Pur godendo di diritti speciali, il Regno Unito esce dall'Unione Europea. Ciò che, per far vincere il remain, il suo governo aveva chiesto e quanto ottenne. Un confronto rivelatore.
Il
paziente inglese se ne va dall'Europa in cui si era alfine
ricoverato, vincendo il proprio scetticismo.
Per
convincerlo a restare non gli sono bastati l'alloggio nella suite
reale, con vista sui suoi antichi dominii, e premurosi
infermieri al suo solo servizio, né la facoltà speciale di
rifiutare le amare pillole somministrate a tutti i pazienti dai
medici teutonici.
Non
amava la compagnia degli altri ospiti per la numerosa presenza dei
loro parenti? O, addirittura, aveva in sospetto i medici? Forse era
proprio l'Istituzione a non andargli a genio.
Potenza chiave
Sino
all'esito del referendum popolare, la Gran Bretagna era ritenuta una
delle “potenze chiave” nella costruzione dell'Unione Europea.
Dalla portaerei Garibaldi1
nel mare di Ventotene apprendiamo, invece, che se ne può fare a
meno. Anzi, non tutto il male vien per nuocere: l'integrazione
europea potrebbe avanzare più spedita, non dovendo più attardarsi a
rimuovere i continui ostacoli frapposti da quel Paese, da sempre
euroscettico, all'avanzamento dell'Unione.
Inutile
nascondere, però, quanto grande sia la “delusione” e la
“preoccupazione” per il cambio di tendenza: dall'allargamento ad
Est al restringimento ad Ovest...
La
Brexit ha posto fine ad una lunga relazione. Dal 1° gennaio del
1973 lo United Kingdom era membro della CEE. Nel 1975, sotto
il governo del laburista Harold Wilson, si tenne il primo referendum,
a lungo rimasto unico, con chiara domanda: pensi che il Regno Unito
dovrebbe stare nella Comunità Europea (Mercato Comune)? Vinse il Sì
con circa il 70% dei voti.
Sono
passati più di quarant'anni, durante i quali la Gran Bretagna ha
goduto di uno statuto speciale.
Prima
di chiederne di ulteriori, per meglio affrontare l'appuntamento
referendario, credendo in tal modo di evitare l'exit, Londra
si avvaleva di particolari condizioni, le cosiddette opt-out2.
Non apparteneva alla zona euro (esenzione del 1992), continuando a
battere moneta propria, la sterlina, con una Banca centrale autonoma
dalla Bce. Non aveva aderito all'area Schengen, ovvero alla libera
circolazione delle persone nel territorio dell'Unione, e alla Carta
dei diritti3.
Scontato che mantenesse il proprio sistema di giustizia basato sulla
common law4.
Nel
luglio del 2011 il governo britannico aveva ottenuto di non recepire,
senza sottoporle preventivamente ad un referendum, eventuali delibere
di Bruxeles che contemplassero un trasferimento di sovranità dagli
Stati nazionali alle istituzioni comunitarie.
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Le 4 richieste di Cameron
«(…)
Cameron (…) volendo evitare il rischio di una Brexit, intendeva
rinegoziare le condizioni dell'adesione del Regno Unito all'Unione
Europea. E aveva perciò avanzato quattro richieste a Bruxelles: in
primo luogo,
la possibilità per Londra di chiamarsi fuori dalla clausola dei
trattati che prevede la partecipazione a un'Unione sempre più
“stretta”, e ciò in aggiunta agli opt-out già in atto su euro,
Schengen, giustizia e Carta dei diritti; in
secondo luogo,
garanzie certe che le misure d'emergenza per la salvaguardia
finanziaria dell'Eurozona non avrebbero implicato in alcun modo
responsabilità di bilancio per l'Inghilterra, oltre al fatto che la
sterlina avrebbe continuato a godere di condizioni analoghe a quelle
dell'euro qualora i paesi a divisa comune si fossero integrati
ulteriormente; al
terzo posto,
l'attribuzione di un ruolo più incisivo ai Parlamenti nazionali, per
cui essi potrebbero (con una maggioranza del 55 per cento) respingere
le leggi europee e bloccare le direttive della Commissione di
Bruxelles; infine,
la sospensione dell'accesso ai sussidi di disoccupazione e ad altri
benfits del welfare per i cittadini di altri paesi della Ue per i
primi quattro anni della loro residenza nel Regno Unito, oltre a una
limitazione a sei mesi del permesso di soggiorno qualora non avessero
trovato nel frattempo un posto di lavoro.»
[sottolineatore
mie]
da
Valerio Castronovo, “L'Europa e la rinascita dei nazionalismi”,
Laterza, giugno 2016, pagg. 174-175.
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No
problems, David, but...
Scrive
Valerio Castronovo nel suo ultimo libro5,
uscito appena prima della Brexit, che David Cameron, per rafforzare
il consenso al remain, avanzò quattro richieste [vedi
riquadro dedicato in pagina] che «difficilmente
Bruxelles avrebbe potuto accogliere tutte».
L'accettazione
della prima richiesta era scontata, giacché Londra aveva sempre
escluso di aderire ad una sorta di “superstato europeo”. Sulla
seconda, si poteva essere “comprensivi” verso la ritrosia
britannica a dover cacciare quattrini (“responsabilità di
bilancio”) per aiutare i Paesi in difficoltà dell'Unione, visto
che non partecipava all'Eurozona. Ma, secondo Castronovo: «Non era
affatto pensabile che i singoli Parlamenti nazionali venissero
abilitati a esercitare persino un diritto di veto nei confronti della
legislazione comunitaria, e che il congelamento dei benefici del
welfare
introducesse in pratica una discriminazione fra i diritti dei
cittadini britannici e quelli europei, come se questi ultimi fossero
di seconda serie.»
Detta
in altri termini: “Caro David, niente da ridire sulla tua posizione
riguardo all'integrazione politica, visto che anche la Francia il
“superstato” non l'ha mai voluto; nulla da eccepire al tuo
rifiuto di condividere rischi e debiti dell'eurozona, visto che pure
la Germania, prima beneficiaria della moneta unica (salvo boomerangs
venturi), non ne vuole sapere; ma sul diritto di veto dei Parlamenti
persino nei confronti della legislazione comunitaria e sul diritto in
tutta l'Unione ad un trattamento paritario di tutti i cittadini
comunitari non possiamo proprio venirti incontro.”
E,
invece, guarda caso, dei due diritti in bilico, quello sociale,
riguardante il welfare
dei lavoratori immigrati dagli altri Paesi dell'Unione, fu bellamente
cassato. Che ne fu della cittadinanza europea, su cui fondare la
nuova identità costitutiva dell'Unione?
A
quanto pare l'idea di introdurre una cittadinanza di serie B (di
lavoratori immigrati) in Gran Bretagna, un esempio che sarebbe stato
presto seguito da altri richiedenti analoga “opzione”, non
sconvolse più di tanto i pragmatici costruttori d'Europa, tra cui il
governo italiano. Si dissero contrari, eppure assecondarono il
governo inglese: in fondo la cittadinanza europea non è che una
cittadinanza di secondo livello, derivante dalla prima, del proprio
Stato-nazione.
Fu
l'altra e più pericolosa “opzione” a dover restare assolutamente
inagibile. Sicché venne perentoriamente escluso il diritto sovrano
di veto dei Parlamenti, seppure con maggioranza del 55%, ossia
l'unico che avrebbe potuto interferire democraticamente sull'odierno
sistema di governo continentale.
Con
un Parlamento europeo dai vuoti poteri, una Commissione che non è un
governo, ma una sentinella di norme prestabilite e ridotto a
“consigliere del Principe regnante”, le decisioni vengono prese
nei vertici inter-governativi del Consiglio d'Europa, ossia, per non
nasconderci dietro un dito, dagli esecutivi degli Stati più potenti
dell'Unione. Ad esse seguono gli opportuni aggiustamenti mediatori
per farle accettare dagli altri (i più deboli e “periferici”),
spesso tenuti fuori dall'uscio ad aspettare. Da cui le “grandi
fatiche” della signora Merkel, alla quale toccano gran parte di
quelle mediazioni, essendo l'UE “a trazione tedesca”.
Singolare
il ruolo dell'inter-governativo regnante: mentre in patria ogni
governo deve fare i conti con una qualche camera parlamentare di
rappresentanti eletti dai cittadini, in Europa l'insieme dei governi
concentra su di sé sia il potere legislativo che quello esecutivo,
facendo precipitare “dall'alto” sui popoli di ciascun Paese
accordi, regole, norme derivanti da trattati sovranazionali. Una
cessione di sovranità nazionale senza bilanciamento alcuno.
Insomma,
nell'Unione non esiste separazione tra due (legislativo ed esecutivo)
dei tre fondamentali poteri, una volta cardini e vanto delle
liberal-democrazie. Quanto al terzo potere, quello giudiziario, per
ora rimane fuori dalla “unificazione”, sebbene non manchino idee
e proposte per domarne le autonome espressioni nazionali, in
particolare a difesa delle Costituzioni.
Non
può destare meraviglia, ad occhi e teste disincantate, che,
nonostante la City e la haute
finance
fossero entusiaste di restare nell'Unione, potendo fare e disfare a
loro piacimento, altrettanto non lo sia stata la maggioranza dei
britannici avendo a disposizione l'esecrato strumento referendario.
Anche se le loro motivazioni, dato l'insieme eterogeneo dei votanti
per la Brexit, non paiono del tutto condivisibili o dettate da
sentimenti altruistici.
Ciambelle
senza buco
Non
passa giorno, né giornale, senza che qualche autorevole commentatore
richiami le élites
dirigenti al necessario coinvolgimento dei popoli nella costruzione
europea, per dare forza all'agognato “salto politico” di cui l'UE
avrebbe bisogno.
Tanto
sforzo sarebbe meglio dedicarlo alla denuncia e alla critica di tutto
ciò che tali élites
quotidianamente fanno per estromettere quei popoli dalla conoscenza e
dalla partecipazione alle decisioni attinenti l'Europa, che incidono
pesantemente sul quotidiano delle società in cui vivono.
Forse
apparirebbero più chiari i motivi reali della direzione politica
intrapresa, non di democratizzare l'Unione, né di renderla più
“sociale”, bensì quella di sdemocratizzare i suoi Paesi membri,
privandoli della possibilità di esercitare la sovranità popolare.
Tuttavia,
e per nostra fortuna, non tutte le ciambelle riescono col buco.
1
Luogo del vertice tra Hollande, Merkel e Renzi del 21/8/2016.
3
Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea, Gazzetta
ufficiale delle Comunità europee, 18 dicembre 2000.
4
Un modello basato sui precedenti giurisprudenziali, piuttosto che su
codici, leggi, norme, secondo la tradizione del diritto romano.
5
Valerio Castronovo, “L'Europa e la rinascita dei nazionalismi”,
Laterza, 2016. Le citazioni a seguire sono tratte da questo testo.