Perché
dovremmo passare alla “Seconda Repubblica”. Ritorno in auge della
transizione gollista. Storie ricostruite per calzare un modello che
perde colpi. L'Italia in crisi nella crisi d'Europa, con Renzi
“padrone del campo”. A quale scopo?
- Legge elettorale e riforma costituzionale modificano la seconda parte della Costituzione, pensata per attuare i principi fondativi della Repubblica enunciati nella prima parte.
- Per Stefano Ceccanti, teorico delle riforme renziane, con la vittoria del sì al referendum la transizione alla Seconda Repubblica sarebbe (quasi) finita.
- In capo ad essa avremmo “governi che governano”, non più condannati alla “debolezza”, forti di una “democrazia immediata” aderente alla “Europa della decisione”.
- La transizione repubblicana viene proposta attraverso una rilettura assai “ripulita” e unilaterale della storia italiana ed europea.
- Chi e perché vuole affrontare la crisi italiana in quella continentale, affidando una cambiale in bianco nelle mani del capo dell'esecutivo.
25 Aprile 2016
A
Genova Laura Boldrini, presidente della Camera, afferma che il
referendum autunnale «comunque
non tocca la prima parte della Costituzione che sono i nostri valori
fondativi, tocca la seconda parte. In Parlamento c'è stato un
dibattito, tutti erano d'accordo a rivedere il bicameralismo perfetto
certamente non tutti erano d'accordo sul come farlo a questo punto
abbiamo passato il testimone agli italiani.»1
Qualche settimana dopo,
Germano Nicolini, il partigiano “diavolo”, annuncia il suo sì al
referendum2
e dichiara:
«La
Costituzione non va toccata nei primi 13 articoli, che rimangono per
me il Vangelo. Ma il resto si può riformare, si deve velocizzare. Io
addirittura il Senato lo toglierei! (…) Se vincerà il no e cadrà
il governo, invece, in questo mondo di turbolenze, sarà il
disastro.»3
Aldo Cazzullo |
L'oramai
storico della Resistenza, Aldo Cazzullo, dalle colonne del Corriere,
scrive:
«La libertà e la democrazia sono come l'aria e l'acqua; ci si
accorge della loro necessità quando cominciano a mancare. Ma non
sono in discussione nel prossimo referendum; che deve stabilire se le
garanzie democratiche – compresa la capacità di prendere decisioni
– siano assicurate meglio dalle norme vigenti o da quelle
introdotte con la riforma.»4
Libertà
e democrazia stanno al sicuro, il referendum deve solo stabilire se
“le garanzie democratiche”, tra cui Cazzullo opportunamente
inserisce la capacità di decisione (!), siano meglio o peggio
garantite dalla riforma. Insomma, don't worry, la riforma non
interferisce sui “valori fondativi” che restano “Vangelo”.
Eppure
la democrazia vive della sovranità, la quale «appartiene
al popolo, che la esercita nelle forme e nei limiti della
Costituzione»5.
Forme e limiti contenuti nella sua seconda parte, dedicata
all'organizzazione dei poteri. Se, riformandola insieme alla legge
elettorale, queste forme vengono de-formate e questi limiti oltremodo
ristretti, i “valori fondativi” della prima parte diventano
inutili annunci, parole vuote.
Pilastri
anomali
È
su questa seconda parte che concentrano l'attenzione gli ingegneri
delle riforme promosse dal governo. Tra essi spicca Stefano Ceccanti,
considerato il loro ispiratore. Nel suo recente libro6,
presentato su l'Unità
del 20 gennaio 2016, espone la sua teoria che poggia su una
ricostruzione storica di cui riassumo i punti chiave.
Stefano Ceccanti |
- La Repubblica italiana si trascina appresso problemi costituzionali ed istituzionali irrisolti dal momento in cui fu scritta la Carta, nel biennio '46-'47, già imperversante la Guerra Fredda tra Est ed Ovest.
- In una situazione analoga versava la Francia, dalla quale uscì, tra il 1958 ed il 1962, grazie alle riforme di De Gaulle ed alla Quinta Repubblica, realizzate nel pieno della crisi algerina.
- Pur in presenza delle nuove condizioni date dalla caduta del Muro e da Maastricht, in Italia il secondo sistema dei partiti (subentrato al primo) non è riuscito a trovare una soluzione adeguata e coerente perché ha seguito un “percorso erratico”.
- Finalmente le riforme del governo Renzi, pur perfezionabili, permettono di chiudere (o quasi) la transizione alla II Repubblica, superare lo stato di “impotenza” del governo, assicurare la governabilità ed associare l'Italia alla “Europa della decisione”.
- Ciò consentirà di rinnovare il sistema della rappresentanza e dei partiti (terzo sistema), dando vita alla “democrazia immediata” e di incrementare il “rendimento istituzionale” dello Stato per gestire al meglio le “dinamiche intergovernative” su cui è incentrata la costruzione europea.
Quali sono i pilastri
istituzionali su cui poggia l'anomalia italiana causando la
“debolezza dei governi”?
Ne
sono indicati essenzialmente tre.
- Il bicameralismo perfetto di Camera e Senato, da cui la doppia fiducia richiesta dal Governo alle due camere e la duplicità dell'iter legislativo. Da qui il proliferare obbligato della decretazione d'urgenza, decreti legge e leggi delega (queste ultime servite per aderire agli ordinamenti dell'Unione europea).
- Il dualismo tra Presidente della Repubblica e Presidente del Consiglio, con il secondo in posizione debole perché nominato dal primo anziché risultante direttamente dal voto.
- Il rapporto tra Stato centrale ed autonomie regionali, reso complicato dal cosiddetto “federalismo regionale” e dai problemi fiscali.
Da
essi principalmente derivano lentezze, inefficienze ed impotenze,
mentre a monte di tutto si colloca il sistema elettorale, fonte prima
di irrazionalità e incoerenza: inizialmente il proporzionale puro;
ultimamente il maggioritario di coalizione, applicato per la Camera
su base nazionale e per il Senato su base regionale, con risultati
divergenti.
Dopo
aver esaminato il merito delle riforme Renzi-Boschi ed il modo in cui
sono state introdotte, al post “Sovranità a referendum” e
relative Appendici, affronterò qui l'impianto metodologico e storico
su cui poggiano, grazie alla elaborazione teorica del professor
Ceccanti.
Con un
breve appunto preliminare.
Secondo
Gianfranco Pasquino7
il ddl Boschi non cambia la forma di governo che, pur rafforzata
nell'esecutivo, rimarrebbe di tipo parlamentare tradizionale. A
rigore, non si potrebbe parlare neppure di Seconda Repubblica.
Inoltre, «la
transizione si chiude davvero soltanto quando quasi tutti gli attori
politici rilevanti, anche se non hanno convenuto sulle riforme e
sulle soluzioni, accettano l'esito che diventa the
only game in the
town.»
In
caso di sconfitta autunnale, le forze del No accetteranno di
condividerne l'esito? È lecito dubitarne.
A
maggior ragione se consideriamo le intenzioni dei riformatori
renziani, i quali riterrebbero “quasi” finita la transizione,
ossia ancora da completare.
Cosa
sottintende quel “quasi” messo tra parentesi nel titolo stesso
del libro di Ceccanti? Una possibile risposta nei passi finali di
questo scritto.
Metodo
combinatorio
Sulla
scia dello studioso francese Maurice Duverger, Ceccanti segue
il “metodo combinatorio” che, per spiegare il funzionamento
effettivo delle istituzioni, ritiene necessaria «una stretta
combinazione tra il commento giuridico e l'analisi di scienza
politica». Senza confondere i «due approcci disciplinari resi
convergenti dal fatto di applicarli ad unico ambito di realtà
studiata».
Seguendo
il filo degli approcci convergenti si rimane però colpiti, per un
verso, da una sorta di “ingegneria” istituzionale e, per un
altro, dal restringimento ad hoc della “realtà studiata”.
Dico
“ingegneria” in quanto irrazionalità, incoerenze e disfunzioni
appaiono
come semplici constatazioni diagnostiche sotto una lente di
laboratorio, discendendone rimedi di tecnica istituzionale, supposti
come super partes.
In tal modo viene riprodotta in ambito storico-giuridico la logica
generale TINA8,
già applicata ai problemi di macro-economia, sulla soluzione dei
quali non si discute, ma ci si affida ai tecnici specialisti della
materia, “neutrali” per auto-definizione. Salvo poi doverne
constatare, a posteriori, i fallimenti ed essere costretti a rivedere
tutto, “neutralità” compresa. Come accadde dopo il crack
2006-2007.
Quanto
alla “realtà studiata”, storica ed attuale, essa pare
contrassegnata da alcune presenze, per vicende a cui viene data una
interpretazione troppo scontata, e da molte assenze, per altre
vicende ritenute o prive di significato politico o non pertinenti.
Perciò
capita di incontrare una ricostruzione delle differenze tra Francia
ed Italia e della riforma costituzionale gollista a dir poco
tranchantes.
O di
sentirsi investiti della suprema missione di aderire all'”Europa
della decisione”, senza riferimento alcuno alle concrete criticità
continentali e, di conseguenza, senza spiegare quali tipi di
decisioni risolutorie il popolo italiano dovrebbe demandare al
governo, sottraendo a se stesso ulteriore sovranità.
Ceccanti
fugge sistematicamente da un terreno in cui teme di impantanarsi:
quello dell'Italia viva, delle aspre contese politico-sociali, dei
movimenti di lotta, e dell'Europa reale in cui il “matrimonio
coatto”, che teneva sotto controllo gli “spiriti animali” del
capitalismo, è stato sciolto, andando a minare le fondamenta stesse
delle Costituzioni (la nostra in particolare) basate sulla promessa
di un capitalismo dal volto umano, socialmente sostenibile.
Transizione
gollista
Per
quali motivi in Francia fu possibile una transizione che, invece, non
ebbe luogo in Italia?
Ceccanti
scrive: «In estrema sintesi la
Quarta Repubblica francese è crollata dopo dodici anni sia perché
le basi di consenso iniziali alla Costituzione erano ridotte sia
perché le norme di razionalizzazione adottate ben più forti di
quelle italiane (prevalenza dell'Assemblea sul Senato,
regolamentazione significativa di fiducia, sfiducia e scioglimento,
primazia del Presidente del Consiglio sui ministri) erano comunque
deboli rispetto alla frammentazione e alla polarizzazione del sistema
dei partiti. Da lì, sotto la guida di De Gaulle, forte del ruolo
commissariale per la crisi algerina, la soluzione relativamente
rapida e internamente coerente della transizione (1958 ripristino
delle legge elettorale uninominale maggioritaria e nuova
Costituzione; 1962 elezione diretta del Presidente).»
Charles De Gaulle |
L'Italia
«con «un'ampia condivisione del testo costituzionale e con un
sistema dei partiti alquanto strutturato» mise in sordina la
«relativa debolezza delle regole relative alla forma di governo e di
quelle elettorali».
Senza
la crisi algerina della Francia coloniale, De Gaulle non avrebbe
potuto commissariare la Quarta Repubblica, né, forte di quello stato
d'eccezione, avviare la sua transizione. All'Italia sconfitta e
privata delle colonie, pacifista per proibizione oltreché per
vocazione resistenziale, questa “fortuna” fu felicemente
risparmiata.
Perché
non
va dimenticato che Charles de Gaulle condusse, all'interno
dell'Occidente, una politica estera relativamente indipendente anche
nei rapporti con l'Urss, motivata dall'esercizio della propria
sovranità nazionale. Essa si basò sull'idea nazionalista di
grandeur
e su una forza militare indipendente, la force
de frappe, dotata
di armamento nucleare autonomo.9
Ma è
sulla composizione del potere costituente italiano che occorre
approfondire, quando Ceccanti si riferisce, per esempio, alle
posizioni assunte dal socialismo italiano di Pietro Nenni.
Parzialmente ridimensionato dalla scissione di Palazzo Barberini10,
si distinse da quello francese che si disse da subito parte
dell'atlantismo occidentale e, perciò, non soggetto alla conventio
ad excludendum dal
governo che colpì chiunque prioritariamente non vi aderisse.
-----------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------
Antifascismo
italiano
Agosto 1922 Barricate di Parma contro i fascisti |
Coloro
che si opposero alla prima guerra mondiale si ritrovarono presto tra
i primi oppositori dello squadrismo fascista. Sin dagli anni '20 si
formò un antifascismo che poi confluì nella Resistenza.
Solo
nella sua fase conclusiva di liberazione nazionale dall'occupazione
tedesca nazista, al cui servizio s'era posta la Repubblica sociale di
Salò, vi aderirono più forze politiche. Ivi comprese quelle che
“stavano alla finestra”, nonché quelle monarchiche e
liberal-nazionaliste, fino all'8 settembre del 1943 pienamente
corresponsabili del regime e della guerra. Queste ultime cercavano di
salvarsi dalla disfatta a cui avevano concorso, rifugiandosi sotto
l'ala protettrice degli eserciti alleati a guida anglo-americana,
appena sbarcati per occupare il territorio di uno Stato aggressore e
sconfitto. Con esse tentavano di trovare scampo larga parte della
grande borghesia nazionale e dell'apparato statale, le élites
dirigenti del ventennio mussoliniano.
La
formazione del nostro antifascismo, tuttavia, risaliva agli '20 ed
ebbe una storia sua, fortemente collegata al fatto che lo squadrismo
fascista si era abbattuto sulle organizzazioni bracciantili, operaie
e contadine in difesa delle classi proprietarie agrarie, industriali
e finanziarie.
In
particolare allo squadrismo resistettero gli Arditi del Popolo.
Pertanto, la lotta al fascismo ed al capitalismo costituirono un
tutt'uno ed il nucleo portante di un fronte democratico, che si
allargò in seguito dalle classi lavoratrici e da alcuni gruppi di
intellettuali a larghi strati della società civile.
Dopo
la marcia su Roma, in Parlamento alla Legge Acerbo di stabilizzazione
del potere nelle mani di Mussolini e del PNF si opposero i partiti
comunista e socialista, insieme ad una ridotta frazione dei cattolici
popolari ed alcune personalità liberali*.
Dopo
il delitto Matteotti (siamo già nel 1924) l'opposizione al fascismo,
temporaneamente, si allargò e rinvigorì. Successivamente, carcere e
confino la repressero duramente, mentre le politiche di sviluppo
“autarchico” e le “vittoriose imprese d'Africa” (1930-35)
riuscirono a raccogliere un più vasto consenso. In fin dei conti il
fascismo dimostrava di realizzare l'immaginario, a lungo alimentato
dalla cultura nazionalistica, di “un posto al sole” per l'”Italia
proletaria”, scesa coraggiosamente in guerra nel '15, e alla quale
la vittoria era stata “mutilata”.
Furono,
per gli antifascisti attivi rimasti a piede libero, i duri anni
dell'esilio, della rete clandestina, della guerra di Spagna (luglio
1936 - aprile 1939), preparatoria del conflitto mondiale.
Questa
composizione popolare dell'antifascismo, del pacifismo
anti-colonialista e contrario alla politica imperialista, formatasi
per fasi ed allargamenti non lineari, animò gran parte della
seguente Resistenza. In essa si saldarono istanze di classe e della
società civile, economiche e politico-culturali, che insieme
condizionarono il dettato costituzionale.
*Al
riguardo è illuminante l'iter legis della riforma elettorale
Acerbo, ricordata in questo Blog al post “Italicum &
Porcellum”.
-----------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------
L'antifascismo
italiano [vedi
riquadro dedicato]
ebbe una storia diversa da quello francese. Nel nostro Paese il
“fenomeno fascista” si affermò non con i carri armati tedeschi
ed il conseguente collaborazionismo del maresciallo Pétain, ma
muovendo i primi passi dal “radioso maggio”, ossia dal prevalere
dell'interventismo nel primo conflitto mondiale.11
Coloro
che si opposero alla guerra si ritrovarono presto tra i primi
oppositori dello squadrismo fascista. Sin dagli anni '20 si formò un
antifascismo che poi confluì nella Resistenza.
Abilità
di manovra
La
storia e la composizione dell'antifascismo italiano, in cui si
saldarono istanze di classe e della società civile, economiche e
politico-culturali,12
condizionò il dettato costituzionale. Ben più profondamente delle
abilità di manovra di Palmiro Togliatti nell'Assemblea costituente,
che pure ci furono e su cui non proprio benevolmente indugia
Ceccanti.
Ciò
spiega la differenza di posizione politica del socialismo italiano di
Pietro Nenni, aderente al Fronte Popolare con i comunisti di
Togliatti, ed il legame con l'Unione Sovietica, protagonista del
rovescio nazista a partire dalla battaglia di Stalingrado.
Fu
quella saldatura popolare che impedì la “razionalità funzionale”
rivendicata da Ceccanti, lasciando in campo la contraddizione sociale
irrisolta. Perché la Costituzione, come vedremo più avanti,
rappresentò ad un tempo un punto di approdo, un difficile equilibrio
e un'apertura di prospettiva che, nel '46-'47, non era per niente
scontata.
Leggerla
a posteriori come assodata, per giunta sottacendo gli aspri conflitti
dei due decenni successivi, è una “epurazione” della storia.
In
quel presente: fu preclusa la via ad un esecutivo forte e si diede
vita ad una Repubblica parlamentare basata sul proporzionale puro,
con distinti e separati poteri statuali; nelle assemblee elettive le
opposizioni non furono marginalizzate e ridotte al diritto residuale
di tribuna.
Prima
delle elezioni del '48 le componenti socialiste e comuniste subirono
l'esclusione dal governo, ma dopo la sconfitta del 18 aprile poterono
tenere vive le lotte sociali e politiche.
Chi
non l'accettò
Pesavano
sull'Italia l'esperienza del fascismo, della repressione sociale e
politica, lo strapotere dell'esecutivo, la subalternità dei
tribunali al governo e quant'altro aveva istituzionalizzato la
fascistizzazione e la dittatura.
Pesava
la responsabilità di una intera classe dirigente che aveva voluto la
guerra portando il Paese al disastro.
Sicché
la Democrazia Cristiana, quando cercò delle soluzioni che andavano
nella stessa direzione di quella francese (evirate però di ogni
intento di “sovranità nazionale”), trovò la strada sbarrata.
Accadde, prima del De Gaulle “algerino”, con la “legge truffa”
voluta da De Gasperi nel 195313
e, durante il De Gaulle della transizione repubblicana, con il
governo monocolore di Tambroni, sorto con l'appoggio “esterno” di
fascisti e monarchici.
Nel
luglio 1960 fece 11 morti tra i manifestanti di tutta la penisola,
prima di doversi dimettere.
Fatti
“dimenticati” che disturbano la ricostruzione storica ad
hoc
di Ceccanti, al pari di tutti i tentativi di cambiare la Costituzione
succedutisi nei decenni.
«(...)
da quando è stata approvata la Costituzione – democrazia e lavoro
– c'è chi non l'ha mai accettata, ha cercato in ogni modo, lecito
e illecito, di cambiarla per imporre una qualche forma di regime
autoritario.» Così si esprime Gustavo Zagrebelsky14,
ricordando che tra costoro figurano i nomi di Randolfo Pacciardi,
Edgardo Sogno, Luigi Cavallo, Giovanni De Lorenzo, Junio Valerio
Borghese, Licio Gelli.
Istituzioni
refrattarie
Ceccanti
non ritiene di dover tener conto dei movimenti di massa e del loro
portato politico-culturale, nel ridisegnare le istituzioni. Ma
tacerne [vedi riquadro “Desaparesidos
dalla storia”] serve
solo a renderle refrattarie, corpi estranei non partecipati.
-----------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------
Desaparesidos
dalla storia
Genova 2001 |
I
movimenti degli anni '50 e della prima metà degli anni '60 videro
protagoniste le organizzazioni sindacali e partitiche della sinistra,
come avvenne nel contrasto al tentativo democristiano di Tambroni.
Verso
la fine degli anni '60 il rapporto tra queste organizzazioni ed i
movimenti subirono sostanziali cambiamenti. Per l'irrompere dei
movimenti studentesco, giovanile ed operaio delle grandi fabbriche, e
per il ponte solidale che in quegli anni fu gettato tra le lotte
interne e quelle di liberazione del terzo mondo.
Dal
1969, stragi di Stato, opera di servizi segreti interni-esterni e
mano d'opera fascista, repressioni e leggi liberticide costellarono
un lungo periodo di conflitti interni (tutti rubricati dai mass-media
negli indistinti “anni di piombo” di marca terroristica), mentre
veniva rifiutata la logica dei blocchi e si fece largo la
consapevolezza che, sotto il manto della “coesistenza” subentrata
alla Guerra Fredda, Usa e Urss in realtà mirassero a spartirsi il
mondo in zone d'influenza.
Non
è difficile rintracciare una linea di continuità internazionalista
che dal Vietnam alla Palestina giunge fino a Genova 2001, passando
per: l'opposizione alle “navi italiane nel Golfo” (agosto 1990) e
alla guerra contro l'Iraq (gennaio 1991); la “politica dei
riconoscimenti” delle piccole patrie etniche da parte dei governi
europei, che fomentò la guerra nella ex-Jugoslavia (1991-95), fino
all'intervento “umanitario” della Nato in Kosovo (1999). Così
come non è difficile rinvenire un progressivo discostarsi, per fasi
alterne e non lineari, della sinistra tradizionale dal suo
intendimento originario, culminato nella partecipazione alla guerra
del Kosovo (1999) da parte del governo D'Alema, in violazione della
Costituzione.
Come
se traessero forza da un sotterraneo fiume carsico, questi movimenti,
sempre più “auto-organizzati”, emergevano in superficie
collegando le vicende interne a quelle mondiali. Col tempo essi
consumarono un crescente distacco dalla sinistra tradizionale, a
causa della tendenza di questa a condividere le scelte dell'Occidente
euro-atlantico anche dopo il Muro*, a sposare le politiche
d'austerità ed il liberismo riemerso prepotente sin dalla fine degli
anni '70, nonché a chiudersi nelle proprie strutture
autoreferenziali e nei rapporti di potere.
Sicché,
nonostante il “riflusso” dei movimenti, nella percezione comune
ha finito per perdere senso la stessa rappresentazione di una
politica con la sinistra opposta alla destra, tramutata in un
“teatrino”.
*
Dopo la caduta del Muro nel 1989, allorché si sciolse con l'Urss
anche il Patto di Varsavia, in difesa dal quale veniva giustificata
la Nato,
essa, invece di sciogliersi a sua volta, si estese fino ai confini
con la Federazione Russa.
-----------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------
Tale
effetto è ben visibile quando affronta sia il tema del sistema dei
partiti e delle rappresentanze, sia quello della democrazia diretta
referendaria.
Dopo
avere animato le lotte degli anni'50-'60, i partiti della sinistra e
le organizzazioni sindacali cominciano ad allontanarsi dai movimenti,
arrivando in seguito ad osteggiarli. I motivi sono rintracciabili
nella storia dei movimenti, fatta scomparire.
Essa
ci spiega anche l'irrompere dei successi referendari.
Senza
il portato politico-culturale e di forza dei movimenti non sarebbero
state possibili le vittorie dei diritti civili e di genere sul
divorzio e sull'aborto, o, più di recente, contro il nucleare
(seconda edizione) e per l'acqua pubblica.
Per
far un altro esempio: cosa indica la vittoria referendaria contro il
finanziamento pubblico dei partiti?15
Marco Pannella, colmato di generosi omaggi post mortem, fu
osteggiato duramente proprio dalla “partitocrazia”. Il
finanziamento pubblico, abolito ufficialmente, venne surrettiziamente
reintrodotto alla voce “rimborsi elettorali” e continuerà fino
al 2017.
Inoltre,
poiché nella Costituzione non è prevista la consultazione
referendaria per la ratifica dei trattati internazionali, la riforma
sarebbe un'occasione per introdurla. Tanto più che quest'ultima
muove dal presupposto storico della fine della Guerra Fredda, che
vincolava l'Italia a trattati “di campo” esclusi dalla democrazia
diretta referendaria.
Nella
riforma, al contrario, alla estensione della democrazia diretta si
preferisce la “democrazia immediata”, nella logica della ”Europa
della decisione”, in cui i governi fanno e disfanno in barba ai
mandati elettorali e alla sovranità costituzionale. Una falsariga
non a caso condivisa da Mario Monti16:
«Non
sono d'accordo con chi dice che questo referendum [ndr britannico] è
una splendida forma di espressione democratica. Le dico di più. Sono
contento che la nostra Costituzione, quella
vigente e quella che verrà [corsivo
mio], non prevede la consultazione popolare per la ratifica dei
trattati internazionali.»
Infatti,
nella Costituzione “che verrà” della spinta alla democrazia
referendaria è rimasta solo una labile promessa che sa di ricatto:
l'istituto del referendum riformato17
ma non esteso alla ratifica dei trattati internazionali, saranno resi
più agevoli se direte sì in autunno, salvo la necessaria ulteriore
modifica costituzionale e quant'altro18.
Il
matrimonio coatto
Quando
Ceccanti si compiace della fine dell'oblio per le idee di Duverger,
dovrebbe spiegarcene le cause, ovvero quali trasformazioni siano
intervenute per consentirne il “rilancio” di cui si fa
interprete. Fatto sta che il loro “oblio” coincide con l'apice
dei movimenti del secolo scorso, ed il “rilancio” sopraggiunge
col prevalere della globalizzazione e della restaurazione liberista,
tradotta in Europa, secondo la specifica applicazione tedesca, in
“ordo-liberista”.
Ronald Reagan e Margaret Thatcher |
Alla
nuova globalizzazione diedero pratico corso Reagan e Thatcher agli
inizi degli '80, per uscire dalla crisi economica capitalistica
degli anni '70 e, al contempo, riaffermare il ruolo egemone della
Triade (Usa, Europa dell'Ovest e Giappone) nel mondo. Due aspetti non
disgiungibili, come le “narrazioni” liberiste suggeriscono.
Come
se il prevalere dei mercati liberalizzati su scala mondiale avvenisse
in un contesto di generale de-potenziamento degli Stati nazionali (o
di de-nazionalizzazione delle loro politiche), di tutti gli Stati,
pure di quelli che impongono regole a vantaggio delle proprie imprese
multinazionali nei trattati globalizzanti del WTO e bilaterali di
“libero scambio”19
o, armati fino ai denti e maggiori esportatori di armi, scatenano
guerre direttamente e indirettamente, attraverso le loro pedine nei
diversi “teatri geo-politici”.
Così
Renzi parla di un'Europa “che ci ha dato 70 anni di pace”,
facendo sparire come d'incanto dalla storia del vecchio continente
sia l'attuale guerra in Ucraina, sia quella che ha a lungo
insanguinato la ex-Jugoslavia. Quest'ultima, in particolare, viene
rubricata come fenomeno geopolitico balcanico ed è oggetto di
generale oblio, per non dover spiegare come l'Europa si è andata
concretamente costruendo nel dopo Muro.
Al
tempo di Reagan e Thatcher il movimento dei Paesi non-allineati era
in piena difficoltà, i Paesi del terzo mondo subirono la crisi del
debito e la Cina si rese disponibile ad “aprirsi” ed accettare
investimenti stranieri e relative “delocalizzazioni”. Nel 1989,
inoltre, l'Unione Sovietica si sfaldò, il Muro cadde e la Germania
si riunificò.
Erano
maturate tutte le condizioni affinché gli “spiriti animali”
potessero finalmente uscire dalla gabbia del “matrimonio coatto”
a cui furono ristretti per superiori ragioni di preservazione
sistemica.
In
cosa consisteva tale “matrimonio”?
Essenzialmente
in politiche economiche di “stampo keynesiano”20.
Sul piano nazionale, tese a contenere la contraddizione tra lavoro e
capitale all'interno di un “capitalismo redistributivo”, mitigato
negli “eccessi” dall'intervento dello Stato in economia, a favore
dell'occupazione, del welfare e dei consumi di massa.
All'esterno, volte a configurare rapporti post-coloniali, tra Paesi
resisi indipendenti, ai quali veniva promesso un aiuto allo sviluppo
attraverso le istituzioni nate a Bretton Woods.21
A tali
fini la finanza doveva essere posta sotto stretto controllo,
“repressa” nelle sue naturali pervasive pulsioni, per evitare che
il suo prevalere, come avvenne con il crollo di Wall Street del '29,
potesse condurre alla depressione e al dilagare della disoccupazione.
Effetti
che Hitler sfruttò per impadronirsi del potere e strutturare
l'economia di guerra tedesca.
Effetti
che, qualora si fossero ripetuti nel dopoguerra, avrebbero consentito
al modello sovietico di dimostrarsi superiore a quello capitalistico.
Tuttavia,
l'adozione delle politiche keynesiane risaliva al New Deal,
avviato negli Stati Uniti da Franklin Delano Roosevelt nel 1933,
ed alla riforma finanziaria di Hjalmar Schacht nella Germania nazista
del 1934.22
Esse non furono e non sono una prerogativa assoluta delle democrazie
liberali e, in linea generale, non sono necessariamente connesse ad
una struttura produttiva rivolta alla pace.
Queste
osservazioni sono indispensabili per chiarire che le Costituzioni
dell'Europa occidentale, nell'affermare il legame tra democrazia e
lavoro, con uno sviluppo socialmente compatibile nel limite posto
all'impresa privata e nel vincolo redistributivo, garantiti dal ruolo
attivo dello Stato, non comportavano automaticamente né le libertà
sindacali, né quelle politiche e, di conseguenza, il riconoscimento
di un ruolo soggettivo indipendente alle “classi subalterne”.
Così
come non garantivano rapporti internazionali paritari tra gli Stati
ed il mantenimento della pace. Tanto più che in Europa, all'indomani
del conflitto mondiale, sopravvivevano a Sud regimi fascisti nella
penisola iberica23
e ancora nel 1967 la Grecia cadeva sotto il regime dei colonnelli,
finito nel 1974 in seguito alla rivolta studentesca universitaria di
Atene.
Europa
reale
Il
successo delle socialdemocrazie in Europa occidentale, tardivo
rispetto alla forza da loro acquisita ad inizio secolo e andata
dispersa quando divennero “social-patriottiche” nel primo
conflitto mondiale24,
è indubbiamente connesso al poderoso sviluppo economico e sociale
dei “trenta gloriosi” (1945-1975). Dopo dei quali il “matrimonio
coatto” viene sciolto ed inizia il periodo liberista. Seppure tra
contraddizioni e in tempi diversi, i partiti socialdemocratici e di
sinistra aderiranno tutti alla globalizzazione finanziaria ed al
binomio liberalizzazioni-privatizzazioni, dando luogo al
social-liberismo differenziato dal liberal-liberismo solo per la
promessa, non mantenuta, di una maggiore attenzione alle ricadute sul
sociale.
Il
loro pieno coinvolgimento nella costruzione dell'Europa di Maastricht
e dell'euro ha spinto questi partiti ad “essere più realisti del
re”. Vale a dire, spendendo il credito acquisito presso le classi
lavoratrici nel citato trentennio di sviluppo, a farsi diretti
promotori della deflazione salariale concorrenziale tra Paesi europei
nella reciproca rivalità mercantilista.
In
Germania le riforme del mercato del lavoro sono state realizzate dal
governo di Gerhard Schröder.
In Italia è il governo Renzi a varare velocemente il Jobs
Act
(seguito da Hollande), dopo una serie di altre misure pure
“concertate” con i sindacati che andavano nella medesima
direzione, ma erano troppo lente. Non calzavano appieno il ritmo
nazionalistico di anticipare le mosse del Paese concorrente
all'interno dell'Unione europea ed in particolare nell'Eurozona.
La
moneta unica equivale al cambio fisso tra aree economiche diseguali,
mentre i vincoli di bilancio impediscono a ciascun Paese, privo di
sovranità monetaria, di disporre della propria spesa pubblica.
Sicché per non indebitarsi verso l'estero (europeo in primo luogo)
non rimane che la via della della deflazione salariale reciprocamente
competitiva.
Ne
consegue, nei Paesi più deboli, la distruzione di importanti pezzi
della struttura produttiva nazionale e la restrizione del mercato
interno, condannando le loro economie alla subalternità verso quelle
più forti.
L'asimmetria
tra Centro e Periferie si accentua, anche nelle rilevazioni dei
centri studi liberisti italiani25.
Il
nazionalismo economico si trascina appresso, inevitabilmente, il
nazionalismo politico: lo fomenta. Ritornano gli stereotipi dei
popoli del Nord laboriosi e parsimoniosi, minacciati nel loro
meritato benessere dai pigri e fannulloni meridionali, i quali, a
loro volta, sono indotti ad un crescente risentimento. Il tutto per
nascondere chi realmente trae potere e ricchezza da questo insieme di
relazioni sovranazionali.
Il
pendolo perde colpi
Prescindere
dalla relazione tra espressioni politico-culturali della società
(nei movimenti e non solo) e partiti tradizionali, puntando a
riformare questi ultimi senza tener conto delle cause reali del loro
diffuso discredito, assume un significato di chiusura ed esclusione
verso i gruppi sociali impoveriti e verso chiunque non si omologhi
politicamente agli interessi delle cerchie al momento dominanti.
È
l'approdo del metodo di Ceccanti, applicato alla situazione italiana.
Esso muove dall'alto verso il basso. Antepone a tutto la
“governabilità”, da cui fa derivare, in linea subordinata, il
sistema di selezione delle rappresentanze parlamentari (per elezione
di “nominati”) e del personale di governo (per cooptazione).
Infine, all'insieme risultante vuole adeguare le forme partitiche,
alle quali viene chiesto di raccogliere e convogliare il consenso
popolare.
Fino a
che punto il fine della “governabilità” può essere imposto a
detrimento del “mezzo”, ossia della rappresentanza espressa dal
corpo elettorale?
Incurante
del limite democratico, se non c'è maggioranza, anche relativa
(oltre il 40%), interviene il ballottaggio di lista. Il molteplice
viene ridotto alla scelta obbligata tra due opzioni omologhe.
Nello
schema, i consensi per le “ali estreme” dovrebbero confluire su
due liste convergenti al “centro”, da “destra” e da
“sinistra”, con programmi sostanzialmente identici. Tuttavia, in
caso di crisi o, a maggior ragione, al confluire di più crisi, non
basterà la scelta tra le due opzioni tradizionali di centro-destra e
centro-sinistra. Dal vivo della società e delle sue contraddizioni
la logica binaria viene messa in discussione ed il “gioco del
pendolo” tende a perdere colpi.
Dall'Europa
arrivano quotidiane conferme del fallimento di siffatti esecutivi
della decisione.
In
Francia s'è aperto lo scontro sociale sulla Loi Travail di
Hollande. Il governo Valls ha affermato la “democrazia immediata”,
ma ha approfondito il fossato che lo divide dal lavoro dipendente e
dai giovani. E di cui sicuramente cercherà di approfittare il
partito delle Le Pen, a cui si è già rivolto il voto di settori
operai e popolari disillusi proprio dagli impegni non mantenuti dalla
presidenza socialista.
La
Spagna che, per ammissione di Duverger, aveva aderito alla funzionale
“Europa della decisione” transitando dal franchismo alla
democrazia, è da mesi senza governo eletto, dopo due elezioni
politiche generali. Un “secondo sistema dei partiti” (quattro
invece di due), indice di un crescente fermento politico-culturale e
sociale, ha messo a “soqquadro” le ingegnerie istituzionali
pre-esistenti.
Che
dire poi della crisi portoghese e di quella greca?
In
Austria il dualismo dei partiti cristiano-sociale e socialdemocratico
è saltato. Un “vizio formale” ha invalidato l'elezione a
Presidente di Van der Bellen che, incalzato da un'ondata xenofoba e
neo-fascista, riandrà al ballottaggio.
In
Italia il decisionismo del governo Renzi che ha varato il Jobs
Act, non ha incontrato grandi e manifeste resistenze perché, a
differenza della Francia, il nostro mercato del lavoro era già stato
reso “flessibile” da precedenti riforme, da accordi di
concertazione con i sindacati (una brutta copia della tedesca
Mitbestimmung) e dalla “rottura” della Fiat di Marchionne.
Oramai pervaso di precariato, di buoni lavoro occasionali (vouchers)
e di “autonome” partite Iva, il mondo del lavoro italiano si è
trovato diviso e disperso, impossibilitato ad identificarsi nelle
sorti di quello dipendente e subordinato “regolare”.
Ma le
recenti amministrative hanno messo in luce la tendenza
dell'elettorato popolare a rivolgersi al M5S, il terzo escluso
“populista” che scombina il “gioco del pendolo” degli
ingegneri costituzionali.
Maschi
velleitarismi
Per
quale motivo si vuol dare tanto potere all'esecutivo, proprio nel
cuore delle crisi europea e mediterranea? Quando l'Italia stessa è
in crisi?
Lo
spunto per una prima risposta ci viene da una recente dichiarazione
di Pier Luigi Bersani26,
nella quale si rimprovera a Renzi di alimentare un “rapporto
maschio” con l'Europa, salvo poi pretendere l'assurdo ed accettare
l'inaccettabile. Secondo Bersani è assurdo pretendere di fare i
bilanci pubblici italiani a proprio modo e, al contempo, pretendere
che la Germania se ne assuma il rischio (il cosiddetto risk-sharing),
condividendone le conseguenze. Era, invece, inaccettabile il bail-in
bancario, per il motivo principale che in questione sono le
possibilità (negate) di finanziare gli investimenti della “economia
reale”. Da qui l'osservazione che il Paese non può rinunciare ad
avere una propria siderurgia e altri pezzi d'industria.
Bersani,
inoltre, evidenzia il circolo di potere del governo con alcuni
imprenditori: «I
dieci o quindici che contano nel capitalismo italiano si stanno
aggiustando le cose loro, chiedono solo che il governo sia
amichevole, e se capita lo applaudono e si fanno applaudire. Poi
hanno i giornali e c'è lo scambio, succedono cose che non sono
potabili.»
Dall'interno
del PD Renzi è accusato di mostrare muscoli retorici, per poi, sulle
“cose che contano”, farsi mettere i piedi in testa.
Per
restare sul tema delle banche in preda a crediti inesigibili, Luigi
Zingales27
qualche giorno dopo viene a sostenere che il Fondo Atlante salva
banche è poca cosa rispetto al buco e, pertanto, il governo dovrebbe
ricorrere all'aiuto del MES, il fondo europeo salva Stati, che porta
con sé la supervisione della Troika.
Il
ministro Padoan, intervenuto al Festival dell'economia di Trento il 4
giugno, ha sostenuto che, in mancanza di una condivisione europea del
debito pubblico, vengono a scemare le ragioni stesse dell'euro.
Poiché la Germania, detentrice del più grande surplus
commerciale mondiale (286 miliardi di $) continua ad avvantaggiarsi
dell'euro svalutato (in un anno poco meno del 30%), non pare affatto
intenzionata a rinunciare alle proprie posizioni di vantaggio,
l'intenzione renziana “di scardinare dall'interno” l'Europa
attuale appare piuttosto velleitaria, anche se gode della benevolenza
di Obama.28
In
mancanza di un “divorzio consensuale” dall'euro, una soluzione
sempre esclusa a priori, o di una condivisione europea del debito
(tra cui i famosi eurobond) e di contromisure per bilanciare i
surplus esportativi tedeschi, mancano gli spazi di manovra per
il governo italiano. Come finirà il contenzioso europeo sulle banche
italiane? Saranno evitabili altre restrizioni austere, da prendere
con rapida decisione?
Orgogliosa
sicurezza
-----------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------
Vincolo
esterno
«Poco
prima della firma del Trattato di Maastricht, il governatore della
Banca d'Italia Guido Carli e il Ministro degli Esteri Gianni De
Michelis vennero al Quirinale per illustrarmi il merito dell'accordo.
Al termine della loro prolusione, chiesi: “Ma pensate davvero che
l'Italia sarà in grado di rispettare i patti?” La risposta fu
corale: “Con le nostre sole forze, assolutamente no, ma se non ci
ancoriamo ad un vincolo esterno non riusciremo a salvarci e
continueremo a sprofondare nella voragine del debito pubblico”.»
(Intervista
dell'ex Presidente della Repubblica Francesco Cossiga ad Andrea
Cangini, Fotti
il potere. Gli arcana della politica e dell'umana natura,
Aliberti, Roma, 2010, p. 173)
Citazione
riportata da Stefano Ceccanti in “La
transizione è (quasi) finita”,
Giappichelli, 2016, per introdurre il 2° Capitolo, “I
cambiamenti costituzionali. Italia.”
-----------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------------
La
ragione per cui Ceccanti cita l'episodio [in
riquadro "Vincolo esterno"] è che, finalmente, con la Seconda
Repubblica potremmo fare a meno di farci dettare i compiti a casa
dalla Merkel, in posizione subalterna perché forzati dall'Europa.
Ma che
senso ha “ri-nazionalizzare” la politica di bilancio,
rivendicando piena autonomia e responsabilità in capo all'esecutivo
rafforzato, se le sue decisioni poi ricalcano quelle prese per
“vincolo esterno”?
Manca
la revisione delle cause strutturali del dilagare del debito
pubblico, risalente al “divorzio all'italiana” tra Tesoro e
Bankitalia29.
Manca la revisione delle sue motivazioni, da ascrivere alla lotta
governativa e padronale contro il potere d'acquisto dei salari e la
connessa scala mobile. Resta l'imperativo dei vincoli di bilancio
all'interno dei parametri di Maastricht e del sistema valutario a
moneta unica. Sicché si persevera nell'errore con malriposto
orgoglio.
Il
professor Ceccanti scrive:
«Ad una lettura positiva delle trasformazioni elettorali e
costituzionali in corso dovrebbe condurre anche lo scenario europeo
in profonda trasformazione, con le sue opportunità e i suoi
pericoli. Esso richiede indubbiamente un salto di qualità,
distinguendo meglio l'integrazione politica più forte della zona
Euro dalle cooperazioni ulteriori, giacché i principali problemi che
ci troviamo ad affrontare non possono essere affrontati in modo
efficace rinazionalizzando le politiche. Proprio per questo, sia
nella fase attuale centrata sulle dinamiche intergovernative sia
anche nella successive, farà differenza il rendimento istituzionale
dei vari Stati nazionali.»
In
sintesi, stante l'evanescente prospettiva dell'integrazione politica
europea (l'accordo tra Ue e Regno Unito del 19 febbraio 2016, era in
sé già disgregativo30
e non evitò, comunque, la Brexit), ciò che da subito conta sono le
“dinamiche intergovernative”. È al loro interno che l'esecutivo
della rapida decisione pensa di intervenire, con l'intento di pesare
di più, tramite un “rendimento istituzionale” nazionale più
efficiente.31
Con
rapida decisione
La
divaricazione tra Centro e Periferie europea porta con sé
l'aggravamento dei problemi interni italiani. Crescono la povertà
estrema e le dicotomie territoriali. Le stime di crescita sono
attestate sugli zero virgola. La ripresa è una “ripresina”.
Nel
trascorso decennio circa un quarto dell'apparato produttivo nazionale
è andato disperso e lungo è l'elenco delle aziende con marchi
storici cedute ad acquirenti stranieri. La grande borghesia italiana
si è ridotta nel numero e si è trasformata. Da un lato le imprese
medio-grandi a base nazionale privilegiano al loro interno la
gestione finanziaria e, dall'altro, il ricavato delle cessioni è
stato immesso nei canali finanziari. Molti imprenditori sono
diventati réntiers. Fanno soldi coi soldi e sono, di fatto,
de-responsabilizzati rispetto all'andamento specifico del Paese o,
come si usa dire, dei territori. Spesso essi stessi preferiscono
risiedere all'estero.
Nonostante
tutto e come da loro tradizione, non hanno perso l'abitudine di
scambiare i loro interessi per quelli nazionali. Non vedono
alternative all'Europa della moneta unica e dei Trattati. Cercano una
soluzione che “scardini dall'interno” l'egemonia tedesca, senza
rimettere in discussione l'insieme della costruzione, alla quale
hanno affidato i loro “valori”. In realtà, alla malaparata e
come da loro storica tradizione, cercano una confortevole soluzione
per se stessi, magari in generose nicchie di mercato confezionate da
appositi accordi intergovernativi. In quanto finanziarizzati, la loro
preoccupazione al sociale territoriale, seppure millantata, si è
fatta assai volatile.
Poiché
sono un ristretto gruppo oligopolistico (“i dieci o quindici che
contano nel capitalismo italiano”, a cui si riferisce il prima
citato Bersani) seguono una stretta logica elitaria di potere.
Ambiscono al primato della “governabilità” (la loro) sopra la
rappresentanza democratica del voto. Perciò condividono i disegni
renziani di “democrazia immediata” e di “rapida decisione”
nelle mani del capo dell'esecutivo, a cui il Paese dovrebbe
consegnare una cambiale in bianco, per intervenire nelle
“dinamiche intergovernative”.32
Tuttavia,
non si fidano di un decisore unico.
Sicché
dalla “Repubblica delle idee” si è levata qualche preoccupata
contrarietà, già espressa prima dall'ascesa del M5S alle
amministrative che ha scombinato il “gioco del pendolo”.
Nel
dibattito a due33
con Renzi, Eugenio Scalfari, dopo aver perorato la riesumazione della
“legge truffa” del 1953, afferma: «Se tu cambi la legge
elettorale io voto Sì al referendum, altrimenti non ti voto perché
la legge elettorale così com'è ti rende padrone del campo. Diventi
padrone per 15 anni34
e questo non va bene.»
L'anziano direttore, e con lui l'Ing. De Benedetti tessera n°1 del
PD e suo azionista di riferimento, non vorrebbe mettersi nelle mani
di un uomo solo. Con ciò svela, dall'interno del Palazzo, la
sostanza politica della transizione alla Seconda Repubblica.
Renzi
risponde che sarebbe disposto a votare qualsiasi legge che
restringesse a due mandati l'incarico di premier,
perché Andreotti aveva
torto quando asseriva che il potere logora solo chi non ce l'ha.
Nella sua “giovanile esuberanza”, Matteo commette una gaffe:
si lascia sfuggire il senso politico delle sue riforme.
È
impossibile che Renzi ignori l'impossibilità in una Repubblica
parlamentare di porre limiti agli incarichi di primo ministro35.
Ma poiché il combinato disposto a cui il referendum dovrebbe
assentire, introduce de
facto
il premierato elettivo, egli argomenta che sarebbe disposto ad
accettare un limite di due legislature: bontà sua, invece di 15, di
soli 10 anni!
Il
ballottaggio di partito-lista (un unicum nel panorama istituzionale
occidentale) introduce surrettiziamente il premierato elettivo.
Sicché, una volta superato l'esame referendario, la transizione alla
Seconda Repubblica avrà bisogno di un completamento che formalizzi i
poteri del premier
a scapito di quelli del Capo dello Stato. In tal caso il “quasi”
del professor Ceccanti scomparirebbe, insieme ai già emarginati
poteri del Parlamento repubblicano.
Ri-nazionalizzazioni
Al
protagonismo competitivo intra-europeo corrisponde anche un certo
protagonismo nel Mediterraneo. Il protrarsi delle guerra in
Siria-Iraq, con tutte le sue implicazioni, ha finito per investire la
Turchia, bastione strategico della Nato.
Invece
della “pacificazione”, gli interventi in Iraq e in Afghanistan
hanno restituito l'allargamento dei conflitti armati ed il terrorismo
internazionale. L'avventura più devastante è stata quella di
intervenire, seppure per interposte forze, nella crisi siriana.
L'offensiva
contro l'Isis procede lentamente. Nelle capitali occidentali si
vorrebbe evitare che la sua eliminazione coincida con il
rafforzamento del fronte sciita e della presenza russa, e, di
converso, con l'indebolimento dei reami petroliferi alleati,
fomentatori e finanziatori del fondamentalismo jihadista sunnita.
In
questo “teatro geopolitico” la Francia ha assunto i ruolo di
competitore dell'Italia. Essa appoggia l'egiziano Al-Sisi, a sua
volta in Libia alleato con il governo di Tobruk. All'Egitto Parigi ha
venduto (2015) una portaerei e navi da guerra, grazie ai
finanziamenti di Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti. Di recente il
Qatar ha commissionato all'Italia quattro corvette ed una nave
d'appoggio per la guerra elettronica (4 miliardi di €), adducendo a
motivazione “la sicurezza dei mondiali di calcio”. L'emiro del
Qatar sostiene la Fratellanza musulmana in Libia, gruppi islamisti in
Siria ed i Talebani in Afghanistan, nonché Hamas.
A
quale gioco stiamo giocando?
Sotto
il manto della comunicazione retorica europeista si pratica il
nazionalismo: in ambito europeo con velleitarismo maschio verso
l'”amica Germania”; in ambito mediterraneo vendendo armi in
concorrenza e rivalità, nella logica di piccola potenza egemonica,
con l'”amica Francia” del socialista Hollande.
Per
sottrarre sovranità democratica e costituzionale ai popoli si grida
al “populismo” assimilato all'”anacronistico ritorno allo
Stato-nazione”, mentre si pratica, sotto il manto
“internazionalista” ed “umanitario”, il nazionalismo anche di
potenza (piccola).
Il
tutto per gli interessi di ristretti gruppi oligarchici, i quali
pretendono, in reciproca rivalità, di dettare assetti di potere
“geopolitici” che la loro mondializzazione ha contribuito
prepotentemente a travolgere.
Davvero
un bel modo per non “rinazionalizzare le politiche”.
1
http://genova.repubblica.it/cronaca/2016/04/25.
2
Alle consultazioni provinciali dell'ANPI i delegati a favore del
documento congressuale, schierato per il no
al referendum, sono stati 2501, contro 25 e 98
astenuti.
3
Germano Nicolini (detto diavolo, dievel
in reggiano), intervistato da Fabrizio Caccia, “'Diavolo'
a favore: non sono renziano, ma la Costituzione deve velocizzarsi”,
Corriere della sera, 23/05/1016.
4
Aldo Cazzullo, “L'uso
politico della Resistenza”, Corriere della sera, 23/05/2016.
5
Art. 1 della Costituzione.
6
Stefano Ceccanti, “La
transizione è (quasi) finita. Come risolvere nel 2016 i problemi
aperti 70 anni prima. Verso il referendum costituzionale.”,
Giappichelli, 2016.
Le
citazioni di seguito riportate sono tutte tratte da questo testo.
7
Gianfranco Pasquino, “'Meglio che niente', lo slogan peggiore”,
il Fatto Quotidiano, 4 giugno 2016.
8
Acronimo inglese per “There Is No Alternative”, traducibile in
“Non esistono alternative”.
9
La Francia nel 1949 fu tra i Paesi
fondatori dell'alleanza atlantica. Nel 1966 il generale Charles De
Gaulle ritirò il Paese dal comando integrato della Nato per motivi
di sovranità nazionale. Nel 2009 Sarkozy decise di rientrare nel
comando integrato.
10
Gennaio 1947, Giuseppe Saragat, a capo di una corrente
filo-occidentale, si separò dal PSIUP (poi PSI) per fondare il PSLI
(poi PSDI). Nel dicembre dello stesso anno entrò a far parte del IV
governo De Gasperi.
11Anche
grazie all'”oro francese” dato a Benito Mussolini.
12
Si veda, a questo proposito, il ruolo sia del cattolicesimo popolare
che di “Giustizia e Libertà” e del Partito d'Azione.
13
Legge elettorale che introduceva il premio di maggioranza del 65%
dei seggi della Camera alla lista e al gruppo di liste collegate che
avesse raccolto più della metà dei voti.
14
Gustavo Zagrebelsky, “Preferiremmo di NO alla S-Costituzione”,
Il Fatto Quotidiano, 6 marzo 2016.
15
Si tenne, insieme ad altri 7, su proposta del Partito Radicale, il
18 aprile 1993: votanti 77%; sì 90,30%.
16
Mario Monti, “La condanna di Monti: 'Il Premier britannico ha
distrutto il lavoro di una generazione di europei'”, Il Secolo
XIX, 18 giugno 2016.
17
Vedi Post: La riforma costituzionale - maggio 2016.
18
Michele Ainis,”Senza aspettare il referendum”, la Repubblica, 12
giugno 2016: «La
volta scorsa ci toccò pazientare per 22 anni (dal 1948 al 1970),
prima che Il Parlamento si decidesse di approvare la legge
d'attuazione del referendum abrogativo. Stavolta la riforma rinvia a
una legge costituzionale, che a sua volta rinvia a una legge
ordinaria, anche per precisare le 'altre forme forme di
consultazione' dei cittadini.»
19
Ha-Joon Chang, “Cattivi samaritani”, UBE paperbook, 2014 (2007),
pag. 113: «(...),
la nazionalità di un'impresa ha ancora un grande peso. (…)
Sarebbe ingenuo, soprattutto da parte dei paesi in via di sviluppo,
elaborare la politica economica partendo dal presupposto che il
capitale non abbia più radici nazionali.»
20
Sebbene
“profondamente travisate”, come ebbe a sostenere il professor
Franco Catalano nel libro “Europa e Stati Uniti negli anni della
guerra fredda”, I.L.I., 1972.
21
Nel 1944, a Bretton Woods, la sconfitta del
piano di J. M. Keynes ad opera del piano di H.D. White diede origine
ad un sistema di rapporti internazionali, monetari ed economici,
tanto funzionale al primato degli Stati Uniti (e del dollaro) quanto
foriero delle “complicazioni” attuali, rispetto alla Germania (e
all'euro).
22
Come già ricordato nel post “Storia recente
che parla al presente”, dicembre 2014, anche Mussolini aderì a
quelle politiche.
23
Il Portogallo fascista, membro fondatore delle Nato, rimase tale
fino al 1974, quando fu rovesciato dalla Rivoluzione dei garofani.
La
Spagna franchista dovette attendere la morte di Franco, nel
novembre del 1975, per transitare alla democrazia.
24
Anche in questo, tra mille incertezze, il socialismo italiano viene
a differenziarsi da quella europeo. Sulla socialdemocrazia tedesca
vedi al post “Storia recente che parla al presente” - Ottobre
2014.
25
Giuditta Marvelli, “Ma l'Italia ha già perso la spinta verso le
medie europee”, Corriere Economia, 20 giugno 2016.
26
Pier Luigi Bersani intervistato da Giorgio Meletti, Il Fatto
Quotidiano, 27 maggio 2016.
27
Luigi Zingales intervistato da Giorgio
Meletti, il Fatto Quotidiano, 31 maggio 2016.
28
“Dialogo Renzi-Scalfari...”, la Repubblica, 12 giugno 2016, a
cura di Alberto D'Argenio; Matteo Renzi: «Credo
che la Germania abbia bisogno di non essere lasciata egemone in
Europa altrimenti fa male all'Europa e a se stessa. In politica
economica Obama è da sempre al nostro fianco, ma l'Europa deve
essere scardinata dall'interno e la vera questione è riuscire a
usare il 2017 come vera occasione per superare l'austerity.»
29
Vedi Post “La corda e il nodo scorsoio” - Febbraio 2015.
30
Nell'intesa (4-7 anni per l'accesso al welfare
dei lavoratori comunitari immigrati; City immune dalle decisioni
finanziarie europee e Londra esentata dai costi di salvataggio dei
Paesi in difficoltà; UK disobbligata da ogni ulteriore integrazione
politica dell'Ue) erano gettati i presupposti opzionali da parte di
eventuali nuovi richiedenti uno “statuto speciale”.
31
Un effetto che la riforma, pure scritta malamente, non sembra
affatto in grado di garantire.
32
Nelle quali in Europa si concentrano poteri ad un tempo esecutivi,
legislativi e di revisione dei Trattati, a dir poco “anomali” da
un punto di vista democratico e costituzionale.
33“Dialogo
Renzi-Scalfari...”, la Repubblica, 12 giugno 2016.
34
Si noti che anche Eugenio Scalfari dà per scontato che in questione
è il premierato elettivo di legislatura.
35
Gianfranco Pasquino, “Il premier non può essere a tempo”, il
Fatto Quotidiano, 14 giugno 2016.