venerdì 20 ottobre 2017

Soluzioni forti per un'Europa in crisi

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Soluzioni forti per un'Europa in crisi
Catalogna test europeo – Centralismo autoritario contro piccola patria – La disgregazione da Est ad Ovest – Chiusure tedesche ed austriache – Il sogno di un “Napoleon francese” - Penetrazioni straniere nella vuotaggine europea – La continuità sulla soglia di un salto.
  • Stretta nel contrasto tra continuità centralista (di lascito franchista) e rottura indipendentista (di piccola patria), la Catalogna mette alla prova la residua capacità di unificazione politica dell'Unione.
  • Ciò accade dopo le elezioni tedesche ed in contemporanea con quelle austriache; entrambe chiudono ad un'Europa della condivisione.
  • In pochi mesi la stella del presidente francese Macron è già declinante, ma in Italia c'è che sogna una neo-napoleonica “Europa dei cannoni”.
  • L'Europa delle nazioni in preda al micro-patriottismo? Il “vuoto” europeo penetrato dal “pieno” costituito da Russia ed Islam?
  • Per dare continuità ai poteri che la dominano, l'Unione europea, dalle molte divisioni e chiusure, è posta di fronte ad un pericoloso salto.
Il test catalano
La maggior parte dei commentatori mainstream avvalora la tesi della illegalità costituzionale del referendum voluto dalla Generalitat de Catalunya, che, per giunta, avrebbe raccolto un consenso minoritario.
Viene sottovalutato il successo rappresentato da una partecipazione al voto del 42,64% del corpo elettorale (90% di sì), pur in presenza di un intervento repressivo da parte del governo centrale di Rajoy che ha limitato in modo violento l'accesso ai seggi, quando non ne ha distrutto schede ed urne. In aggiunta, la pretesa di Madrid di ridurre la questione catalana ad un problema di ordine pubblico, ha sicuramente rafforzato l'indipendentismo, laddove appariva ancora numericamente minoritario.
Poiché gli svolgimenti in atto potrebbero produrre ricadute assai pesanti sull'intero continente, l'Unione europea è stata chiamata da più parti a mediare tra le contrastanti ragioni della Generalitad, basate sulla “autodeterminazione democratica e sulla volontà popolare catalana”, e del governo Rajoy, fondate sulla “inviolabilità costituzionale dell'integrità territoriale e della sovranità nazionale della Spagna”.
Dalle colonne del Messaggero, Alessandro Campi1 parte da una constatazione critica piuttosto “tiepida”. Riconosce che l'Unione soffre di scarso gradimento. Ma vede un'efficacia minima del suo operato e solo “errori”, laddove dovrebbe registrare dei fallimenti, dovuti alle logiche dei poteri che la indirizzano.
Per Campi la crisi catalana è l'occasione per ridare “forma ed obiettivi” al “suo progetto continentale”.
«E dovrebbe farlo proponendo alle parti l'unica soluzione politica che salvando l'unità e la continuità istituzionale della Spagna salvi anche, in prospettiva sé stessa: quella di un'Europa fondata su Stati nei quali unità e decentramento, sovranità nazionale e autonomia politico-territoriale, coesione politica e pluralismo socio-culturale possono, anzi debbono, tranquillamente convivere. (…)
«(...) è l'alchimia istituzionale che dovrà realizzarsi in Spagna per sbarrare la strada all'indipendentismo che probabilmente implicherà l'evoluzione costituzionale di quel Paese in senso compiutamente federalista. Ma è anche la formula politica intorno alla quale, su una scala più grande, dovrà ricostruirsi l'Europa di domani.»
In altri termini, se l'Unione europea, proponendosi nella mediazione, non è in grado di impedire la secessione, supportando una transizione di tipo federalista in Spagna, non può costruirsi, su una scala più grande, come entità federale.
In buona sostanza, ed adottando il linguaggio dei teorici dello state building, qualora l'Europa non mostri di saper superare, come Unione, questa prova interna che coinvolge un suo Paese membro, dimostrerà ancor più di essere priva della capacità-forza di unificazione politica dell'insieme continentale.
Accantonate virtù
Non sappiamo cosa stia succedendo dietro le quinte. Nell'occasione i partners europei hanno riscoperto ufficialmente le accantonate virtù della non ingerenza negli affari interni. Un principio che non valse allorché l'Europa occidentale, caduto il muro di Berlino, volle espandersi ad Est e nei Balcani.
Ricordate la ex-Jugoslavia?
Eppure ne va dell'appartenenza della Catalogna all'Unione europea, giacché la secessione ne comporta l'automatica esclusione, resa poi irreversibile dalla sicura opposizione della Spagna al suo reintegro.2 Un esito che coinvolge pure la partecipazione alla zona euro3 e l'appartenenza alla Nato, in contraddizione con le aspettative del governo catalano, che ha convogliato il malcontento sociale, generato dalla crisi economica, in direzione di uno sganciamento non solidaristico della “ricca Catalogna” dalla più “povera Spagna”.
Di contro, se per la costituzione spagnola il referendum era illegale, non di meno era illegittimo privare i catalani della libertà di esprimersi pacificamente in un referendum. Per negarla il governo centrale ha usato le maniere forti, approfondendo un fossato divisorio già ampiamente scavato.
Nella situazione venutasi a creare, ai fini dell'unità spagnola la mediazione doveva poter contare su due opposte rinunce e su una convergenza: di Madrid al centralismo di origine e spirito franchista; di Barcellona al nazionalismo indipendentista di piccola patria; insieme convergendo su un disegno di riassetto costituzionale di impronta federalista.
Rifiutandosi al "parlem, hablamos", proposto dalla parte dialogante della piazza, alla quale Carles Puigdemont aveva prestato ascolto mettendo in mora l'indipendenza, Madrid ha risposto con un ultimatum. Il partito socialista (PSOE) di Pedro Sánchez, per confermare il suo sostegno alla chiusura al dialogo del governo Rajoy e di Felipe VI, ha chiesto ed ottenuto in cambio una labile promessa di riforma costituzionale a posteriori: un pannicello caldo.
L'indipendentismo catalano è stato “circondato” dal ricatto finanziario ed economico (quasi in stile Grecia) e dalla minaccia di revoca dello status di autonomia [vedi riquadro “Costituzione spagnola, art. 155”] in una escalation che potrebbe condurre persino ad una dichiarazione di stato d'assedio. Eppure piegare l'indipendentismo al diktat non consegnerà la Spagna ad un futuro di unità e forza. Al contrario, la indebolirà e, nel radicarsi dei risentimenti, rinvigorirà le spinte alla disunione.
Costituzione spagnola, art. 155
«(I) Ove la Comunità Autonoma non ottemperi agli obblighi imposti dalla Costituzione o dalle altre leggi, o si comporti in modo da attentare gravemente agli interessi generali della Spagna, il Governo, previa richiesta al Presidente della Comunità Autonoma e, ove questa sia disattesa con l’approvazione della maggioranza assoluta del Senato, potrà prendere le misure necessarie per obbligarla all’adempimento forzato di tali obblighi o per la protezione di detti interessi.
(II) Il Governo potrà dare istruzioni a tutte le Autorità delle Comunità Autonome per l’esecuzione delle misure previste nel comma precedente.»
La continuità preferita
L'appoggio al governo centrale di Madrid, dato dai partners europei, include una decisa preferenza per la continuità rappresentata da Rajoy, autoritario all'interno quanto subalterno alle élites politico-economiche europee ed ai governi del Centro dell'Unione, restii a rischiare una discontinuità nella quale una Spagna riunita potrebbe presentarsi al loro cospetto con un governo indignado.
Se ciò è vero, ne consegue che la conservazione degli assetti di potere interni all'Unione comporta un ulteriore indebolimento degli Stati-nazione in posizione periferica, nella convinzione (illusione?) che quelli al Centro abbiano sufficiente forza per trainare dietro di sé l'insieme comunitario.
Una transizione irrisolta
La situazione spagnola attuale è anche l'amara eredità di una transizione irrisolta.
Il fascismo di Francisco Franco non entrò nel secondo conflitto mondiale, a fianco di Hitler e Mussolini che erano intervenuti direttamente in suo soccorso nella guerra civile. Nel dopoguerra poté sopravvivere, in quanto parte dello schieramento anti-comunista atlantico, per trent'anni e fino a metà degli anni settanta. Alla morte del caudillo transitò alla democrazia parlamentare e pluripartitica in modo “pacifico”4. Tuttavia, non fece i conti fino in fondo con i pesanti lasciti del franchismo. Tra questi, quello delle nazionalità oppresse, inclusa la Catalogna, terra di tenace resistenza antifascista.
Sul filo della continuità, garantita dal ritorno del Re Borbone,5 non approdò ad una Costituzione federalista, adeguata alle sue diversità. Se il fascismo aveva represso nel modo più brutale le nazionalità, in seguito il Partido Popular (PP), erede della tradizione centralista franchista,6 passa ai mezzi “legali”. Il PP giunge a presentare ricorso al Tribunal Constitucional contro lo Statuto del 2006, approvato dal parlamento spagnolo e ratificato dai catalani con un referendum popolare. Ne ottiene l'annullamento, bloccando da quel momento in poi, per dieci anni, ogni soluzione condivisa sul tema delle autonomie.
Mariano Rajoy
In un contesto europeo contrassegnato dall'allargamento delle divergenze strutturali, che accentuano i preesistenti dislivelli interni (in Spagna come in Italia), la Catalogna, più ricca rispetto ad altre aree della Spagna, tende ad agganciare il Centro continentale piuttosto che scivolare nella periferia iberica. Sicché, confluendo le conseguenze della crisi economica nelle cause storiche e politiche, forze politiche prima autonomiste si sono convertite all'indipendentismo, determinando una maggioranza in suo favore nella rappresentanza parlamentare catalana.
Inclusione ed esclusione
Data per finita, la storia mostra tutto il suo insospettato peso. Chi di disgregazione ferisce...
Negli anni '90, per espandersi verso Oriente e verso i Balcani, i governi dell'Europa occidentale, non esitarono a riconoscere le piccole patrie etnico-confessionali della ex-Jugoslavia, fomentando una guerra disgregatrice. Invece di operare per una soluzione unitaria, di rinnovamento e ricomposizione della federazione già esistente,7 fecero a gara nei riconoscimenti in funzione della penetrazione egemonica dei propri capitali nazionali, incuranti delle conseguenze, salvo versare poi ipocrite lacrime di coccodrillo.
Al fine dell'assoggettamento balcanico, oggi evidente nelle differenziate posizioni periferiche di quelle piccole patrie, era meglio se, gettando il bambino con l'acqua sporca (il socialismo con il regime politico), uno Stato plurinazionale, plurireligioso e multietnico fosse diviso in deboli “taglie piccole”.
Mentre la Germania si unificava grazie all'Anschluß della DDR, i Balcani venivano spezzettati, la Cecoslovacchia si scompose in due e pure la Serbia fu divisa dal Kossovo, in seguito alla “guerra umanitaria” giustificata dal “diritto d'ingerenza umanitaria”. Infine, ai giorni nostri, anche l'Ucraina, terra di confine, invece di fungere da trait d'union di pace tra Europa e Federazione Russa, è stata trasformata in avamposto militare occidentale, spingendola nel sangue di una guerra intestina e di confine.
In quella fase d'espansione, la secessione preludeva all'inclusione nelle Periferie d'Europa; oggi la secessione fa rima, semplicemente, con esclusione.
Instabilità teutonica
Prima che in Spagna scoppiasse la questione catalana, in Germania si sono tenute le elezioni politiche, dalle quali è emersa una instabilità sconosciuta nel Paese [vedasi nella finestra “Legenda tedesca”], su cui fa perno l'attuale assetto europeo.

        Legenda tedesca

Questi i risultati per il rinnovo del Bundestag, la camera bassa del Parlamento tedesco:
Unione Cristiano Democratica di Germania (Christlich Demokratische Union Deutschlands – CDU): 26,8%, 193 seggi (-73);
Unione Cristiano-Sociale in Baviera (Christlich-Soziale Union in BayernCSU): 6,2%, 45 seggi (-11);
Partito Socialdemocratico di Germania (Sozialdemokratische Partei Deutschlands - SPD): 20,5%, 148 seggi (-45);
Alternativa per la Germania (Alternative für DeutschlandAfD): 13%, 95 seggi (+95);
Partito Democratico Libero (Freie Demokratische ParteiFDP): 10,7%, 78 seggi (+78);
La Sinistra (Die Linke): 9,2%, 66 seggi (+2);
I Verdi (Die Grünen): 8,9%, 65 seggi (+2).
Rispetto al 2013, CDU-CSU (federate) perdono l'8,5% dei voti e la SPD perde il 5,2%. AfD supera per la prima volta la soglia minima del 5% per accedere alla rappresentanza. La FDP rientra in parlamento dopo che nelle precedenti elezioni era rimasta al di sotto della soglia minima. Leggeri gli incrementi della Sinistra e dei Verdi.
I partiti della grande coalizione tra la democristiana CDU e la socialdemocratica SPD hanno registrato pesanti perdite, a vantaggio dei “patrioti” xenofobi e fascistizzanti della AfD e dei liberali della FDP, che hanno visto convalidata la propria annunciata rigidità contro ogni condivisione dei rischi nella zona euro. Persino le posizioni austere del ministro delle finanze uscente, Wolfgang Schäuble, potrebbero sembrare permissive ed indulgenti, rispetto a quelle che tendono a prevalere nel governo “Giamaica”,8 al quale Angela Merkel sta lavorando.
Stante il rafforzamento delle forze “euroscettiche” e di chiusura verso ogni condivisione democratica, rimane da capire come l'europeismo dei Verdi tedeschi si sistemerà nella futura coalizione.
Intanto in Austria, il partito popolare (ÖVP) capeggiato dal giovane Sebastian Kurz, vince perché gioca d'anticipo, facendo propria la piattaforma politica della destra xenofoba e “patriottica”.
Un salvatore napoleonico
In Francia, a pochi mesi dal voto, la stella del neo-presidente è già appannata, anche per l'esplicitarsi delle sue politiche interne. Mentre ha prontamente adottato misure sul lavoro di deflazione salariale competitiva, della promessa solidarietà sociale non c'è traccia. La pretesa di coniugare liberalismo e giustizia sociale era solo un bluff elettorale.
Sul piano europeo, l'asse franco-tedesco, su cui Macron fondava la propria prospettiva, non appare né sufficientemente saldo, né in grado di assumere un ruolo di leadership politica, capace di radunare attorno a sé un generale consenso europeo transnazionale.
Ciò nonostante in Italia non mancano coloro che ripongono speranza nell'unico “potere forte” rimasto nel vecchio continente, quale sarebbe quello francese. Dalle colonne di uno dei maggiori quotidiani italiani,9 il professor Angelo Panebianco palesa entusiasmo per il programma di Macron di “sovranità europea”, espresso alla Sorbona il 26 settembre scorso:
«(...) in grado di fronteggiare le sfide che incombono: una vera difesa comune, la capacità di controllare i confini esterni, innovazioni istituzionali per completare l'integrazione economico-finanziaria, governare la rivoluzione digitale, fronteggiare i mutamenti climatici.»
Quando si prescinda dalle buone intenzioni sui mutamenti climatici e dall'immancabile necessità di governare la rivoluzione digitale, rimangono le vere priorità di Macron: difesa, confini, economia.
Prima di passare tra l'Europa e l'intorno, la chiusura dei confini è stata effettuata tra Stati dell'Unione.
La coabitazione politica sull'asse Parigi-Berlino dovrebbe “completare l'integrazione economico-finanziaria”, tramite “innovazioni istituzionali”.
Data l'impresentabile storia militare della Germania, la Francia, dotata di un “esecutivo forte” ed unica potenza nucleare rimasta nell'Unione, aspira ad assumere il ruolo guida della “difesa comune”,
Esplosione nucleare francese
riequilibrando a proprio favore la schiacciante egemonia politica ed economica tedesca sul continente. Avvalendosi di questa leva, Parigi vorrebbe rimodulare il duopolio con Berlino connettendo,
ça va sans dire, il rilancio delle produzioni belliche per la “difesa comune” al compimento dell'integrazione economico-finanziaria. Uno schema, direi classico, nel quale può riconoscersi un sostenitore, come Panebianco, dell'Europa non del burro ma dei cannoni.
Ma in base a quale “sovranità europea”?
Si tratterebbe di dare continuità all'attuale dominio delle oligarchie politico-economiche tramite il governo di istituzioni, come quelle del sistema a moneta unica,10 sovrapposte a detrimento della sovranità democratica e costituzionale dei Paesi dell'Unione. Con l'aggravante che, in questo caso, le “innovazioni istituzionali” produrrebbero un salto nel rapporto tra produzioni belliche e finanza.
Di come vi si aggiusterebbe l'Italia abbiamo avuto importanti avvisaglie. In due illuminanti occasioni: l'affaire tra Fincantieri e STX France (cantieri di Saint-Nazaire)11; la “pacificazione” della Libia.
D'altro canto, per ottenere la conferma delle posizioni gregarie in Europa di Italia e Spagna, occorrerà garantire la continuità d'indirizzo politico dei loro futuri governi. Non interferendo nei loro affari interni?
Chiusure multiple
Ciascun Paese è indotto a far da sé, a chiudersi nelle proprie contraddizioni, tanto più se viene ribadita la continuità dell'assetto continentale. Questa chiusura verso l'interno si accompagna alla chiusura comune sia verso la Federazione Russa, a colpi di sanzioni e contro-sanzioni in seguito alla crisi ucraina, che nel Mediterraneo.
D'altronde, l'imposizione all'Africa del modello agricolo euro-occidentale, dal quale deriva l'accalcarsi degli esclusi dall'accesso alla terra nelle bidonvilles di immense megalopoli, è destinato ad infoltire la susseguente spinta migratoria.12
In Europa abbiamo avuto una prova di cosa significhi l'imposizione di questo modello, allorché le campagne dei Paesi dell'Est si sono spopolate, accentuando le migrazioni verso l'estero, mentre i loro terreni più pregiati finivano nelle mani del business agro-alimentare internazionale.
Volendo perseverare nello squilibrio sistemico, di depredamento delle risorse di suolo e sottosuolo, distruttivo dell'ambiente, “aiutarli a casa loro” è solo un modo ipocrita di mascherare i propositi di chiusura nella crisi della globalizzazione a cui partecipa l'Ue.
A tale riguardo, non sfugga all'attenzione che proprio la Spagna di Rajoy, nelle sue enclavi di Ceuta e Melilla in Marocco, abbia eretto barriere di filo spinato pagate dall'Ue, poi rialzate sotto l'egida di Frontex.
Esterni pericoli
Alla difficile ricerca di una spiegazione di quanto sta accadendo sotto i nostri occhi, non poteva mancare il contributo di Ernesto Galli della Loggia.
In un fondo sul Corriere della Sera13 egli parte dalla constatazione che gli Stati europei, in particolare occidentali, sono in declino, a causa dell'autonomismo e del localismo, nonché dalla crescente perdita di legittimità. Tuttavia, invece di indagare ulteriormente sui portati della globalizzazione in versione europea e della sua presente crisi, nella profondità sociale e nel distacco tra potere politico-finanziario e popoli, addita il pericolo derivante da “due fenomeni nuovi”: il lavorio sotterraneo multiforme della Russia di Putin e l'aggressività finanziaria di una parte del mondo arabo islamico. Un terzo pericolo è solo accennato: quello della Cina che si accaparra i porti del continente per sviluppare la sua politica mercantilistica.
Ne trae “due conclusioni, perlomeno indiziarie”.
«La prima è che sulle società dell'Europa occidentale, in specie sulla loro vicenda pubblica, sta cominciando a gravare l'ipoteca di un iniziale, ambiguo condizionamento esterno sempre più vario e penetrante. La Seconda concomitante conclusione è che nella stessa area si è messo in moto – in parte consapevolmente voluto, in parte no – un processo di erosione da di dentro dell'intero sistema della sovranità, e dunque un progressivo indebolimento della statualità.»
Gli Stati occidentali, ricchi di tutto, sarebbero però poveri di spirito combattivo, fragili, nei quali i cittadini ben poco s'identificano. Ne deriverebbe un problema di “pieno” e di “vuoto”:
«(...) mentre dietro il “pieno” si stagliano i profili di due grandi tradizioni teologiche-politiche – quella dell'ortodossia russa della Terza Roma da un lato, e quella dell'Islam dall'altro – dietro il “vuoto”, invece c'è la progressiva evanescenza della coscienza cristiana dell'Occidente europeo.»
In attesa che Galli della Loggia ci chiarisca quali possano essere i possibili riempimenti del “vuoto” ed in cosa si sostanzi la differenza tra la sua visione e “lo scontro di civiltà”, dal quale dice di divergere, va da sé che occorra da subito contrastare il sopravvento di un “pieno” quantomeno indesiderabile. Par di capire che da subito andrebbero avversate le minacce esterne costituite dalle insidiose pratiche di Putin, forti dell'ortodossia della Terza Roma, e dalle penetrazioni della finanza araba, forte della tradizione dell'Islam.
Ma come rimediare alla “evanescenza della coscienza cristiana dell'Occidente europeo”?
Il prezzo della continuità
I maîtres à penser di casa nostra si aggirano (sconsolati) tra un'Europa che manca di capacità di unificazione in una comune identità politica, tanto debole di statualità e spirito combattivo quanto vuota di idealità, sì da lasciarsi penetrare da Russia ed Islam, e la ricerca di un campione continentale in grado di darle force de frappe e di istituzionalizzarne l'integrazione economico-finanziaria già imperante.
Alle conseguenze delle politiche liberiste e della globalizzazione si accenna troppo spesso en passant. Sul modo in cui è stata costruita sin qui l'Europa si sorvola. Men che meno ci si addentra nella sopravvenuta fase di crisi della globalizzazione, e dell'Unione in essa. Il riconosciuto declino non ha genitori.
Divisioni e chiusure procedono di pari passo. È quanto accade all'Europa ed in Europa.
In difesa delle oligarchie dominanti, sempre più lontane e contrapposte agli interessi ed alla sovranità dei popoli, si escogitano soluzioni che propongono di realizzare l'unificazione politica non per via democratica e nella giustizia sociale, ma individuando nemici esterni e riempiendo il “vuoto” tramite una verticistica ristrutturazione degli assetti economico-finanziari in base all'opzione militare.
Ma i conflitti sociali e tra gli Stati non si sono estinti, si sono solo trasferiti. Il compito di comprenderne divenire e riapparire, abbandonando schemi interpretativi ad hoc, non va affidato a chi vuole perseverare, con un salto pericoloso, nello stato di cose presenti.

Note
1 Alessandro Campi, “Dietro la crisi catalana anche gli errori dell'Europa”, il Messaggero, 9 ottobre 2017.
2 Per essere ammessi è necessaria l'unanimità degli Stati membri.
3 La materia è controversa se teniamo conto del Principato di Andorra, che ha l'euro come moneta ma non è nell'Unione europea.
4 In realtà, tra l'altro, fu tentato un golpe da parte di alcuni comandanti militari capeggiati dal colonnello Tejero (23 febbraio 1981).
5 Poiché la guerra civile era stata scatenata contro la Repubblica, durante il fascismo la Spagna restò un Regno provvisoriamente senza Re.
6 Alleanza Popolare (Alianza Popular), progenitrice del PP, venne creata nel 1976 da un ex ministro del governo di Francisco Franco, Manuel Fraga Iribarne.
7 La Jugoslavia, frutto di un movimento risorgimentale, nacque come Stato unitario dopo il primo conflitto mondiale. Fu assalita e divisa dalla Germania nazista e dall'Italia fascista, quindi ricomposta a seguito della vittoria della resistenza comunista titina.
8 Dai colori della bandiera giamaicana che sono quelli dei partiti chiamati a far parte della nuova coalizione, dalla quale i socialdemocratici della SPD si sono già dichiarati fuori ed alla opposizione.
9 Angelo Panebianco, “L'Europa dei leader deboli”, Corriere della Sera, lunedì 9 ottobre 2017.
10 Alla Sorbona Macron ha affossato la mutualizzazione del debito, gli eurobond e la condivisione del rischio.
11 Il disegno francese di supremazia sul militare è assecondato dalla propensione italiana a dedicarsi alla produzione degli scafi (50% del valore delle imbarcazioni) piuttosto che ai sistemi elettronici e di armamento (restante 50%) con il loro notevole indotto territoriale. Sull'argomento, vedasi intervista a Pier Francesco Guarguaglini di Giorgio Meletti, “Governo e manager stanno affondando Finmeccanica”, il Fatto Quotidiano, 11/10/2017.
12 Sul tema vedasi il Post “Immigrazione”, ottobre 2014.
13 Ernesto Galli della Loggia, “Il declino degli Stati europei”, Corriere della Sera, 11 ottobre 2017.


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giovedì 19 ottobre 2017

Il pollo di Renzi

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Non si stratta dei polli di Renzo dei Promessi sposi, ma di un pollo, quello reso celebre dalla poesia di Trilussa “La statistica”.

Esultanze. Siamo a fine agosto. Commentando i dati Istat, che registrano 918.000 occupati in più da febbraio 2014, Matteo Renzi twitta esultante:
«Il milione di posti di lavoro lo fa il #JobAct, adesso #avanti.»
In contemporanea, il ministro del Lavoro, Giuliano Poletti, commenta:
«I dati Istat di oggi [ndr di luglio] segnalano il superamento della soglia dei 23 milioni di occupati: un altro passo nella giusta direzione, che ci avvicina ai livelli pre-crisi.»
A settembre, poiché le previsioni di crescita del Pil si attestano, per il biennio 2017-2018, su +1,5%, il ministro dell'Economia e delle Finanze, Pier Carlo Padoan, prospetta un conseguente aumento dell'occupazione.
Il 2 ottobre l'Istat conferma:
«Ad agosto 2017 la stima degli occupati continua a crescere (+0,2% rispetto a luglio, pari a +36 mila), confermando la persistenza della tendenza positiva già osservata negli ultimi mesi. Il tasso di occupazione sale al 58,2% (+0,1 punti percentuali).»
Mentre Berlusconi aveva solo promesso nel “contratto con gli italiani” firmato in diretta da Vespa, a maggio 2001, “la creazione di almeno 1 milione e mezzo di posti di lavoro”, il PD di Renzi si avvia a realizzarli in concreto.
Tuttavia, nel frattempo, è sopravvenuta la grande crisi e la disoccupazione ha raggiunto livelli allarmanti. Si potrà dire sia che più in basso di così non potevamo andare, sia che il compito di creare occupazione era reso oltremodo difficile dal crollo economico generale.
In questi termini, del tipo “bicchiere mezzo pieno o mezzo vuoto”, la discussione perderebbe di vista altri più importanti aspetti.
Nel concreto. In primo luogo guardiamo alla popolazione in età lavorativa. Dal 2008, anno del crack, essa, con l'arrivo degli immigrati, è aumentata, sicché il tasso di occupazione1 attestato al 58,2% in agosto, è minore rispetto a quello di 9 anni fa (58,9%).
Vanno poi considerati i sottoccupati. Secondo la Fondazione Di Vittorio (Cgil) nel 2008 avevamo 3,42 milioni di contratti part time, dei quali 2,03 volontari e 1,39 involontari. Nel 2017, su un totale di 4,33 milioni di lavoratori a part time, gli involontari sono saliti a 2,62 milioni, allargando la forbice rispetto ai volontari. La stessa Fondazione ci dice che:
«L’aumento del numero dei precari sommato al part time involontario produce una cifra record di oltre 4,5 milioni di persone che svolgono un’attività che non hanno scelto e che non vorrebbero.»2
Qualora, secondo gli avvertimenti della Banca Centrale Europea, si calcolassero anche i sottoccupati e gli inattivi disponibili, in Italia a fine 2016 avremmo avuto un tasso di disoccupazione non dell'11,8%, bensì del 23,8%.
A fare da più sicuro riferimento ci sono le statistiche sulle ore lavorate. Nel secondo trimestre del 2008 conteggiavamo 11,6 miliardi di ore, mentre nello stesso trimestre del 2017 siamo a 10,9 miliardi, per uno scarto di -5,8%.
L'inghippo. A spiegare l'arcano è la semplice lettura di come l'Istat calcola l'occupazione, con l'aiuto del suo Glossario.
Tra le persone di 15 anni e più che figurano occupate vengono computati coloro che “nella settimana di riferimento”,3 “hanno svolto almeno un'ora di lavoro in una qualsiasi attività” retribuita, oppure non retribuita se “nella ditta di un familiare nella quale collaborano abitualmente”. Chi è temporaneamente assente per ferie, malattia o altro risulta ovviamente occupato.
Viceversa sono considerate disoccupate le persone, tra i 15 ed i 74 anni, che “hanno effettuato almeno un'azione attiva di ricerca dei lavoro nelle quattro settimane che precedono la settimana di riferimento”, sono disponibili a lavorare o inizieranno un lavoro anche autonomo entro un dato periodo. Agli inattivi appartengono tutti coloro che non sono né occupati né disoccupati.
Definire occupata una persona che svolge 1 ora di lavoro nella “settimana di riferimento” contraddice non solo il senso comune: è una palese forzatura. E poco importa che l'Istat si sia adeguato ai criteri di rilevazione dell'Organizzazione internazionale del lavoro.
Il pollo. Poetava Trilussa:
Me spiego: da li conti che se fanno
seconno le statistiche d'adesso
risurta che te tocca un pollo all'anno:
e, se nun entra nelle spese tue,
t'entra ne la statistica lo stesso
perch'è c'è un antro che ne magna due.
Ecco, basta dire che 1 ora di lavoro a settimana equivale ad 1 occupato e la statistica dà ragione a Renzi.
Note:
1 Rapporto tra gli occupati e la corrispondente popolazione di riferimento.
2 http://www.fondazionedivittorio.it/it/record-dei-contratti-tempo-determinato-occupati-livello-del-2008-ma-molte-meno-ore-lavorate-crescita
3 Settimana a cui fanno riferimento le informazioni raccolte dall'Istat.