lunedì 14 dicembre 2020

Il rovesciamento dei secondi anni '70

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Il rovesciamento dei secondi anni '70 


Le lotte e le conquiste operaie e popolari dei decenni postbellici segnarono lo sviluppo della democrazia, in particolare sul lavoro, e raggiunsero il loro culmine tra la fine dei '60 ed i primi anni '70, grazie all'autunno caldo, ai movimenti degli studenti, delle donne per il divorzio e l'aborto, antifascisti ed antimperialisti.
Nei secondi anni Settanta si verifica il rovesciamento che spiana la strada al quarantennio inglorioso liberal liberista. In seguito alla crisi economica, in Italia venne imposta l'austerità in nome della “solidarietà nazionale” che anticipò quella “in nome dell'Europa”. Come prevalse un falso interesse nazionale ed europeo, per il quale si sacrificarono conquiste e lotte insieme alla sovranità nazionale ed al prioritario sviluppo della democrazia.

1976-1980: gli anni della sconfitta - Dall'austerità italiana a quella europea
1978: adesione allo SME - Lelio Basso ed il primo articolo - La perdita del “lavatoio pubblico”

Come in un bosco, i cammini della conoscenza politica si diramano e si incrociano l'un l'altro, talvolta sboccando in radure più soleggiate.

Sul sentiero della comprensione del portato della lotta dei riders,1 in apparenza “marginale”, abbiamo incontrato il tema del lavoro organizzato a distanza tramite piattaforme digitali governate da un centro direzionale e padronale. In questo nuovo contesto tecnologicamente organizzato, i problemi dei fattorini in bicicletta, o motorizzati per le consegne, riguarderanno sempre più la folta schiera di coloro che lavorano e lavoreranno da casa nel settore privato e pubblico.

Ci si può chiedere come tutti questi lavoratori potranno farsi valere sul piano sindacale. Ugualmente ci si deve interrogare su come essi potranno decidere insieme su contratti ed accordi che li coinvolgono e sono a loro applicati. Ciò investe la democrazia sul lavoro, ovvero la libera partecipazione all'espressione della volontà collettiva nelle vertenze sindacali, impedendo la quale si inibiscono le lotte. (Salvo quelle che scoppiano per raggiunti limiti di sopportazione, riproponendo, comunque, l'esigenza della partecipazione democratica alla loro conduzione.)

La mancanza di democrazia sul lavoro è però da tempo un tema vagante anche per coloro che non sono dispersi individualmente sul territorio, ma operativi “in necessaria presenza” nelle imprese.

Queste, seppure ridotte nelle dimensioni, con molte funzioni esternalizzate (outsourcing), poste in catene magari mondiali delle forniture (supply chain) di cui sono solo un anello, o/e collegate localmente nei distretti industriali, costituiscono una buona parte del tessuto produttivo del Paese e lo costituiranno anche nel prossimo futuro.

Si tratta di una questione politica di primaria importanza che travalica il sindacale, non fosse altro per il semplice motivo che i lavoratori sono sempre stati la parte trainante per affermare lo Stato sociale, della cui ricostruzione oggi abbiamo tutti estremo ed urgentissimo bisogno.

Risalendo il medesimo sentiero, per scoprire quando e come il binomio lotte-democrazia è stato sconfitto e con esso disgregata la socialità operaia nella quale cresceva, incontriamo le complesse vicende degli anni Settanta. Anni di svolta, in particolare nel tratto tra il 1976 ed il 1980. Ripercorrerli è indispensabile, non per reiterare vecchie polemiche e divisioni, bensì, separando “il grano dal loglio”, per ricollocare quel binomio nella possibile socialità della realtà odierna. Dal suo sviluppo dipende la vivibilità del nostro futuro.

1976-1980: gli anni della sconfitta

L'inizio della sconfitta risale all'accordo del 26 gennaio 1977 tra Confindustria e Cgil-Cisl-Uil – allora Federazione Sindacale Unitaria - noto come accordo Carli-Lama, in base al quale furono tagliate la liquidazioni (Tfr, Trattamento di fine rapporto), dal cui calcolo vennero esclusi gli scatti di scala mobile (indennità di contingenza), e soppresse 7 festività.

La lettura delle motivazioni generali per giustificare il taglio [vedi nel riquadro “Allegato C - Accordo interconfederale” - 26 gennaio 1977, a seguire] vanno ben comprese per la valenza che ebbero. In particolare non sfugga la logica politico-economica fatta propria dalle parti (poi rapidamente convalidata dal parlamento),2 per la quale l'obiettivo della competitività italiana – sempre più rivolta alle esportazioni piuttosto che alla “sostituzione delle importazioni” - veniva collegata alla difesa della moneta e questa alla riduzione del costo del lavoro, ossia alla deflazione salariale.

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ALLEGATO C

ACCORDO INTERCONFEDERALE

26 GENNAIO 1977

«La Federazione Sindacale Unitaria e la Confindustria, di fronte ai problemi della crisi economica in atto, nell’intento di accrescere la competitività del sistema produttivo sul piano interno ed internazionale;

allo scopo di contribuire: 1) alla lotta contro l’inflazione ed alla difesa della moneta mediante il contenimento della dinamica del costo globale del lavoro e l’aumento della produttività; 2) alla creazione di condizioni per nuovi investimenti e per lo sviluppo dell’occupazione specie nel Mezzogiorno;

dandosi atto che il contenuto del rapporto di lavoro è e deve restare materia di competenza esclusiva delle parti sociali e la sua definizione deve avvenire mediante l’accordo tra queste; convinte: a) di aver realizzato un progresso nello sviluppo delle relazioni industriali; b) della necessità di interventi di politica economica atti ad accrescere la competitività dei nostri prodotti;

hanno convenuto quanto segue.»

http://www.ediland.it/allegato-c-accordo-interconfederale-26-gennaio-1977/

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Un anno dopo, il 14 febbraio del 1978, i consigli generali di Cgil-Cisl-Uil riuniti al palazzo dei congressi dell'Eur a Roma sancirono una svolta storica, chiamata appunto la “svolta dell'Eur”. Con essa Cgil-Cisl-Uil posero al centro del loro operato le “compatibilità economico-sociali” ed il derivante “contenimento salariale”.

Si tratta di una traduzione pratica della politica di austerità, più esattamene della sua prima versione, introdotta in nome della “solidarietà nazionale” (alla quale seguirà quella “in nome dell'Europa”). Sempre a senso unico. Si sperimentò infatti che nella sequenza dei famigerati “due tempi”, alla certezza del “prima”, i sacrifici non solo salariali, non seguiva affatto il promesso “poi”, più occupazione, investimenti indirizzati a cambiare il “modello produttivo”.

Contro la svolta, tra il 1977 ed il 1980 era presente una diffusa opposizione operaia,3 opportunamente presentata dai media prevalenti come egemonizzata da “fiancheggiatori” del terrorismo, tra i quali veniva annoverata Autonomia Operaia.

Tale opposizione fu inizialmente raccolta dai delegati dei Consigli di fabbrica in disaccordo con la linea intrapresa dai vertici. Per comprenderne l'ampiezza basta scorrere l'elenco delle presenze all'assemblea del Lirico di Milano del 6 aprile 1977 [vedi il ritaglio di “Lotta Continua” di quel giorno, a seguire].4

Milano, 6 aprile 1977

https://fondazionerrideluca.com/web/archivio-lotta-continua/  

LOTTA-CONTINUA_1977_04_06_75_016.pdf


Nei mesi successivi si palesò l'inutilità di restare su posizioni di “sinistra sindacale”, ed a seguito dello scoppio del movimento del '77 e del convegno internazionale contro la repressione a Bologna, una cospicua parte dell'opposizione operaia fu portata ad auto-organizzarsi. Era un unirsi5 in una lotta divenuta politica, che non si proponeva la creazione di un “quarto sindacato”. Solo in seguito il sindacalismo di base, oggi diffuso nel Paese soprattutto tra i lavoratori meno protetti, nacque dal confluire delle due citate espressioni dell'opposizione operaia sconfitta.

I molti Comitati, Collettivi e Coordinamenti di zona dell'opposizione operaia, sparsi per la penisola e nelle isole maggiori, ebbero in Milano, Genova e Bologna i centri propulsivi.6 Si diffusero non solo nelle fabbriche ma pure negli ospedali, nel settore pubblico e dei servizi, con il coinvolgimento dei precari.

Per diverse ragioni, tuttavia, l'0pposizione di classe non riuscì ad emergere compiutamente e stabilizzarsi, facendo valere tutto il suo grande potenziale. Fra queste la mancanza di uno stabile collegamento organizzato tra le diverse realtà, in particolare con la Fiat di Torino - come apparirà più avanti -, peserà negativamente sull'andamento dello scontro in atto.

Alle insufficienze interne, sulle quali andrebbe fatta una ricognizione più puntuale che non si accontenti della critica allo “spontaneismo movimentista”, certamente presente, faceva da contraltare la sovrastante forza organizzata dai suoi avversari e nemici.

In presenza dell'ampio dissenso, da parte dei funzionari sindacali venivano preordinate adeguate misure di “gestione del dibattito” assembleare e, al momento del voto, si assisteva a contestabili conteggi che approfondivano le spaccature. Alla malaparata i gestori delle “consultazioni” riconoscevano le loro sconfitte, rubricandole come episodi marginali, minoritari ed ininfluenti rispetto al sostegno generale che sostenevano di avere.

Restava il fatto che l'esercizio della democrazia nei luoghi di lavoro entrava in contrasto con scelte di “sacrificio” delle conquiste ottenute, che non potevano avere il consenso dei sacrificati, dopo anni in cui essi si erano impegnati in aspre lotte per conseguirle. Inoltre, alla gran parte sfuggiva la comprensione di quale vantaggio strategico potesse provenire dall'arretramento generale, invece che, all'opposto, dal consolidamento almeno delle posizioni acquisite.

Tra gennaio e luglio del '77, si può registrare uno sfasamento tra una lotta avanzata, quella della “battaglia della mezz'ora” in Fiat,7 e l'insieme dei lavoratori del Paese posti invece nella condizione di doversi difendere dall'arretramento avviato dall'accordo interconfederale Carli-Lama.

Nel momento in cui la lotta nella più grande fabbrica del Paese contendeva il controllo sui tempi di lavoro, metteva in discussione non solo il fondamentale potere padronale di sfruttarlo, ma il potere proprietario stesso. La organizzata socialità operaia veniva così a contrapporsi alla privata logica proprietaria del capitale, il quale, disponendo dei mezzi, “doveva” padroneggiare anche il tempo totale di vita dei lavoratori, sia direttamente applicato alla produzione che “libero” da essa.

L'opposizione operaia si mosse contro l'accordo Carli-Lama, le segreterie confederali e la connessa linea di “solidarietà nazionale” sostenuta dal Pci, mentre la lotta alla Mirafiori stava vincendo la “battaglia della mezz'ora” con il positivo concorso della “mitica V Lega” della Fiom, area carrozzeria Mirafiori.

Non può sorprendere che, in piena trattativa, Luciano Lama desse ragione alla Fiat sulla necessità “tecnica” di “asciugare” i tempi di lavoro, con ciò approvando la sua organizzazione della produzione, ivi compresa la emarginazione del sapere operaio dal suo controllo. Al contrario è sorprendente che i massimi dirigenti Fiom, Bruno Trentin e Claudio Sabbatini, pensassero di stare dalla parte degli operai in lotta alla Fiat, non opponendosi alla scelta confederale attuata per tutto il Paese.8

Un'altra convergente ragione consistette nell'uso politico che il blocco dominante fece del terrorismo. Ben presto la situazione a Mirafiori ed a Torino venne “riallineata” a quella del resto d'Italia attraverso quell'uso politico per stroncare ogni opposizione dei lavoratori, sintetizzata dalla frase d'ordine: “o con lo Stato o con le BR!”. In sua sintonia la direzione della Fiat avrebbe annunciato – l'8 ottobre del 1979 - il licenziamento di 61 lavoratori, motivato con un comunicato ufficiale in cui si collegava il ristabilimento della governabilità interna alla lotta contro il terrorismo.

Pochi mesi prima, il 21 marzo, il Pci aveva ritirato l'appoggio esterno al secondo governo Andreotti di “solidarietà nazionale”. L'inserimento della retromarcia impedì al movimento d'opposizione dei lavoratori di saldarsi e stabilizzarsi al di fuori del suo controllo,9 ma non alla Fiat di sconfiggere la lotta dei “35 giorni”.

Il rovesciamento aveva preparato il terreno politico alla restaurazione liberal liberista, che nel mondo assunse i tratti distintivi di una controrivoluzione.

Dall'austerità italiana a quella europea

Rivangare la storia di quei tempi, raccontati dai media prevalenti come “anni di piombo” per sotterrare sotto il “terrorismo rosso” lo stillicidio delle aggressioni e degli assassinii fascisti, in contemporanea con quelli delle forze di polizia e le “stragi di Stato” (la più sanguinosa si perpetrò a Bologna, il 2 agosto 1980),10 è indispensabile se vogliamo trarne qualche insegnamento ed evitare di rimanere prigionieri di una sorta di “coazione a ripetere”.

Tutto il decennio dei Settanta rappresenta un “punto di svolta”,11 perché, finiti i “gloriosi trent'anni” post bellici, inizia una irrisolta crisi di lunga durata del capitalismo occidentale che riemerge ai giorni nostri.

Nel secondo quinquennio era in corso nelle fabbriche una trasformazione insieme tecnologica e di sistema manageriale, con l'introduzione di robots nelle produzioni, l'informatizzazione, l'abbandono del modello fordista e la sua sostituzione con quello neonato toyotista. Non si era ancora realizzato lo smantellamento delle grandi unità industriali, la dispersione in più piccole e controllabili entità produttive, le privatizzazioni e quant'altro... Tutto ciò si sarebbe palesato dagli anni Ottanta.

Al momento – siamo tra il 1976 ed il 1977 – la “solidarietà nazionale” ed il via libera ai “sacrifici” vengono presentati dal Pci, per bocca di Enrico Berlinguer, nel quadro di una “austerità” che doveva essere virtuosa, premessa materiale per avviare l'auspicato “cambiamento”, con il taglio degli sprechi, l'abbandono dello stile di vita consumistico ed il porsi in sintonia con il moto di liberazione del Terzo mondo.

Se, al contrario della austerità virtuosa, si affermò la sua versione depressiva, repressiva e contraria alla democrazia – come lo stesso Berlinguer paventava [vedi nella finestra “Enrico Berlinguer - Convegno degli intellettuali – Roma, 15 gennaio 1977”, a seguire] -, dipese da molteplici fattori.

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Enrico Berlinguer

Convegno degli intellettuali

Roma, 15 gennaio 1977

«Ma l’austerità, a seconda dei contenuti che ha e delle forze che ne governano l’attuazione, può essere adoperata o come strumento di depressione economica, di repressione politica, di perpetuazione delle ingiustizie sociali, oppure come occasione per uno sviluppo economico e solidale nuovo, per un rigoroso risanamento dello Stato, per una profonda trasformazione dell’assetto della società, per la difesa ed espansione della democrazia: in una parola, come mezzo di giustizia e di liberazione dell’uomo (…).»

https://www.perlaretorica.it/wp-content/uploads/2015/10/Enrico-Berlinguer-Politica-di-austerita-e-di-rigore-1977.pdf

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In primo luogo da una visione del capitalismo italiano in preda ad arretratezza, parassitismo, sottosviluppo, come se non fosse insito nel suo sviluppo il contestuale sottosviluppo, fenomeno ben visibile nel Meridione. Mancava il Pci di una reale autonomia culturale nelle questioni nodali dell'economia?

Sta di fatto che dalla “rottura dello schema” postbellico derivava un esito elementare:

«La rottura dello schema della “sostituzione delle importazioni”, e il suo avvicendamento, in seguito a una crisi di profitti e quindi di investimenti, con lo schema della “sostituzione delle esportazioni” produssero come conseguenza politica un esito elementare: dei produttori non c'era più bisogno nella qualità di consumatori e lo sfruttamento (i “sacrifici”) poteva crescere impunemente. Cadeva la base economica del “compromesso keynesiano (che “compromesso” fu sempre poco, ma cadeva in sostanza insieme alla base di forza della parte popolare) e si affermava una politica di “recessione deliberata” e di deliberata crescita della disoccupazione. Si rendeva necessaria una nuova ideologia che si presenterà a partire dalla “rivoluzione reaganiana” (e thatcheriana) come neo-liberismo nelle sue diverse forme.»12

Abbracciare una politica di deflazione salariale, di “sacrifici” in funzione della tenuta della lira e della ripresa dei processi accumulativi del capitale interno, volendone però fare base per una austerità virtuosa, era tanto idealistico quanto funzionale alla più pratica propensione opportunistica di gran parte dell'ascendente “ceto dirigente” seduto sul carro del Pci.

Idealistico perché supponeva di restringere all'ambito italiano tale politica, senza porre in essere alcuna misura di sganciamento del Paese dal sistema di dominio internazionale al quale apparteneva (e tuttora appartiene), e, per il fatto di dare in pegno i “sacrifici” operai e popolari, di indurre ad una “rigorosa” morale d'interesse nazionale una grande borghesia che, salvo poche eccezioni (Adriano Olivetti), ha dimostrato e dimostra tuttora di non averne alcuna.

Al contempo, la propensione opportunistica del “ceto dirigente” poggiava su una logica auto-referenziale, in base alla quale la garanzia di attuazione del programma di cambiamento era essenzialmente conferita alla diretta presenza del Partito (ovvero, in larga parte, allo stesso “ceto dirigente”) al governo e nella macchina dello Stato così come era, in quanto portatore ed agente non di un'altro sistema, bensì di peculiari qualità morali e tecnico-manageriali (gli “onesti e capaci”) risanatrici del medesimo.

Un inciso.

Dalla fine dei '60 ai '70, il movimento operaio si intrecciò con altri movimenti, alimentati dalla ribellione di studenti, giovani e dalle donne. Si vennero a saldare con la lotta antifascista contro lo stragismo e la “strategia della tensione” e con quella antimperialista, solidale con le lotte di liberazione nazionali del Terzo mondo (esemplare il sostegno al Vietnam). In contemporanea vi fu la conquista di basilari diritti civili, divorzio ed aborto innanzitutto, di cui si rese protagonista il movimento femminile.

Quando si discute della capacità del liberal liberalismo nei decenni successivi di inalberarsi a tutore delle libertà civili e personali, nel mentre affossava quelle sociali – il tutto ammantato dal “politicamente corretto” -, occorre indagare sui motivi per cui gli riuscì di separare i diversi fronti di lotta, contrapponendo alfine il civile al sociale e l'individuale al collettivo.


In effetti, dopo gli anni Settanta e passo dopo passo, divenuta zavorra ogni idealità comunista, il Pci sopravvisse nella sola veste di personale politico teso ad affermare se stesso e, nel 1989, alla Bolognina portò a compimento il percorso intrapreso.

La stessa vicenda che vide Aldo Moro lasciato a morire (e con lui il principale interlocutore politico del “compromesso storico”) pur di non accettare la trattativa e con ciò “riconoscere” come interlocutore le Brigate Rosse, si iscrive nella insopprimibile voglia di integrazione del “ceto dirigente” nei ranghi del potere costituito. Qualora non avesse adottato la linea della “fermezza” si pensò escluso dall'accettazione a pieno titolo al governo, nelle istituzioni nazionali e nelle alleanze internazionali, nonché alla direzione delle aziende a partecipazione statale ancora non smantellate.

Inclusione, come vedremo rispetto all'Europa, ritenuta prioritaria e dirimente rispetto allo sviluppo della lotta di classe e della democrazia nelle fabbriche e nel Paese, tanto da valerne il sacrificio.

Sennonché, impigliato nelle sue contraddizioni, il Pci si ritrovò a condividere proprio quella versione di austerità, regressiva e repressiva, antidemocratica, che inizialmente pure intendeva contrastare. Nel frattempo però si era consumata una frattura in seno alla base operaia e popolare che, volendo imporre la strategia austera (fallita), aveva compromesso sia il suo potenziale di lotta, sia il connesso sviluppo democratico. Le relazioni industriali del “magnifico strumento” sindacale si erano sganciate dalla “formazione del consenso” e dovevano passare sopra la volontà di lavoratori.

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MEMO (parzialissimo)

30 luglio 1976 – 13 marzo 1978
1° governo di solidarietà nazionale, monocolore DC guidato da Giulio Andreotti, con l'astensione del PCI.
13 marzo 1978 – 21 marzo 1979
2° governo di solidarietà nazionale guidato da Andreotti con l'astensione del PCI.
Ad eccezione degli assassini di Francesco Lorusso e di Aldo Moro e della strage di Bologna nell'elenco, assai parziale, non compaiono i numerosi fatti di sangue, dovuti a fascisti, “forze dell'ordine” (Francesco Cossiga agli Interni) e terrorismo di stampo bierrino.
15 gennaio 1977
Roma, Enrico Berlinguer lancia la politica dell'austerità.
26 gennaio 1977
Accordo interconfederale Carli-Lama.
2 Dicembre 1977
Sciopero generale proclamato dalla FLM ed imponente manifestazione a Roma di 200mila lavoratori.
17 febbraio 1977
Roma, “Cacciata di Lama” dall'Università.
11 marzo 1977
Bologna, divampa il Movimento del 1977 a seguito della uccisione di Francesco Lorusso da parte delle forze di polizia.
6 aprile 1977
Milano, assemblea al Lirico dei delegati dei Consigli di fabbrica contrari alla linea dei vertici confederali.
7 luglio 1977
Fiat, vittoria operaia nella “battaglia della mezz'ora”.
Accordo Fiat-FLM per la riduzione d'orario dei turnisti (la mezz'ora di refezione retribuita) e riapertura in Fiat delle assunzioni nel biennio 1978-1979.
23-24-25 settembre 1977
Bologna, convegno internazionale contro la repressione con l'appoggio di numerosi intellettuali.
16 marzo 1978
Roma, rapimento di Aldo Moro ed uccisione dei membri della sua scorta da parte delle Brigate Rosse.
14 febbraio 1978
Roma, svolta dell'Eur. I consigli generali di Cgil Cisl Uil pongono al centro della loro strategia le “compatibilità economico-sociali” ed il “contenimento salariale”.
9 maggio 1978
Roma, viene fatto ritrovare il cadavere di Aldo Moro.
13 dicembre 1978
Il governo ratifica l'adesione al Sistema Monetario Europeo (SME), non condivisa dal Psi e dal Pci.
8 ottobre 1979
La Fiat licenzia 61 lavoratori, collegando il ristabilimento dell'ordine interno alla lotta contro il terrorismo.
2 agosto 1980
Strage di Bologna.
11 settembre 1980
La Fiat annuncia il licenziamento di 14.469 lavoratori. In risposta l'assemblea dei delegati decide il presidio dei cancelli e lo sciopero ad oltranza.
14-15 ottobre 1980
Torino, “marcia dei quarantamila” a sostegno delle posizioni della Fiat. Nella notte tra il 14 ed il 15 di ottobre al Ministero del lavoro è raggiunto un accordo che sancisce di fatto la sconfitta della lotta dei “35 giorni”.

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1978: adesione allo SME

Quanto pesi l'affermarsi di quella prima austerità, rispetto a quella che seguirà nell'ordine europeo in costruzione, lo attesta la vicenda dell'adesione dell'Italia allo SME, il Sistema Monetario Europeo, un sistema di cambi fissi tra le monete comunitarie, babbo dell'euro.13

Il 12 dicembre 1978, in piena “solidarietà nazionale”, Andreotti annuncia l'adesione allo SME dal 1° gennaio del 1979, nonostante le perplessità “tecniche” del governatore della Banca d'Italia, Paolo Baffi, e l'avviso contrario del Pci e del Psi.

In parlamento Giorgio Napolitano, futuro presidente della Repubblica, dichiara:

«Inserendoci in quest’area, nella quale il marco e il governo tedesco hanno un peso di fondo, dovremo subire un apprezzamento della lira e un sostegno artificiale alla nostra moneta. Nonostante ci sia concesso un periodo di oscillazione al 6%, saremo costretti a intaccare l’attivo della bilancia dei pagamenti. Lo Sme determinerà una perdita di competitività dei nostri prodotti e un indebolirsi delle esportazioni. C’è un attendibile pericolo di ristagno economico.»

Detto esplicitamente con le parole dell'economista Luciano Barca, un altro dirigente apicale del Pci:

«Europa o non Europa questa resta la mascheratura di una politica di deflazione e di recessione anti operaia.»

Con l'adesione allo SME viene instaurato il famigerato “vincolo esterno”, perché si è fatta strada nel blocco dominante la convinzione che solo suo tramite, ossia rinunciando alla potestà monetaria e, conseguentemente all'autonomia nazionale nelle politiche economiche, si può tenere sotto scacco un Paese ritenuto “ingovernabile”.

Si evidenzia così una contraddizione in itinere.

La politica di deflazione salariale, esercitata nell'ambito nazionale e ritenuta necessaria per l'austerità virtuosa, diventa politica europea che, invece di favorire la “competitività dei nostri prodotti”, la indebolisce, obbligando a continuamente rincorrerla, ovvero a divenire strutturale, per servire un sistema monetario funzionale ad una gerarchica continentale in cui l'Italia è gregaria (e la nascente Unione europea coprotagonista della controrivoluzione liberal liberista su scala mondiale).

Per il ceto dirigente “onesto e capace” si prospetta dunque una scelta ineludibile: o rinunciare a venire integrato nel blocco di potere emergente a livello continentale, pur nella posizione subalterna di cui ha chiara consapevolezza, o sposare il modello di costruzione europea che deriva dall'adesione allo SME.

Nel giro di pochi anni, e prendendo a motivo la caduta del muro di Berlino, abbraccerà la prima opzione. Dati i presupposti, non poteva essere altrimenti.

Lelio Basso ed il primo articolo


O meglio, poteva essere altrimenti, qualora da un lato si fosse tenuto coniugato lo sviluppo delle lotte e delle conquiste operaie e popolari con l'allargamento della democrazia, a partire dai luoghi di lavoro e nella società – il che comportava tutt'altra politica rispetto a quella della “solidarietà nazionale” e della austerità -, e, dall'altro, si fosse affermata una diversa concezione della costruzione europea.

A ricordarci del politicamente “possibile” per sfuggire alle determinazioni dell'”inevitabile”, è Alessandro Visalli,14 quando riprende un intervento di Lelio Basso in un convegno sul Federalismo europeo tenutosi nel giugno del 1973.15

Basso ribadisce il motivo per cui, sollecitato a farlo dall'amica Ursula Colorni, non sottoscrisse il Manifesto di Ventotene.

«[...] nel Manifesto di Ventotene praticamente si diceva: “Lasciamo andare la battaglia entro i confini nazionali per la democrazia e per il socialismo e poniamo come compito prioritario quello del federalismo.”»

Al contrario Basso ritiene che la battaglia per la democrazia nei singoli paesi dovesse essere prioritaria rispetto ai fini federalisti. Per chiarire il suo punto di vista, chiama in causa l'articolo primo della Costituzione, in capo al quale situa una idea di sovranità carica di molteplici implicazioni.

Sostiene Lelio Basso:

«Nella Costituzione abbiamo scritto, nel primo articolo: “L’Italia è una Repubblica democratica”; poi abbiamo aggiunto quelle parole forse sovrabbondanti “fondata sul lavoro”; e poi abbiamo ancora affermato il concetto che la “sovranità appartiene al popolo”. Sembra una frase di stile e non lo è. Le costituzioni in genere hanno sempre detto “la sovranità emana dal popolo” “risiede nel popolo”; ma un’affermazione così rigorosa, come “la sovranità appartiene al popolo che la esercita” era una novità arditissima. Contro la concezione tedesca della “sovranità statale”, di quella francese della “sovranità nazionale”, noi abbiamo affermato la “sovranità popolare” quindi democratica. A questo tipo di sovranità io tengo. E allora, quando arrivano al parlamento i “regolamenti comunitari” e ci si dice “sono obbligatori” perché così prevede il Trattato di Roma, io reagisco.(...)»

A Basso non interessa la sovranità nazionale, ma tiene moltissimo a quella popolare, per cui “reagisce” all'assunzione obbligatoria dei regolamenti comunitari previsti dal Trattato di Roma.

È una posizione sulla quale riflettere.

Da un lato, la distinzione della concezione italiana rispetto a quelle francese e tedesca spiega il quadro concettuale in cui si muovono tuttora Francia e Germania. Ma, dall'altro e proprio a causa del predominio delle concezioni francesi e tedesche, non risolve la contraddizione tra l'invocato esercizio della sovranità popolare, dunque democratica, ed un'Europa che, procedendo nella costruzione “ademocratica”, diseguale e gerarchica - come confermeranno i successivi Trattati -, rende vieppiù necessario ricorrere alla sovranità nazionale in cui tale esercizio può concretamente avere luogo.

L'Europa attuale, retta dal governo dei governi, è tanto distante dall'affermazione della democrazia costituzionale (l'Unione neppure ha una sua Costituzione), quanto estranea alla partecipazione popolare alla sua edificazione.

Di conseguenza, quando pensiamo alla ripresa delle lotte sociali collegate allo sviluppo della democrazia – la coppia dimostratasi inseparabile -, è alla priorità della sovranità popolare, a cui subordinare quella nazionale e da cui quest'ultima trae la sua legittimità, che dobbiamo fare riferimento.

La perdita del “lavatoio pubblico”


Tra le diverse importanti osservazioni presenti in quel discorso spicca l'accenno alla “comunità”.

Secondo Basso:

«I rapporti in cui viviamo sono anonimi, ognuno è depauperato della sua personalità.»

Ed ancora, riporta il caso studiato della perdita del “lavatoio pubblico”, dove

«si scambiano le opinioni, il luogo dove la donna trovava la sua vita comunitaria. (…) L'introduzione del rubinetto nelle case e l'abolizione del lavatoio pubblico ha creato dei drammi veramente enormi nella psicologia femminile; è stato strappato un pezzo di vita comunitaria. Oggi questa vita comunitaria si è ridotta a brandelli. Allora eccoci alla ricerca di qualche elemento comunitario che ci leghi: e si ricerca nella lingua.»

Parlava del nostro Meridione come avrebbe potuto dire dei “Paesi sottosviluppati”, materia di cui fu docente all'Università di Roma. Già allora si affacciava la ricerca nella lingua di elementi comunitari.

A quali conclusioni dovremmo giungere, in presenza della colonizzazione linguistica attuale?

Di contro, quando i lavoratori trovavano nelle fabbriche il luogo fisico della socialità in cui riconoscersi nella comune esperienza di lavoro e vita, rispondevano ad una esigenza vitale, animata nella loro comunità. Essa era insieme principio di lotta e sua finalità, poiché si organizzava in opposizione al principio della proprietà, investendo l'insieme dell'assetto politico-sociale.

Oggigiorno siamo assaliti da un ulteriore processo di disgregazione sociale, sulla scorta delle nuove tecnologie di comunicazione a distanza (il nostro “rubinetto nelle case”), avendo sperimentato tutti i perniciosi effetti dell'inglorioso quarantennio liberal liberista. Ivi compresa la dura prova, ancora in corso, della pandemia che ha però ribadito il profondo nostro essere sociale, in cui vive la personalità di ciascuno.

In essa si comprende quanto le vantate “eccellenze” ospedaliere abbiano nascosto la mancanza di strutture territoriali diffuse e di base, della medicina sociale di prossimità e prevenzione. Si dovrà altresì riconoscere che nello stesso sviluppo capitalistico globalizzato, nelle sue modalità produttive, si viene a situare, a causa della distruzione della natura e dell'habitat che tutti ci congiunge nel “mosaico della vita”, la reiterata proliferazione di agenti micro-patogeni portatori di morte.

Mentre la scienza dovrà abbracciare un nuovo paradigma, se vuole combattere le malattie pandemiche guarendo dalla propria, senza una nuova socialità conflittuale saremo condannati a mille quarantene e ad altrettanti vaccini salvifici nell'illusione di poterne uscire.

Note

1 Vedi il Post “Il caso dei fattorini in bicicletta” - ottobre 2020.

2 L'accordo venne tradotto in legge (n. 91, 31 marzo 1977), dando seguito al decreto governativo del 1° febbraio.

3 Si trattava di una opposizione che, rompendo vecchi steccati, univa operai, tecnici ed impiegati amministrativi.

4 Riprodotto in dimensioni da consentire la lettura del lungo elenco dei partecipanti.

5 Parlo per esperienza diretta, da partecipante a quel movimento.

6 Anche in questo caso, per rendersi conto del fenomeno, è utile sfogliare l'archivio di “Lotta continua” messo a disposizione in rete dalla Fondazione Erri De Luca.

7 La battaglia è raccontata in una recente intervista da Luciano Pregolato. http://www.lab-lps.org/post/?p=790.

8 Le note “tribolazioni di coscienza” di Bruno Trentin non gli impedirono, in veste di segretario della Cgil, di firmare gli accordi di abolizione della scala mobile col governo Amato (luglio 1992) e con il governo Ciampi per la “politica dei redditi” (luglio 1993).

9 Nel Post “Anno austero 1977” - dicembre 2014 – racconto di una intervista rilasciata a Miriam Mafai di “La Repubblica” dal Comitato promotore dell'opposizione operaia della Sit-Siemens, alla quale partecipai. L'intervista faceva parte di una inchiesta condotta da Mafai in diverse fabbriche in cui si manifestava il “disagio della base”. Mafai fu cofondatrice di “La Repubblica” e per de- cenni compagna di Giancarlo Pajetta, storico esponente del Pci.

10 La bomba la misero i fascisti, pagati dalla P2 e con la partecipazione dei servizi segreti, ufficialmente “deviati”, ma in realtà agenti nella dinamica fascistizzante del “doppio Stato”.

Vedi anche Mimmo Porcaro, “I senza Patria”, Meltemi, 2020, da posizione 833 della edizione Kindle.

11 Vedi Alessandro Visalli, “Dipendenza – Capitalismo e transizione multipolare”, Meltemi, 2020, capitolo V (pagg. 237-306).

12 Alessandro Visalli, ibidem, pag. 277.

13 Vedi Marco Palombi,

https://www.ilfattoquotidiano.it/2014/05/19/eurozona-quando-giorgio-napolitano-era-contro-la-moneta-unica/987141/

14 Alessandro Visalli,

https://tempofertile.blogspot.it/2017/04/lelio-basso-consensi-e-riserve-sul.html]

15 http://leliobasso.it/documento.aspx?id=3eebf37bae1661-b05964469776f188016