglio ordo-liberiste.
L'idea verde, rivificata dai 5 Stelle, sulla quale gli attivisti hanno costruito anche i loro comportamenti personali, si è sciolta nella palude delle mediazioni. Si sono tralasciate o troppo annacquate le cose concrete: lotta alle plastiche; promozione della mobilità compatibile; bonifica delle zone inquinate; stop al consumo di suolo; acqua pubblica; lotta alle trivellazioni e quant'altro.
Pertanto, insieme al varo del nuovo MES (Meccanismo Europeo di Stabilità)14 ed al trattato sul nucleare iraniano,15 lo european new deal costituirà un banco di prova decisivo per il governo italiano e dirà se, e fino a che punto, il M5S è disposto a perdere identità, omologandosi o/e annullandosi.
Domesticazione e sparizione
Il M5S è atteso ad altre difficili prove, in considerazione:
  1. della guerriglia interna alla maggioranza condotta dai “renziani”, sia passati ad Italia Viva che rimasti nel PD, i quali si sono attestati sul ripristino della prescrizione;16
  2. dell'obiettivo coltivato dalla leadership del PD di vincolare il M5S al rifacimento del centro-sinistra, nella restaurazione del bipolarismo della seconda Repubblica.
Rivolto al gruppo dirigente di Zingaretti, Renzi ha dichiarato: «se pensano che la soluzione sia davvero aprire alle Sardine, alla società civile recuperando un rapporto con la Cgil o assorbendo Leu, noi di Italia viva non saremo in difficoltà. Anzi, ci si apre un’autostrada. Spostandosi sulla piattaforma di Corbyn o di Sanders si perde.»17
Renzi sa bene che Corbyn non ha perso per il suo programma sociale, bensì per aver messo in discussione la Brexit, inimicandosi i ceti popolari delle tradizionali roccaforti laburiste. Qualora quel programma sociale fosse associato ad una adeguata politica di sovranità democratica nazionale, metterebbe in crisi sia lui che l'altro Matteo. Sì aprendo loro un'autostrada, ma di quelle con i cavalcavia curati dai loro amati Benetton...
Quanto al suo riformismo, ispirato da Macron, vediamo bene quale successo popolare abbia in Francia.
Non gli rimane che minacciare il governo sulla prescrizione, rinnegando le sue precedenti e numerose affermazioni “giustizialiste”, per fare comunella con i residuati berlusconiani e pure con Fd'I e Salvini,18 al fine di garantire la impunità dei ricchi, attraverso la estinzione dei processi anche dopo il primo grado di giudizio.
Ancora più insidiosa mi pare, invece, l'idea di rifare il centro-sinistra per restaurare il bipolarismo, andato in crisi a causa della sostanziale convergenza dei due vecchi poli sulle politiche liberiste e globalizzatrici, con il correlato dominio della finanza.
Secondo il professor Domenico De Masi [nella foto],
sociologo del lavoro, il Movimento deve andare a sinistra farsi Partito socialdemocratico. Rifacendosi ad un libro di Robert Michels,19 sostiene che il Movimento o diventa partito o sparisce.
Vista la storia successiva al 1911, anno in cui quel testo fu pubblicato, sul tema ci sarebbe molto da discutere, perché dire “partito”, senza entrare nel merito di quale forma-partito si tratti, oggi significa assai poco.
La scena politica italiana è dominata da partiti assai diversi tra loro per organizzazione e strutture, spesso “personalizzati” attorno alla figura del leader. In tutti domina un'ansia elettoralistica, basata sui sondaggi d'opinione, che diventano la misura immediata - un giudizio senza appello - di ogni idea ed iniziativa.
Nella visione di De Masi stupisce l'assenza di una visione sufficientemente critica sia di ciò che è diventata realmente la “sinistra”, sia dei motivi per i quali, dopo la “fine del comunismo”, i partiti socialdemocratici versano nelle attuali pessime condizioni. In aggiunta, manca una adeguata critica all'Unione europea, ai suoi trattati che penalizzano ad un tempo le classi popolari ed i Paesi deboli e periferici.
Inoltre, la riproposizione della funzione degli “intellettuali”, i quali, a suo parere, dovrebbero essere chiamati a conferire “pensiero strategico” al M5S, non fa i conti con l'attuale accorpamento degli intellettuali, salvo rare eccezioni, all'establishment.
Ma torniamo agli svolgimenti politici più immediati.
Sornionamente D'Alema ha osservato che, alle prossime elezioni politiche, il centro-sinistra non vincerebbe sulla coalizione di centro-destra, qualora la forza elettorale del M5S venisse ridotta a percentuali minime. Il PD, attorniato dai cosiddetti “cespugli”, non basterebbe. Un ritorno al passato è perciò votato all'insuccesso.
D'altro canto, il consenso ai 5 Stelle non potrà attestarsi su importanti percentuali se non in base ad un suo ripresa, autonoma dal PD, col quale dovrà comunque confrontarsi. E non potrà farlo rinunciando alla propria identità originaria, “populista” e “sovranista”, purché rinnovata, a partire dalle scelte concrete della attuale fase politica. Pertanto, è da accantonare l'idea di un preliminare accordo di coalizione vecchia maniera, al quale, pur con mille cautele, sembra pensare una tendenza interna al M5S. Paradossalmente, esso non “converrebbe” nemmeno al PD.
Per rimettere il confronto politico sul terreno del cambiamento effettivo, evitando la restaurazione del presepe conservatore destra/sinistra della seconda Repubblica, occorrerà individuare un percorso comune basato sulle scelte concrete da compiere, a partire dalla riaffermazione del blocco della prescrizione, dalla riforma del processo penale e dalla disdetta delle concessioni autostradali.
Un percorso che risponda ai bisogni reali della società che nei 5 Stelle ha visto una possibilità di cambiamento.
Un percorso capace di collegare la soluzione dei problemi del lavoro (disoccupazione, precarietà, remunerazioni ed imposte sul lavoro dipendente ed autonomo) con quelli di una ripresa della società e del welfare, nel quadro di un rinnovato e “moralizzato” ruolo dello Stato in economia, impossibile senza sganciarsi dagli attuali vincoli europei.
Lo si chiami come si vuole, purché sia alternativo alle politiche neo-liberiste e di subalternità nazionale, sulle quali rimangono ancora abbarbicati sia il PD che il centro-destra.
Senza contrastare e rimuovere quelle politiche non sarà data risposta alla richiesta di cambiamento proveniente dagli strati popolari che hanno votato 5 Stelle e, senza questa risposta, qualsivoglia ridefinizione della politica e dei suoi assetti - ivi compresa la forma riorganizzativa del M5S - è destinata alla instabilità, in una Italia votata, nel migliore dei casi, ad un lento declino.
Questa storia non finisce qui. Venga o meno addomesticato, o annichilito, il M5S.

Note
1  Vedi nel Blog, “Minniti d'oltremare”, settembre 2017.
2  La misura coinvolge 2,28 milioni di persone, di cui 1,47 tra Sud ed Isole. Il 68% (oltre 645.000) percepisce un importo mensile inferiore a 600 euro e solo l'1% uno superiore a 1.200 euro. Denominato in altro modo, questo istituto esiste in tutti i Paesi europei, ad eccezione della Grecia.
3  Che da lì a poco sarebbero divenute dominanti con il movimento promosso da Greta Thunberg.
4  Quanto sia insufficiente l'approccio costi-benefici lo ha dimostrato, solo qualche mese dopo, anche il fallimento del MOSE di Venezia, voluto da tutti i governi della seconda Repubblica.
5  Le “persone” sistematicamente scompaiono, quando diventano interesse pubblico e sociale.
6  È sempre dimenticata la contraddizione tra libero mercato e oligopoli.
7  L'idea di vincolarli al mandato, tramite un contratto con relative penali in caso di non rispetto, sì è rivelato un inutile espediente privo di effetti realmente dissuasivi.
8  Il Fatto Quotidiano, mercoledì 22 gennaio. Con riferimento ad una mossa del gioco degli scacchi, s'intende un'abile iniziativa politica che permette di rompere l'accerchiamento avversario.
9  L'art. 67 della Carta recita: «Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincoli di mancato.»
10  Agli inizi di febbraio 2019.
11  Tanto che sui media comparve il nome del candidato, Giancarlo Giorgetti.
12  Nel Regno Unito fu detta “stay and reform”, adottata la quale il partito laburista si condannò alla recente sconfitta elettorale.
13  Al parlamento di Bruxelles 10 deputati 5 Stelle hanno votato per la von der Leyen ed il suo programma. 2 si sono astenuti e 2 hanno votato contro.
14  Vedi in questo Blog, l'articolo “Ci salva il MES”, dicembre 2019.
15  Di cui l'Ue chiede a Teheran il rispetto, pur violandolo, giacché aderisce alle sanzioni statunitensi imposte da Trump.
16  La prescrizione dei processi penali, bloccata dalla riforma Bonafede, non esiste in altri Paesi europei, ad eccezione della Grecia.
17  Maria Teresa Meli, Renzi: «Se nel Pd fanno come Corbyn allora ci aprono un’autostrada», Corriere della Sera, 12 gennaio 2020.
18  La Lega ha ribaltato la sua posizione, avendo votato la riforma Bonafede sul blocco della prescrizione quando era al governo col M5S.
19  Roberto Michels, “La sociologia del partito politico”, il Mulino, 1966.