sabato 10 settembre 2016

Il paziente inglese

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Pur godendo di diritti speciali, il Regno Unito esce dall'Unione Europea. Ciò che, per far vincere il remain, il suo governo aveva chiesto e quanto ottenne. Un confronto rivelatore.


Il paziente inglese se ne va dall'Europa in cui si era alfine ricoverato, vincendo il proprio scetticismo.
Per convincerlo a restare non gli sono bastati l'alloggio nella suite reale, con vista sui suoi antichi dominii, e premurosi infermieri al suo solo servizio, né la facoltà speciale di rifiutare le amare pillole somministrate a tutti i pazienti dai medici teutonici.
Non amava la compagnia degli altri ospiti per la numerosa presenza dei loro parenti? O, addirittura, aveva in sospetto i medici? Forse era proprio l'Istituzione a non andargli a genio.
Potenza chiave
Sino all'esito del referendum popolare, la Gran Bretagna era ritenuta una delle “potenze chiave” nella costruzione dell'Unione Europea. Dalla portaerei Garibaldi1 nel mare di Ventotene apprendiamo, invece, che se ne può fare a meno. Anzi, non tutto il male vien per nuocere: l'integrazione europea potrebbe avanzare più spedita, non dovendo più attardarsi a rimuovere i continui ostacoli frapposti da quel Paese, da sempre euroscettico, all'avanzamento dell'Unione.
Inutile nascondere, però, quanto grande sia la “delusione” e la “preoccupazione” per il cambio di tendenza: dall'allargamento ad Est al restringimento ad Ovest...
La Brexit ha posto fine ad una lunga relazione. Dal 1° gennaio del 1973 lo United Kingdom era membro della CEE. Nel 1975, sotto il governo del laburista Harold Wilson, si tenne il primo referendum, a lungo rimasto unico, con chiara domanda: pensi che il Regno Unito dovrebbe stare nella Comunità Europea (Mercato Comune)? Vinse il Sì con circa il 70% dei voti.
Sono passati più di quarant'anni, durante i quali la Gran Bretagna ha goduto di uno statuto speciale.
Prima di chiederne di ulteriori, per meglio affrontare l'appuntamento referendario, credendo in tal modo di evitare l'exit, Londra si avvaleva di particolari condizioni, le cosiddette opt-out2. Non apparteneva alla zona euro (esenzione del 1992), continuando a battere moneta propria, la sterlina, con una Banca centrale autonoma dalla Bce. Non aveva aderito all'area Schengen, ovvero alla libera circolazione delle persone nel territorio dell'Unione, e alla Carta dei diritti3. Scontato che mantenesse il proprio sistema di giustizia basato sulla common law4.
Nel luglio del 2011 il governo britannico aveva ottenuto di non recepire, senza sottoporle preventivamente ad un referendum, eventuali delibere di Bruxeles che contemplassero un trasferimento di sovranità dagli Stati nazionali alle istituzioni comunitarie.
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Le 4 richieste di Cameron

«(…) Cameron (…) volendo evitare il rischio di una Brexit, intendeva rinegoziare le condizioni dell'adesione del Regno Unito all'Unione Europea. E aveva perciò avanzato quattro richieste a Bruxelles: in primo luogo, la possibilità per Londra di chiamarsi fuori dalla clausola dei trattati che prevede la partecipazione a un'Unione sempre più “stretta”, e ciò in aggiunta agli opt-out già in atto su euro, Schengen, giustizia e Carta dei diritti; in secondo luogo, garanzie certe che le misure d'emergenza per la salvaguardia finanziaria dell'Eurozona non avrebbero implicato in alcun modo responsabilità di bilancio per l'Inghilterra, oltre al fatto che la sterlina avrebbe continuato a godere di condizioni analoghe a quelle dell'euro qualora i paesi a divisa comune si fossero integrati ulteriormente; al terzo posto, l'attribuzione di un ruolo più incisivo ai Parlamenti nazionali, per cui essi potrebbero (con una maggioranza del 55 per cento) respingere le leggi europee e bloccare le direttive della Commissione di Bruxelles; infine, la sospensione dell'accesso ai sussidi di disoccupazione e ad altri benfits del welfare per i cittadini di altri paesi della Ue per i primi quattro anni della loro residenza nel Regno Unito, oltre a una limitazione a sei mesi del permesso di soggiorno qualora non avessero trovato nel frattempo un posto di lavoro.»
[sottolineatore mie]

da Valerio Castronovo, “L'Europa e la rinascita dei nazionalismi”, Laterza, giugno 2016, pagg. 174-175.
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No problems, David, but...
Scrive Valerio Castronovo nel suo ultimo libro5, uscito appena prima della Brexit, che David Cameron, per rafforzare il consenso al remain, avanzò quattro richieste [vedi riquadro dedicato in pagina] che «difficilmente Bruxelles avrebbe potuto accogliere tutte».
L'accettazione della prima richiesta era scontata, giacché Londra aveva sempre escluso di aderire ad una sorta di “superstato europeo”. Sulla seconda, si poteva essere “comprensivi” verso la ritrosia britannica a dover cacciare quattrini (“responsabilità di bilancio”) per aiutare i Paesi in difficoltà dell'Unione, visto che non partecipava all'Eurozona. Ma, secondo Castronovo: «Non era affatto pensabile che i singoli Parlamenti nazionali venissero abilitati a esercitare persino un diritto di veto nei confronti della legislazione comunitaria, e che il congelamento dei benefici del welfare introducesse in pratica una discriminazione fra i diritti dei cittadini britannici e quelli europei, come se questi ultimi fossero di seconda serie.»
Detta in altri termini: “Caro David, niente da ridire sulla tua posizione riguardo all'integrazione politica, visto che anche la Francia il “superstato” non l'ha mai voluto; nulla da eccepire al tuo rifiuto di condividere rischi e debiti dell'eurozona, visto che pure la Germania, prima beneficiaria della moneta unica (salvo boomerangs venturi), non ne vuole sapere; ma sul diritto di veto dei Parlamenti persino nei confronti della legislazione comunitaria e sul diritto in tutta l'Unione ad un trattamento paritario di tutti i cittadini comunitari non possiamo proprio venirti incontro.”
E, invece, guarda caso, dei due diritti in bilico, quello sociale, riguardante il welfare dei lavoratori immigrati dagli altri Paesi dell'Unione, fu bellamente cassato. Che ne fu della cittadinanza europea, su cui fondare la nuova identità costitutiva dell'Unione?
A quanto pare l'idea di introdurre una cittadinanza di serie B (di lavoratori immigrati) in Gran Bretagna, un esempio che sarebbe stato presto seguito da altri richiedenti analoga “opzione”, non sconvolse più di tanto i pragmatici costruttori d'Europa, tra cui il governo italiano. Si dissero contrari, eppure assecondarono il governo inglese: in fondo la cittadinanza europea non è che una cittadinanza di secondo livello, derivante dalla prima, del proprio Stato-nazione.
Fu l'altra e più pericolosa “opzione” a dover restare assolutamente inagibile. Sicché venne perentoriamente escluso il diritto sovrano di veto dei Parlamenti, seppure con maggioranza del 55%, ossia l'unico che avrebbe potuto interferire democraticamente sull'odierno sistema di governo continentale.
Con un Parlamento europeo dai vuoti poteri, una Commissione che non è un governo, ma una sentinella di norme prestabilite e ridotto a “consigliere del Principe regnante”, le decisioni vengono prese nei vertici inter-governativi del Consiglio d'Europa, ossia, per non nasconderci dietro un dito, dagli esecutivi degli Stati più potenti dell'Unione. Ad esse seguono gli opportuni aggiustamenti mediatori per farle accettare dagli altri (i più deboli e “periferici”), spesso tenuti fuori dall'uscio ad aspettare. Da cui le “grandi fatiche” della signora Merkel, alla quale toccano gran parte di quelle mediazioni, essendo l'UE “a trazione tedesca”.
Singolare il ruolo dell'inter-governativo regnante: mentre in patria ogni governo deve fare i conti con una qualche camera parlamentare di rappresentanti eletti dai cittadini, in Europa l'insieme dei governi concentra su di sé sia il potere legislativo che quello esecutivo, facendo precipitare “dall'alto” sui popoli di ciascun Paese accordi, regole, norme derivanti da trattati sovranazionali. Una cessione di sovranità nazionale senza bilanciamento alcuno.
Insomma, nell'Unione non esiste separazione tra due (legislativo ed esecutivo) dei tre fondamentali poteri, una volta cardini e vanto delle liberal-democrazie. Quanto al terzo potere, quello giudiziario, per ora rimane fuori dalla “unificazione”, sebbene non manchino idee e proposte per domarne le autonome espressioni nazionali, in particolare a difesa delle Costituzioni.
Non può destare meraviglia, ad occhi e teste disincantate, che, nonostante la City e la haute finance fossero entusiaste di restare nell'Unione, potendo fare e disfare a loro piacimento, altrettanto non lo sia stata la maggioranza dei britannici avendo a disposizione l'esecrato strumento referendario. Anche se le loro motivazioni, dato l'insieme eterogeneo dei votanti per la Brexit, non paiono del tutto condivisibili o dettate da sentimenti altruistici.

Ciambelle senza buco
Non passa giorno, né giornale, senza che qualche autorevole commentatore richiami le élites dirigenti al necessario coinvolgimento dei popoli nella costruzione europea, per dare forza all'agognato “salto politico” di cui l'UE avrebbe bisogno.
Tanto sforzo sarebbe meglio dedicarlo alla denuncia e alla critica di tutto ciò che tali élites quotidianamente fanno per estromettere quei popoli dalla conoscenza e dalla partecipazione alle decisioni attinenti l'Europa, che incidono pesantemente sul quotidiano delle società in cui vivono.
Forse apparirebbero più chiari i motivi reali della direzione politica intrapresa, non di democratizzare l'Unione, né di renderla più “sociale”, bensì quella di sdemocratizzare i suoi Paesi membri, privandoli della possibilità di esercitare la sovranità popolare.
Tuttavia, e per nostra fortuna, non tutte le ciambelle riescono col buco.

1 Luogo del vertice tra Hollande, Merkel e Renzi del 21/8/2016.

2 Abbreviazione di opting-out, traducibile in “clausole di esenzione”.

3 Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea, Gazzetta ufficiale delle Comunità europee, 18 dicembre 2000.

4 Un modello basato sui precedenti giurisprudenziali, piuttosto che su codici, leggi, norme, secondo la tradizione del diritto romano.

5 Valerio Castronovo, “L'Europa e la rinascita dei nazionalismi”, Laterza, 2016. Le citazioni a seguire sono tratte da questo testo.
   

Sabino e gli Stati falliti

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Gli “Stati falliti” esportano profughi, migranti e terrorismo. Perché sono falliti? Di chi la responsabilità? Soprattutto, qual è il rimedio? Sabino Cassese ci indica la via maestra.


  • Decenni di demolizione dello sviluppo autonomo dei Paesi ex-coloniali e di interventismo bellico da parte degli Stati euro-atlantici producono un effetto boomerang: le cattive esportazioni.
  • Tuttavia, all'autodeterminazione e alla non ingerenza, ad una politica di pace e di reale cooperazione, si continua a preferire l'interventismo.
  • Per legittimarlo servono nuove “motivazioni”, di tipo “umanitario” e basate su una nuova interpretazione del diritto internazionale, il cosiddetto “cosmopolitismo dei diritti”. Purché tutto cambi, ma nulla cambi.

Cattivi esportatori
Profughi, migranti “economici” e terrorismo di “matrice islamica fondamentalista” sono problemi che ci vengono esportati da Stati alla deriva, situati in Medio Oriente ed in Africa Centrale. I loro poteri centrali sono fatiscenti: inetti di fronte allo sfascio sociale ed economico, al dilagare della povertà; impotenti verso gruppi paramilitari che manipolano identità tribali ed etniche; delegittimati all'uso della forza e non in grado di garantire il governo dei loro territori, nel rispetto dei diritti umani e nello sviluppo.
Stante la situazione, la “comunità internazionale” ha l'obbligo morale di intervenire, dandosi carico della promozione di istituzioni statali capaci di ripristinare le funzioni di governo in questi Paesi, in tal modo concorrendo alla soluzione anche dei problemi di cui soffriamo l'esportazione.
Su questa linea è Sabino Cassese1, noto giurista e sostenitore di “un benefico cosmopolitismo dei diritti”, argomentato percorrendo “vie di analisi equilibrate” (secondo il giudizio pur critico del filosofo Biagio de Giovanni)2.
Analisi equilibrate” di cui, però, si cercherebbe invano traccia nel suo articolo, apparso sulla prima del Corriere della sera dello scorso 22 agosto [vedi riquadro in pagina], significativamente intitolato “Le minacce degli stati falliti”.
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Obblighi morali
«Siria, Iraq, Libia, Yemen diventano di giorno in giorno un problema per il mondo. Questi Paesi fanno parte della categoria degli “Stati falliti”. Se si aggiungono gli “Stati fragili”, il loro numero ammonta a parecchie decine. Si tratta di costruzioni statali precarie o inesistenti, di governi che non tengono sotto controllo tribù, clan, etnie, gruppi paramilitari; dove il potere pubblico è eroso, ha perduto legittimazione ed efficacia, non controlla il territorio (…) In questi Stati i poteri centrali sono fatiscenti, non assicurano l’uso legittimo della forza; i diritti umani sono violati; la popolazione vive in povertà.
Questi Stati falliti o fragili esportano gravi problemi in altre parti del mondo, specialmente in quelle vicine (…) Gli altri Stati, specialmente quelli confinanti, debbono, quindi, darsi carico delle tensioni prodotte dall’emigrazione e della minaccia che deriva dal terrorismo.
Non tutte le cause di questa situazione sono interne. Molte dipendono dalle costruzioni artificiali imposte dalle maggiori potenze mondiali prima di lasciare le loro colonie o al termine di conflitti bellici. Oppure da interventi di paesi occidentali, talora diretti allo scopo di abbattere governi autoritari o dittatoriali, che hanno, però, scoperchiato e reso più virulenti conflitti locali.
La comunità internazionale, sotto l’egida dell’Onu o di governi regionali come l’Unione europea, deve assicurare assistenza internazionale per favorire o imporre il ripristino delle funzioni di governo? In astratto, è il popolo stesso che deve costituirsi in Stato, agendo dal basso, perché, proprio secondo i dettati della Carta delle Nazioni Unite, ha diritto all’autodeterminazione. Più concretamente, c’è chi dice che gli Stati falliti o fragili vengono usati per interventi esterni, e che si ritorna all’imperialismo ottocentesco. Altri dice che sono meglio dittatori come Saddam, Gheddafi e Mubarak, garanti della stabilità. Dunque, il principio di sovranità popolare escluderebbe interventi esterni, come quello disegnato dalla risoluzione Onu del 14 marzo 2014 per assicurare la transizione alla democrazia in Libia, preparare una nuova costituzione e costruire un governo centrale efficace.
Queste posizioni neutraliste sono sbagliate sia storicamente, sia dal punto di vista politico, sia da quello etico. Ignorano che gli Stati moderni non si sono formati in virtù di una volontà costituente del popolo, ma grazie a un processo lento nel quale il centro motore è stato un esecutivo, spesso con l’aiuto di forze esterne, come l’Italia di Cavour grazie alla Francia di Napoleone III. Dimenticano che la condizione di un governo pacifico del mondo è che gli Stati possano cooperare e che, per cooperare, debbono innanzitutto esistere (...) Tralasciano l’obbligo morale di tutti gli Stati di considerare le condizioni nelle quali vivono i propri vicini.
L’Unione europea ha un problema aggiuntivo, che dipende dal fatto che gran parte di questi Stati deboli o inesistenti sta nell’Africa centrale e nel Vicino Oriente, cioè in zone non lontane. Quindi, ha una responsabilità maggiore (e un maggiore interesse) a darsi carico della promozione di costruzioni statali in questi Paesi. L’Unione europea, così come le Nazioni unite, incontra, però, difficoltà che rendono inefficaci i propri buoni propositi. (…) »

Estratti da Sabino Cassese, “Le minacce degli stati falliti”, Corriere della sera, 22 agosto 2016. L'articolo per intero è leggibile a:
http://www.corriere.it/cultura/16_agosto_22/cassese-bff1f01c-67c4-11e6-b2ea-2981f37a7723.shtml
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Cassese va per le spicce. Classifica questi Stati in due categorie: degli “Stati falliti”, tra cui ricorda Siria Iraq Libia e Yemen, facendo sua la vulgata nord-americana; degli “Stati fragili”, tanto numerosi da non poter nemmeno essere elencati. Rimane sottinteso che la loro “fragilità” li espone al rischio di tramutarsi in “fallimento” manifesto.
Ma cosa accomuna gli “Stati falliti”, oltre alle cattive esportazioni?
Per non fare di ogni erba un fascio, nella diagnosi quanto nella terapia, sarebbe stato opportuno ed “equilibrato” esaminarli uno ad uno, prima di - o evitando di - bollarli con un'etichetta unica, da cui far derivare una cura altrettanto unica, direi universale.
Così il lettore avrebbe compreso per quali motivi tra i “falliti”, per esempio, non venga annoverato l'Afghanistan. Una dimenticanza? Sarebbe una dimenticanza assai opportuna, perché quel Paese è già da anni sottoposto, inutilmente, ai tentativi terapici di State building3, qui riproposti da Cassese con un occhio di riguardo alla vicina Libia.
Artifici coloniali
Non si possono proporre rimedi se non a seguito di una individuazione delle cause. E qui Sabino Cassese afferma perentorio: “Non tutte le cause di questa situazione sono interne.”
Chi potrebbe sostenere il contrario?
Tra le cause “esterne”, storiche, annovera il lascito di “costruzioni artificiali” da parte del colonialismo.
Anche solo osservando i confini geografici tracciati dalle potenze coloniali in Medio Oriente ed in Africa, appare però chiaro che il loro intento fu di “dividere per imperare”, seminando zizzania tra etnie, religioni, “razze”, nazioni e popoli. Dopo la loro “partenza”, quel “lascito” poteva venire sfruttato per destabilizzare i nuovi Stati indipendenti. Il che puntualmente avvenne, anche se non subito.
Sul piano economico, a seguito della decolonizzazione, vi fu un periodo, tra il 1960 ed il 1980, che fece registrare un certo incremento del reddito pro-capite (+1,6% l'anno) anche per l'Africa sub-sahariana4, tra le regioni più svantaggiate del Terzo Mondo.
L'Africa nera ereditava una pesantissima situazione, generata da una spoliazione plurisecolare da parte europea. Milioni di neri furono fatti schiavi5 ed in gran parte venduti nelle Americhe. Non hanno forse garantito la base dello sviluppo della ex-colonia inglese, in seguito Stati Uniti d'America, restandovi schiavi fino alla guerra civile del 1861-65? Quanto fruttarono quello ed altri “commerci” alla liberale Inghilterra? Quanta ricchezza, con la repressione più disumana, accumularono gli Stati colonialisti, dal piccolo Belgio alla grande Francia, dai loro vasti domini africani?
L'elenco che coinvolge la supponente ed impareggiabile “nostra civiltà” sarebbe infinito e comprende pure l'Italia, tra le tardive potenze alla ricerca di “un posto al sole” tra Abissinia e “quarta sponda” libica.
Anni '80
Se la fine dei “gloriosi trent'anni”6 portò i Paesi allora detti del Primo Mondo sulla via delle politiche liberiste propugnate da Thatcher e Reagan, per i Paesi in via di sviluppo quelle politiche ebbero effetti devastanti.
In occasione della crisi del debito dei Paesi del Terzo Mondo, negli anni '80, vennero loro imposti dal FMI, dalla Banca Mondiale e dal Gatt (poi WTO) programmi di “aggiustamento strutturale” che erano tutti protesi a smantellare ogni tentativo dei governi locali di gestire un proprio sviluppo autonomo. Dovettero soccombere al “libero scambio” ed al “libero mercato, alla concorrenza tra economie “aperte”. Come se ex-colonie ed ex-protettorati potessero competere alla pari con i Paesi ex-coloniali e gli Usa, dal secondo dopoguerra divenuti leader dei Paesi ricchi.
D'altro canto, i Paesi ricchi euro-atlantici hanno sempre badato bene a “dare un calcio alla scala”7 dello sviluppo dall'alto del vertice consolidato a cui erano arrivati.
In ogni caso non mancò, alla bisogna, il ricorso ad altri mezzi più “tradizionali”: colpi di Stato, corruzione dei gruppi dirigenti, signori della guerra prontamente armati...
Per essere chiari: le “loro” attuali cattive esportazioni traggono origine dalle “nostre” cattive esportazioni, non solo del passato ma pure del presente.
Sabino Cassese e Giorgio Napolitano
Dagli anni '90
Cassese riconosce ai governi occidentali la buona intenzione di essere intervenuti in questi Paesi per abbattervi alcuni odiati dittatori, inevitabilmente scoperchiando e rendendo più virulenti i conflitti locali.
Avrebbe dovuto aggiungere ulteriori tratti esplicativi, relativi proprio agli “Stati falliti” nel suo catalogo.
Saddam Hussein fu eliminato grazie ad una guerra d'aggressione degli Stati Uniti8, dopo che l'avevano armato per un sanguinosissimo conflitto (1980-1988) di trincea contro l'Iran khomeinista, e facendo ampio affidamento sugli aspri contrasti presenti sul territorio iracheno, tra curdi ed arabi, a loro volta divisi tra musulmani sunniti e sciiti.
Gheddafi fu defenestrato e giustiziato approfittando di una ribellione interna dai contorni tribali e passatisti (inalberava da Bengasi la bandiera che fu di re Idris), dagli esiti incerti senza i tempestivi bombardamenti di Francia, Gran Bretagna e Usa, ai quali, di malavoglia, si accodò l'Italia per non vedersi sottratti i propri contratti di sfruttamento del petrolio e del gas libici. Ragione essenziale per cui, tuttora, armeggia in rivalità con gli “amici” di Parigi.
Nello Yemen tutto l'occidente euro-atlantico appoggia l'Arabia Saudita (principale acquirente mondiale di armi) che, sempre bombardando, puntella il governo sunnita contro la ribellione sciita interna, sostenuta dall'Iran. Ed è risaputo che il Regno saudita è stato prima culla di al-Queda e poi della sua costola Isis, quando nelle capitali euro-atlantiche si decise che, stante la crisi interna siriana, era giunto il momento di far fuori al-Assad ed il suo regime a base sciita, alleato dell'Iran e della Russia. Allo scopo, contro quel nemico principale, vennero radunati e foraggiati anche tutti i gruppi jihadisti di parte sunnita e d'ispirazione salafita radicale.
Il fatto che queste potenze, protese da sempre a debellare qualsiasi governo nazionalista locale, seppure debolmente e contraddittoriamente autonomo, abbiano lanciato un boomerang che ora ci ritorna addosso, non le ripulisce certo delle loro pesanti “responsabilità morali”.
Soprattutto, permanendo operanti gli interessi da cui furono e sono mosse, non è per niente attendibile fare appello alla loro “responsabilità” per promuoverle ora, con qualche credenziale politica e umanitaria, quali forze costruttrici delle istituzioni e della sovranità statale su quei territori, in nome e per conto di quei popoli.
In sostanza, finito in malo modo il periodo in cui si voleva “esportare la democrazia” nei già catalogati “Stati canaglia”, ora, sotto le bandiere del “cosmopolitismo dei diritti” (che esclude quello prioritario all'autodeterminazione) e della “comunità internazionale”, con presunzione culturale sorretta da paternalismo giuridico-istituzionale bombardante, si nutre la pretesa di ricostruire dall'esterno Stati fatti fallire e, poi, messi sotto procedura fallimentare internazionale.
La “perla” di Cassese
Al rivestimento ideologico della lotta contro le “posizioni neutraliste”- le quali non sono affatto neutrali, bensì contrarie all'interventismo e alla guerra - non poteva mancare il suggello di una revisione della nostra storia risorgimentale. Sempre a convalida dei “buoni propositi” degli attuali state builders globali.
Sicché Napoleone III diventa disinteressato protagonista della nostra unità nazionale, omettendo che gli vennero date, in cambio del suo intervento militare, Nizza e la Savoia, da parte dello Stato piemontese (1860), il quale si pose a capo di un complesso movimento patriottico culminato nella “conquista regia”, ma grazie al concorso decisivo e remissivo delle imprese garibaldine.
Si può, anche solo lontanamente, assimilare l'unificazione politica italiana, certo guidata da un blocco storico che escludeva le masse contadine, alla situazione libica odierna?
Si può, senza il minimo senso di vergogna intellettuale, paragonare Napoleone III ed il nostro ottocento nazionale alla natura dell'intervento esterno euro-occidentale attuale in Libia?
Si può, perché Cassese scorge il “centro motore” di tutto nel ruolo salvifico dell'esecutivo, come se Fayez al-Sarraj fosse Camillo Benso di Cavour! Come se i governi euro-atlantici, e tra loro quello italiano di Matteo Renzi, fossero novelli Napoleone III! (In tal caso, invece di Nizza e della Savoia, cosa pretenderebbero in cambio?)
Potenza degli esecutivi che decidono e fanno la storia, anche degli altri.

1 Sabino Cassese è stato giudice costituzionale. Attualmente è professore emerito della Scuola Normale Superiore di Pisa dove insegna Storia delle Istituzioni Politiche. Insegna anche al Master of Public Affairs di Sciences-Po a Parigi e al Master in International Public Affairs della School of Government della LUISS.
2 Biagio de Giovanni, "Elogio della sovranità politica", Ed. Scientifica, 2015, pagg. 8-9.
3 Traducibile in “costruzione dello Stato”, impresa in cui sono coinvolti da tempo i governi della Nato. A tale proposito vedasi anche:http://www.limesonline.com/lafghanistan-ha-due-alternative-lo-state-building-o-il-caos/66820.
4 Ha-Joon Chang, “Economia”, il Saggiatore, 2015 (2014), pag.88.
5 La tratta riguardò circa 12 milioni di persone. Posto in relazione al totale della popolazione di quel periodo, quel dissanguamento costituì uno dei motivi storici del mancato sviluppo africano.
6 Come viene definito dalla storia economica il periodo intercorrente tra il 1945 ed il 1973.
7 L'immagine è ripresa da Ha-Joon Chang in “Cattivi samaritani”, UBE Paperbook, 2014 (2007), dall'economista tedesco Friedrich List che la usò per criticare la Gran Bretagna liberoscambista, la quale aveva raggiunto la supremazia economica grazie a dazi elevati ed ampio ricorso a sussidi alla imprese. List nel 1841 scrisse: “É un abile stratagemma, molto diffuso: quando uno ha raggiunto l'apice, dà un calcio alla scala che ha usato per arrivare in cima, così che altri non abbiano modo di salire dopo di lui.”
8 Seconda guerra del Golfo (2003), seguita alla prima guerra del Golfo (1990-91).