giovedì 21 luglio 2016

Una cambiale in bianco

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Perché dovremmo passare alla “Seconda Repubblica”. Ritorno in auge della transizione gollista. Storie ricostruite per calzare un modello che perde colpi. L'Italia in crisi nella crisi d'Europa, con Renzi “padrone del campo”. A quale scopo?
  • Legge elettorale e riforma costituzionale modificano la seconda parte della Costituzione, pensata per attuare i principi fondativi della Repubblica enunciati nella prima parte.
  • Per Stefano Ceccanti, teorico delle riforme renziane, con la vittoria del al referendum la transizione alla Seconda Repubblica sarebbe (quasi) finita.
  • In capo ad essa avremmo “governi che governano”, non più condannati alla “debolezza”, forti di una “democrazia immediata” aderente alla “Europa della decisione”.
  • La transizione repubblicana viene proposta attraverso una rilettura assai “ripulita” e unilaterale della storia italiana ed europea.
  • Chi e perché vuole affrontare la crisi italiana in quella continentale, affidando una cambiale in bianco nelle mani del capo dell'esecutivo.
25 Aprile 2016
A Genova Laura Boldrini, presidente della Camera, afferma che il referendum autunnale «comunque non tocca la prima parte della Costituzione che sono i nostri valori fondativi, tocca la seconda parte. In Parlamento c'è stato un dibattito, tutti erano d'accordo a rivedere il bicameralismo perfetto certamente non tutti erano d'accordo sul come farlo a questo punto abbiamo passato il testimone agli italiani.»1
Qualche settimana dopo, Germano Nicolini, il partigiano “diavolo”, annuncia il suo sì al referendum2 e dichiara: «La Costituzione non va toccata nei primi 13 articoli, che rimangono per me il Vangelo. Ma il resto si può riformare, si deve velocizzare. Io addirittura il Senato lo toglierei! (…) Se vincerà il no e cadrà il governo, invece, in questo mondo di turbolenze, sarà il disastro.»3
Aldo Cazzullo
L'oramai storico della Resistenza, Aldo Cazzullo, dalle colonne del Corriere, scrive: «La libertà e la democrazia sono come l'aria e l'acqua; ci si accorge della loro necessità quando cominciano a mancare. Ma non sono in discussione nel prossimo referendum; che deve stabilire se le garanzie democratiche – compresa la capacità di prendere decisioni – siano assicurate meglio dalle norme vigenti o da quelle introdotte con la riforma.»4
Libertà e democrazia stanno al sicuro, il referendum deve solo stabilire se “le garanzie democratiche”, tra cui Cazzullo opportunamente inserisce la capacità di decisione (!), siano meglio o peggio garantite dalla riforma. Insomma, don't worry, la riforma non interferisce sui “valori fondativi” che restano “Vangelo”.
Eppure la democrazia vive della sovranità, la quale «appartiene al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della Costituzione»5. Forme e limiti contenuti nella sua seconda parte, dedicata all'organizzazione dei poteri. Se, riformandola insieme alla legge elettorale, queste forme vengono de-formate e questi limiti oltremodo ristretti, i “valori fondativi” della prima parte diventano inutili annunci, parole vuote.
Pilastri anomali
È su questa seconda parte che concentrano l'attenzione gli ingegneri delle riforme promosse dal governo. Tra essi spicca Stefano Ceccanti, considerato il loro ispiratore. Nel suo recente libro6, presentato su l'Unità del 20 gennaio 2016, espone la sua teoria che poggia su una ricostruzione storica di cui riassumo i punti chiave.
Stefano Ceccanti
  • La Repubblica italiana si trascina appresso problemi costituzionali ed istituzionali irrisolti dal momento in cui fu scritta la Carta, nel biennio '46-'47, già imperversante la Guerra Fredda tra Est ed Ovest.
  • In una situazione analoga versava la Francia, dalla quale uscì, tra il 1958 ed il 1962, grazie alle riforme di De Gaulle ed alla Quinta Repubblica, realizzate nel pieno della crisi algerina.
  • Pur in presenza delle nuove condizioni date dalla caduta del Muro e da Maastricht, in Italia il secondo sistema dei partiti (subentrato al primo) non è riuscito a trovare una soluzione adeguata e coerente perché ha seguito un “percorso erratico”.
  • Finalmente le riforme del governo Renzi, pur perfezionabili, permettono di chiudere (o quasi) la transizione alla II Repubblica, superare lo stato di “impotenza” del governo, assicurare la governabilità ed associare l'Italia alla “Europa della decisione”.
  • Ciò consentirà di rinnovare il sistema della rappresentanza e dei partiti (terzo sistema), dando vita alla “democrazia immediata” e di incrementare il “rendimento istituzionale” dello Stato per gestire al meglio le “dinamiche intergovernative” su cui è incentrata la costruzione europea.
Quali sono i pilastri istituzionali su cui poggia l'anomalia italiana causando la “debolezza dei governi”?
Ne sono indicati essenzialmente tre.
  1. Il bicameralismo perfetto di Camera e Senato, da cui la doppia fiducia richiesta dal Governo alle due camere e la duplicità dell'iter legislativo. Da qui il proliferare obbligato della decretazione d'urgenza, decreti legge e leggi delega (queste ultime servite per aderire agli ordinamenti dell'Unione europea).
  2. Il dualismo tra Presidente della Repubblica e Presidente del Consiglio, con il secondo in posizione debole perché nominato dal primo anziché risultante direttamente dal voto.
  3. Il rapporto tra Stato centrale ed autonomie regionali, reso complicato dal cosiddetto “federalismo regionale” e dai problemi fiscali.
Da essi principalmente derivano lentezze, inefficienze ed impotenze, mentre a monte di tutto si colloca il sistema elettorale, fonte prima di irrazionalità e incoerenza: inizialmente il proporzionale puro; ultimamente il maggioritario di coalizione, applicato per la Camera su base nazionale e per il Senato su base regionale, con risultati divergenti.
Dopo aver esaminato il merito delle riforme Renzi-Boschi ed il modo in cui sono state introdotte, al post “Sovranità a referendum” e relative Appendici, affronterò qui l'impianto metodologico e storico su cui poggiano, grazie alla elaborazione teorica del professor Ceccanti.
Con un breve appunto preliminare.
Secondo Gianfranco Pasquino7 il ddl Boschi non cambia la forma di governo che, pur rafforzata nell'esecutivo, rimarrebbe di tipo parlamentare tradizionale. A rigore, non si potrebbe parlare neppure di Seconda Repubblica. Inoltre, «la transizione si chiude davvero soltanto quando quasi tutti gli attori politici rilevanti, anche se non hanno convenuto sulle riforme e sulle soluzioni, accettano l'esito che diventa the only game in the town
In caso di sconfitta autunnale, le forze del No accetteranno di condividerne l'esito? È lecito dubitarne.
A maggior ragione se consideriamo le intenzioni dei riformatori renziani, i quali riterrebbero “quasi” finita la transizione, ossia ancora da completare.
Cosa sottintende quel “quasi” messo tra parentesi nel titolo stesso del libro di Ceccanti? Una possibile risposta nei passi finali di questo scritto.
Metodo combinatorio
Sulla scia dello studioso francese Maurice Duverger, Ceccanti segue il “metodo combinatorio” che, per spiegare il funzionamento effettivo delle istituzioni, ritiene necessaria «una stretta combinazione tra il commento giuridico e l'analisi di scienza politica». Senza confondere i «due approcci disciplinari resi convergenti dal fatto di applicarli ad unico ambito di realtà studiata».
Seguendo il filo degli approcci convergenti si rimane però colpiti, per un verso, da una sorta di “ingegneria” istituzionale e, per un altro, dal restringimento ad hoc della “realtà studiata”.
Dico “ingegneria” in quanto irrazionalità, incoerenze e disfunzioni appaiono come semplici constatazioni diagnostiche sotto una lente di laboratorio, discendendone rimedi di tecnica istituzionale, supposti come super partes. In tal modo viene riprodotta in ambito storico-giuridico la logica generale TINA8, già applicata ai problemi di macro-economia, sulla soluzione dei quali non si discute, ma ci si affida ai tecnici specialisti della materia, “neutrali” per auto-definizione. Salvo poi doverne constatare, a posteriori, i fallimenti ed essere costretti a rivedere tutto, “neutralità” compresa. Come accadde dopo il crack 2006-2007.
Quanto alla “realtà studiata”, storica ed attuale, essa pare contrassegnata da alcune presenze, per vicende a cui viene data una interpretazione troppo scontata, e da molte assenze, per altre vicende ritenute o prive di significato politico o non pertinenti.
Perciò capita di incontrare una ricostruzione delle differenze tra Francia ed Italia e della riforma costituzionale gollista a dir poco tranchantes.
O di sentirsi investiti della suprema missione di aderire all'”Europa della decisione”, senza riferimento alcuno alle concrete criticità continentali e, di conseguenza, senza spiegare quali tipi di decisioni risolutorie il popolo italiano dovrebbe demandare al governo, sottraendo a se stesso ulteriore sovranità.
Ceccanti fugge sistematicamente da un terreno in cui teme di impantanarsi: quello dell'Italia viva, delle aspre contese politico-sociali, dei movimenti di lotta, e dell'Europa reale in cui il “matrimonio coatto”, che teneva sotto controllo gli “spiriti animali” del capitalismo, è stato sciolto, andando a minare le fondamenta stesse delle Costituzioni (la nostra in particolare) basate sulla promessa di un capitalismo dal volto umano, socialmente sostenibile.
Transizione gollista
Per quali motivi in Francia fu possibile una transizione che, invece, non ebbe luogo in Italia?
Ceccanti scrive: «In estrema sintesi la Quarta Repubblica francese è crollata dopo dodici anni sia perché le basi di consenso iniziali alla Costituzione erano ridotte sia perché le norme di razionalizzazione adottate ben più forti di quelle italiane (prevalenza dell'Assemblea sul Senato, regolamentazione significativa di fiducia, sfiducia e scioglimento, primazia del Presidente del Consiglio sui ministri) erano comunque deboli rispetto alla frammentazione e alla polarizzazione del sistema dei partiti. Da lì, sotto la guida di De Gaulle, forte del ruolo commissariale per la crisi algerina, la soluzione relativamente rapida e internamente coerente della transizione (1958 ripristino delle legge elettorale uninominale maggioritaria e nuova Costituzione; 1962 elezione diretta del Presidente).»
Charles De Gaulle
L'Italia «con «un'ampia condivisione del testo costituzionale e con un sistema dei partiti alquanto strutturato» mise in sordina la «relativa debolezza delle regole relative alla forma di governo e di quelle elettorali».
Senza la crisi algerina della Francia coloniale, De Gaulle non avrebbe potuto commissariare la Quarta Repubblica, né, forte di quello stato d'eccezione, avviare la sua transizione. All'Italia sconfitta e privata delle colonie, pacifista per proibizione oltreché per vocazione resistenziale, questa “fortuna” fu felicemente risparmiata.
Perché non va dimenticato che Charles de Gaulle condusse, all'interno dell'Occidente, una politica estera relativamente indipendente anche nei rapporti con l'Urss, motivata dall'esercizio della propria sovranità nazionale. Essa si basò sull'idea nazionalista di grandeur e su una forza militare indipendente, la force de frappe, dotata di armamento nucleare autonomo.9
Ma è sulla composizione del potere costituente italiano che occorre approfondire, quando Ceccanti si riferisce, per esempio, alle posizioni assunte dal socialismo italiano di Pietro Nenni. Parzialmente ridimensionato dalla scissione di Palazzo Barberini10, si distinse da quello francese che si disse da subito parte dell'atlantismo occidentale e, perciò, non soggetto alla conventio ad excludendum dal governo che colpì chiunque prioritariamente non vi aderisse.
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Antifascismo italiano
Agosto 1922
Barricate di Parma contro i fascisti 

Coloro che si opposero alla prima guerra mondiale si ritrovarono presto tra i primi oppositori dello squadrismo fascista. Sin dagli anni '20 si formò un antifascismo che poi confluì nella Resistenza.
Solo nella sua fase conclusiva di liberazione nazionale dall'occupazione tedesca nazista, al cui servizio s'era posta la Repubblica sociale di Salò, vi aderirono più forze politiche. Ivi comprese quelle che “stavano alla finestra”, nonché quelle monarchiche e liberal-nazionaliste, fino all'8 settembre del 1943 pienamente corresponsabili del regime e della guerra. Queste ultime cercavano di salvarsi dalla disfatta a cui avevano concorso, rifugiandosi sotto l'ala protettrice degli eserciti alleati a guida anglo-americana, appena sbarcati per occupare il territorio di uno Stato aggressore e sconfitto. Con esse tentavano di trovare scampo larga parte della grande borghesia nazionale e dell'apparato statale, le élites dirigenti del ventennio mussoliniano.
La formazione del nostro antifascismo, tuttavia, risaliva agli '20 ed ebbe una storia sua, fortemente collegata al fatto che lo squadrismo fascista si era abbattuto sulle organizzazioni bracciantili, operaie e contadine in difesa delle classi proprietarie agrarie, industriali e finanziarie.
In particolare allo squadrismo resistettero gli Arditi del Popolo. Pertanto, la lotta al fascismo ed al capitalismo costituirono un tutt'uno ed il nucleo portante di un fronte democratico, che si allargò in seguito dalle classi lavoratrici e da alcuni gruppi di intellettuali a larghi strati della società civile.
Dopo la marcia su Roma, in Parlamento alla Legge Acerbo di stabilizzazione del potere nelle mani di Mussolini e del PNF si opposero i partiti comunista e socialista, insieme ad una ridotta frazione dei cattolici popolari ed alcune personalità liberali*.
Dopo il delitto Matteotti (siamo già nel 1924) l'opposizione al fascismo, temporaneamente, si allargò e rinvigorì. Successivamente, carcere e confino la repressero duramente, mentre le politiche di sviluppo “autarchico” e le “vittoriose imprese d'Africa” (1930-35) riuscirono a raccogliere un più vasto consenso. In fin dei conti il fascismo dimostrava di realizzare l'immaginario, a lungo alimentato dalla cultura nazionalistica, di “un posto al sole” per l'”Italia proletaria”, scesa coraggiosamente in guerra nel '15, e alla quale la vittoria era stata “mutilata”.
Furono, per gli antifascisti attivi rimasti a piede libero, i duri anni dell'esilio, della rete clandestina, della guerra di Spagna (luglio 1936 - aprile 1939), preparatoria del conflitto mondiale.
Questa composizione popolare dell'antifascismo, del pacifismo anti-colonialista e contrario alla politica imperialista, formatasi per fasi ed allargamenti non lineari, animò gran parte della seguente Resistenza. In essa si saldarono istanze di classe e della società civile, economiche e politico-culturali, che insieme condizionarono il dettato costituzionale.
*Al riguardo è illuminante l'iter legis della riforma elettorale Acerbo, ricordata in questo Blog al post “Italicum & Porcellum”.
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L'antifascismo italiano [vedi riquadro dedicato] ebbe una storia diversa da quello francese. Nel nostro Paese il “fenomeno fascista” si affermò non con i carri armati tedeschi ed il conseguente collaborazionismo del maresciallo Pétain, ma muovendo i primi passi dal “radioso maggio”, ossia dal prevalere dell'interventismo nel primo conflitto mondiale.11
Coloro che si opposero alla guerra si ritrovarono presto tra i primi oppositori dello squadrismo fascista. Sin dagli anni '20 si formò un antifascismo che poi confluì nella Resistenza.
Abilità di manovra
La storia e la composizione dell'antifascismo italiano, in cui si saldarono istanze di classe e della società civile, economiche e politico-culturali,12 condizionò il dettato costituzionale. Ben più profondamente delle abilità di manovra di Palmiro Togliatti nell'Assemblea costituente, che pure ci furono e su cui non proprio benevolmente indugia Ceccanti.
Ciò spiega la differenza di posizione politica del socialismo italiano di Pietro Nenni, aderente al Fronte Popolare con i comunisti di Togliatti, ed il legame con l'Unione Sovietica, protagonista del rovescio nazista a partire dalla battaglia di Stalingrado.
Fu quella saldatura popolare che impedì la “razionalità funzionale” rivendicata da Ceccanti, lasciando in campo la contraddizione sociale irrisolta. Perché la Costituzione, come vedremo più avanti, rappresentò ad un tempo un punto di approdo, un difficile equilibrio e un'apertura di prospettiva che, nel '46-'47, non era per niente scontata.
Leggerla a posteriori come assodata, per giunta sottacendo gli aspri conflitti dei due decenni successivi, è una “epurazione” della storia.
In quel presente: fu preclusa la via ad un esecutivo forte e si diede vita ad una Repubblica parlamentare basata sul proporzionale puro, con distinti e separati poteri statuali; nelle assemblee elettive le opposizioni non furono marginalizzate e ridotte al diritto residuale di tribuna.
Prima delle elezioni del '48 le componenti socialiste e comuniste subirono l'esclusione dal governo, ma dopo la sconfitta del 18 aprile poterono tenere vive le lotte sociali e politiche.
Chi non l'accettò
Pesavano sull'Italia l'esperienza del fascismo, della repressione sociale e politica, lo strapotere dell'esecutivo, la subalternità dei tribunali al governo e quant'altro aveva istituzionalizzato la fascistizzazione e la dittatura.
Pesava la responsabilità di una intera classe dirigente che aveva voluto la guerra portando il Paese al disastro.
Sicché la Democrazia Cristiana, quando cercò delle soluzioni che andavano nella stessa direzione di quella francese (evirate però di ogni intento di “sovranità nazionale”), trovò la strada sbarrata. Accadde, prima del De Gaulle “algerino”, con la “legge truffa” voluta da De Gasperi nel 195313 e, durante il De Gaulle della transizione repubblicana, con il governo monocolore di Tambroni, sorto con l'appoggio “esterno” di fascisti e monarchici.
Nel luglio 1960 fece 11 morti tra i manifestanti di tutta la penisola, prima di doversi dimettere.
Fatti “dimenticati” che disturbano la ricostruzione storica ad hoc di Ceccanti, al pari di tutti i tentativi di cambiare la Costituzione succedutisi nei decenni.
«(...) da quando è stata approvata la Costituzione – democrazia e lavoro – c'è chi non l'ha mai accettata, ha cercato in ogni modo, lecito e illecito, di cambiarla per imporre una qualche forma di regime autoritario.» Così si esprime Gustavo Zagrebelsky14, ricordando che tra costoro figurano i nomi di Randolfo Pacciardi, Edgardo Sogno, Luigi Cavallo, Giovanni De Lorenzo, Junio Valerio Borghese, Licio Gelli.
Istituzioni refrattarie
Ceccanti non ritiene di dover tener conto dei movimenti di massa e del loro portato politico-culturale, nel ridisegnare le istituzioni. Ma tacerne [vedi riquadro “Desaparesidos dalla storia”] serve solo a renderle refrattarie, corpi estranei non partecipati.
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Desaparesidos dalla storia
Genova 2001

I movimenti degli anni '50 e della prima metà degli anni '60 videro protagoniste le organizzazioni sindacali e partitiche della sinistra, come avvenne nel contrasto al tentativo democristiano di Tambroni.
Verso la fine degli anni '60 il rapporto tra queste organizzazioni ed i movimenti subirono sostanziali cambiamenti. Per l'irrompere dei movimenti studentesco, giovanile ed operaio delle grandi fabbriche, e per il ponte solidale che in quegli anni fu gettato tra le lotte interne e quelle di liberazione del terzo mondo.
Dal 1969, stragi di Stato, opera di servizi segreti interni-esterni e mano d'opera fascista, repressioni e leggi liberticide costellarono un lungo periodo di conflitti interni (tutti rubricati dai mass-media negli indistinti “anni di piombo” di marca terroristica), mentre veniva rifiutata la logica dei blocchi e si fece largo la consapevolezza che, sotto il manto della “coesistenza” subentrata alla Guerra Fredda, Usa e Urss in realtà mirassero a spartirsi il mondo in zone d'influenza.
Non è difficile rintracciare una linea di continuità internazionalista che dal Vietnam alla Palestina giunge fino a Genova 2001, passando per: l'opposizione alle “navi italiane nel Golfo” (agosto 1990) e alla guerra contro l'Iraq (gennaio 1991); la “politica dei riconoscimenti” delle piccole patrie etniche da parte dei governi europei, che fomentò la guerra nella ex-Jugoslavia (1991-95), fino all'intervento “umanitario” della Nato in Kosovo (1999). Così come non è difficile rinvenire un progressivo discostarsi, per fasi alterne e non lineari, della sinistra tradizionale dal suo intendimento originario, culminato nella partecipazione alla guerra del Kosovo (1999) da parte del governo D'Alema, in violazione della Costituzione.
Come se traessero forza da un sotterraneo fiume carsico, questi movimenti, sempre più “auto-organizzati”, emergevano in superficie collegando le vicende interne a quelle mondiali. Col tempo essi consumarono un crescente distacco dalla sinistra tradizionale, a causa della tendenza di questa a condividere le scelte dell'Occidente euro-atlantico anche dopo il Muro*, a sposare le politiche d'austerità ed il liberismo riemerso prepotente sin dalla fine degli anni '70, nonché a chiudersi nelle proprie strutture autoreferenziali e nei rapporti di potere.
Sicché, nonostante il “riflusso” dei movimenti, nella percezione comune ha finito per perdere senso la stessa rappresentazione di una politica con la sinistra opposta alla destra, tramutata in un “teatrino”.
* Dopo la caduta del Muro nel 1989, allorché si sciolse con l'Urss anche il Patto di Varsavia, in difesa dal quale veniva giustificata la Nato, essa, invece di sciogliersi a sua volta, si estese fino ai confini con la Federazione Russa.
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Tale effetto è ben visibile quando affronta sia il tema del sistema dei partiti e delle rappresentanze, sia quello della democrazia diretta referendaria.
Dopo avere animato le lotte degli anni'50-'60, i partiti della sinistra e le organizzazioni sindacali cominciano ad allontanarsi dai movimenti, arrivando in seguito ad osteggiarli. I motivi sono rintracciabili nella storia dei movimenti, fatta scomparire.
Essa ci spiega anche l'irrompere dei successi referendari.
Senza il portato politico-culturale e di forza dei movimenti non sarebbero state possibili le vittorie dei diritti civili e di genere sul divorzio e sull'aborto, o, più di recente, contro il nucleare (seconda edizione) e per l'acqua pubblica.
Per far un altro esempio: cosa indica la vittoria referendaria contro il finanziamento pubblico dei partiti?15 Marco Pannella, colmato di generosi omaggi post mortem, fu osteggiato duramente proprio dalla “partitocrazia”. Il finanziamento pubblico, abolito ufficialmente, venne surrettiziamente reintrodotto alla voce “rimborsi elettorali” e continuerà fino al 2017.
Inoltre, poiché nella Costituzione non è prevista la consultazione referendaria per la ratifica dei trattati internazionali, la riforma sarebbe un'occasione per introdurla. Tanto più che quest'ultima muove dal presupposto storico della fine della Guerra Fredda, che vincolava l'Italia a trattati “di campo” esclusi dalla democrazia diretta referendaria.
Nella riforma, al contrario, alla estensione della democrazia diretta si preferisce la “democrazia immediata”, nella logica della ”Europa della decisione”, in cui i governi fanno e disfanno in barba ai mandati elettorali e alla sovranità costituzionale. Una falsariga non a caso condivisa da Mario Monti16: «Non sono d'accordo con chi dice che questo referendum [ndr britannico] è una splendida forma di espressione democratica. Le dico di più. Sono contento che la nostra Costituzione, quella vigente e quella che verrà [corsivo mio], non prevede la consultazione popolare per la ratifica dei trattati internazionali.»
Infatti, nella Costituzione “che verrà” della spinta alla democrazia referendaria è rimasta solo una labile promessa che sa di ricatto: l'istituto del referendum riformato17 ma non esteso alla ratifica dei trattati internazionali, saranno resi più agevoli se direte sì in autunno, salvo la necessaria ulteriore modifica costituzionale e quant'altro18.
Il matrimonio coatto
Quando Ceccanti si compiace della fine dell'oblio per le idee di Duverger, dovrebbe spiegarcene le cause, ovvero quali trasformazioni siano intervenute per consentirne il “rilancio” di cui si fa interprete. Fatto sta che il loro “oblio” coincide con l'apice dei movimenti del secolo scorso, ed il “rilancio” sopraggiunge col prevalere della globalizzazione e della restaurazione liberista, tradotta in Europa, secondo la specifica applicazione tedesca, in “ordo-liberista”.
Ronald Reagan e Margaret Thatcher
Alla nuova globalizzazione diedero pratico corso Reagan e Thatcher agli inizi degli '80, per uscire dalla crisi economica capitalistica degli anni '70 e, al contempo, riaffermare il ruolo egemone della Triade (Usa, Europa dell'Ovest e Giappone) nel mondo. Due aspetti non disgiungibili, come le “narrazioni” liberiste suggeriscono.
Come se il prevalere dei mercati liberalizzati su scala mondiale avvenisse in un contesto di generale de-potenziamento degli Stati nazionali (o di de-nazionalizzazione delle loro politiche), di tutti gli Stati, pure di quelli che impongono regole a vantaggio delle proprie imprese multinazionali nei trattati globalizzanti del WTO e bilaterali di “libero scambio”19 o, armati fino ai denti e maggiori esportatori di armi, scatenano guerre direttamente e indirettamente, attraverso le loro pedine nei diversi “teatri geo-politici”.
Così Renzi parla di un'Europa “che ci ha dato 70 anni di pace”, facendo sparire come d'incanto dalla storia del vecchio continente sia l'attuale guerra in Ucraina, sia quella che ha a lungo insanguinato la ex-Jugoslavia. Quest'ultima, in particolare, viene rubricata come fenomeno geopolitico balcanico ed è oggetto di generale oblio, per non dover spiegare come l'Europa si è andata concretamente costruendo nel dopo Muro.
Al tempo di Reagan e Thatcher il movimento dei Paesi non-allineati era in piena difficoltà, i Paesi del terzo mondo subirono la crisi del debito e la Cina si rese disponibile ad “aprirsi” ed accettare investimenti stranieri e relative “delocalizzazioni”. Nel 1989, inoltre, l'Unione Sovietica si sfaldò, il Muro cadde e la Germania si riunificò.
Erano maturate tutte le condizioni affinché gli “spiriti animali” potessero finalmente uscire dalla gabbia del “matrimonio coatto” a cui furono ristretti per superiori ragioni di preservazione sistemica.
In cosa consisteva tale “matrimonio”?
Essenzialmente in politiche economiche di “stampo keynesiano”20. Sul piano nazionale, tese a contenere la contraddizione tra lavoro e capitale all'interno di un “capitalismo redistributivo”, mitigato negli “eccessi” dall'intervento dello Stato in economia, a favore dell'occupazione, del welfare e dei consumi di massa. All'esterno, volte a configurare rapporti post-coloniali, tra Paesi resisi indipendenti, ai quali veniva promesso un aiuto allo sviluppo attraverso le istituzioni nate a Bretton Woods.21
A tali fini la finanza doveva essere posta sotto stretto controllo, “repressa” nelle sue naturali pervasive pulsioni, per evitare che il suo prevalere, come avvenne con il crollo di Wall Street del '29, potesse condurre alla depressione e al dilagare della disoccupazione.
Effetti che Hitler sfruttò per impadronirsi del potere e strutturare l'economia di guerra tedesca.
Effetti che, qualora si fossero ripetuti nel dopoguerra, avrebbero consentito al modello sovietico di dimostrarsi superiore a quello capitalistico.
Tuttavia, l'adozione delle politiche keynesiane risaliva al New Deal, avviato negli Stati Uniti da Franklin Delano Roosevelt nel 1933, ed alla riforma finanziaria di Hjalmar Schacht nella Germania nazista del 1934.22 Esse non furono e non sono una prerogativa assoluta delle democrazie liberali e, in linea generale, non sono necessariamente connesse ad una struttura produttiva rivolta alla pace.
Queste osservazioni sono indispensabili per chiarire che le Costituzioni dell'Europa occidentale, nell'affermare il legame tra democrazia e lavoro, con uno sviluppo socialmente compatibile nel limite posto all'impresa privata e nel vincolo redistributivo, garantiti dal ruolo attivo dello Stato, non comportavano automaticamente né le libertà sindacali, né quelle politiche e, di conseguenza, il riconoscimento di un ruolo soggettivo indipendente alle “classi subalterne”.
Così come non garantivano rapporti internazionali paritari tra gli Stati ed il mantenimento della pace. Tanto più che in Europa, all'indomani del conflitto mondiale, sopravvivevano a Sud regimi fascisti nella penisola iberica23 e ancora nel 1967 la Grecia cadeva sotto il regime dei colonnelli, finito nel 1974 in seguito alla rivolta studentesca universitaria di Atene.
Europa reale
Il successo delle socialdemocrazie in Europa occidentale, tardivo rispetto alla forza da loro acquisita ad inizio secolo e andata dispersa quando divennero “social-patriottiche” nel primo conflitto mondiale24, è indubbiamente connesso al poderoso sviluppo economico e sociale dei “trenta gloriosi” (1945-1975). Dopo dei quali il “matrimonio coatto” viene sciolto ed inizia il periodo liberista. Seppure tra contraddizioni e in tempi diversi, i partiti socialdemocratici e di sinistra aderiranno tutti alla globalizzazione finanziaria ed al binomio liberalizzazioni-privatizzazioni, dando luogo al social-liberismo differenziato dal liberal-liberismo solo per la promessa, non mantenuta, di una maggiore attenzione alle ricadute sul sociale.
Il loro pieno coinvolgimento nella costruzione dell'Europa di Maastricht e dell'euro ha spinto questi partiti ad “essere più realisti del re”. Vale a dire, spendendo il credito acquisito presso le classi lavoratrici nel citato trentennio di sviluppo, a farsi diretti promotori della deflazione salariale concorrenziale tra Paesi europei nella reciproca rivalità mercantilista.
In Germania le riforme del mercato del lavoro sono state realizzate dal governo di Gerhard Schröder. In Italia è il governo Renzi a varare velocemente il Jobs Act (seguito da Hollande), dopo una serie di altre misure pure “concertate” con i sindacati che andavano nella medesima direzione, ma erano troppo lente. Non calzavano appieno il ritmo nazionalistico di anticipare le mosse del Paese concorrente all'interno dell'Unione europea ed in particolare nell'Eurozona.
La moneta unica equivale al cambio fisso tra aree economiche diseguali, mentre i vincoli di bilancio impediscono a ciascun Paese, privo di sovranità monetaria, di disporre della propria spesa pubblica. Sicché per non indebitarsi verso l'estero (europeo in primo luogo) non rimane che la via della della deflazione salariale reciprocamente competitiva.
Ne consegue, nei Paesi più deboli, la distruzione di importanti pezzi della struttura produttiva nazionale e la restrizione del mercato interno, condannando le loro economie alla subalternità verso quelle più forti.
L'asimmetria tra Centro e Periferie si accentua, anche nelle rilevazioni dei centri studi liberisti italiani25.
Il nazionalismo economico si trascina appresso, inevitabilmente, il nazionalismo politico: lo fomenta. Ritornano gli stereotipi dei popoli del Nord laboriosi e parsimoniosi, minacciati nel loro meritato benessere dai pigri e fannulloni meridionali, i quali, a loro volta, sono indotti ad un crescente risentimento. Il tutto per nascondere chi realmente trae potere e ricchezza da questo insieme di relazioni sovranazionali.
Il pendolo perde colpi
Prescindere dalla relazione tra espressioni politico-culturali della società (nei movimenti e non solo) e partiti tradizionali, puntando a riformare questi ultimi senza tener conto delle cause reali del loro diffuso discredito, assume un significato di chiusura ed esclusione verso i gruppi sociali impoveriti e verso chiunque non si omologhi politicamente agli interessi delle cerchie al momento dominanti.
È l'approdo del metodo di Ceccanti, applicato alla situazione italiana. Esso muove dall'alto verso il basso. Antepone a tutto la “governabilità”, da cui fa derivare, in linea subordinata, il sistema di selezione delle rappresentanze parlamentari (per elezione di “nominati”) e del personale di governo (per cooptazione). Infine, all'insieme risultante vuole adeguare le forme partitiche, alle quali viene chiesto di raccogliere e convogliare il consenso popolare.
Fino a che punto il fine della “governabilità” può essere imposto a detrimento del “mezzo”, ossia della rappresentanza espressa dal corpo elettorale?
Incurante del limite democratico, se non c'è maggioranza, anche relativa (oltre il 40%), interviene il ballottaggio di lista. Il molteplice viene ridotto alla scelta obbligata tra due opzioni omologhe.
Nello schema, i consensi per le “ali estreme” dovrebbero confluire su due liste convergenti al “centro”, da “destra” e da “sinistra”, con programmi sostanzialmente identici. Tuttavia, in caso di crisi o, a maggior ragione, al confluire di più crisi, non basterà la scelta tra le due opzioni tradizionali di centro-destra e centro-sinistra. Dal vivo della società e delle sue contraddizioni la logica binaria viene messa in discussione ed il “gioco del pendolo” tende a perdere colpi.
Dall'Europa arrivano quotidiane conferme del fallimento di siffatti esecutivi della decisione.
Nel Regno Unito ha vinto il leave dall'Unione.
Francia: manifestazione contro la Loi Travail
In Francia s'è aperto lo scontro sociale sulla Loi Travail di Hollande. Il governo Valls ha affermato la “democrazia immediata”, ma ha approfondito il fossato che lo divide dal lavoro dipendente e dai giovani. E di cui sicuramente cercherà di approfittare il partito delle Le Pen, a cui si è già rivolto il voto di settori operai e popolari disillusi proprio dagli impegni non mantenuti dalla presidenza socialista.
La Spagna che, per ammissione di Duverger, aveva aderito alla funzionale “Europa della decisione” transitando dal franchismo alla democrazia, è da mesi senza governo eletto, dopo due elezioni politiche generali. Un “secondo sistema dei partiti” (quattro invece di due), indice di un crescente fermento politico-culturale e sociale, ha messo a “soqquadro” le ingegnerie istituzionali pre-esistenti.
Che dire poi della crisi portoghese e di quella greca?
In Austria il dualismo dei partiti cristiano-sociale e socialdemocratico è saltato. Un “vizio formale” ha invalidato l'elezione a Presidente di Van der Bellen che, incalzato da un'ondata xenofoba e neo-fascista, riandrà al ballottaggio.
In Italia il decisionismo del governo Renzi che ha varato il Jobs Act, non ha incontrato grandi e manifeste resistenze perché, a differenza della Francia, il nostro mercato del lavoro era già stato reso “flessibile” da precedenti riforme, da accordi di concertazione con i sindacati (una brutta copia della tedesca Mitbestimmung) e dalla “rottura” della Fiat di Marchionne. Oramai pervaso di precariato, di buoni lavoro occasionali (vouchers) e di “autonome” partite Iva, il mondo del lavoro italiano si è trovato diviso e disperso, impossibilitato ad identificarsi nelle sorti di quello dipendente e subordinato “regolare”.
Ma le recenti amministrative hanno messo in luce la tendenza dell'elettorato popolare a rivolgersi al M5S, il terzo escluso “populista” che scombina il “gioco del pendolo” degli ingegneri costituzionali.
Maschi velleitarismi
Per quale motivo si vuol dare tanto potere all'esecutivo, proprio nel cuore delle crisi europea e mediterranea? Quando l'Italia stessa è in crisi?
Lo spunto per una prima risposta ci viene da una recente dichiarazione di Pier Luigi Bersani26, nella quale si rimprovera a Renzi di alimentare un “rapporto maschio” con l'Europa, salvo poi pretendere l'assurdo ed accettare l'inaccettabile. Secondo Bersani è assurdo pretendere di fare i bilanci pubblici italiani a proprio modo e, al contempo, pretendere che la Germania se ne assuma il rischio (il cosiddetto risk-sharing), condividendone le conseguenze. Era, invece, inaccettabile il bail-in bancario, per il motivo principale che in questione sono le possibilità (negate) di finanziare gli investimenti della “economia reale”. Da qui l'osservazione che il Paese non può rinunciare ad avere una propria siderurgia e altri pezzi d'industria.
Bersani, inoltre, evidenzia il circolo di potere del governo con alcuni imprenditori: «I dieci o quindici che contano nel capitalismo italiano si stanno aggiustando le cose loro, chiedono solo che il governo sia amichevole, e se capita lo applaudono e si fanno applaudire. Poi hanno i giornali e c'è lo scambio, succedono cose che non sono potabili.»
Dall'interno del PD Renzi è accusato di mostrare muscoli retorici, per poi, sulle “cose che contano”, farsi mettere i piedi in testa.
Per restare sul tema delle banche in preda a crediti inesigibili, Luigi Zingales27 qualche giorno dopo viene a sostenere che il Fondo Atlante salva banche è poca cosa rispetto al buco e, pertanto, il governo dovrebbe ricorrere all'aiuto del MES, il fondo europeo salva Stati, che porta con sé la supervisione della Troika.
Il ministro Padoan, intervenuto al Festival dell'economia di Trento il 4 giugno, ha sostenuto che, in mancanza di una condivisione europea del debito pubblico, vengono a scemare le ragioni stesse dell'euro. Poiché la Germania, detentrice del più grande surplus commerciale mondiale (286 miliardi di $) continua ad avvantaggiarsi dell'euro svalutato (in un anno poco meno del 30%), non pare affatto intenzionata a rinunciare alle proprie posizioni di vantaggio, l'intenzione renziana “di scardinare dall'interno” l'Europa attuale appare piuttosto velleitaria, anche se gode della benevolenza di Obama.28
In mancanza di un “divorzio consensuale” dall'euro, una soluzione sempre esclusa a priori, o di una condivisione europea del debito (tra cui i famosi eurobond) e di contromisure per bilanciare i surplus esportativi tedeschi, mancano gli spazi di manovra per il governo italiano. Come finirà il contenzioso europeo sulle banche italiane? Saranno evitabili altre restrizioni austere, da prendere con rapida decisione?
Orgogliosa sicurezza
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Vincolo esterno
«Poco prima della firma del Trattato di Maastricht, il governatore della Banca d'Italia Guido Carli e il Ministro degli Esteri Gianni De Michelis vennero al Quirinale per illustrarmi il merito dell'accordo. Al termine della loro prolusione, chiesi: “Ma pensate davvero che l'Italia sarà in grado di rispettare i patti?” La risposta fu corale: “Con le nostre sole forze, assolutamente no, ma se non ci ancoriamo ad un vincolo esterno non riusciremo a salvarci e continueremo a sprofondare nella voragine del debito pubblico”.»
(Intervista dell'ex Presidente della Repubblica Francesco Cossiga ad Andrea Cangini, Fotti il potere. Gli arcana della politica e dell'umana natura, Aliberti, Roma, 2010, p. 173)
Citazione riportata da Stefano Ceccanti in “La transizione è (quasi) finita”, Giappichelli, 2016, per introdurre il 2° Capitolo, “I cambiamenti costituzionali. Italia.”
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La ragione per cui Ceccanti cita l'episodio [in riquadro "Vincolo esterno"] è che, finalmente, con la Seconda Repubblica potremmo fare a meno di farci dettare i compiti a casa dalla Merkel, in posizione subalterna perché forzati dall'Europa.
Ma che senso ha “ri-nazionalizzare” la politica di bilancio, rivendicando piena autonomia e responsabilità in capo all'esecutivo rafforzato, se le sue decisioni poi ricalcano quelle prese per “vincolo esterno”?
Manca la revisione delle cause strutturali del dilagare del debito pubblico, risalente al “divorzio all'italiana” tra Tesoro e Bankitalia29. Manca la revisione delle sue motivazioni, da ascrivere alla lotta governativa e padronale contro il potere d'acquisto dei salari e la connessa scala mobile. Resta l'imperativo dei vincoli di bilancio all'interno dei parametri di Maastricht e del sistema valutario a moneta unica. Sicché si persevera nell'errore con malriposto orgoglio.
Il professor Ceccanti scrive: «Ad una lettura positiva delle trasformazioni elettorali e costituzionali in corso dovrebbe condurre anche lo scenario europeo in profonda trasformazione, con le sue opportunità e i suoi pericoli. Esso richiede indubbiamente un salto di qualità, distinguendo meglio l'integrazione politica più forte della zona Euro dalle cooperazioni ulteriori, giacché i principali problemi che ci troviamo ad affrontare non possono essere affrontati in modo efficace rinazionalizzando le politiche. Proprio per questo, sia nella fase attuale centrata sulle dinamiche intergovernative sia anche nella successive, farà differenza il rendimento istituzionale dei vari Stati nazionali.»
In sintesi, stante l'evanescente prospettiva dell'integrazione politica europea (l'accordo tra Ue e Regno Unito del 19 febbraio 2016, era in sé già disgregativo30 e non evitò, comunque, la Brexit), ciò che da subito conta sono le “dinamiche intergovernative”. È al loro interno che l'esecutivo della rapida decisione pensa di intervenire, con l'intento di pesare di più, tramite un “rendimento istituzionale” nazionale più efficiente.31
Con rapida decisione
La divaricazione tra Centro e Periferie europea porta con sé l'aggravamento dei problemi interni italiani. Crescono la povertà estrema e le dicotomie territoriali. Le stime di crescita sono attestate sugli zero virgola. La ripresa è una “ripresina”.
Nel trascorso decennio circa un quarto dell'apparato produttivo nazionale è andato disperso e lungo è l'elenco delle aziende con marchi storici cedute ad acquirenti stranieri. La grande borghesia italiana si è ridotta nel numero e si è trasformata. Da un lato le imprese medio-grandi a base nazionale privilegiano al loro interno la gestione finanziaria e, dall'altro, il ricavato delle cessioni è stato immesso nei canali finanziari. Molti imprenditori sono diventati réntiers. Fanno soldi coi soldi e sono, di fatto, de-responsabilizzati rispetto all'andamento specifico del Paese o, come si usa dire, dei territori. Spesso essi stessi preferiscono risiedere all'estero.
Nonostante tutto e come da loro tradizione, non hanno perso l'abitudine di scambiare i loro interessi per quelli nazionali. Non vedono alternative all'Europa della moneta unica e dei Trattati. Cercano una soluzione che “scardini dall'interno” l'egemonia tedesca, senza rimettere in discussione l'insieme della costruzione, alla quale hanno affidato i loro “valori”. In realtà, alla malaparata e come da loro storica tradizione, cercano una confortevole soluzione per se stessi, magari in generose nicchie di mercato confezionate da appositi accordi intergovernativi. In quanto finanziarizzati, la loro preoccupazione al sociale territoriale, seppure millantata, si è fatta assai volatile.
Poiché sono un ristretto gruppo oligopolistico (“i dieci o quindici che contano nel capitalismo italiano”, a cui si riferisce il prima citato Bersani) seguono una stretta logica elitaria di potere. Ambiscono al primato della “governabilità” (la loro) sopra la rappresentanza democratica del voto. Perciò condividono i disegni renziani di “democrazia immediata” e di “rapida decisione” nelle mani del capo dell'esecutivo, a cui il Paese dovrebbe consegnare una cambiale in bianco, per intervenire nelle “dinamiche intergovernative”.32
Tuttavia, non si fidano di un decisore unico.
Sicché dalla “Repubblica delle idee” si è levata qualche preoccupata contrarietà, già espressa prima dall'ascesa del M5S alle amministrative che ha scombinato il “gioco del pendolo”.
Nel dibattito a due33 con Renzi, Eugenio Scalfari, dopo aver perorato la riesumazione della “legge truffa” del 1953, afferma: «Se tu cambi la legge elettorale io voto Sì al referendum, altrimenti non ti voto perché la legge elettorale così com'è ti rende padrone del campo. Diventi padrone per 15 anni34 e questo non va bene.» L'anziano direttore, e con lui l'Ing. De Benedetti tessera n°1 del PD e suo azionista di riferimento, non vorrebbe mettersi nelle mani di un uomo solo. Con ciò svela, dall'interno del Palazzo, la sostanza politica della transizione alla Seconda Repubblica.
Renzi risponde che sarebbe disposto a votare qualsiasi legge che restringesse a due mandati l'incarico di premier, perché Andreotti aveva torto quando asseriva che il potere logora solo chi non ce l'ha. Nella sua “giovanile esuberanza”, Matteo commette una gaffe: si lascia sfuggire il senso politico delle sue riforme.
È impossibile che Renzi ignori l'impossibilità in una Repubblica parlamentare di porre limiti agli incarichi di primo ministro35. Ma poiché il combinato disposto a cui il referendum dovrebbe assentire, introduce de facto il premierato elettivo, egli argomenta che sarebbe disposto ad accettare un limite di due legislature: bontà sua, invece di 15, di soli 10 anni!
Il ballottaggio di partito-lista (un unicum nel panorama istituzionale occidentale) introduce surrettiziamente il premierato elettivo. Sicché, una volta superato l'esame referendario, la transizione alla Seconda Repubblica avrà bisogno di un completamento che formalizzi i poteri del premier a scapito di quelli del Capo dello Stato. In tal caso il “quasi” del professor Ceccanti scomparirebbe, insieme ai già emarginati poteri del Parlamento repubblicano.
Ri-nazionalizzazioni
Al protagonismo competitivo intra-europeo corrisponde anche un certo protagonismo nel Mediterraneo. Il protrarsi delle guerra in Siria-Iraq, con tutte le sue implicazioni, ha finito per investire la Turchia, bastione strategico della Nato.
Invece della “pacificazione”, gli interventi in Iraq e in Afghanistan hanno restituito l'allargamento dei conflitti armati ed il terrorismo internazionale. L'avventura più devastante è stata quella di intervenire, seppure per interposte forze, nella crisi siriana.
L'offensiva contro l'Isis procede lentamente. Nelle capitali occidentali si vorrebbe evitare che la sua eliminazione coincida con il rafforzamento del fronte sciita e della presenza russa, e, di converso, con l'indebolimento dei reami petroliferi alleati, fomentatori e finanziatori del fondamentalismo jihadista sunnita.
In questo “teatro geopolitico” la Francia ha assunto i ruolo di competitore dell'Italia. Essa appoggia l'egiziano Al-Sisi, a sua volta in Libia alleato con il governo di Tobruk. All'Egitto Parigi ha venduto (2015) una portaerei e navi da guerra, grazie ai finanziamenti di Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti. Di recente il Qatar ha commissionato all'Italia quattro corvette ed una nave d'appoggio per la guerra elettronica (4 miliardi di €), adducendo a motivazione “la sicurezza dei mondiali di calcio”. L'emiro del Qatar sostiene la Fratellanza musulmana in Libia, gruppi islamisti in Siria ed i Talebani in Afghanistan, nonché Hamas.
A quale gioco stiamo giocando?
Sotto il manto della comunicazione retorica europeista si pratica il nazionalismo: in ambito europeo con velleitarismo maschio verso l'”amica Germania”; in ambito mediterraneo vendendo armi in concorrenza e rivalità, nella logica di piccola potenza egemonica, con l'”amica Francia” del socialista Hollande.
Per sottrarre sovranità democratica e costituzionale ai popoli si grida al “populismo” assimilato all'”anacronistico ritorno allo Stato-nazione”, mentre si pratica, sotto il manto “internazionalista” ed “umanitario”, il nazionalismo anche di potenza (piccola).
Il tutto per gli interessi di ristretti gruppi oligarchici, i quali pretendono, in reciproca rivalità, di dettare assetti di potere “geopolitici” che la loro mondializzazione ha contribuito prepotentemente a travolgere.
Davvero un bel modo per non “rinazionalizzare le politiche”.

1 http://genova.repubblica.it/cronaca/2016/04/25.
2 Alle consultazioni provinciali dell'ANPI i delegati a favore del documento congressuale, schierato per il no al referendum, sono stati 2501, contro 25 e 98 astenuti.
3 Germano Nicolini (detto diavolo, dievel in reggiano), intervistato da Fabrizio Caccia, 'Diavolo' a favore: non sono renziano, ma la Costituzione deve velocizzarsi”, Corriere della sera, 23/05/1016.
4 Aldo Cazzullo, “L'uso politico della Resistenza”, Corriere della sera, 23/05/2016.
5 Art. 1 della Costituzione.
6 Stefano Ceccanti, “La transizione è (quasi) finita. Come risolvere nel 2016 i problemi aperti 70 anni prima. Verso il referendum costituzionale.”, Giappichelli, 2016. Le citazioni di seguito riportate sono tutte tratte da questo testo.
7 Gianfranco Pasquino, “'Meglio che niente', lo slogan peggiore”, il Fatto Quotidiano, 4 giugno 2016.
8 Acronimo inglese per “There Is No Alternative”, traducibile in “Non esistono alternative”.
9 La Francia nel 1949 fu tra i Paesi fondatori dell'alleanza atlantica. Nel 1966 il generale Charles De Gaulle ritirò il Paese dal comando integrato della Nato per motivi di sovranità nazionale. Nel 2009 Sarkozy decise di rientrare nel comando integrato.
10 Gennaio 1947, Giuseppe Saragat, a capo di una corrente filo-occidentale, si separò dal PSIUP (poi PSI) per fondare il PSLI (poi PSDI). Nel dicembre dello stesso anno entrò a far parte del IV governo De Gasperi.
11Anche grazie all'”oro francese” dato a Benito Mussolini.
12 Si veda, a questo proposito, il ruolo sia del cattolicesimo popolare che di “Giustizia e Libertà” e del Partito d'Azione.
13 Legge elettorale che introduceva il premio di maggioranza del 65% dei seggi della Camera alla lista e al gruppo di liste collegate che avesse raccolto più della metà dei voti.
14 Gustavo Zagrebelsky, “Preferiremmo di NO alla S-Costituzione”, Il Fatto Quotidiano, 6 marzo 2016.
15 Si tenne, insieme ad altri 7, su proposta del Partito Radicale, il 18 aprile 1993: votanti 77%; sì 90,30%.
16 Mario Monti, “La condanna di Monti: 'Il Premier britannico ha distrutto il lavoro di una generazione di europei'”, Il Secolo XIX, 18 giugno 2016.
17 Vedi Post: La riforma costituzionale - maggio 2016.
18 Michele Ainis,”Senza aspettare il referendum”, la Repubblica, 12 giugno 2016: «La volta scorsa ci toccò pazientare per 22 anni (dal 1948 al 1970), prima che Il Parlamento si decidesse di approvare la legge d'attuazione del referendum abrogativo. Stavolta la riforma rinvia a una legge costituzionale, che a sua volta rinvia a una legge ordinaria, anche per precisare le 'altre forme forme di consultazione' dei cittadini.»
19 Ha-Joon Chang, “Cattivi samaritani”, UBE paperbook, 2014 (2007), pag. 113: «(...), la nazionalità di un'impresa ha ancora un grande peso. (…) Sarebbe ingenuo, soprattutto da parte dei paesi in via di sviluppo, elaborare la politica economica partendo dal presupposto che il capitale non abbia più radici nazionali.»
20 Sebbene “profondamente travisate”, come ebbe a sostenere il professor Franco Catalano nel libro “Europa e Stati Uniti negli anni della guerra fredda”, I.L.I., 1972.
21 Nel 1944, a Bretton Woods, la sconfitta del piano di J. M. Keynes ad opera del piano di H.D. White diede origine ad un sistema di rapporti internazionali, monetari ed economici, tanto funzionale al primato degli Stati Uniti (e del dollaro) quanto foriero delle “complicazioni” attuali, rispetto alla Germania (e all'euro).
22 Come già ricordato nel post “Storia recente che parla al presente”, dicembre 2014, anche Mussolini aderì a quelle politiche.
23 Il Portogallo fascista, membro fondatore delle Nato, rimase tale fino al 1974, quando fu rovesciato dalla Rivoluzione dei garofani.
La Spagna franchista dovette attendere la morte di Franco, nel novembre del 1975, per transitare alla democrazia.
24 Anche in questo, tra mille incertezze, il socialismo italiano viene a differenziarsi da quella europeo. Sulla socialdemocrazia tedesca vedi al post “Storia recente che parla al presente” - Ottobre 2014.
25 Giuditta Marvelli, “Ma l'Italia ha già perso la spinta verso le medie europee”, Corriere Economia, 20 giugno 2016.
26 Pier Luigi Bersani intervistato da Giorgio Meletti, Il Fatto Quotidiano, 27 maggio 2016.
27 Luigi Zingales intervistato da Giorgio Meletti, il Fatto Quotidiano, 31 maggio 2016.
28 “Dialogo Renzi-Scalfari...”, la Repubblica, 12 giugno 2016, a cura di Alberto D'Argenio; Matteo Renzi: «Credo che la Germania abbia bisogno di non essere lasciata egemone in Europa altrimenti fa male all'Europa e a se stessa. In politica economica Obama è da sempre al nostro fianco, ma l'Europa deve essere scardinata dall'interno e la vera questione è riuscire a usare il 2017 come vera occasione per superare l'austerity.»
29 Vedi Post “La corda e il nodo scorsoio” - Febbraio 2015.
30 Nell'intesa (4-7 anni per l'accesso al welfare dei lavoratori comunitari immigrati; City immune dalle decisioni finanziarie europee e Londra esentata dai costi di salvataggio dei Paesi in difficoltà; UK disobbligata da ogni ulteriore integrazione politica dell'Ue) erano gettati i presupposti opzionali da parte di eventuali nuovi richiedenti uno “statuto speciale”.
31 Un effetto che la riforma, pure scritta malamente, non sembra affatto in grado di garantire.
32 Nelle quali in Europa si concentrano poteri ad un tempo esecutivi, legislativi e di revisione dei Trattati, a dir poco “anomali” da un punto di vista democratico e costituzionale.
33“Dialogo Renzi-Scalfari...”, la Repubblica, 12 giugno 2016.
34 Si noti che anche Eugenio Scalfari dà per scontato che in questione è il premierato elettivo di legislatura.
35 Gianfranco Pasquino, “Il premier non può essere a tempo”, il Fatto Quotidiano, 14 giugno 2016.