venerdì 13 marzo 2015

Precarietà ed economia reale

Riccardo Bernini - marzo 2015
Messe a fuoco
Precarietà ed economia reale

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Possono le riforme del mercato del lavoro conseguire nuova e stabile occupazione? Jobs Act e necessità di un reddito di cittadinanza. Stabili instabilità. Vincoli di bilancio ed economia reale finanziarizzata.

Per il governo e per i suoi sostenitori istituzionali e mass-mediali il Jobs Act e, più in generale, le riforme del mercato del lavoro possono conseguire l'obiettivo di aumentare l'occupazione e stabilizzarla, se ben architettate.
Solitamente la critica a questo genere di aspettative si concentra sulla mancanza di una relazione diretta e automatica tra riforma delle normative regolatrici del mercato del lavoro e crescita occupazionale. In mancanza di investimenti produttivi, essa sostiene, verso un mercato che ne recepisca beni e servizi, in allargamento della capacità d'acquisto, mutare regole serve a poco o a nulla.
La bella riforma
Come l'esperienza insegna il liberismo non de-regolamenta, quasi a voler ripristinare un mercato "naturale" liberato dagli artifici della politica e dalla congenita sua elettorale debolezza verso "il sociale", bensì ri-regolamenta politicamente in senso classista e sempre one-way, a senso unico. Non fa eccezione il Jobs Act. Tanto più in quanto interviene sui rapporti di lavoro, dopo che i precedenti governi avevano indotto al Far West del precariato e del sotto-salario. La litania di fondo è sempre e bugiardamente la stessa: "alle leggi del mercato non si può resistere", ci si adegua.
Come se il Mercato fosse determinato da Madre Natura o dallo Spirito Santo.
Avendo introdotto nel contratto a tempo indeterminato la licenziabilità individuale e collettiva, corredata da eventuale demansionamento e dalla libertà padronale di controllo a distanza, la tutela resta crescente solo sul lato della indennità, pari a una mensilità per ogni anno lavorato, con un tetto di 24 mensilità (non bisogna esagerare in bontà). Di converso le decontribuzioni [vedi riquadro dedicato] "senza se e senza ma", ovvero priva di vincoli e restituzioni, rendono oltremodo vantaggioso per l'impresa l'adozione di questa tipologia di contratto. Sicché il Jobs Act configura un contratto di precariato a tempo indeterminato a crescente indennità di licenziamento.
Sostengono i liberisti dello sviluppo austero (per i quali austerità e crescita non si contraddicono) che tutto ciò rende più competitive le aziende e, sempre ragionando dal punto di vista dell'offerta, esse potranno vendere di più, in particolare e da subito all'estero e, più in là nel tempo, grazie all'allargamento dell'occupazione e alla derivante disponibilità di spesa, trainare pure il mercato interno. Preconizzano un modello esportativo di sviluppo, chiamato altresì neo-mercantilismo, sull'esempio della Germania.
Tuttavia, questa prospettiva per consolidarsi e non tradursi in un trompe d'oeil, suppone che nella concorrenza internazionale altri Paesi non facciano altrettanto e di più, o magari in anticipo, in termini di deflazione salariale (perciò si parla di svalutazioni salariali competitive) costringendoci nel futuro prossimo a nuovi Jobs Act al ribasso.
Non è affatto una novità. Con varie denominazioni e forme questa è la china su cui è stato trascinato il Paese negli ultimi decenni. Continuamente riverniciando politiche e rimodellando i messaggi comunicativi, le nostre élites dirigenti non sembrano avere strategie di riserva e battono imperterrite la stessa strada. Non sorprende che il Prof. Ichino, dopo aver aderito entusiasta a Scelta Civica di Monti e alla sua fallimentare austerità, ora con immutato entusiasmo rientri nel PD di Matteo Renzi.
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Decontribuzioni

    Secondo le simulazioni della Uil* con il Jobs Act, se l'azienda:
  • assume ha benefici di 8.000 euro medi l'anno;
  • licenzia dopo un anno paga un indennizzo medio di 2.538 euro e ha un saldo positivo di 5.483 euro;
  • se assume e licenzia dopo 3 anni, ha benefici fiscali pari a 24.000 euro, paga un indennizzo di 7.614 euro e ha un saldo positivo di 16.449 euro.
http://www.uil.it/documents/Deca.pdf
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Mamma Stato
In questo circuito vizioso si incontrano inevitabilmente fenomeni già ampiamente sperimentati: il mercato interno rifiata e la disoccupazione cala temporaneamente per poi ricrescere, accompagnata dallo sprofondamento di una ulteriore fetta della popolazione oltre la soglia della povertà. Nel degrado una fascia del lavoro dipendente e autonomo arriva a percepire redditi insufficienti per il suo stesso sostentamento. Oramai esiste una vasta letteratura sui poor workers (soprattutto nord-americani).
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Deflazione salariale
"Molti settori dell'economia americana hanno remunerazioni più basse oggi del 1973. Si chiama deflazione salariale. Solo di recente i lavoratori americani sembrano aver recuperato un po' di forza contrattuale, e i salari reali accennano a una timida risalita. Ma negli Stati del Sud la messa al bando dei sindacati dalle fabbriche garantirà salari bassi ancora per molto tempo."
    Federico Rampini, Repubblica Affari & Finanza, 26/01/2015
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Se a mamma Stato avevano fatto platealmente e pesantemente appello le istituzione finanziarie private in occasione del crack dei mutui subprime, non di meno e sistematicamente viene richiesto il suo soccorso a "tamponare" la caduta dei redditi sia da disoccupazione che da sotto-salari. Ne andrebbe della stabilità sociale.

Una débâcle totale per l'ideologia liberista, arcinemica dell'interventismo di Stato a cui i suoi eroi ricorrono sia in prima istanza,1 sia in ultima che "durante", ininterrottamente. Tanto da non poterla nemmeno più escludere sul piano teorico.2
Per tornare al mercato del lavoro, infatti, le regolamentazioni liberiste vengono accompagnate da sussidi alla disoccupazione e, come fu nel caso delle riforme tedesche3 a cui il Jobs Act si ispira, anche da noi s'impone socialmente il reddito di cittadinanza verso gli inoccupati, i disoccupati e ad integrazione di retribuzioni insufficienti per lo stesso sostentamento degli occupati. Il che, beninteso, non rende meno impellente la lotta per affermarne il diritto, sia esso chiamato reddito minimo o, come vuole Libera di don Ciotti, della "dignità". In particolare dove manca totalmente, come in Italia, dove le élites dirigenti hanno sempre il "braccino corto" quando non si tratti dei propri potenti "assistiti" o delle proprie prebende.
La ricomparsa dei "più bisognosi"
Verrebbe automatico ricorrere a precedenti storiche imitazioni. Al noto "imperialismo straccione" di mussoliniana memoria. Ma l'Italia, pur essendo rubricata dai creditori internazionali come periferia d'Europa, non è nella stessa condizione della Grecia o della Spagna. Perciò può essere considerata prima periferia, con un forte carico di interni squilibri territoriali: dell'occupazione persa in oltre 7 anni di crisi conclamata, il Meridione ne ha patito per tre quarti. Emblematico è lo stato in cui versa la Sardegna.
Sul piano degli ammortizzatori sociali siamo però meno coperti della Spagna e condividiamo con la Grecia il bel primato di non godere di un minimo redditto di cittadinanza.
Al varo degli attuativi del Jobs Act ha fatto seguito la proposta di legge di M5S per un reddito minimo (condizionato all'accettazione di offerte di lavoro). Tuttavia, il responsabile economico del PD, Filippo Taddei, pur vantando l'introduzione dell'Asdi4 (ben 200 milioni!) nel Jobs Act, avanza dubbi sulla qualità delle coperture previste dai "grillini", lasciando intendere che ci sono dei vincoli di bilancio ai quali non possiamo sottrarci. Sicché converrebbe concentrare le esigue risorse sui "più bisognosi",5 riscoperta categoria ottocentesca.
Sul contenuto della tempestiva proposta di M5S si può discutere, se, come osserva Luciano Gallino, non sia propriamente un Basic income (senza condizioni), ma occorrerà soprattutto guardarci dai molti liberisti austeri alla Ichino, i quali vorrebbero mettere mano tanto alla Cassa Integrazione, quanto le mani sui contributi dei lavoratori ad essa destinati (via Inps).
Comunque sia, la risposta di Taddei ripone il problema del vincolismo europeo, della nostra sovranità limitata dal sistema centralizzato di potere a moneta unica, a cui le nostre élites anche economiche si sono accorpate, che, se vale per una spesa di bilancio a "tampone sociale", a maggior ragione vale per qualsiasi seria iniziativa strategica volta al rilancio occupazionale.
Stabile instabilità
Oltre ai poteri reali europei, c'è l'economia reale.
Nell'attuale contesto, la svalutazione dell'euro originata dal Quantitative easing della Bce dell'eurodifensore Mario Draghi,6 nonché la caduta del prezzo del petrolio e la ripresa nord-americana, sembrano propiziare un certo risveglio dell'economia italiana. Come accadde in passato, ci sarà una corsa mediatica a prendersi i meriti di una eventuale ripresa, anche la più anemica, nascondendo le sue effettive origini.
Recenti dati ISTAT segnalano una diminuzione minuscola a gennaio della disoccupazione (-0,1%) rispetto a dicembre. La disoccupazione giovanile è al 41,2%, a -2% su base annua. Paolo Mameli di Intesa Sanpaolo7 segnala, però, che i precari sono aumentati di 145.000 unità (a termine) e 31.000 (collaboratori), mentre i dipendenti a tempo pieno sono in diminuzione di 53.000 unità.
Occorrerà attendere gli effetti del Jobs Act per capire se i precari inquadrati nelle vecchie forme contrattuali diminuiranno ed aumenteranno, e in quale misura, i nuovi occupati nel "contratto a tutele crescenti". Ma se ciò accadesse, potremmo parlare di stabilizzazione del lavoro?
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Meno di 3 anni

«A guardare i numeri, si capisce che il numero di lavoratori e dei datori di lavoro è non cambiato. Per essere chiari: non si tratta di occupazione aggiuntiva, ma di un "travaso" dai contratti a termine a quelli a tempo indeterminato, avvenuto sfruttando gli sgravi fiscali». E in effetti ad approfittarne «non sono state le piccole aziende che avevano (e continuano ad avere) problemi nell’assumere nuove persone, ma le aziende medio-grandi che avevano già assunto e che non aspettavano la riforma di Renzi per farlo». A Milano, poi, già adesso «il tempo medio di durata di un contratto a tempo indeterminato è più breve rispetto a un contratto a tempo determinato di tre anni. Questo perché la durata non dipende dalla tipologia contrattuale ma dall’azienda che c’è dietro».
    Dichiarazione di Livio Lo Verso a l'Inkiesta (18/02/2015)
    http://www.linkiesta.it/confusione-imprenditori-jobs-act
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Mentre appaiono distanti le previsioni di Poletti (incremento da 100 a 200 mila posti di lavoro nel 2015) rispetto a quelle dell'Ocse (240 mila nuovi posti in 5 anni), giorni or sono Livio Lo Verso, presidente dell'Osservatorio sul mercato del lavoro, ha rilasciato una dichiarazione piuttosto indicativa [vedi riquadro dedicato].

Pertanto, dagli "osservatori" viene la conferma delle critiche per le quali le regole in sè non creano nuovo lavoro, con l'accento posto su due punti solitamente trascurati:
  1. la durata e la stabilità, aggiungerei anche in buona misura la qualità del posto di lavoro, dipendono "dall'azienda che c'è dietro";
  2. la durata media dei contratti a tempo indeterminato già ora, prima del Jobs Act, sul mercato di Milano (!) è inferiore ai tre anni.
    Di cosa stiamo parlando, allora? Di una "malformazione"?
Economia reale
Nella narrazione di Gomorra le "eccellenze" della moda made in Italy, molte delle quali sono passate dalle mani degli stilisti creativi a quelle degli investitori finanziari internazionali, fanno largo uso del distretto produttivo della camorra campana.
Altrettanto succede per le fabbriche-dormitori del distretto "cinese" toscano, del cui "nero" ci si accorge sempre dopo, quando vi muoiono degli operai ridotti in semi-schiavitù.
In questi anni le cronache ci hanno offerto un ampio spettro delle conseguenze generate: dalle continue ristrutturazioni toward the market;8 dai bocconcini in cui le attività d'impresa vengono spezzettate, scorporate, vendute e rivendute; dalle delocalizzazioni infinite; dalle esternalizzazioni a catena, i cui anelli, da fornitura a sub-fornitura, si fanno via via più deboli (e poi si piangono calde lacrime sul lavoro nero!), fino a lasciare la committente con la sola funzione di vendita; dalle ricadute shock della logica del capital gain9 sugli assetti aziendali; dal downsizing10 (tipo Ryanair) a cui è sottoposto il personale dipendente per la felicità dei consumatori.
Cos'altro serve per ammettere che in una economia finanziarizzata, dominata dagli oligopoli, gli investimenti nelle produzioni di beni e servizi comportano una perdurante instabilità, a cui non può corrispondere, giocoforza, alcuna stabilità dell'occupazione?
Non meravigli neppure che a questa economia reale corrisponda una concentrazione della ricchezza consolidata in capo ad una ristretta classe di paperoni, tanto da indurre alcuni economisti a teorizzare una sorta di capitalismo patrimoniale.11
Né vale chiamare in causa l'innovazione tecnologica, come fattore neutralmente determinante. I sostenitori delle "libere tecnologie in libero mercato" sono gli stessi che vorrebbero mettere le manette al free software e ad internet, per non parlare della brevettazione dei semi (espropriati alle comunità storiche) ed altre similari libertarie iniziative.
Ne deriva che la tendenza al precariato non è un fenomeno temporaneo e tantomeno connesso alle specifiche regole del mercato del lavoro. A porvi rimedio, pertanto, non basterebbero né nuove regole, né un aumento qualsiasi degli investimenti, e alla cui solidità può certo concorrere, complessivamente, un sistemico ricorso a una politica di "repressione finanziaria" (invocata a gran voce dopo il crack del 2007-2008 e caduta poi nel dimenticatoio).
Giacché questa è l'economia reale, e non quella per cui la base produttiva potrebbe prosperare come in un limbo separato e distinto dalla economia finanziaria, immaginata come una sorta di empireo della moneta12 e della carta in cui si guadagna sui debiti e il danaro si fa col danaro (che invece penetra e domina strutturalmente l'insieme sistemico, rimodellandolo a propria immagine e somiglianza, come dimostra la pratica della moneta unica), è con questo capitalismo reale e con i suoi poteri politici reali, europei innanzitutto, che bisogna fare i conti.

1 Per le grandi immissioni di liquidità della Fed negli anni dell'euforia, il Prof. De Cecco coniò la definizione di "prestatori di prima istanza".
2 Jean-Paul Fitoussi, Il teorema del lampione. Einaudi, 2013, Primo capitolo.
3 Sono le riforme Hartz, di cui fanno parte i mini-jobs, realizzate dal governo di Gerhard Schroeder.
4 Limitato sussidio per disoccupati.
5http://www.italiaoggi.it/news/news.asp?ricerca=ok&testo=bluff&chkTitolo=yes&chkAgenzie=TMFI|ITALIAOGGI|CLASSNEWS|OGGIEUROPA&sez=notfound
6 Trattato in precedenti scritti su questo Blog.
7 Il Fatto Quotidiano, 3 marzo 2015.
8 Traducibile in: rivolte al mercato.
9 Traducibile in: guadagno in conto capitale.
10 Traducibile in: ridimensionamento.
11 Thomas Piketty identifica il capitale con il patrimonio.
12 Appare davvero "strano" che i critici della teoria della moneta-velo non traggano le dovute conseguenze politiche dal loro stesso pensiero critico.