Davos, solo un anno dopo
Prosegue lo scontro tra Stati Uniti e Paesi in surplus
esportativo. È una lotta tra protezionismo e libero
commercio, tra chiusura e sviluppo? Il sogno di Carlo
Calenda, di un surplus alla tedesca, tra velleità ed
avventura.
Undici
mesi fa prendevo spunto da un intervento del capo di Alibaba, Jack
Ma, all'annuale sessione del World Economic Forum di Davos, per
ragionare sulla globalizzazione: eravamo al suo epilogo?1
Per capirlo, poteva giovare l'esame critico del punto di vista
“altro”, dall'Oriente estremo, di un capitalista cinese
dell'@-commerce, posto
a confronto con l'annunciata svolta di Trump.
Nell'occasione
Jack Ma auspicava di allargare alla maggioranza della società i
benefici della globalizzazione, evitando che, come in passato,
finissero a Wall Street. Ma come democratizzare la distribuzione
della ricchezza, in seno ad una globalizzazione dominata dalle
oligarchie finanziarie?
Già
nel gennaio del 2017, la danarosa platea raccolta in quel villaggio
svizzero tra i monti dei Grigioni si chiedeva preoccupata cosa
significasse il protezionismo del neo-eletto presidente statunitense.
In larga parte arricchitasi con la globalizzazione, guardava con
sospetto chi si presentava al pubblico in modo così sbrigativo,
sosteneva “America first”
e manifestava di volere per gli Stati Uniti un nuovo ruolo
autocentrato, di battitore libero a tutto campo, senza vincoli e
limiti posti al dispiego della propria rivendicata potenza.
Un
rude guastatore
Di
proposito the Donald ha annunciato l'introduzione dei
superdazi (dal 30 fino al 50%) all'importazione dei pannelli solari
cinesi e delle lavatrici prodotte in Cina, Corea del Sud, Messico e
Vietnam, prima d'arrivare di fronte all'assemblea di Davos. L'ha
fatto giusto per poterla poi “rassicurare” di persona: America al
primo posto, ma (tranquilli) non in solitudine!2
Benché
queste restrizioni ne annuncino altre dello stesso genere e la guerra
commerciale e valutaria sia in pieno svolgimento, il suo sostegno al
liberalismo nonché al capitale finanziario non è per nulla messo in
discussione. Anzi a quest'ultimo è tolto ogni pur labile
“lacciuolo”. A subire un riposizionamento è il ruolo dello Stato
nordamericano.
Donald Trump |
Di
Trump non va sottovalutata né la strategia, né l'astuzia con cui la
persegue.
Il
clamore sui nuovi dazi è stato preceduto da una riforma fiscale
favorevole ai profitti d'impresa e da misure atte a:
- condizionare i vantaggi tributari alla creazione di posti di lavoro negli States, sottraendoli alla delocalizzazione;
- incentivare il ritorno in patria dei centri decisionali e logistici di corporations quali Google, Amazon ed Apple (proprio quando l'Unione europea si era accorta che evadevano il fisco...).
L'amministrazione
repubblicana cerca un compattamento della base sociale interna di
consenso ed un pieno “ritorno a casa” di aziende che, dopo la
iniziale fase cosmopolita, innovativa e cool non disdegnano di
praticare gli stessi comportamenti rimproverati ai vecchi gruppi
monopolistici, ai quali sono subentrati.
Poiché
il tutto è stato accompagnato dal via libera ad ogni attività
speculativa finanziaria e borsistica, almeno una parte dei presenti a
Davos era accontentata. Non potevano esserlo né gli interessati al
business
con i Paesi emergenti, né i sostenitori del mercantilismo
euro-tedesco. Da qui la difficoltà, per i principali mass-media
italiani, di presentare all'opinione pubblica nazionale la nuova
situazione. In particolare, volendo nascondere la debolezza del
nostro europeismo, sempre più tristemente aggrappato alle virtù
taumaturgiche e neo-napoleoniche del presidente francese Emmanuel
Macron.
Nostalgia
del 7° cavalleggeri
Quale
che siano le loro preferenze partitiche, quasi tutti i commentatori
rimpiangono i bei tempi che furono, quando gli Stati Uniti erano
indiscusso faro occidentale nel mondo e, come scrive il professor
Sapelli «pur con le inevitabili
contraddizioni del capitalismo in tutte le sue forme»,
esportavano «sicurezza internazionale e
sviluppo economico su scala globale».3
Ora,
quand'anche dubitassimo fortemente della validità universale del
prodotto “sicurezza” made in Usa, memori anche solo di
alcune guerre, colpi di stato, torture e varie brutalità, perché
negare che esportando capitali e capitalismo gli USA abbiano
esportato anche sviluppo planetario?
In
fondo, la narrazione del capitalismo alimenta sempre una confortante
certezza morale: il peccato genera la virtù: come dall'egoismo
individuale nasce il progresso economico-sociale (la ricchezza della
nazione), dalla rapinante circolazione dei capitali scaturisce la
crescita universale (l'emancipazione dal sottosviluppo).
Eppure,
è proprio nell'indiscriminato «aumento
della circolazione del capitale»
che accompagnò l'inizio dell'ultima globalizzazione, l'innesco di
quel processo di finanziarizzazione che sregola il mercato
(deregulation anni '80), domina la cosiddetta economia reale e
ci regala, dopo entusiastiche corse al rialzo, crolli tanto repentini
quanto disastrosi. Come il crack del biennio 2007-2008 che, a
giudicare dalle labili contromisure adottate per gli anni a venire,
fu un irripetibile “cigno nero”.
Si può
sostenere che intere zone del mondo se ne siano avvantaggiate,
accedendo allo sviluppo. Ma, pur prescindendo da un giudizio sui
costi umani ed ambientali, se sono riusciti a volgere in diversa
misura a proprio favore le conseguenze della globalizzazione è
proprio perché i loro governi non hanno praticato il
free-trade, bensì un selettivo protezionismo. Dalla Corea del
Sud alla Cina.
Di
contro, in questo internazionalismo del
business4
l'1% dell'umanità, così ben rappresentato a Davos, si appropria di
quasi tutta la ricchezza universale prodotta e lascia percolare5
quattro gocciole di essa verso il sottostante 99%, tra cui
“inaspettatamente” si ritrova la middle class di Stati
Uniti ed Unione europea.6
Una asimmetria distributiva che esplicita i rapporti di produzione
prevalenti, sui quali troppo spesso l'analisi tace.
Una
saggia convenzionale
L'inquilino
della Casa Bianca sembra trovare il suo opposto nella cancelliera
tedesca. Sennonché, come osserva Federico Rampini, «Lei
governa una nazione mercantilista.»7
Dunque la sua saggezza “convenzionale” non dovrebbe essere
credibile, se posta in alternativa al rude guastatore.
Angela Merkel |
Nella
costante ricerca del surplus commerciale (tipica del mercantilismo), con un avanzo di 244,9 miliardi di euro nel 2017 e 248,9 miliardi nel 2016, comprimendo le importazioni attraverso l'indebolimento della domanda interna, non c'è una minore dose di nazionalismo rispetto all'imposizione di dazi selettivi all'importazione. Rispetto alle modalità adottate da Trump, quelle dei governi tedeschi sono meno facilmente identificabili perché si nascondo dietro il sistema euro. Ma se non sono di facile comprensione da parte della maggioranza della opinione pubblica, non possono ingannare tutti, tantomeno i funzionari di Washington.
Non
si tratta solo della protervia di ingiungere ai partners
il rispetto di alcune regole di bilancio, piuttosto arbitrarie,
quando ci si arroga il diritto di non rispettarne un'altra, che
prevede non si possa superare in Eurozona un saldo positivo
commerciale superiore al 6% del Pil nella media di tre anni.
Dietro
all'euro debole usato dalla Germania per raggiungere il surplus,
rispetto ad un marco forte se dovesse fare a meno della moneta unica,
c'è un sistema che suppone la strutturale difficoltà dei Paesi
periferici, quasi tutti mediterranei. Solo se questi ultimi divergono
in peggio dai Paesi centrali, l'euro rimane debole e ne facilita
l'export.
Uno
degli aspetti più insopportabili è dato dalla ricattabilità dei
Paesi periferici, i cui debiti sono costantemente minacciati di
essere mandati in pasto ai mercati finanziari ed alla loro furia
speculatrice, qualora non rispettassero l'austerità imposta. Ciò
accade perché ciascun Paese della zona euro deve rispondere in
solitudine dei propri debiti e dei relativi tassi d'interesse, ma non
può godere né degli aggiustamenti dei tassi di cambio, non
disponendo più di una moneta propria, né di autonome politiche
anti-cicliche basate su deficit di bilancio. Pertanto questi Paesi,
tra i quali l'Italia, sono inchiodati al debito e alla spesa annuale
per pagarne gli interessi e quand'anche riescano a risparmiare sul
bilancio annuale, non vedono diminuire sensibilmente il debito
accumulato (in Italia è cresciuto) che, invece, dovrebbe tendere al
mitico 60% del Pil annuale.
Volendo
semplificare: il surplus
tedesco si basa su una debolezza dell'euro che suppone l'esistenza in
seno all'eurozona di Paesi periferici in difficoltà, gravati da
debiti e da interessi sui debiti.
Gli
“europeisti” possono anche sostenere che il sistema non
presupponga per forza divergenze tra centro e periferie, ma non
possono negare l'evidenza, ossia che il sistema le produce quando non
le accentua gravemente.
Trattandosi
di due forme di nazionalismo di supremazia egemonica, l'una resa
esplicita e l'altra ipocritamente nascosta dietro l'euro, non si
capisce quali siano le lezioni della storia ignorate, a cent'anni
dalla conclusione della Grande Guerra. A meno che Frau Merkel voglia
sostenere di non essere nazionalista in proprio ed accusare viceversa
Trump di esserlo a disprezzo della pace.
Si
cambia gioco
Alla
ricerca di oppositori contro chi “tradisce il mercato portando al
declino”, a Davos non sono stati lesinati calorosi applausi al
premier iper-nazionalista indiano Narendra Modi. Un anno prima era
toccato al presidente cinese Xi Jinping.
Ambedue,
improbabili campioni del free
trade senza
se e senza ma, parevano dimentichi dell'utilizzo da parte dei loro
governi di rilevanti misure protezionistiche.
Non
è necessario essere antimperialisti per ammettere che da alcuni
secoli a questa parte i Paesi in cima allo sviluppo continuino a
scalciare la scala sulla quale vorrebbero salire quelli meno
sviluppati. Di conseguenza, partendo dalla condizione di Paesi del
Terzo Mondo, Cina ed India hanno dovuto proteggere, sia pure in modi
differenti, le loro industrie ed i loro mercati, offrendo in cambio,
per venire dispensati dall'applicare tout
court
regole simmetriche negli scambi (convenienti solo per i Paesi più
sviluppati) ampia possibilità d'investimento da parte dei loro
capitali sui propri territori e di compartecipazione allo
sfruttamento delle loro risorse nazionali, umane in primo luogo.
Ad
avvantaggiarsene furono soprattutto le grandi imprese finanziarie ed
industriali, sistematiche delocalizzatrici del lavoro nelle rinnovate
catene della subfornitura. E dagli Stati Uniti fecero il pieno di
profitti.
Se
adesso hanno deciso di cambiare, ciò e dovuto esclusivamente ad un
semplice fatto: non accettano più di giocare ad un gioco che da
qualche anno li vede perdenti e si reputano sufficientemente forti da
poter imporre un altro gioco, nel quale suppongono di avere la
meglio.
Vasi
di ferro
Posto
che anche l'amministrazione Obama imponeva dazi all'importazione8
e criticava la sleale concorrenza della Germania tramite l'euro
debole (invece del marco che sarebbe stato più forte), va compreso
il rischio che corre il nostro Paese nell'accentuarsi dello scontro.
Gli
Usa sono in grave deficit commerciale (461 miliardi), ma dispongono
pur sempre di notevole forza finanziaria e produttiva, nonché,
fattore da non sottovalutare, di potenza militare. Rientra nei loro
obiettivi il riequilibrio dei rapporti commerciali ed economici con
l'Unione europea, l'eurozona ed in particolare con la Germania. Anche
il conto della spesa militare Nato rientra nel riequilibrio.
Mentre
la “guerra dei diesel”9
evidenzia quanto sia fittizia la superiorità umanitaria ed ecologica
europea rispetto a quella statunitense, occupano la scena le
reciproche accuse di “artificioso deprezzamento” delle proprie
valute, dollaro ed euro, per avvantaggiare le proprie esportazioni.
A
ridosso del meeting di Davos, Mario Draghi si lamenta perché
la valuta europea sale a 1,25 dollari, il massimo da tre anni.
“Dimentica” che dal 2014 al 2016 l'euro si era deprezzato
rispetto al dollaro del 25%, e punta il dito solo sull'inversione di
tendenza (+20%) registrata dopo l'arrivo di Trump alla presidenza.
Quali
sarebbero le conseguenze per l'Italia della prosecuzione dello
scontro sulle valute e della guerra commerciale in atto?
Un
genio nostrano
In
quanto moneta unica, la normalità dell'euro consiste, tra l'altro,
nel penalizzare l'export dei Paesi più deboli dell'eurozona. Di
conseguenza i recenti successi italiani nell'export sono dovuti
principalmente all'uso dell'unico strumento alternativo alla mancanza
della fluttuazione del tasso di cambio, ossia della svalutazione
esterna della moneta: la deflazione salariale e la compressione dei
consumi interni, sui quali poi i governi versano lacrime di
coccodrillo.
Volendo
perseverare nell'adesione al sistema euro, senza neanche chiedere in
modo risoluto la condivisione dei rischi indispensabile alla sua
sostenibilità, i governi “europeisti” puntano sulla esplosione
delle esportazioni in rapporto al PIL.
Carlo Calenda |
«E
sull'export, naturalmente, punta il governo Renzi, “con un piano
per portare dal 30 al 50% la quota delle esportazioni sul Pil”,
spiega il viceministro dello Sviluppo Economico Carlo Calenda (...)»10
Correva
il 2015. Recentemente, a distanza di oltre 2 anni, nel corso di un
talk-show televisivo, Calenda ha ripetuto gli obiettivi
percentuali della sua strategia neo-mercantilista, a creativa
imitazione del modello tedesco. Laddove la creatività consiste nel
sostituire col “genio italico” l'assenza di solide strutture
industriali e finanziarie su cui il successo teutonico ha potuto
basarsi.
È
assai probabile che, nel caso in cui le “larghe intese” siano
possibili, su tale strategia faccia perno la politica economica del
governo.
Il
driver solingo
Nel
periodo in esame [vedi grafico
qui sotto], posto il Pil 2010
pari a 100 e quello de 2016 a 97,7, tutti i “determinanti” sono
in calo, salvo l'export.
http://www.repubblica.it/economia/2017/06/21/news/sace_rapporto_export_2017-168692593/ |
Tra i
diversi comparti in cui si suddividono i prodotti italiani esportati
nel mondo, primeggia quello riguardante la meccanica, i macchinari ed
i beni strumentali. Proprio in questo comparto tra il 2015 ed il 2016
le esportazioni verso gli USA hanno registrato il maggior incremento,
mentre la Germania, viceversa, ha assunto un ruolo frenante [vedi grafico “Export Italia”].
Export Italia,
mercati trainanti e frenanti
meccanica strumentale
http://www.exportusa.us/dati-export-italia-america-2016.php |
Futuro
d'azzardo
Quand'anche
la Große
Koalition
ed il contratto dei metalmeccanici comportassero un allagamento della
domanda interna, assai difficilmente la Germania rinuncerà al suo
mercantilismo, ad avvalersi del sistema euro, a farsene scudo ed a
rifiutare la condivisione dei rischi in eurozona.
Sicché
per contrastare la Germania, probabilmente gli USA dovranno scegliere
se prendere a bersaglio l'Europa nell'insieme, e l'Eurozona in
particolare, o distinguere tra i diversi Paesi europei. Potremmo così
ritrovarci nella scomoda posizione o di dover subire colpi in difesa
di un sistema che ci opprime ed impoverisce o di riesumare l'antico
feeling
con gli Stati Uniti, magari per salvare un'economia dipendente
dall'export verso quel Paese. Chissà da quale parte pencoleranno gli
attuali fans
dell'Europa carolingia (economia a direzione tedesca, armata alla
francese)!
Rimane
percorribile un'altra via, di sovranità democratica nazionale basata
sulla rivalutazione del lavoro, dei salari e del welfare
interni, che persegua una politica commerciale di equilibrio, non di
surplus
e di impoverimento del vicino, capace di rifiutare le logiche
d'egemonia nazionalistica e neo-imperiale per favorire con la
cooperazione una politica di pace. In sintesi: la via costituzionale.
Anche
perché il TTIP sul quale Carlo Calenda aveva puntato inizialmente la
sua strategia, faceva parte con il TTP dei «grandi
trattati neo-imperiali Usa verso il Pacifico e verso l'Europa»,11
pur sempre diretti contro la Federazione Russa e la Cina. Non proprio
trattati per disinnescare i conflitti commerciali e valutari,
evitando eventuali derive belliche, a cent'anni dalla fine della
Grande Guerra.
Note
1
In questo Blog vedi il Post “Globalizzazione addio?”, marzo
2017.
2
“America first, not alone.”
3
Giulio Sapelli, “Il tradimento del mercato porta al declino”, Il
Messaggero, 25 gennaio 2018.
4
Che vorrei distinguere dall'internazionalismo del movimento operaio
e socialista, sin dalla sua nascita nell'Ottocento.
5
Secondo la teoria del trickle-down,
ammassando la ricchezza nella parte più alta della piramide
sociale, una parte di essa sgocciola verso il basso a beneficiare
gli strati inferiori.
6
Secondo i calcoli di Branko Milanovic nel libro “Ingiustizia
globale”, Luiss University Press, 2017, la “classe media”
delle due aree sviluppate è stata “tradita” dalla
globalizzazione.
7
Federico Rampini, “Il guastatore e i fantasmi del '900”, La
Repubblica, 25 gennaio 2018.
8
Per esempio, sull'acciaio cinese.
9
Prima le industrie tedesche sono state accusate di taroccare i dati
sulle emissioni delle loro auto, poi di fare esperimenti su uomini e
scimmie per dimostrare che quelle emissioni non erano poi così
dannose alla salute.
10
Antonio Calabrò, “La morale del tornio”, Università Bocconi
ed., 2015.
11
Così definiti da Giulio Sapelli nell'articolo citato.