Messe a fuoco
Precarietà ed economia reale
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Per il governo e per i suoi sostenitori istituzionali e mass-mediali il Jobs Act e, più in generale, le riforme del mercato del lavoro possono conseguire l'obiettivo di aumentare l'occupazione e stabilizzarla, se ben architettate.
Solitamente
la critica a questo genere di aspettative si concentra sulla mancanza
di una relazione diretta e automatica tra riforma delle normative
regolatrici del mercato del lavoro e crescita occupazionale. In
mancanza di investimenti produttivi, essa sostiene, verso un mercato
che ne recepisca beni e servizi, in allargamento della capacità
d'acquisto, mutare regole serve a poco o a nulla.
La
bella riforma
Come
l'esperienza insegna il liberismo non de-regolamenta, quasi a voler
ripristinare un mercato "naturale" liberato dagli artifici
della politica e dalla congenita sua elettorale debolezza verso "il
sociale", bensì ri-regolamenta politicamente in senso classista
e sempre one-way,
a senso unico. Non fa eccezione il Jobs
Act.
Tanto più in quanto interviene sui rapporti di lavoro, dopo che i
precedenti governi avevano indotto al Far
West del
precariato e del sotto-salario. La litania di fondo è sempre e
bugiardamente la stessa: "alle leggi del mercato non si può
resistere", ci si adegua.
Come se il
Mercato fosse determinato da Madre Natura o dallo Spirito Santo.
Avendo
introdotto nel contratto a tempo indeterminato la licenziabilità
individuale e collettiva, corredata da eventuale demansionamento e
dalla libertà padronale di controllo a distanza, la tutela resta
crescente solo sul lato della indennità, pari a una mensilità per
ogni anno lavorato, con un tetto di 24 mensilità (non bisogna
esagerare in bontà). Di converso le decontribuzioni [vedi
riquadro dedicato]
"senza se e senza ma", ovvero priva di vincoli e
restituzioni, rendono oltremodo vantaggioso per l'impresa l'adozione
di questa tipologia di contratto. Sicché il Jobs
Act configura
un contratto di precariato a tempo indeterminato a crescente
indennità di licenziamento.
Sostengono
i liberisti dello sviluppo austero (per i quali austerità e crescita
non si contraddicono) che tutto ciò rende più competitive le
aziende e, sempre ragionando dal punto di vista dell'offerta, esse
potranno vendere di più, in particolare e da subito all'estero e,
più in là nel tempo, grazie all'allargamento dell'occupazione e
alla derivante disponibilità di spesa, trainare pure il mercato
interno. Preconizzano un modello esportativo di sviluppo, chiamato
altresì neo-mercantilismo, sull'esempio della Germania.
Tuttavia,
questa prospettiva per consolidarsi e non tradursi in un trompe
d'oeil,
suppone che nella concorrenza internazionale altri Paesi non facciano
altrettanto e di più, o magari in anticipo, in termini di deflazione
salariale
(perciò
si parla di svalutazioni salariali competitive) costringendoci nel
futuro prossimo a nuovi Jobs
Act al
ribasso.
Non
è affatto una novità. Con varie denominazioni e forme questa è la
china su cui è stato trascinato il Paese negli ultimi decenni.
Continuamente riverniciando politiche e rimodellando i messaggi
comunicativi, le nostre élites
dirigenti non sembrano avere strategie di riserva e battono
imperterrite la stessa strada. Non sorprende che il Prof. Ichino,
dopo aver aderito entusiasta a Scelta Civica di Monti e alla sua
fallimentare austerità, ora con immutato entusiasmo rientri nel PD
di Matteo Renzi.
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Decontribuzioni
- assume ha benefici di 8.000 euro medi l'anno;
- licenzia dopo un anno paga un indennizzo medio di 2.538 euro e ha un saldo positivo di 5.483 euro;
- se assume e licenzia dopo 3 anni, ha benefici fiscali pari a 24.000 euro, paga un indennizzo di 7.614 euro e ha un saldo positivo di 16.449 euro.
Secondo le simulazioni della Uil* con il Jobs Act, se l'azienda:
* http://www.uil.it/documents/Deca.pdf
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Mamma Stato
In
questo circuito vizioso si incontrano inevitabilmente fenomeni già
ampiamente sperimentati: il mercato interno rifiata e la
disoccupazione cala temporaneamente per poi ricrescere, accompagnata
dallo sprofondamento di una ulteriore fetta della popolazione oltre
la soglia della povertà. Nel degrado una fascia del lavoro
dipendente e autonomo arriva a percepire redditi insufficienti per il
suo stesso sostentamento. Oramai esiste una vasta letteratura sui
poor
workers (soprattutto
nord-americani).
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Deflazione
salariale
"Molti
settori dell'economia americana hanno remunerazioni più basse oggi
del 1973. Si chiama deflazione salariale. Solo di recente i
lavoratori americani sembrano aver recuperato un po' di forza
contrattuale, e i salari reali accennano a una timida risalita. Ma
negli Stati del Sud la messa al bando dei sindacati dalle fabbriche
garantirà salari bassi ancora per molto tempo."
Federico
Rampini, Repubblica Affari & Finanza, 26/01/2015
Se a mamma Stato avevano fatto platealmente e
pesantemente appello le istituzione finanziarie private in occasione
del crack dei mutui subprime, non
di meno e sistematicamente viene richiesto il suo soccorso a
"tamponare" la caduta dei redditi sia da disoccupazione che
da sotto-salari. Ne andrebbe della stabilità sociale.
Per
tornare al mercato del lavoro, infatti, le regolamentazioni liberiste
vengono accompagnate da sussidi alla disoccupazione e, come fu nel
caso delle riforme tedesche3
a cui il Jobs
Act
si ispira, anche da noi s'impone socialmente il reddito di
cittadinanza verso gli inoccupati, i disoccupati e ad integrazione di
retribuzioni insufficienti per lo stesso sostentamento degli
occupati. Il che, beninteso, non rende meno impellente la lotta per
affermarne il diritto, sia esso chiamato reddito minimo o, come vuole
Libera di don Ciotti, della "dignità". In particolare dove
manca totalmente, come in Italia, dove le élites
dirigenti hanno sempre il "braccino corto" quando non si
tratti dei propri potenti "assistiti" o delle proprie
prebende.
La
ricomparsa dei "più bisognosi"
Verrebbe
automatico ricorrere a precedenti storiche imitazioni. Al noto
"imperialismo straccione" di mussoliniana memoria. Ma
l'Italia, pur essendo rubricata dai creditori internazionali come
periferia d'Europa, non è nella stessa condizione della Grecia o
della Spagna. Perciò può essere considerata prima periferia, con un
forte carico di interni squilibri territoriali: dell'occupazione
persa in oltre 7 anni di crisi conclamata, il Meridione ne ha patito
per tre quarti. Emblematico è lo stato in cui versa la Sardegna.
Sul piano
degli ammortizzatori sociali siamo però meno coperti della Spagna e
condividiamo con la Grecia il bel primato di non godere di un minimo
redditto di cittadinanza.
Al
varo degli attuativi del Jobs
Act
ha fatto seguito la proposta di legge di M5S per un reddito minimo
(condizionato all'accettazione di offerte di lavoro). Tuttavia, il
responsabile economico del PD, Filippo Taddei, pur vantando
l'introduzione dell'Asdi4
(ben 200 milioni!) nel Jobs
Act,
avanza dubbi sulla qualità delle coperture previste dai "grillini",
lasciando intendere che ci sono dei vincoli di bilancio ai quali non
possiamo sottrarci. Sicché converrebbe concentrare le esigue risorse
sui "più bisognosi",5
riscoperta categoria ottocentesca.
Sul
contenuto della tempestiva proposta di M5S si può discutere, se,
come osserva Luciano Gallino, non sia propriamente un Basic
income
(senza condizioni), ma occorrerà soprattutto guardarci dai molti
liberisti austeri alla Ichino, i quali vorrebbero mettere mano tanto
alla Cassa Integrazione, quanto le mani sui contributi dei lavoratori
ad essa destinati (via Inps).
Comunque
sia, la risposta di Taddei ripone il problema del vincolismo europeo,
della nostra sovranità limitata dal sistema centralizzato di potere
a moneta unica, a cui le nostre élites anche economiche si
sono accorpate, che, se vale per una spesa di bilancio a "tampone
sociale", a maggior ragione vale per qualsiasi seria iniziativa
strategica volta al rilancio occupazionale.
Stabile
instabilità
Oltre
ai poteri reali europei, c'è l'economia reale.
Nell'attuale
contesto, la svalutazione dell'euro originata dal Quantitative
easing
della Bce dell'eurodifensore Mario Draghi,6
nonché la caduta del prezzo del petrolio e la ripresa
nord-americana, sembrano propiziare un certo risveglio dell'economia
italiana. Come accadde in passato, ci sarà una corsa mediatica a
prendersi i meriti di una eventuale ripresa, anche la più anemica,
nascondendo le sue effettive origini.
Recenti
dati ISTAT segnalano una diminuzione minuscola a gennaio della
disoccupazione (-0,1%) rispetto a dicembre. La disoccupazione
giovanile è al 41,2%, a -2% su base annua. Paolo Mameli di Intesa
Sanpaolo7
segnala, però, che i precari sono aumentati di 145.000 unità (a
termine) e 31.000 (collaboratori), mentre i dipendenti a tempo pieno
sono in diminuzione di 53.000 unità.
Occorrerà
attendere gli effetti del Jobs Act per capire se i precari
inquadrati nelle vecchie forme contrattuali diminuiranno ed
aumenteranno, e in quale misura, i nuovi occupati nel "contratto
a tutele crescenti". Ma se ciò accadesse, potremmo parlare di
stabilizzazione del lavoro?
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Meno
di 3 anni
«A
guardare i numeri, si capisce che il numero di lavoratori e dei
datori di lavoro è non cambiato. Per essere chiari: non si tratta
di occupazione aggiuntiva, ma di un "travaso" dai
contratti a termine a quelli a tempo indeterminato, avvenuto
sfruttando gli sgravi fiscali». E in effetti ad approfittarne «non
sono state le piccole aziende che avevano (e continuano ad avere)
problemi nell’assumere nuove persone, ma le aziende medio-grandi
che avevano già assunto e che non aspettavano la riforma di Renzi
per farlo». A Milano, poi, già adesso «il tempo medio di durata
di un contratto a tempo indeterminato è più breve rispetto a un
contratto a tempo determinato di tre anni. Questo perché la durata
non dipende dalla tipologia contrattuale ma dall’azienda che c’è
dietro».
Dichiarazione
di Livio Lo Verso a l'Inkiesta (18/02/2015)
http://www.linkiesta.it/confusione-imprenditori-jobs-act
Mentre appaiono distanti le previsioni di Poletti
(incremento da 100 a 200 mila posti di lavoro nel 2015) rispetto a
quelle dell'Ocse (240 mila nuovi posti in 5 anni), giorni or sono
Livio Lo Verso, presidente dell'Osservatorio sul mercato del lavoro,
ha rilasciato una dichiarazione piuttosto indicativa [vedi
riquadro dedicato].
Pertanto,
dagli "osservatori" viene la conferma delle critiche per le
quali le regole in sè non creano nuovo lavoro, con l'accento posto
su due punti solitamente trascurati:
- la durata e la stabilità, aggiungerei anche in buona misura la qualità del posto di lavoro, dipendono "dall'azienda che c'è dietro";
- la durata media dei contratti a tempo indeterminato già ora, prima del Jobs Act, sul mercato di Milano (!) è inferiore ai tre anni.Di cosa stiamo parlando, allora? Di una "malformazione"?
Economia
reale
Nella
narrazione di Gomorra le "eccellenze" della moda made in
Italy, molte delle quali sono passate dalle mani degli stilisti
creativi a quelle degli investitori finanziari internazionali, fanno
largo uso del distretto produttivo della camorra campana.
Altrettanto succede per le
fabbriche-dormitori del distretto "cinese" toscano, del cui
"nero" ci si accorge sempre dopo, quando vi muoiono degli
operai ridotti in semi-schiavitù.
In
questi anni le cronache ci hanno offerto un ampio spettro delle
conseguenze generate: dalle continue ristrutturazioni toward the
market;8
dai bocconcini in cui le attività d'impresa vengono
spezzettate, scorporate, vendute e rivendute; dalle delocalizzazioni
infinite; dalle esternalizzazioni a catena, i cui anelli, da
fornitura a sub-fornitura, si fanno via via più deboli (e poi si
piangono calde lacrime sul lavoro nero!), fino a lasciare la
committente con la sola funzione di vendita; dalle ricadute shock
della logica del capital gain9
sugli assetti aziendali; dal downsizing10
(tipo Ryanair) a cui è sottoposto il personale dipendente per la
felicità dei consumatori.
Cos'altro
serve per ammettere che in una economia finanziarizzata, dominata
dagli oligopoli, gli investimenti nelle produzioni di beni e servizi
comportano una perdurante instabilità, a cui non può corrispondere,
giocoforza, alcuna stabilità dell'occupazione?
Non
meravigli neppure che a questa economia reale corrisponda una
concentrazione della ricchezza consolidata in capo ad una ristretta
classe di paperoni, tanto da indurre alcuni economisti a teorizzare
una sorta di capitalismo patrimoniale.11
Né
vale chiamare in causa l'innovazione tecnologica, come fattore
neutralmente determinante. I sostenitori delle "libere
tecnologie in libero mercato" sono gli stessi che vorrebbero
mettere le manette al free software e ad internet, per non
parlare della brevettazione dei semi (espropriati alle comunità
storiche) ed altre similari libertarie iniziative.
Ne
deriva che la tendenza al precariato non è un fenomeno temporaneo e
tantomeno connesso alle specifiche regole del mercato del lavoro. A
porvi rimedio, pertanto, non basterebbero né nuove regole, né un
aumento qualsiasi degli investimenti, e alla cui solidità può certo
concorrere, complessivamente, un sistemico ricorso a una politica di
"repressione finanziaria" (invocata a gran voce dopo il
crack del 2007-2008 e caduta poi nel dimenticatoio).
Giacché
questa è
l'economia reale, e non quella per cui la base produttiva potrebbe
prosperare come in un limbo separato e distinto dalla economia
finanziaria, immaginata come una sorta di empireo della moneta12
e della carta in cui si guadagna sui debiti e il danaro si fa col
danaro (che invece penetra e domina strutturalmente l'insieme
sistemico, rimodellandolo a propria immagine e somiglianza, come
dimostra la pratica della moneta unica), è con questo capitalismo
reale e con i suoi poteri politici reali, europei innanzitutto, che
bisogna fare i conti.
1
Per le grandi immissioni di liquidità della Fed negli anni
dell'euforia, il Prof. De Cecco coniò la definizione di "prestatori
di prima istanza".
2
Jean-Paul Fitoussi, Il teorema del lampione. Einaudi, 2013, Primo
capitolo.
3
Sono le riforme Hartz, di cui fanno parte i mini-jobs, realizzate
dal governo di Gerhard Schroeder.
4
Limitato sussidio per disoccupati.
5http://www.italiaoggi.it/news/news.asp?ricerca=ok&testo=bluff&chkTitolo=yes&chkAgenzie=TMFI|ITALIAOGGI|CLASSNEWS|OGGIEUROPA&sez=notfound
6
Trattato in precedenti scritti su questo Blog.
7
Il Fatto Quotidiano, 3 marzo 2015.
8
Traducibile in: rivolte al mercato.
9
Traducibile in: guadagno in conto capitale.
10
Traducibile in: ridimensionamento.
11
Thomas Piketty identifica il capitale con il patrimonio.
12
Appare davvero "strano" che i critici della teoria della
moneta-velo non traggano le dovute conseguenze politiche dal loro
stesso pensiero critico.