sabato 10 febbraio 2018

Davos, solo un anno dopo

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Davos, solo un anno dopo

Prosegue lo scontro tra Stati Uniti e Paesi in surplus

esportativo. È una lotta tra protezionismo e libero

commercio, tra chiusura e sviluppo? Il sogno di Carlo

Calenda, di un surplus alla tedesca, tra velleità ed

 avventura.


Undici mesi fa prendevo spunto da un intervento del capo di Alibaba, Jack Ma, all'annuale sessione del World Economic Forum di Davos, per ragionare sulla globalizzazione: eravamo al suo epilogo?1 Per capirlo, poteva giovare l'esame critico del punto di vista “altro”, dall'Oriente estremo, di un capitalista cinese dell'@-commerce, posto a confronto con l'annunciata svolta di Trump.
Nell'occasione Jack Ma auspicava di allargare alla maggioranza della società i benefici della globalizzazione, evitando che, come in passato, finissero a Wall Street. Ma come democratizzare la distribuzione della ricchezza, in seno ad una globalizzazione dominata dalle oligarchie finanziarie?
Già nel gennaio del 2017, la danarosa platea raccolta in quel villaggio svizzero tra i monti dei Grigioni si chiedeva preoccupata cosa significasse il protezionismo del neo-eletto presidente statunitense. In larga parte arricchitasi con la globalizzazione, guardava con sospetto chi si presentava al pubblico in modo così sbrigativo, sosteneva “America first” e manifestava di volere per gli Stati Uniti un nuovo ruolo autocentrato, di battitore libero a tutto campo, senza vincoli e limiti posti al dispiego della propria rivendicata potenza.

Un rude guastatore
Di proposito the Donald ha annunciato l'introduzione dei superdazi (dal 30 fino al 50%) all'importazione dei pannelli solari cinesi e delle lavatrici prodotte in Cina, Corea del Sud, Messico e Vietnam, prima d'arrivare di fronte all'assemblea di Davos. L'ha fatto giusto per poterla poi “rassicurare” di persona: America al primo posto, ma (tranquilli) non in solitudine!2
Benché queste restrizioni ne annuncino altre dello stesso genere e la guerra commerciale e valutaria sia in pieno svolgimento, il suo sostegno al liberalismo nonché al capitale finanziario non è per nulla messo in discussione. Anzi a quest'ultimo è tolto ogni pur labile “lacciuolo”. A subire un riposizionamento è il ruolo dello Stato nordamericano.
Donald Trump
Di Trump non va sottovalutata né la strategia, né l'astuzia con cui la persegue.
Il clamore sui nuovi dazi è stato preceduto da una riforma fiscale favorevole ai profitti d'impresa e da misure atte a:
  • condizionare i vantaggi tributari alla creazione di posti di lavoro negli States, sottraendoli alla delocalizzazione;
  • incentivare il ritorno in patria dei centri decisionali e logistici di corporations quali Google, Amazon ed Apple (proprio quando l'Unione europea si era accorta che evadevano il fisco...).
L'amministrazione repubblicana cerca un compattamento della base sociale interna di consenso ed un pieno “ritorno a casa” di aziende che, dopo la iniziale fase cosmopolita, innovativa e cool non disdegnano di praticare gli stessi comportamenti rimproverati ai vecchi gruppi monopolistici, ai quali sono subentrati.
Poiché il tutto è stato accompagnato dal via libera ad ogni attività speculativa finanziaria e borsistica, almeno una parte dei presenti a Davos era accontentata. Non potevano esserlo né gli interessati al business con i Paesi emergenti, né i sostenitori del mercantilismo euro-tedesco. Da qui la difficoltà, per i principali mass-media italiani, di presentare all'opinione pubblica nazionale la nuova situazione. In particolare, volendo nascondere la debolezza del nostro europeismo, sempre più tristemente aggrappato alle virtù taumaturgiche e neo-napoleoniche del presidente francese Emmanuel Macron.
Nostalgia del 7° cavalleggeri
Quale che siano le loro preferenze partitiche, quasi tutti i commentatori rimpiangono i bei tempi che furono, quando gli Stati Uniti erano indiscusso faro occidentale nel mondo e, come scrive il professor Sapelli «pur con le inevitabili contraddizioni del capitalismo in tutte le sue forme», esportavano «sicurezza internazionale e sviluppo economico su scala globale».3
Ora, quand'anche dubitassimo fortemente della validità universale del prodotto “sicurezza” made in Usa, memori anche solo di alcune guerre, colpi di stato, torture e varie brutalità, perché negare che esportando capitali e capitalismo gli USA abbiano esportato anche sviluppo planetario?
In fondo, la narrazione del capitalismo alimenta sempre una confortante certezza morale: il peccato genera la virtù: come dall'egoismo individuale nasce il progresso economico-sociale (la ricchezza della nazione), dalla rapinante circolazione dei capitali scaturisce la crescita universale (l'emancipazione dal sottosviluppo).
Eppure, è proprio nell'indiscriminato «aumento della circolazione del capitale» che accompagnò l'inizio dell'ultima globalizzazione, l'innesco di quel processo di finanziarizzazione che sregola il mercato (deregulation anni '80), domina la cosiddetta economia reale e ci regala, dopo entusiastiche corse al rialzo, crolli tanto repentini quanto disastrosi. Come il crack del biennio 2007-2008 che, a giudicare dalle labili contromisure adottate per gli anni a venire, fu un irripetibile “cigno nero”.
Si può sostenere che intere zone del mondo se ne siano avvantaggiate, accedendo allo sviluppo. Ma, pur prescindendo da un giudizio sui costi umani ed ambientali, se sono riusciti a volgere in diversa misura a proprio favore le conseguenze della globalizzazione è proprio perché i loro governi non hanno praticato il free-trade, bensì un selettivo protezionismo. Dalla Corea del Sud alla Cina.
Di contro, in questo internazionalismo del business4 l'1% dell'umanità, così ben rappresentato a Davos, si appropria di quasi tutta la ricchezza universale prodotta e lascia percolare5 quattro gocciole di essa verso il sottostante 99%, tra cui “inaspettatamente” si ritrova la middle class di Stati Uniti ed Unione europea.6 Una asimmetria distributiva che esplicita i rapporti di produzione prevalenti, sui quali troppo spesso l'analisi tace.
Una saggia convenzionale
L'inquilino della Casa Bianca sembra trovare il suo opposto nella cancelliera tedesca. Sennonché, come osserva Federico Rampini, «Lei governa una nazione mercantilista.»7 Dunque la sua saggezza “convenzionale” non dovrebbe essere credibile, se posta in alternativa al rude guastatore.
Angela Merkel
Nella costante ricerca del surplus commerciale (tipica del mercantilismo), con un avanzo di 244,9 miliardi di euro nel 2017 e 248,9 miliardi nel 2016, comprimendo le importazioni attraverso l'indebolimento della domanda interna, non c'è una minore dose di nazionalismo rispetto all'imposizione di dazi selettivi all'importazione. Rispetto alle modalità adottate da Trump, quelle dei governi tedeschi sono meno facilmente identificabili perché si nascondo dietro il sistema euro. Ma se non sono di facile comprensione da parte della maggioranza della opinione pubblica, non possono ingannare tutti, tantomeno i funzionari di Washington.
Non si tratta solo della protervia di ingiungere ai partners il rispetto di alcune regole di bilancio, piuttosto arbitrarie, quando ci si arroga il diritto di non rispettarne un'altra, che prevede non si possa superare in Eurozona un saldo positivo commerciale superiore al 6% del Pil nella media di tre anni.
Dietro all'euro debole usato dalla Germania per raggiungere il surplus, rispetto ad un marco forte se dovesse fare a meno della moneta unica, c'è un sistema che suppone la strutturale difficoltà dei Paesi periferici, quasi tutti mediterranei. Solo se questi ultimi divergono in peggio dai Paesi centrali, l'euro rimane debole e ne facilita l'export.
Uno degli aspetti più insopportabili è dato dalla ricattabilità dei Paesi periferici, i cui debiti sono costantemente minacciati di essere mandati in pasto ai mercati finanziari ed alla loro furia speculatrice, qualora non rispettassero l'austerità imposta. Ciò accade perché ciascun Paese della zona euro deve rispondere in solitudine dei propri debiti e dei relativi tassi d'interesse, ma non può godere né degli aggiustamenti dei tassi di cambio, non disponendo più di una moneta propria, né di autonome politiche anti-cicliche basate su deficit di bilancio. Pertanto questi Paesi, tra i quali l'Italia, sono inchiodati al debito e alla spesa annuale per pagarne gli interessi e quand'anche riescano a risparmiare sul bilancio annuale, non vedono diminuire sensibilmente il debito accumulato (in Italia è cresciuto) che, invece, dovrebbe tendere al mitico 60% del Pil annuale.
Volendo semplificare: il surplus tedesco si basa su una debolezza dell'euro che suppone l'esistenza in seno all'eurozona di Paesi periferici in difficoltà, gravati da debiti e da interessi sui debiti.
Gli “europeisti” possono anche sostenere che il sistema non presupponga per forza divergenze tra centro e periferie, ma non possono negare l'evidenza, ossia che il sistema le produce quando non le accentua gravemente.
Trattandosi di due forme di nazionalismo di supremazia egemonica, l'una resa esplicita e l'altra ipocritamente nascosta dietro l'euro, non si capisce quali siano le lezioni della storia ignorate, a cent'anni dalla conclusione della Grande Guerra. A meno che Frau Merkel voglia sostenere di non essere nazionalista in proprio ed accusare viceversa Trump di esserlo a disprezzo della pace.
Si cambia gioco
Alla ricerca di oppositori contro chi “tradisce il mercato portando al declino”, a Davos non sono stati lesinati calorosi applausi al premier iper-nazionalista indiano Narendra Modi. Un anno prima era toccato al presidente cinese Xi Jinping.
Ambedue, improbabili campioni del free trade senza se e senza ma, parevano dimentichi dell'utilizzo da parte dei loro governi di rilevanti misure protezionistiche.
Non è necessario essere antimperialisti per ammettere che da alcuni secoli a questa parte i Paesi in cima allo sviluppo continuino a scalciare la scala sulla quale vorrebbero salire quelli meno sviluppati. Di conseguenza, partendo dalla condizione di Paesi del Terzo Mondo, Cina ed India hanno dovuto proteggere, sia pure in modi differenti, le loro industrie ed i loro mercati, offrendo in cambio, per venire dispensati dall'applicare tout court regole simmetriche negli scambi (convenienti solo per i Paesi più sviluppati) ampia possibilità d'investimento da parte dei loro capitali sui propri territori e di compartecipazione allo sfruttamento delle loro risorse nazionali, umane in primo luogo.
Ad avvantaggiarsene furono soprattutto le grandi imprese finanziarie ed industriali, sistematiche delocalizzatrici del lavoro nelle rinnovate catene della subfornitura. E dagli Stati Uniti fecero il pieno di profitti.
Se adesso hanno deciso di cambiare, ciò e dovuto esclusivamente ad un semplice fatto: non accettano più di giocare ad un gioco che da qualche anno li vede perdenti e si reputano sufficientemente forti da poter imporre un altro gioco, nel quale suppongono di avere la meglio.
Vasi di ferro
Posto che anche l'amministrazione Obama imponeva dazi all'importazione8 e criticava la sleale concorrenza della Germania tramite l'euro debole (invece del marco che sarebbe stato più forte), va compreso il rischio che corre il nostro Paese nell'accentuarsi dello scontro.
Gli Usa sono in grave deficit commerciale (461 miliardi), ma dispongono pur sempre di notevole forza finanziaria e produttiva, nonché, fattore da non sottovalutare, di potenza militare. Rientra nei loro obiettivi il riequilibrio dei rapporti commerciali ed economici con l'Unione europea, l'eurozona ed in particolare con la Germania. Anche il conto della spesa militare Nato rientra nel riequilibrio.
Mentre la “guerra dei diesel”9 evidenzia quanto sia fittizia la superiorità umanitaria ed ecologica europea rispetto a quella statunitense, occupano la scena le reciproche accuse di “artificioso deprezzamento” delle proprie valute, dollaro ed euro, per avvantaggiare le proprie esportazioni.
A ridosso del meeting di Davos, Mario Draghi si lamenta perché la valuta europea sale a 1,25 dollari, il massimo da tre anni. “Dimentica” che dal 2014 al 2016 l'euro si era deprezzato rispetto al dollaro del 25%, e punta il dito solo sull'inversione di tendenza (+20%) registrata dopo l'arrivo di Trump alla presidenza.
Quali sarebbero le conseguenze per l'Italia della prosecuzione dello scontro sulle valute e della guerra commerciale in atto?
Un genio nostrano
In quanto moneta unica, la normalità dell'euro consiste, tra l'altro, nel penalizzare l'export dei Paesi più deboli dell'eurozona. Di conseguenza i recenti successi italiani nell'export sono dovuti principalmente all'uso dell'unico strumento alternativo alla mancanza della fluttuazione del tasso di cambio, ossia della svalutazione esterna della moneta: la deflazione salariale e la compressione dei consumi interni, sui quali poi i governi versano lacrime di coccodrillo.
Volendo perseverare nell'adesione al sistema euro, senza neanche chiedere in modo risoluto la condivisione dei rischi indispensabile alla sua sostenibilità, i governi “europeisti” puntano sulla esplosione delle esportazioni in rapporto al PIL.
Carlo Calenda
«E sull'export, naturalmente, punta il governo Renzi, “con un piano per portare dal 30 al 50% la quota delle esportazioni sul Pil”, spiega il viceministro dello Sviluppo Economico Carlo Calenda (...)»10
Correva il 2015. Recentemente, a distanza di oltre 2 anni, nel corso di un talk-show televisivo, Calenda ha ripetuto gli obiettivi percentuali della sua strategia neo-mercantilista, a creativa imitazione del modello tedesco. Laddove la creatività consiste nel sostituire col “genio italico” l'assenza di solide strutture industriali e finanziarie su cui il successo teutonico ha potuto basarsi.
È assai probabile che, nel caso in cui le “larghe intese” siano possibili, su tale strategia faccia perno la politica economica del governo.
Il driver solingo
Nel periodo in esame [vedi grafico qui sotto], posto il Pil 2010 pari a 100 e quello de 2016 a 97,7, tutti i “determinanti” sono in calo, salvo l'export.
http://www.repubblica.it/economia/2017/06/21/news/sace_rapporto_export_2017-168692593/

Tra i diversi comparti in cui si suddividono i prodotti italiani esportati nel mondo, primeggia quello riguardante la meccanica, i macchinari ed i beni strumentali. Proprio in questo comparto tra il 2015 ed il 2016 le esportazioni verso gli USA hanno registrato il maggior incremento, mentre la Germania, viceversa, ha assunto un ruolo frenante [vedi grafico “Export Italia”].
Export Italia,
mercati trainanti e frenanti
meccanica strumentale
http://www.exportusa.us/dati-export-italia-america-2016.php

Futuro d'azzardo
Quand'anche la Große Koalition ed il contratto dei metalmeccanici comportassero un allagamento della domanda interna, assai difficilmente la Germania rinuncerà al suo mercantilismo, ad avvalersi del sistema euro, a farsene scudo ed a rifiutare la condivisione dei rischi in eurozona.
Sicché per contrastare la Germania, probabilmente gli USA dovranno scegliere se prendere a bersaglio l'Europa nell'insieme, e l'Eurozona in particolare, o distinguere tra i diversi Paesi europei. Potremmo così ritrovarci nella scomoda posizione o di dover subire colpi in difesa di un sistema che ci opprime ed impoverisce o di riesumare l'antico feeling con gli Stati Uniti, magari per salvare un'economia dipendente dall'export verso quel Paese. Chissà da quale parte pencoleranno gli attuali fans dell'Europa carolingia (economia a direzione tedesca, armata alla francese)!
Rimane percorribile un'altra via, di sovranità democratica nazionale basata sulla rivalutazione del lavoro, dei salari e del welfare interni, che persegua una politica commerciale di equilibrio, non di surplus e di impoverimento del vicino, capace di rifiutare le logiche d'egemonia nazionalistica e neo-imperiale per favorire con la cooperazione una politica di pace. In sintesi: la via costituzionale.
Anche perché il TTIP sul quale Carlo Calenda aveva puntato inizialmente la sua strategia, faceva parte con il TTP dei «grandi trattati neo-imperiali Usa verso il Pacifico e verso l'Europa»,11 pur sempre diretti contro la Federazione Russa e la Cina. Non proprio trattati per disinnescare i conflitti commerciali e valutari, evitando eventuali derive belliche, a cent'anni dalla fine della Grande Guerra.

Note

1 In questo Blog vedi il Post “Globalizzazione addio?”, marzo 2017.
2 “America first, not alone.”
3 Giulio Sapelli, “Il tradimento del mercato porta al declino”, Il Messaggero, 25 gennaio 2018.
4 Che vorrei distinguere dall'internazionalismo del movimento operaio e socialista, sin dalla sua nascita nell'Ottocento.
5 Secondo la teoria del trickle-down, ammassando la ricchezza nella parte più alta della piramide sociale, una parte di essa sgocciola verso il basso a beneficiare gli strati inferiori.
6 Secondo i calcoli di Branko Milanovic nel libro “Ingiustizia globale”, Luiss University Press, 2017, la “classe media” delle due aree sviluppate è stata “tradita” dalla globalizzazione.
7 Federico Rampini, “Il guastatore e i fantasmi del '900”, La Repubblica, 25 gennaio 2018.
8 Per esempio, sull'acciaio cinese.
9 Prima le industrie tedesche sono state accusate di taroccare i dati sulle emissioni delle loro auto, poi di fare esperimenti su uomini e scimmie per dimostrare che quelle emissioni non erano poi così dannose alla salute.
10 Antonio Calabrò, “La morale del tornio”, Università Bocconi ed., 2015.
11 Così definiti da Giulio Sapelli nell'articolo citato.