lunedì 10 agosto 2020

Luglio 2020: la "svolta europea"

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Luglio 2020: 
la “svolta europea”


21 luglio, i capi di governo riuniti nel Consiglio europeo hanno raggiunto un Accordo sul Recovery Fund (ribattezzato Next Generation EU) e sul Quadro Finanziario Pluriennale per il periodo 2021-2027.

Glorificato dal mainstream mediatico come storica “svolta”, l'Accordo sarebbe in grado di ridare vita e futuro all'Europa, nel segno di una ritrovata solidarietà interna.

Ma si è trattato di un reale cambio di indirizzo o, piuttosto, della prosecuzione di quello già seguito in passato?

Inoltre, quale avvenire prepara per l'Unione?

Le risposte non vanno lasciate ai posteri.

Le opzioni escluse

Di fronte all'incalzare della crisi economica e sociale causata dalla pandemia, particolarmente grave per taluni Paesi mediterranei, l'Ue non poteva rimanere inerte, rischiando di venirne travolta. Doveva uscire giocoforza dall'impasse, una sorta di coma in verità, dal quale sembrava non volersi ridestare.

Al “grido di dolore” di Paesi quali l'Italia e la Spagna bisognava rispondere. Ma come? Con quali strumenti? E soprattutto, con quali conseguenze sugli assetti di potere, al di là delle contabilità dei soldi dati in prestito o a “fondo perduto”? I soliti aggiustamenti, di cui è costellata la storia della comunità, non sarebbero bastati.

Una prima opzione consisteva nell'estensione delle funzioni della Banca centrale europea di Francoforte, presieduta da Christine Lagarde.

Ad imitazione dei comportamenti delle banche centrali di Stati Uniti, Gran Bretagna e Giappone – tutti appartenenti al gruppo degli Stati postisi al centro dell'economia-mondo occidentale -, la Bce avrebbe dovuto “monetizzare il debito”.

Ossia, nel caso europeo, assumere il ruolo di banca centrale di uno Stato federale che non c'è (e nessun governo dice di volere).

Adottando a motivazione lo “stato di eccezione”, causato dalla crisi pandemica, in capo alla Bce ed al suo board sarebbero stati trasferiti poteri straordinari, tanto più straordinari in considerazione dell'assenza di un governo e di istituzioni federali a far da contrappeso.

Ben più di una deroga al suo statuto.

Benché in questa trasformazione alcuni1 avessero visto l'unica possibilità di efficaci misure, adeguate alla portata della sfida, ed altri intravisto un varco per il “momento Hamilton”,2 a fare da ostacolo erano non solo i limiti statutari della Bce, ma la stessa conformazione dell'Unione, essenzialmente una comunità di Stati-nazione tenuti insieme e vincolati da Trattati internazionali.

Quando a maggio Merkel e Macron raggiunsero il loro pre-accordo,3 contenente le linee guida di quello più ampio poi stipulato il 21 luglio, la sentenza della Corte suprema tedesca era già stata emanata.4 Essa confermava la impercorribilità dalla opzione Bce, dal momento che metteva in discussione le precedenti operazioni di Quantitative easing di Mario Draghi e demoliva la supposta superiorità del diritto europeo rispetto a quello costituzionale germanico (e, quindi, degli altri Stati membri).

Il peso percentuale nel capitale sociale della Bce è proporzionato al Pil di ciascun Paese partecipante5 e le singole banche centrali nazionali, a loro volta, dipendono da banche ed enti finanziari privati e privatizzati – come nel caso di Bankitalia -, nonostante la loro declamata “indipendenza”. Pertanto, porre nelle mani della Bce simili poteri straordinari, significava di fatto conferire alla finanza bancocentrica continentale il ruolo principe, sottraendolo a quelli direttamente nazionali ed agli stessi governi tedesco e francese. L'architettura dell'Ue ne sarebbe uscita terremotata, suscitando reazioni a catena difficilmente gestibili.

Una seconda opzione era data dall'affidamento alla Commissione, complice l'allargamento del bilancio, di compiti politici di quasi-governo dell'Ue. Ciò avrebbe conferito un ruolo di maggior rilievo anche il parlamento di Bruxelles.

La scelta di Merkel e Macron

Con la “mossa del cavallo”, come è stata definita,6 Merkel e Macron, hanno implicitamente scartato queste due opzioni, per affermare la loro leadership politica tra governi nazionali e situare i compiti sia di Francoforte, sia di Bruxelles all'interno del solco da loro segnato: alla Bce il compito “difensivo” del sistema euro con la emissione di liquidità; alla Commissione quello di “poliziotto cattivo” nel controllo d'uso dei finanziamenti erogati; al parlamento niente di più del solito.

Poco importava quanto sarebbe rimasta “delusa” la presidente della Commissione, Ursula von der Leyen.

Da questo punto di vista, l'Accordo di luglio è continuativo del precedente indirizzo politico.

Se da un lato non era affatto auspicabile che la Bce assumesse un ruolo sovraordinato, tanto più dallo “stato di eccezione”, dall'altro, era oltremodo scontato che il ruolo della Commissione e del parlamento europei fossero riconfermati nella loro sostanziale secondarietà. In base a quale spostamento politico poteva accadere il contrario?

Dopodiché, riordinate le gerarchie delle istituzioni, nelle quali prospera la superiore gerarchia tra Paesi forti, semi-deboli e deboli del continente, ognuna delle tre lame7 può intervenire in stretta comunione d'intenti. La prima lama è la liquidità, garantita dalla Bce ma sempre revocabile. La seconda consiste nei piani ristrutturativi capitalistici del Next Generation UE, motivati dal rinnovamento tecnologico e da finalità ambientali. La terza, lasciata a mezz'aria, è la ripresa del Fiscal compact.

Prima di entrare nel merito della prospettiva politica avviata dall'Europa, in rapporto alla competizione mondiale, va soppesato il quid di speranza che si agita intorno alla terza lama, ossia alla possibilità che non venga reintrodotto il Fiscal compact.

Il piano voluto dall'asse franco-tedesco si basa su un successo dato per scontato, ovvero che, superata felicemente la congiuntura critica, si ritorni sul binario austero antecedente. Cosa può impedirlo?

L'Accordo europeo di luglio promuove una ristrutturazione tecnologica pennellata di verde, nel corso della quale si accentuerà il processo di concentrazione finanziario ed oligopolistico in capo ai Paesi e territori già ora più forti. Di contro, il mansueto rientro nel binario delle austere politiche precedenti presuppone sia il sostanziale superamento della crisi da parte di tutti i più rilevanti Paesi membri, sia l'inversione del moto divaricante tra di loro. Moto fattosi prorompente in seguito alla crisi del 2007-2008.

I due sviluppi sono in contraddizione.

Con una particolare conseguenza: l'intervento dello Stato in economia sarà tanto più necessario e radicale, quanto più un Paese, o una rilevante parte di esso, rimarrà “indietro” sul piano sociale ed economico. Ciò determinerà un inasprimento dello scontro sulle politiche liberiste (o ordo-liberiste), tra centro e periferie e, in seno a queste, del conflitto di classe.

Troppo poco e troppo tardi?

Il Next Generation EU, di cui sono ancora incerti i numeri ed i reali vantaggi per l'Italia [vedi riquadro dedicato, a seguire], è stato reputato, soprattuto se confrontato con i grandi concorrenti mondiali, assai sottodimensionato rispetto al fabbisogno della crisi in corso, nonché intempestivo (attivo a rate solo dal 2021).

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Il NEXT GENERATION EU

o Recovery Fund, si presta a diverse interpretazioni. Esiste una discrepanza tra esultanze ufficiali e testo dell'Accordo.

«Nel Progetto di Recovery Fund predisposto dalla Commissione (750 miliardi, di cui 250 per loan* e 500 miliardi per grant**) si prevedevano erogazioni complessive a favore dell'Italia per 153 miliardi (di cui 81,8 miliardi per grant e 71,2 per loan), pari al 20,4% del totale da distribuire tra tutti i Paesi, pur a fronte di un contributo italiano di 96,3 miliardi al finanziamento del Fondo, pari al 12,4% del totale del Fondo, commisurato al peso del nostro PIL sul totale di quello della Unione. Ci sarebbe stato un "vantaggio netto" di 56,7 miliardi, corrispondenti alla differenza tra contributi per 96,3 miliardi ed erogazioni per 153 miliardi.

Se ora il RRF è di soli 672,5 miliardi (e non più di 750 miliardi), continuando ad applicare all'Italia la aliquota favorevole del 20,4% nella ripartizione delle risorse, le erogazioni complessive scenderebbero a 137,2 miliardi (in luogo dei 153 miliardi ipotizzati con il Recovery Fund).

Considerando che come regola generale viene indicata una percentuale di loan non eccedente il 6,8% del PIL di ciascun Paese, l'Italia potrebbe vedersi erogare prestiti per 121 miliardi (somma pari al 6,8% del PIL del 2019).

Come si arriva allora alla cifra di 209 miliardi di erogazioni a favore dell'Italia che si legge in giro? Probabilmente deriva dalla somma tra i 127 miliardi di loan che ci verrebbero concessi (arrotondando ampiamente la aliquota massima del 6,8% del PIL) e gli 81,8 miliardi di grant che erano stati previsti per il Recovery Fund: una conclusione difficilmente credibile, visto che arriveremmo ad aggiudicaci il 31% delle risorse totali disponibili (si tratta di 209 miliardi sui 672,5 complessivi).

Se fosse vero, a fronte di un contributo di 96,3 miliardi al Fondo, l'Italia ne riceverebbe più del doppio: 209 miliardi nel complesso, di cui 127 miliardi come loan.

Peccato che non ci sia una parola, né una cifra.

Sono stati invece i Paesi frugali e la Germania a fare il pieno di sconti:

  • la Germania si è fatta riconoscere uno sconto annuale sui versamenti in conto Risorse Proprie dell'Unione per 3.671 milioni di euro, confermando in pratica la riduzione sull'IVA dallo 0,3% allo 0,15% di cui ha già beneficiato nei sette anni scorsi;

  • l'Olanda ha quasi triplicato lo sconto annuale, passando dai 686 milioni di euro del 2018 ai 1.921 del prossimo settennio. Il Premier Rutte ha usato l'Italia come un punching-ball;

  • l'Austria è entrata, per la prima volta, nel novero dei Paesi che beneficiano degli sconti: con 565 milioni l'anno, anche il Premier Kurtz ha fatto marameo a tutti;

  • la Svezia ha fatto il vero colpo gobbo: mentre nel 2018 beneficiava di uno sconto una tantum di appena 151 milioni di euro, versando risorse proprie per 3.797 milioni di euro, si è fatta riconoscere uno sconto annuo di 1.069 milioni di euro. Risparmierà un terzo.

Nero su bianco, a Bruxelles, hanno deciso solo i "rebates”*** per la Germania ed i Paesi Frugali.»

di Guido Salerno Aletta, da teleborsa.it

http://temi.repubblica.it/micromega-online/recovery-fund-per-l%E2%80%99italia-i-conti-non-tornano/

* loan: prestito ** grant: concessione, trasferimento *** rebates: sconti

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Paul De Grauwe,8 ad esempio, pur valutandolo positivamente, lo ritiene pressoché simbolico «soprattutto se guardi ai numeri e alle tempistiche».9 Al pari di altri studiosi, l'economista belga ritiene inevitabile, perché imposto dalla stringente logica dei fatti, un certo ritorno al keynesismo a regolazione della finanza.

Gli Stati Uniti, tramite la Fed, hanno garantito finanziamenti pari, in rapporto alla popolazione, a 10 volte quello europeo. Ciò nonostante la produzione è attesa ad una caduta del 6,6%. Per la Cina, ritenuta il principale competitore, è invece prevista una crescita economica del 3,2%. Secondo i dati di Eurostat nei Paesi dell'area euro il Pil, rispetto ad un anno fa, è in contrazione del 12,1%, mentre il calo nei 27 Paesi dell'Unione è stato del 11,9%.

A fine 2020 è prevedibile che le tre aree registreranno un andamento della crisi piuttosto disallineato: Cina in crescita, USA ed Ue in recessione.

Dal 2021 l'andamento europeo sarà oltremodo disallineato al suo interno, pure in forza delle politiche adottate da ciascun governo nazionale. Alle misure europee, ciascun governo anticipa ed aggiunge le proprie.

Sotto questo profilo la Germania accumulerà un ulteriore vantaggio, dato lo sforzo d'investimento, per proprio conto, di 550 miliardi.10

Prima ancora che il Covid-19 sprofondasse nella recessione tutti i Paesi colpiti, la locomotiva tedesca manifestava preoccupanti rallentamenti. Sicché a Berlino la crisi pandemica è stata considerata come una opportunità: approfittare delle deroghe alle regole europee per spendere le proprie immediate disponibilità, accumulate in questi anni di surplus esportativo e di risparmio sugli interessi [vedi nel riquadro dedicato, a seguire], al fine di avviare prontamente un programma rafforzato di ristrutturazione economica interna, al compimento del quale le divaricazioni europee, dati gli squilibri di partenza, saranno ancora più marcate. Predicando conto il nazionalismo altrui, la Germania pratica il proprio, in modo “scaltro” ma con risolutezza teutonica. Tiene a “stecchetto” il bilancio comunitario – nel quale rientra la portata limitata e diluita del Recovery Fund -, per far valere la propria potenza finanziario-industriale e situarsi ancora più saldamente a dominus del sistema continentale.

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Risparmi sugli interessi

«(…) in occasione della mia *audizione alla Camera dei Deputati, ho fornito i dati sui principali beneficiari in Europa della politica di bassi tassi d’interesse e del QE della BCE tra 2007 e 2019. Eccone qualcuno: primo paese beneficiario in termini assoluti la Germania (406 miliardi di risparmio in termini di minori interessi sui titoli di Stato), terzo l’Italia con 197 miliardi, quinto l’Olanda – che però ha un prodotto interno lordo che è meno della metà di quello dell’Italia – con 91 miliardi. Se poi prendiamo il rapporto tra il risparmio cumulato sulla spesa per interessi nel periodo 2007-2019 e lo stock di debito pubblico a fine 2019, vediamo che l’Olanda ha registrato un risparmio di interessi pari al 23% del debito complessivo, battendo anche la Germania (19,4%) e l’Austria (18,4%); quanto all’Italia, siamo appena all’8,2%. In ogni caso in questi anni i tassi d’interesse pagati dai vari Stati si sono divaricati, a svantaggio di alcuni paesi tra cui il nostro. Questo rappresenta un vantaggio permanente a favore dei paesi del Nord contro quelli del Sud: il costo del capitale, che nel 2006 era allineato, è ora molto più elevato per il Sud. (…)»

*Vladimiro Giacchè: Audizione Camera dei Deputati

https://www.sinistrainrete.info/europa/18389-vladimiro-giacche-recovery-fund-ma-quale-svolta-storica.html

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A preoccupare del successo del governo Conte, forse il “massimo raggiungibile” nell'accettazione dell'attuale macchina europea, è la riaffermazione delle condizioni che questa macchina impone. Non mi riferisco tanto alle condizionalità contenute nell'Accordo, pur consistenti, quanto a quelle derivanti dalla conferma del quadro gerarchico nazionalistico – ad un tempo economico, monetario e statuale -, nel quale, grazie ai “vantaggiosi” finanziamenti ottenuti, saremo ancora più intrappolati.

L'interesse nazionale (I)

Nel caso in cui l'Italia non riuscisse a superare pienamente la crisi e la divaricazione con il centro a trazione tedesca aumentasse, invece di diminuire, ci verrà rimproverato, non solo dai “frugali” ma anche dalla Germania, il tradimento della fiducia e della solidarietà concesse. Colpa nostra se non avremo saputo “fare buon uso” delle risorse benevolmente elargite. Colpa nostra se confermeremo di essere la solita cicala mediterranea. Si dirà: “Italia scroccona!”

Sta di fatto che, quand'anche l'Italia riuscisse a realizzare le “audaci riforme” preconizzate dall'Accordo, lo Stato italiano si ritroverebbe con una montagna di debito pubblico, dal quale dover comunque rientrare sotto la pressione dei mercati finanziari internazionali. Ma come farlo, se non dispone della potestà monetaria richiesta da qualsivoglia manovra keynesiana? Anche evitando la terza lama, ovvero non riattivando il Fiscal compact - evento improbabile -, l'intervento dello Stato in economia le sarebbe inibito.

Ciò che oggi, nella presente congiuntura, è consentito alla Germania, non sarà permesso all'Italia domani.

Nel qual caso l'establishment italiano è già pronto a scaricare la colpa sull'intera nazione, ribadendo quanto sia necessario il “vincolo esterno” per un Paese incapace di autogovernarsi. Nondimeno, in apparenza in modo paradossale, i grandi gruppi finanziarizzati, i cosiddetti “poteri forti”, si stanno già gettando famelici sui miliardi provenienti dall'Europa. Senza il benché minimo riguardo per l'interesse pubblico, per la giustizia sociale e la coesione territoriale, fondanti di quello nazionale. Come dimostra la vicenda delle garanzie statali sul prestito di 6,3 miliardi ottenuto da Fca, senza dover sottostare a vincoli che altri governi – tra i quali quello tedesco e, parzialmente, quello francese -, hanno saputo imporre. Come dimostra la linea aggressiva della Confindustria, spalleggiata all'interno del governo da una larga parte del PD e da Italia Viva.

Appare davvero difficile intravvedere nell'attuale esecutivo la ferma determinazione a trasformare lo Stato da “pagatore di ultima istanza” nell'auspicato “investitore di prima”.11

Eppure, si dice che il ritorno di politiche keynesiane è inevitabile, reso tale “in forza delle cose”. Se ciò fosse vero, lo Stato non dovrà porsi il limite del soccorso ai privati, bensì divenire protagonista della ricostruzione, avviando il ritorno alla “economia mista”.

Il superiore interesse europeo

Esiste un superiore interesse europeo ed in cosa consisterebbe?

In subordine a tale interesse, quale versione delle politiche keynesiane può venire applicato?

La seconda domanda attiene ad un problema in passato molto dibattuto. Andrà ripreso, perché in base al supposto superiore interesse europeo, le prospettive che si aprono appaiono alquanto inquietanti.

Storicamente, l'intervento dello Stato in economia e l'utilizzo delle stesse tecniche keynesiane hanno imboccato direttrici diverse: rivolte al welfare ed alla pacifica cooperazione tra i popoli; indirizzate alle produzioni militari ed al bellico, tanto da dar luogo al cosiddetto “keynesismo bellico”.

A complicare il quadro sono intervenuti casi di rilancio economico nazionale accompagnato da piena occupazione, tuttavia raggiunti attraverso la militarizzazione. Fu il caso della Germania hitleriana, delle riforme del ministro Hjalmar Schacht, e degli Stati Uniti di F.D. Roosevelt. Lo stesso Donald Trump è stato accusato di fare ricorso al keynesismo bellico, seguendo il liberalismo all'interno ed il protezionismo commerciale.

L'idea guida dei sostenitori a qualsiasi costo dell'Unione consiste nel ritenere condannati alla marginalità e all'ininfluenza del declino i singoli Paesi europei che volessero farne a meno. L'imperativo è “o si fa l'Europa o si muore!”, poiché solo l'Europa insieme può esprimere una forza paragonabile ai concorrenti in campo mondiale.

Di conseguenza, l'Unione dovrebbe affrancarsi dalla tutela nord-americana e porsi l'obiettivo di un autonomo sistema di difesa.

Recentemente gli USA hanno annunciato che ridurranno il proprio contingente militare in Germania di 12 mila unità. Di queste, 6.400 torneranno in patria, mentre la parte restante verrà dislocata prevalentemente in Italia ed in Belgio. Nell'occasione la ministra della Difesa tedesca, Annegret Kramp-Karrenbauer, ha dichiarato: «Vorrei che finalmente si procedesse in maniera più veloce verso la Sicurezza e la Difesa europea e che si usasse per questo il semestre di presidenza europea.»12

Sulla stessa edizione de 'il Fatto Quotidiano', Massimo Fini ha scritto: «Per mantenere questa unità [ndr: europea] Angela Merkel ha fatto un autentico capolavoro col Recovery Fund (…). Ma in prospettiva il programma di Angela Merkel va molto più in là. (…) non ci sarà mai un'Europa forte senza un armamento militare autonomo (il “dobbiamo imparare a difenderci da soli” di Merkel).»13

Impero interno ed imperialismo

Riordino in punti quanto sin qui esaminato:

  1. i processi di ristrutturazione capitalistica in corso, favoriti dall'Accordo di luglio e da misure adottate con mezzi propri in ciascuna realtà nazionale dai governi – caso tedesco -, accelerano la concentrazione oligopolistica e finanziaria;

  2. essi determinano una divaricazione ancora più marcata, sul piano sociale ed economico, tra Paesi e territori dell'Unione, tra centro dominante e differenziate periferie dominate;

  3. i lavoratori sono chiamati a pagare il costo della crisi e della ristrutturazione capitalistica in termini di disoccupazione, emarginazione e povertà, tanto più se residenti nei Paesi e nelle aree periferiche; alcuni segmenti di classe media, per reddito e status, e di piccola imprenditoria subiscono analoga sorte;

  4. il ricorso all'intervento dello Stato si rende necessario non solo sulla sanità e la scuola (dissestate da decenni di politiche liberiste e di taglio della spesa pubblica), nel sostegno al reddito, ma più decisamente nelle attività economiche e d'impresa, in sostituzione della privata iniziativa nei settori strategici e ponendo limiti a questa, in particolare in ambito finanziario e nella circolazione dei capitali; è il caso dell'Italia, esposta però ad un forte peggioramento del rapporto debito pubblico/Pil e subalterna alla macchina Ue;

  5. sopra l'interesse nazionale italiano, basato su quello pubblico, sociale e di coesione territoriale, viene posto un superiore interesse europeo da realizzare tramite la ristrutturazione capitalistica e la sicurezza militare; questa è la pericolosa aspirazione dell'asse franco-tedesco per elevarsi, come Europa, al rango di potenza mondiale.

Mi soffermo su questo ultimo punto, in risposta alle domande iniziali.

Dopo la Brexit, la Francia è l'unica potenza atomica rimasta nell'Unione e dispone di una attiva force de frappe militare, pur essendo in difficoltà economica e sociale. Mentre la Germania non può riproporsi direttamente sul piano militare, dati i suoi tragici trascorsi storici, pur disponendo di una forte potenzialità espansiva finanziaria ed industriale.

Disponendo dell'impero interno europeo, l'asse franco-tedesco può tentare di coniugare i rispettivi punti di forza, elidendo quelli di debolezza.

Consapevole dei rischi insiti in questa tendenza, il sociologo tedesco Wolfang Streeck14 ha avvertito che questa non è l'unica strada percorribile dalla Germania e dall'Europa. Ha osservato che la struttura gerarchica dell'impero interno è assai debole e militarizzarla, per competere in quanto potenza con le potenze mondiali, è per giunta velleitario.

Perciò si è dato una residua speranza: che l'Europa gerarchica venga smontata e sostituita da rapporti “orizzontali” tra le nazioni, improntati alla collaborazione tra pari, nonché capace di proporre una positiva alterità europea approfittando dei varchi concessi dalle contraddizioni internazionali.

L'interesse nazionale (II)

Al punto a cui siamo, l'interesse nazionale italiano si configura non solo in base alle fondamentali nostre esigenze sociali ed economiche, ma pure e in base alla necessità - questa sì davvero superiore -, della cooperazione internazionale e della pace. Nell'insieme esso non è perseguibile rimanendo in una Unione gerarchica, avviata sulla via della militarizzazione, o/e restando sotto tutela degli Stati Uniti, i quali, non solo per volontà di Trump, ci vogliono in rotta di collisione con la Cina.

In entrambi i casi, seppure non con tragiche conseguenze nell'immediato, si ripeterebbe una situazione già vissuta quando, al carro di due diversi blocchi imperialisti, le classi dirigenti italiane hanno sprofondato il Paese nelle due guerre mondiali, nel vano tentativo di ricavarsi un “posto al sole”.

Assai difficilmente si potrà realizzare la speranza di Streeck, ossia di addivenire ad una consensuale trasformazione dell'Unione in un'Europa orizzontale di partners posti alla pari, che escluda la via della militarizzazione.

D'altro canto «un conto è definire in autonomia i propri interessi per poi mediarli ragionevolmente con la realtà (una realtà che, ad esempio, suggerisce di non aprire contemporaneamente due fronti, uno con l’Unione e uno con Washington). Altro è dire che i propri interessi si identificano con la subordinazione agli Usa, e dirlo proprio quando questi vanno elaborando una strategia di duro conflitto con una parte di mondo che costituisce per l’Italia un partner decisivo.»15

Serve una politica estera di lucido sganciamento dalle dipendenze.

Essa può essere solo il risultato di una ondata di lotte dei lavoratori e di movimenti che portino a galla, nella pratica conflittuale, la stretta connessione tra risposta ai problemi sociali ed esercizio della sovranità democratica nazionale.

Come favorire lotte e movimenti è il nostro più assillante problema.


NOTE

1 È il caso dell'appello dei 101 economisti, tra i quali Jean-Paul Fitoussi e James K. Galbraith. http://temi.repubblica.it/micromega-online/ue-appello-di-101-economisti-al-governo-non-firmate-quell-accordo/

2 Ad invocare il “momento Hamilton” è Barbara Spinelli, «che trasformerebbe i debiti dei singoli Paesi in un debito comune, come temporaneamente deciso negli Stati Uniti dopo la guerra di indipendenza, nel 1790.» http://barbara-spinelli.it/2020/06/

Alexander Hamilton, primo segretario del Tesoro degli Stati Uniti (1789-1795), presagì nella nascita del nuovo Stato il “destino di un impero” e fu tra i protagonisti del primo protezionismo nordamericano.

4 Il 5 maggio 2020.

8 Paul De Grauwe è noto per i suoi studi sull'Unione monetaria. Già sostenitore del libero scambio e della globalizzazione, negli anni recenti, prendendo atto della crisi finanziaria, si è fatto portatore di una più forte regolazione dei mercati da parte dei governi, supponendo una sorta di ritorno al keynesismo.

12 Giampiero Gramaglia, “Trump e i dispetti alla Germania”, il Fatto Quotidiano 1° agosto 2020.