mercoledì 29 aprile 2015

Asia: investimenti ed egemonie

Messe a fuoco

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Si manifesta un'avversione statunitense per gli investimenti, promossi dalla Cina, nello sviluppo delle infrastrutture in Asia. Crisi e preferenze finanziarie. Storie dell'Estremo Oriente ed egemonismi. Cina e Pakistan. Surplus esportativi e multilateralismo.

Un articolo di Joseph Stiglitz, opportunamente segnalatomi da Paolo, dal significativo titolo “Il multilateralismo aiuta lo sviluppo”1, induce ad alcune considerazioni per comprendere la logica finanziaria e il nesso tra egemonismo Usa e Paesi emergenti in Asia. Prendendo in esame storia e fatti recenti, nonché altri “contributi” all'analisi, si può ottenere un quadro delle tendenze in atto.

Un apparente paradosso
Stiglitz ritiene “paradossale” l'avversione degli Stati Uniti alla Asian infrastructure investiment bank (Aiib)2nata su proposta cinese per le finalità implicite nel nome. Poi, non essendo un ingenuo, ammette che l'atteggiamento appartiene alla logica egemonica, contraria ad un possibile mondo multipolare. Anni fa, gli Usa contrastarono un analogo tentativo giapponese.
Gli Usa sono di principio per la libertà economica sino a quando torna loro comodo e non ritengono di essere “minacciati” nel loro ruolo, ragione che sopravanza ogni dichiarazione di principio. L'ipocrisia è un tratto costante dei signori di Washington.
A parte l'eccessivo ottimismo3 del premio Nobel 2001 sul rispetto dei criteri ambientali e sociali di simili iniziative per il solo fatto di essere pluripartecipate, l'Aiib è una buona iniziativa che spinge verso un mondo multipolare. Noto che vi hanno aderito i Paesi europei già nel novero del G7 e non l'Unione.
Nel prosieguo, l'articolo punta il dito sul supposto “eccesso globale di risparmio” (Ben Bernanke), sostenendo criticamente:
«Il problema non è il surplus di risparmio o la mancanza di buone opportunità di investimento, ma un sistema finanziario che eccelle nella manipolazione dei mercati e nella speculazione ma che ha fallito nel suo compito fondamentale: coordinare il risparmio e l'investimento a livello globale.»
Per dirla con Amato e Fantacci4: la finanza non rispetta i suoi fini e ad essi andrebbe ricondotta.
E se la sua intima natura fosse proprio quella di ricondursi sempre a se stessa, di autoalimentarsi a dispetto e detrimento della cosiddetta “economia reale”?
D'altro canto, come interpretare le prolungate enormi iniezioni di liquidità della Fed, a cui recentemente si è accodata la Bce5, le quali invece di “sollevare tutte le barche”, contribuiscono piuttosto a corroborare borse, assets finanziari e speculazione?
Basic instincts finanziari
Bisogna ammettere che gli investimenti finanziari sono molto più remunerativi di quelli nelle produzioni di beni e servizi, ai quali si sovrappongono con una tecnica paragonabile a quella adottata per estrarre metano tramite fratturazione idraulica sotterranea.6 (La sequenza è analoga: perforazione; potente iniezione di liquidi nel sottosuolo; fratturazione delle rocce; estrazione del gas “liberato”).
Tra i due tipi di investimento corre, secondo stime internazionali, una differenza di ben 10 punti percentuali di profittabilità.
Questa è la ragione vera per cui gli impieghi del “surplus di risparmio” non si dirigono verso la cosiddetta “economia reale” o, quando accade, seguono strette logiche finanziarie e producono effetti nel tempo piuttosto distruttivi. Come il fracking lo produce per l'ambiente. Basti ricordare a quali processi ristrutturativi vengono sottoposte le aziende su cui mette le mani la finanza.
Di converso, il decremento degli investimenti nella base economica deprime a sua volta i consumi interni, per mancanza della correlata occupazione e dei connessi salari spendibili, e il cane si morde la coda. Un fenomeno particolarmente evidente in Eurozona.
Del fenomeno da anni ampiamente conosciuto, si è resa conto persino la Banca dei regolamenti internazionali di Basilea, la quale, per bocca del suo capo ufficio studi, arriva alla sintesi: «la crescita del settore finanziario coincide, nei paesi sviluppati, con una diminuzione del tasso di crescita dell'economia reale.» Meglio tardi che mai...
A tale proposito appaiono assai interessanti le osservazioni del professor De Cecco, apparse in un recente articolo [vedi riquadro dedicato].
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Troppa finanza divora l'economia

«La finanziarizzazione eccessiva è ora deprecata anche da coloro che avevano, in passato, creduto nello sviluppo virtuoso delle strutture finanziarie» (…)
«A causa delle liberalizzazioni delle attività finanziarie, effettuate per attrarre capitali sufficienti a riequilibrare i conti esteri messi in crisi dall'aumento dei prezzi del petrolio, l'oligopolio finanziario internazionale che si è formato ha potuto fissare i prezzi dei suoi servizi e sottrarre, per la maggiore redditività che riesce così a esprimere, sia risorse finanziarie a chi, come molte attività industriali, riesce a remunerarle meno, sia risorse umane di maggior valore, perché riesce a pagarle meglio. Nei settori non finanziari, i manager pagati meglio non sono più quelli addetti alla ricerca o alla organizzazione della produzione, ma quelli che fanno da interfaccia alle istituzioni finanziarie e cercano di ottenere condizioni più favorevoli per le risorse che devono investire. O quelli che all'interno delle imprese, “fanno finanza”, ad esempio nelle divisioni delle medesime che si dedicano ad attività di ricerca ed allocazione di risorse finanziarie tramite i mercati » (…)
« (...) uno studio di Steven Cecchetti, [ndr: capo dell'ufficio studi della Banca dei regolamenti internazionali di Basilea] (…) sostiene che la crescita del settore finanziario coincide, nei paesi sviluppati, con una diminuzione del tasso di crescita dell'economia reale. Il motivo, secondo lo studio citato, è che il settore finanziario, per espandersi velocemente, e anche per diminuire i rischi, concede crediti ai settori più patrimonializzati dell'economia reale. Ad esse risulta più facile l'uso del patrimonio come collaterale dei presiti. Tali settori sono caratterizzati da bassa crescita della produttività e da elevata capitalizzazione. Cecchetti ha in mente innanzitutto il settore dell'edilizia (...)» (…)
«Comunque la si voglia guardare, la crisi attuale ha riportato in auge le opinioni di coloro che vedono l'economia reale assediata e spesso espugnata da una classe di capitalisti finanziari che prevale su quella degli imprenditori industriali e commerciali.
Vengono quindi alla mente le grandi visioni dello sviluppo capitalistico internazionale, come quelle di Fernand Braudel o del suo ammiratore e discepolo Giovanni Arrighi. La dinamica degli spostamenti dei centri del potere economico internazionale (…) Negli ultimi anni sarebbe addirittura responsabile del trasferimento dell'egemonia verso Oriente (…).» (…)
«Ma è una innovazione [finanziaria] che ha come scopo una sottrazione sempre maggiore del potere finanziario al controllo degli Stati per la maggiore fluidità delle risorse finanziarie, cioè della loro capacità di muoversi tra Stati diversi.» (…)

Estratti dall'omonimo articolo di Marcello De Cecco
La Repubblica Affari & Finanza (30/03/2015).
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Finanza troppa?
Si potrebbe ritenere tale se, come gli storici moralisti a cui accenna Braudel [vedi riquadro dedicato], rappresentassimo la propensione finanziaria come una sorta di esagerazione (troppa!) e non come una evoluzione e, al contempo, una scelta obbligata. Agli albori degli anni Ottanta, quando Thatcher e Reagan decisero di liberalizzare le attività finanziarie, in relazione alla delocalizzazione delle produzioni verso i Paesi che potevano offrire più ampi margini di profitti, il mondo capitalistico atlantico-occidentale tentava una via d'uscita dalla propria crisi sistemica di accumulazione.
I contesti e specialmente i tempi di svolgimento definiscono crisi diverse tra loro. Distinguerli è dirimente, almeno nell'analisi.
Il crack del 2007-2008 ha mostrato l'incepparsi per via endogena della finanziarizzazione, ossia del meccanismo messo in atto quasi trent'anni prima. Pur in quadro di sostanziale stagnazione a cui molti sembrano rassegnati, tutto lascia supporre che tale meccanismo sia in via di sostanziale ripristino, con poche marginali correzioni, riassestando nel tempo breve il potere delle relative oligarchie (ed esponendosi a nuovi repentini crolli).
Non altrettanto può essere detto della crisi sistemica di più lunga durata, giacché essa investe problemi strutturali.
Da un lato si inaspriscono le tre grandi contraddizioni, in ordine: 1) la crisi di accumulazione nell'economia produttiva reale; 2) la crisi energetico-ambientale; 3) la crisi delle società contadine.7 Temi qui introdotti in altri articoli, in particolare sulla relazione tra espulsione dalle campagne e flussi migratori.
Dall'altro si rafforza la tendenza complessiva, di medio periodo, al trasferimento del centro (per usare il linguaggio di Braudel ripreso da Da Cecco) del sistema da Ovest a Est, in Asia. Un passaggio, questo ultimo, che implica sia una rigenerazione, sia forti mutamenti soprattutto negli assetti egemonici planetari.
Nella visione dello storico francese della lunga durata, la finanziarizzazione di un determinato sistema-mondo coincide con la sua fase calante. Nel caso in esame, in quanto “segnale d'autunno” di un'area con un centro, non significa necessariamente inizio della fine del capitalismo in quanto sistema, ma il trasferimento del suo baricentro.
Allorché, tra le due guerre mondiali ed in particolare dopo di esse, il centro si trasferì dal Regno Unito-Londra agli Stati Uniti-New York, si trattò di una dislocazione con un forte carattere di continuità, quasi ereditario. Rilevante l'appartenenza ad una storia e ad una cultura comuni.
Non altrettanto si potrebbe asserire di quello in corso tra le due sponde del Pacifico, destinazione Cina-Shanghai.
Pertanto, occorre ben comprendere il contesto storico ed il ruolo degli Stati.
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Segnale d'autunno
«Questa spinta finanziaria rappresenta l'aberrazione di cui parlano gli storici moralisti? Non è un'evoluzione normale? Già nella seconda metà del secolo XVI, altro periodo di sovrabbondanza di capitali, Genova aveva percorso la stessa strada: i “nobili vecchi”, prestatori accreditati del re Cattolico, avevano finito con l'allontanarsi dal commercio attivo. Il tutto viene presentato come se, nel ripetere tale esperienza, Amsterdam avesse lasciato il certo per l'incerto, il mai lodato abbastanza “commercio di deposito” per la china delle rendite speculative, dando buon gioco a Londra e addirittura finanziando l'ascesa della rivale. È vero, ma c'è da chiedersi se avesse alternative, o se le avesse la ricca Italia della fine del Cinquecento; se a quest'ultima si fosse prospettata la possibilità, o un'ombra di possibilità, di arrestare l'ascesa del Nord. Ciò non toglie che l'evoluzione complessiva di tale ordine sembri annunciare, con lo stadio di rigoglio finanziario, una sorta di maturità; è il segnale dell'autunno.»

Fernand Braudel, Civiltà materiale, economia e capitalismo (secoli XV-XVIII), Vol. 3°, I tempi del mondo, Einaudi, 1982 (1979), pagg. 234-35.
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Cinquecento anni
I cinesi non ritengono la storia e la geografia materie secondarie.
«Nel momento in cui Vasco da Gama entrò nell'Oceano Indiano nel 1498, il principio per cui i mari erano zona di commercio pacifico fu immediatamente eliminato. Le flottiglie portoghesi iniziarono a bombardare e saccheggiare ogni porto che arrivava loro a tiro, prendendo poi il controllo di punti strategici (…).»8
Su un mondo assai più sviluppato, ricco e popolato, eppure militarmente impreparato, un piccolo Stato europeo prevalse con la forza dei cannoni delle proprie navi militar-mercantili. Successivamente, con l'arrivo degli olandesi e ancor più dell'Inghilterra, vennero imposte una rapina allargata e un sottosviluppo plurisecolare, inibendo una crescita industriale già bene avviata (e misconosciuta) da cui solo ora i Paesi dell'area stanno emergendo.
L'Europa era “mostruoso attrezzo” (sempre Braudel), basato sulla simbiosi tra mercanti, banchieri e politica, tra affari e apparato militare degli Stati. Con le sue galee, ad un tempo mercantili e militari, del sistema fu antesignana la Repubblica di Venezia, il suo arsenale, l'affermarsi del suo proto-colonialismo nel Mediterraneo.
L'Europa espresse un eccezionale carico di aggressività concentrata ed espansiva, sì da consentirle di depredare un intero mondo. E anche a piccoli Stati, come il Portogallo ed il Belgio, di appropriarsi di enormi risorse soggiogando Paesi e popoli di “taglia” ben superiore alla loro.
Egemonismo
Pertanto, dati i precedenti storici, non può suscitare meraviglia che la Cina (Liaoning, prima porta-aerei cinese, settembre 2012), seguita dall'India (prima porta-aerei indiana, agosto 2013) si armino per proteggere le rotte marittime ed il passaggio negli stretti. Seppure i due Paesi asiatici (appartenenti al BRIC insieme a Brasile e Russia) siano in qualche modo rivali, da quali eventuali blocchi aereo-navali dovrebbero proteggersi?
C'è una sola potenza planetaria in grado di costituire una minaccia.
Nemmeno desti sorpresa che gli investimenti infrastrutturali della Cina, forte della citata Aiib, si dirigano verso il rinnovo delle antiche vie terrestri. L'alleanza9 con il Pakistan consente alla Cina di non dover dipendere dal passaggio nello stretto di Malacca per raggiungere il mare arabico e, da lì, il golfo persico, il canale di Suez e le coste africane orientali.
Nella seconda metà d'aprile ha sollevato clamore la visita del presidente cinese Xi Jinping in Pakistan, che ha presentato un piano di investimenti infrastrutturali per 46 miliardi di dollari. Si è discusso del Corridoio economico Cina-Pakistan (Cpec), per collegare la città di Gwadar, nel sud del Pakistan, con la regione del Xinjiang, nell’ovest della Cina [vedi carta geografica dedicata]. Una rete di strade, ferrovie e soprattutto impianti per l’energia saranno costruiti su un territorio di circa tremila chilometri. «Con questo piano Pechino spera di espandere la sua influenza in Asia centrale e meridionale, mentre per Islamabad si apre la possibilità di rafforzare l’economia e risolvere il problema della mancanza di energia.»10
Certamente il futuro svolgimento dei rapporti tra Cina e Stati Uniti non può essere ridotto all'intreccio, qui evocato, tra investimenti ed egemonismo.
Tuttavia, dobbiamo prendere atto che, in mancanza di soluzioni alternative, coordinate e ben dotate di risorse, non a caso provvede la finanza di Stato, o meglio di alcuni Stati. Sicché la massa di dollari per surplus esportativi accumulati, a suo tempo dal Giappone e in anni più recenti dalla Cina, alla base dei noti imbalances11 negli scambi internazionali proprio con gli Usa, viene, anche se solo in parte, diretta verso gli investimenti in infrastrutture del continente asiatico, veicolo keynesiano di crescita più complessiva.
Sotto ogni punto di vista, gli Usa hanno le loro buone ragioni per opporvisi, contrastando insieme multilateralismo e sviluppo.

1 Internazionale, 17 aprile 2015
2 Banca asiatica d'investimento infrastrutturale.
3 Qualche indizio positivo dalla Cina viene. Secondo la Iea (International Energy Agency) nel 2014 il consumo di carbone cinese è calato del 2,9% e, nel contempo, Pechino ha ridotto l'intensità energetica della sua economia, ossia il rapporto tra consumi e Pil, del 4,8%, quasi un punto in percentuale di più del suo target. La Cina è responsabile del 30% delle emissioni mondiali di CO2. [Elena Comelli, Corriere Economia, 20 aprile 2015].
4 M. Amato e L. Fantacci, Fine della Finanza, Donzelli, 2009.
5 Quantitative Easing.
6 La tecnica è detta “fracking shale gas”.
7 Samir Amin, 20/02/2015, http://ndukur.com/crise-financiere-crise-systemique/.
8 David Graeber, Debito, il Saggiatore, 2012 (2011), pag. 302.
9 La Cina è da alcuni anni il primo partner commerciale del Pakistan che, a marzo, ha acquistato otto sottomarini dalla Cina, diventandone il maggiore cliente d'armi.
10 http://www.internazionale.it/notizie/2015/04/20/cina-pakistan-investimenti-46-miliardi.
11 Squilibri.

lunedì 27 aprile 2015

Palude

Riccardo Bernini - aprile 2015

Gramigna  Pianta infestante. Può essere usata a scopi terapeutici

Palude

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(ANSA) - ROMA, 21 APR - "Da anni diciamo che è una priorità cambiare la legge elettorale. Fermarsi oggi significherebbe consegnare l'intera classe politica alla palude e dire che anche noi siamo uguali a tutti quelli che in questi anni si sono fermati prima del traguardo. Ma no, noi non siamo così". Così Matteo Renzi su Facebook: "Avanti, su tutto!", afferma.

In una frase c'è tutto il verbo renziano: il cambiamento, a prescindere dai contenuti; l'urgenza pratica, per non fare come i predecessori (rottamati?); infine, la minacciosa alternativa: consegnare l'intera classe politica alla “palude”. Dio non voglia una simile sciagura!
Senonché, alla parola “palude” ho avuto un improvviso amarcord.
Rivoluzione francese: Convenzione Nazionale (20 Settembre 1792 - 26 Ottobre 1795).
Negli anni precedenti, all'interno del Terzo Stato nell'Assemblea costituente si erano venute differenziando posizioni che, in relazione ai posti occupati rispetto al presidente dell'assemblea, furono definite di “destra” e di “sinistra”. Alla successiva Assemblea Legislativa venne alla luce il “centro”. A quest'ultimo, proprio nella Convenzione, fu poi dato l'appellativo di “palude”. Motivo? Per la propensione dei delegati di quell'area ad assecondare il potente di turno, con tutto l'opportunismo ed il trasformismo necessario al nobile scopo.
In questa legislatura sono ormai numerosi i “traslochi” di singoli e gruppi, attratti dalla confortevole gravità del “centro” governativo. Su tutti primeggia quello “invisibile” all'interno del PD, dalla corrente di Bersani, in cui furono nominati ed eletti, a quella di Renzi.
Sicché, se per adesione alla “palude” s'intende la propensione trasformistica a salire sul carro del vincitore, è proprio nella maggioranza parlamentare che va individuata. Qualsiasi sia la critica agli oppositori, bersaniani o meno, certo non può venire loro attribuito il tradimento degli impegni presi in campagna elettorale e la conversione verso la “palude” del “centro” governativo.
Eppure, rovesciando ancora una volta il significato delle parole, Renzi etichetta proprio costoro di essere la “palude” in cui verrebbero ad impantanarsi i troppo a lungo attesi cambiamenti, di cui egli, extra-parlamentare (!), si fa pragmatico portatore.
Se non fosse che da Berlusconi in poi la politica istituzionale è diventata, emulando l'economia, una specie di marketing commerciale, per cui alla costruzione di un qualsivoglia progetto o programma viene preferita la somma di quote di mercato, da ottenere blandendo preconcetti e ammiccando “a tutto campo”, si potrebbe gridare ad una stupefacente novità.
Dobbiamo comunque ammettere che se era difficile orientarsi seguendo le tradizionali lateralizzazioni di “destra” e “sinistra”, ora abbiamo ben chiaro cosa s'intenda per “centro”, un luogo di potere in cui chiamare a raccolta tutto il meglio della nostra politica e unirla (finalmente!) in una grande partito della Nazione.

Peccato che la “Nazione”, quella democratica e sovrana, nel frattempo sia scomparsa. Se “lo vuole l'Europa”... ci resterà, in sua vece, il nazionalismo che “affonda i barconi prima che prendano il largo”...

lunedì 13 aprile 2015

Il cavillo rivelatore

Riccardo Bernini - aprile 2015

Gramigna  Pianta infestante. Può essere usata a scopi terapeutici.

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Vincenzo Visco1 è piuttosto preoccupato dall'emergere di posizioni contrarie all'euro. Passi per i “partiti populisti”, associati a “nazionalisti e xenofobi” (nella vulgata serve a mettere nello stesso sacco M5S, Lega e Casa Pound). Ma ora “anche a sinistra vi sono voci critiche sempre meno isolate.” Se poi “persone come Michele Salvati o Salvatore Biasco, protagonisti dello sforzo per l’ingresso dell’Italia nella moneta unica fin dall’inizio, oggi dicono che entrare fu un errore”, forse è il caso di intervenire2 per ricordare a tutti “la storia di successo” della moneta unica e rinfrescare gli argomenti a suo sostegno. Magari aprendo un dibattito sul sito “economiaepolitica.it”.
Purtroppo, per lui, sono finiti i tempi dei commenti compiacenti o della diffusa ignoranza dei problemi macro-economici: la crisi prolungata ha allungato in profondità lo sguardo critico e rimesso in forse parecchie certezze.
Di conseguenza, aperto il dibattito, sul sito piovono critiche.3
In particolare, viene preso di mira il vantato “successo” della moneta unica.
Giovanni Zibordi, dopo aver constatato che l'Italia, dal 1992, sui titoli di Stato ha pagato per interessi enormi somme e più di ogni altro Paese in Europa, conclude perentorio:
Per la speculazione internazionale (…) Questi enormi guadagni sono stati consentiti dall’aumento costante delle tasse sugli italiani. Perché il presupposto di queste enorme scommessa degli investitori esteri con i nostri titoli a tasso fisso è stato l’impegno formale dello stato italiano, dal trattato di Maastricht nel 1992 al Fiscal Compact del 2012, a mantenere sempre un “surplus di bilancio primario”. Cioè da più di venti anni lo stato italiano incassa di tasse di più di quello che spende. E deve continuare a farlo in eterno (è stato iscritto anche nella Costituzione nel 2011) perché gli investitori esteri continuino a comprare BTP…
Sicuro… L’Euro è stato un successo… per il mondo finanziario internazionale.”
Per una volta la questione fiscale non viene posta sul lato della lotta all'evasione, ma su quello del trasferimento, mediante sistema-euro, di una montagna di imposte dalle tasche degli italiani (ovvero, in prevalenza, dei lavoratori) alle tasche della finanza internazionale. Eh, i fatti sono fatti...
Tuttavia, la perla nell'articolo di Visco, il quale, en passant, preconizza un nuovo Piano Marshall per l'Europa (come se ricorressero le medesime condizioni storiche che lo resero possibile), è in una velenosa noticella.
Quelli che vogliono fare a meno dell'euro, la fanno troppo facile! “Sfortunatamente la realtà è un po' più complessa.” Sicché, prima di citare il noto vincolo di copertura, in euro sotto diritto estero, della quota italiana del debito emesso dalla BCE con il recente Quantitative Easing4, ne rammenta uno ulteriore, sottoscritto nel 2012 in occasione della costituzione dell'ESM5, in forza del quale ”una eventuale trasformazione in altra valuta delle emissioni di titoli pubblici in euro di durata superiore ai 12 mesi, [potrebbe] essere impedita da una minoranza di detentori pari al 25% dei sottoscrittori”.
Sfortunatamente” il governo Monti, a cui si deve quella esiziale sottoscrizione, godeva di un appoggio parlamentare amplissimo, tra cui quello del partito di Vincenzo Visco...
Ma dal popolo di internet, invece della bandiera bianca di resa, si alza, sotto pseudonimo, una ben argomentata accusa:
L’alto debito pubblico era una ragione in più per non andarlo a ridenominare in moneta di cui non si ha il controllo, perché ciò introduce una vulnerabilità fatale nel debito, che non è più difeso dalla propria banca centrale nazionale. Questo ha messo, nel 2011-12 l’Italia alla mercé del panico dei mercati e prima ancora dei falchi della BCE e della Germania: l’Italia non è solo finita sull’orlo del default *a causa dell’euro*, ma soprattutto a una sostanziale perdita di sovranità democratica (e il cavillo dell’ESM sulle clausole del debito è l’ennesima riprova di questo).”
Eccoci al punto!
Nel ristretto cerchio magico dell'euro-sistema e all'insaputa della stragrande maggioranza degli italiani, è stato inserito un cavillo, l'ennesimo, per noi rivelatore di un peculiare metodo di governo delle élites dirigenti italiano-europee in questi ultimi decenni.
Nel metodo si manifesta lo scopo.
Sottrarre sovranità democratica e potere ai popoli (da noi tutto cominciò con il “divorzio all'italiana” tra Tesoro e Banca d'Italia, voluto da Andreatta contro la scala mobile6) e ai Paesi, a vantaggio della finanza internazionale e delle oligarchie politico-economiche europee, che hanno adottato la moneta unica per sfruttare disparità e dicotomie, generando surplus esportativi e l'infinita catena del debito.
Tuttavia, i ragionamenti di Visco inducono ad una ulteriore considerazione, apparentemente paradossale: proprio i vincoli, cavilli compresi, consegnati dalle élites italiane nelle mani dei costituiti poteri continentali, loro consentono di dettare agenda e riforme distruttive della nostra economia, delle economie periferiche e delle condizioni di vita-lavoro delle masse popolari europee.
A dispetto delle istanze riformistiche (“qui ci vuole un piano Marshall!”) di chi questo potere glielo ha scientemente devoluto, nell'intento di farne parte per poi diventarne patetico subalterno.

1 È stato ministro delle Finanze dal 1996 al 2000 (governi: Prodi I, D'Alema II); lo era stato per pochi giorni nel 1993 (governo Ciampi); ministro del Tesoro e del Bilancio dal 2000 al 2001 (governo Amato II) e vice ministro dell'Economia con delega alle Finanze dal 2006 al 2008 (governo Prodi II).
2 Vincenzo Visco, Fuori dall'Euro?, 23 marzo 2015; http: //www.economiaepolitica.it/europa-e-mondo/fuori-dalleuro/
3 Sono riportate in calce all'articolo di Visco, all'indirizzo di cui sopra.
4 Su questo Blog: “Eurozona in semestre greco”, 01/2015, pag. 1.
5 ESM: European Stabilty Mechanism, Meccanismo Europeo di Stabilità, detto anche Fondo salva Stati.
6 Su questo Blog: “La corda del debito e il nodo scorsoio”, 02/2015, pagg. 2-3.

giovedì 9 aprile 2015

Le conseguenze della Grecia

Riccardo Bernini - marzo 2015
Messe a fuoco
Le conseguenze della Grecia

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L'andamento delle trattative tra Grecia e Troika suscitano discordanti giudizi. Importa capire i punti reali del contendere e quale la posta in gioco. È coinvolto l'intero assetto dell'Eurozona. Anche per la politica italiana le scelte si fanno discriminanti.
  È assodato che occorrerà attendere pressapoco la fine di giugno per comprendere appieno quale sbocco avrà il difficile rapporto tra la Grecia e l'Eurozona. Sono ancora in corso le ultime “limature” all'accordo del 20 febbraio...
Quando si chiuderà il “semestre greco”, tuttavia, l'Europa non sarà politicamente più la stessa. Già ora non lo è più.
Focalizzare alcune analisi e prese di posizione ci aiuterà a capire il perché.
Vittoria o sconfitta?
Pur ingenerando opposte reazioni, di soddisfazione o di sconforto, tra la fine di febbraio e gli inizi di marzo nei commenti giornalistici è prevalsa la valutazione che la Grecia, dal confronto con i propri arcigni creditori, sia uscita sconfitta, giacché, secondo questo punto di vista, del programma di Syriza non è rimasto che un tempo guadagnato di quattro mesi, sino all'estate.
Il tandem Tsipras-Varoufakis ha dovuto rinunciare ad alcuni punti essenziali delle promesse fatte in campagna elettorale, tra cui spicca la ristrutturazione del debito, subendo i ricatti della Troika1, comunque la si ridenomini, che pretende i soliti “compiti a casa” per allargare i cordoni della borsa (mantenendo il cappio del debito) e prestare la liquidità necessaria alla Grecia in seria difficoltà. Sicché le privatizzazioni già concordate dal precedente governo Samaras sono state confermate, il mercato del lavoro non è stato ristrutturato per ridare dignità ai lavoratori e il programma si è concentrato sul recupero dell'evasione fiscale. L'austerità non ha subito l'attesa sconfitta.
Con un parere discordante, l'economista Nobel Paul Krugman sostiene, invece, che, senza disconoscere i punti di arresto, la Grecia un certo successo lo ha conseguito.
«Per la Grecia gestire comunque un qualche avanzo – data la crisi al livello di una depressione nella quale si trova e l’effetto di quella depressione sulle entrate – è una conquista considerevole, il risultato di sacrifici incredibili. Nondimeno, Syriza ha sempre avuto chiaro che intende continuare a gestire un modesto avanzo primario.2 Se siete arrabbiati per il fatto che i negoziati non abbiano offerto spazio ad un rovesciamento completo dell’austerità, ad una svolta verso stimoli fiscali di tipo keynesiano, non avete prestato attenzione.»3
Pertanto, restandogli oscuro il motivo per il quale raccogliere le tasse sarebbe un controsenso per un governo di sinistra, conclude che, almeno temporaneamente, non c'è stata débâcle e l'azione greca ha provocato un certo «sussulto di ragionevolezza»4 a beneficio del resto dell'Europa. Più avanti si vedrà.
Motivati giudizi
A determinare i diversi pareri sulla vicenda contribuiscono certamente le diverse aspettative, correlate alle visioni strategiche. Sottendono, e non poteva essere altrimenti, forti interessi di parte.
Krugman riflette il punto di vista di Washington sulla crisi europea? Così parrebbe, considerando la famosa telefonata di Obama a Tsipras e la frase detta alla Merkel.5 L'interesse statunitense consisterebbe nello sbloccare la rigidità europea senza sconquassare un così importante partner del TTIP,6 aggiungendo nuove criticità, per giunta in una tribolata fase di ripresa economica, ad un quadrante strategico già denso di problemi.
Cosa importa veramente agli Stati Uniti?
Si prenda, ad esempio, la scelta di Atene applaudita da Krugman, di puntare su una esazione fiscale finalmente “efficiente”.
Se la tassazione dei finora esenti armatori ellenici a tutti appare come il minimo perseguibile, non sfugge ai più attenti osservatori che contrastare il “nero” per una parte della popolazione greca equivale a erodere un margine vitale, di sopravvivenza, e, al contempo, a rompere la base di consenso sociale verso Syriza.7 Del resto, anche in Italia viviamo in una costante voluta confusione tra grande evasione o, se preferite, “elusione”, e forzata evasione di fasce di lavoro autonomo marginalizzate e sospinte verso la soglia della povertà.
Per la Casa Bianca è molto più importante che l'Europa stipuli un accordo di TTIP, parte della propria strategia d'egemonia globale. A questo proposito si noti che, a differenza dell'altro Nobel, Joseph Stiglitz, al quale il TTIP appare tutt'altro che rivolto al “libero commercio” visto il ruolo delle multinazionali, l'obamiano Krugman trova difficoltà ad andare oltre qualche scetticismo di fronte a quanto si va stipulando nel segreto di quelle trattative tra civili potenze atlantiche...
Non sorprenda neppure la visione che del contenzioso greco-europeo nutre l'altra sponda della Manica, volta a calcare maggiormente la mano sulla insostenibilità dell'euro. Al netto di tutte le motivazioni (pure argute e assai ben argomentate), rimane il sospetto che la City finanziaria di Londra non abbia proprio a cuore la stabilizzazione del dominio teutonico sull'Europa, soprattutto dopo che le banche del Regno Unito (e Usa ) si sono messe completamente al riparo dai rischi Grecia, prima dell'haircut8 del 2012.9
Imposizione e cooperazione
In Francia alcuni autorevoli commentatori valorizzano “l'approccio costruttivo” della Grecia e ne scorgono i successi.
Romaric Godin su La Tribune10 del 25 febbraio scrive un articolo dal titolo significativo: Le riforme di Tsipras e Varoufakis: un addio alla logica della Troika.
«Partendo dall’assunto che il governo greco ha sempre scartato l’ipotesi di un’uscita “disordinata” dall’euro, e che avrebbe dunque dovuto accettare un compromesso, rimettere in discussione alcune promesse elettorali era inevitabile [corsivo mio]. Il punto è piuttosto capire se questa lista riduce o no in maniera significativa la capacità del nuovo governo di raggiungere i suoi obbiettivi a lungo termine: rompere con l’austerità, rilanciare l’economia, sbaragliare il clientelismo e le oligarchie economiche.»
Segue una disamina dei singoli punti dell'accordo, in forza dei quali il nuovo esecutivo greco avrebbe:
  • costretto la propria oligarchia «allo sforzo contributivo nazionale», coinvolgendo l'Europa nella lotta alla deleteria concorrenza fiscale tra Paesi dell'Unione;
  • reso possibile la lotta al clientelismo che, nei tagli di personale, si è tradotto spesso in licenziamenti discriminatori;
  • promosso una «amministrazione pubblica moderna», più efficace, incoraggiante il merito, tramite «procedure giuste per aumentare al massimo la mobilità delle risorse umane o tecniche»;
  • archiviato l’epoca «dei tagli lineari che hanno colpito salari e personale nel settore pubblico» per creare un nuovo equilibrio tra «giustizia e flessibilità»;
  • rispettato sì le privatizzazioni già completate e avviate, ma con un via libera ad un «riesame delle privatizzazioni non ancora cominciate», per migliorare, a lungo termine, i benefici dello Stato;
  • fatto accettare all'Eurogruppo «il suo piano di gestione della crisi “umanitaria”, ossia il primo pilastro del programma di Salonicco. Questa è una vittoria morale incontestabile, perché non avendo respinto questa parte della lista inviata da Varoufakis, l’Eurogruppo ha dovuto implicitamente riconoscere gli effetti disastrosi della politica sostenuta e incoraggiata dal 2010.»
   Per il resto: «L’aumento del salario minimo è ribadito, anche se il calendario di attuazione non compare nel programma di Bruxelles.» (...) «Il governo greco resta comunque legato, con l’accordo del 20 febbraio, ad una logica da “memorandum”, ed è ancora condizionato dalle scadenze del rimborso – in luglio e in agosto – dei debiti verso la BCE.» In conclusione «(...) il governo greco è riuscito a rimpiazzare l’iniziativa unilaterale della troika con una cooperazione. Non è un cambiamento da poco.»
A questo prezzo per la finanza francese, il “rimpiazzo” può essere ben accetto anche da Hollande, un inimitabile esempio di promesse elettorali disattese.
In realtà dall'elenco degli avanzamenti e delle ritirate si ricava la marcata impressione di tante piccole concessioni, piuttosto immateriali, psicologiche e relazionali, in cambio della rinuncia alla messa in discussione del debito e della linea dell'austerità pur leggermente mitigata. Rimane oscuro come possa il debito essere ripagato nelle condizioni in cui sono state ridotte l'economia e la società greche. Comunque si giudichi questo primo accordo e le sue “limature”, il match point decisivo è rimandato a fine giugno.
Geometria politica
Anche in Italia assistiamo alle conseguenze dell'insorgenza democratica greca. Come in Francia,11 anche ricorrendo a due distinti piani geometrici, pro e contro l'appartenenza all'euro-zona, la laterizzazione destra-sinistra non calza il divenire della realtà politica.
Ciò appare particolarmente evidente se si osservano da vicino i contenuti delle proposizioni politiche “a sinistra del Pd di Renzi”, dalla sinistra Dem all'Altra Europa con Tsipras, passando per la nuova Coalizione sociale proposta dalla Fiom.
Alle ultime elezioni europee ebbe un piccolo successo la Lista che in Italia si richiamava espressamente a Tsipras. Collocandosi a sinistra del PD, si proponeva di contribuire al compimento politico in senso federale dell'Unione, superando l'attuale stadio a prevalenza economico-monetaria, in opposizione all'austerità e all'indirizzo liberista.
A distanza di alcuni mesi l'intero panorama politico istituzionale ha subito, soprattutto dopo l'affermazione elettorale di Syriza (e quelle attese di Podemos in Spagna, della Le Pen in Francia e dell'Ukip di Nigel Farage in Gran Bretagna), sensibili mutamenti.
La coalizione a suo tempo messa in piedi da Berlusconi vive una fase da alcuni sociologi definita di “decomposizione”, accentuata dalle nette scelte di Lega Nord e Fratelli d'Italia per la fuoriuscita dall'Europa a moneta unica.
Alle medesime conclusioni di lasciare l'euro è pervenuto anche il M5S, che già non si riconosceva nella lateralizzazione tradizionale.
Emblematico, poi, è quanto succede nel PD e dintorni. Mentre il governo Renzi realizza alcuni degli obiettivi storici di Berlusconi (pattuiti e non al Nazareno), di cui il NCD di Alfano mena coerentemente vanto, la sinistra Dem pare sul punto di trarre delle conseguenze dalla vicenda greca ben più radicali delle sinistre esterne, come si evince dalla presa di posizione di Stefano Fassina [vedi riquadro dedicato].
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L'iceberg è sempre più vicino

«I problemi posti dalla Grecia sono sistemici.» (...)
«È evidente che anche l’accoglimento della lista normalizzata di riforme strutturali presentata dal governo Tsipras lascerebbe la Grecia nel tunnel. Nel migliore dei casi, I greci comprerebbero tempo. È evidente dalla parabola greca che nell’eurozona non vi sono le condizioni politiche per la radicale correzione di rotta nella politica economica necessaria alla ripresa e al miglioramento delle condizioni del lavoro e, quindi, alla sopravvivenza della moneta unica. È evidente che la Grecia per salvarsi deve lasciare l’euro e svalutare.» (...)
«È anche evidente che la parabola greca e delle sinistre greche prospetta un destino comune alle democrazie e alle sinistre dell’eurozona. La democrazia, la politica e la sinistra non hanno fiato nella camicia di forza liberista dell’euro. Nell’eurozona non c’è alternativa alla svalutazione del lavoro, al rattrappimento delle classi medie, al collasso della partecipazione democratica. Quindi, non c’è spazio per la sinistra.» (...)
«Ma l’iceberg è sempre più vicino per l’euro, per la democrazia e per la sinistra. La sinistra può evitare la deriva di svalutazione del lavoro e di svuotamento delle democrazie delle classi medie e, così, si può salvare e ritrovare senso storico soltanto se riesce a spezzare la gabbia dell’euro. Se si ricostruisce nazionale e popolare. Altrimenti è finta o fa testimonianza.»
Estratti dalla Relazione del mese (24/2/15)
di Stefano Fassina
Fonte: http://ideecontroluce.it/liceberg-e-sempre-piu-vicino/
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Nel varare la Coalizione sociale, politica ma non partitica, unione sindacale e associativa territoriale, Maurizio Landini ricalca sul tema dell'Europa le orme di Syriza e Podemos, ove il conflitto è finalizzato alla cooperazione. Come se si trattasse di un vertenza sindacale da estendere al sociale e ai finora trascurati “non garantiti”, con la controparte insediata tra Roma e Bruxelles.
Inoltre, tra i sostenitori dell'Altra Europa con Tsipras, per “non lasciare da sola la Grecia”, Paolo Ferrero propone una Alliance Against Austerity12 (una tripla AAA in alternativa a quelle delle agenzie di rating) da realizzarsi anche nella politica italiana. Inevitabile l'approdo all'ennesima lista elettorale nel cui programma lo sganciamento dal sistema-euro è, tuttavia, apertamente precluso.
In entrambi i casi, Coalizione sociale e Altra Europa con Tsipras, prevale l'assillo della “rappresentanza”, per gli uni immediatamente politica ed elettorale, per gli altri collegata al destino dei “corpi intermedi”. Secondo Sergio Cofferati proprio nel ruolo storico svolto in Italia da questi ultimi consisterebbe una differenza di fondo tra il nostro Paese e la Grecia.13
Corpi intermedi
Una prima considerazione. Se davvero i “corpi intermedi” hanno avuto una presenza e un ruolo così rilevante in Italia, come sostiene l'ex segretario generale della CGIL, dovremmo ammettere, di conseguenza, che essi possano aver svolto una funzione positiva in passato (fino a quando?), ma, di converso, abbiano contribuito in anni recenti a “filtrare” la libera espressione elettorale. La loro assenza in Grecia, al contrario, l'avrebbe permessa.
D'acchito, tuttavia, si ha l'impressione che ci si preoccupi maggiormente del destino dei “corpi intermedi”, perentoriamente emarginati dalle scelte renziane (in sintonia con quelle della FCA di Marchionnne), piuttosto che di coloro ai quali si vorrebbe dare rappresentanza.
Fatto sta che i movimenti (tipo il No-TAV), fondati su un'attiva partecipazione e poco propensi alle deleghe di rappresentanza, non sembrano considerati. Come interpretare altrimenti la loro assenza dal panorama della Coalizione sociale promossa dalla Fiom?
Inoltre, vengono ignorati alcuni “portati politici” recenti, legati all'esplosione del M5S. Secondo gli analisti dei flussi elettorali nel voto ai “grillini” è confluita una cospicua parte di quella società dei “non garantiti” e “non rappresentati” da sindacati e partiti tradizionali. Si tratti di disoccupati, lavoratori precari e partite IVA loro malgrado, o di autonomi artigiani e piccoli imprenditori, essi hanno espresso un consenso legato sia alla propria specifica condizione sociale che alle modalità di rapportarsi alla rappresentanza (in questo caso agli eletti) in quanto “cittadini”.
Certamente la soluzione tecnologica della “democrazia di internet” mostra, quanto meno, di essere futuribile e comunque inadeguata a sostituire, se non parzialmente, i rapporti umani diretti. Ciò nonostante essa reinterpreta una istanza insopprimibile: quella di stabilire un nuovo rapporto tra rappresentati e rappresentanti, tra deleganti e delegati, ai quali è chiesto un servizio sempre revocabile e mai costituito in corpo separato ed autocentrato.
Se l'esigenza di un controllo sul mandato dei parlamentari si presentò sin dagli albori del movimento operaio e socialista, la storia recente ha spesso riproposto in diverse essenziali circostanze il problema più generale della rappresentanza, soprattutto in presenza di apparati sempre più autoreferenziali. Appunto dei “corpi intermedi”. Ragione per cui sono entrate in crisi le forme sindacali e associative nonché quelle di partito,14 non più rispondenti ai bisogni di centralità, adeguata ai tempi nostri, sia della partecipazione attiva e consapevole sia della vasta platea del consenso informato.
Oltre il guado
Nel complesso e nonostante tutto, la sinistra italica sembra non risvegliarsi dal “sogno europeo”, anche per la parte impegnata contro l'austerità e nel sociale. Fa eccezione il mutamento in atto nella sinistra Dem. Al contrario di quelli che possono essere considerate desperate housewives15 dell'Eurozona, nella realtà politica tutto si muove.16
Una volta appurato che, per usare un'immagine, sfilare la corda del debito dal nodo scorsoio della moneta unica, quale sistema di potere oligarchico continentale, non è praticamente fattibile in modo consensuale, ci si riduce all'obiettivo massimo dell'allentamento temporaneo del cappio. Il tentativo greco, al momento e salvo miracoli, questo dimostra.
A queste “estreme” conclusioni è arrivato Stefano Fassina. La qual cosa non è sfuggita ad uno dei più convinti e preparati sostenitori dell'uscita dell'Italia dall'euro, Alberto Bagnai,17 che ha coinvolto Mimmo Porcaro in una discussione sul suo blog.18
Dopo aver inutilmente alimentato l'ingenua illusione di un divorzio cooperativo, Fassina dal PD è il primo a passare il guado, mentre altri esponenti si sono fermati ai dubbi e ai se.19 Dubbi che espresse anche Romano Prodi, il massimo nocchiere nazionale del Titanic-euro, anch'egli senza andare oltre.
Per il semplice fatto di essersi sbilanciato criticamente sull'Eurozona, Fassina (insieme a Cuperlo) venne a novembre etichettato come di "estrema destra"20 dall'ineffabile Matteo Orfini, ex sodale di corrente; figuriamoci adesso quale rispettoso trattamento gli verrà riservato dalla maggioranza del suo partito!
Ingenuità razionali
Mimmo Porcaro a proposito della ingenuità del nuovo governo greco, nel succitato intervento sul Blog di Bagnai, chiama in causa Lenin e Tucidide. Appunti storici e critici senz'altro pertinenti. Senonché, trattandosi di un esperto della teoria dei giochi (Varoufakis), docente in materia negli States, forse basterebbe ricordargli una regola aurea di quella stessa teoria: qualsiasi gioco è invalidato se tutti i giocatori (players) non godono di pari condizioni. Cosa che, nella realtà, accade invece regolarmente. Sul “libero” mercato, basta una asimmetria informativa, quella di cui può avvalersi, ad esempio, un venditore di auto usate rispetto all'ignaro (del reale stato dell'usato) cliente, per rendere tutto falso.
Bene, cosa ha spinto Syriza a credere che con la Troika sarebbe stato stavolta diverso?
Condivisibile è il giudizio di Porcaro: «(...) non si sfugge all’impressione che vi sia comunque un errore di base ed un’imperdonabile supponenza nell’atteggiamento di Syriza: l’idea secondo la quale, in fondo, la fine dell’austerity sarebbe interesse anche delle classi dominanti europee.»21
Se esistesse una ragione, superiore alle parti che la pensano, in grado di mettere fine alla austerity, non capita per occlusione mentale e culturale, basterebbe farne partecipe la riottosa élite (da con-vincere per vincere insieme) al comando politico del credito finanziario europeo.
Un simile approccio potrebbe rientrare nella categoria della ingenuità, come l'idea di un divorzio cooperativo dall'Eurozona, consensuale e senza liti postume, oppure di un metodo di pensiero, grazie al quale aleggerebbe nei cieli d'Europa una suprema Ragione (sinonimo di Verità) in trepidante attesa di scendere nelle menti per illuminarle e prolungarne lo sguardo troppo miope o troppo sviato dalle apparenze.
Esattamente la filosofia a cui si ispira Varoufakis: «Noi stiamo chiedendo alcuni mesi di stabilità finanziaria che ci consentano di intraprendere il piano di riforme che la maggioranza del popolo greco può condividere e supportare, così da poter tornare a crescere e a essere nuovamente in grado di ripagare i nostri debiti. Si potrebbe pensare che questo misconoscimento delle regole della teoria dei giochi sia dovuto all’effetto di una linea di sinistra radicale. Non è così. La maggiore influenza qui è quella di Immanuel Kant, il filosofo tedesco che ci ha insegnato come la ragione e la libertà dall’impero degli espedienti sono ottenibili facendo ciò che è giusto.»22
Peccato che il governo tedesco, determinante nell'Eurozona, non segua affatto il pensiero del proprio insigne connazionale!
Federalismo paternalistico
Ai tempi di Jacques Delors23 l'adozione del sistema a moneta unica, in un'Europa economica senza Stato federale, fu raccontata come un passaggio dettato da una fase politica straordinaria: l'immediata esigenza di ancorare alla costruzione europea la riunificata Germania, anche a costo di patteggiare con la forte riluttanza di quest'ultima a fare a meno del marco. Il trattato di Maastricht fu firmato il 7 febbraio del 1992 a meno di due anni dalla riunificazione tedesca (ottobre 1990).
Si disse allora che occorresse accettare il minimo livello fattibile, al quale, secondo i federalisti, sarebbe seguito un salto di qualità, ovvero l'Unione politica, dettato da un qualche stato di necessità implicito nella tortuosità del cammino intrapreso.
Ma la scelta, in realtà, risaliva agli anni del varo del primo SME,24 quando era già ben chiaro anche nella sinistra italiana che si andava mettendo il “carro davanti ai buoi” [vedi riquadro dedicato].
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Il carro davanti ai buoi
«L’anno è il 1978. Il giorno il 12 dicembre, ed entro pochi mesi si terranno le prime Europee. È il giorno in cui il presidente del Consiglio, Giulio Andreotti, si presenta alla Camera per dire che l’Italia sarebbe entrata subito, dal 1° gennaio, nel Sistema monetario europeo (Sme), un regime di cambi fissi tra le monete comunitarie che è il vero papà dell’euro (anche allora, peraltro, Londra disse no). (…) Pci e Psi (…) sono contrari a un’ingresso nello Sme come s’è andato delineando.
Il Pci, subito dopo il discorso di Andreotti, riunisce la sua direzione alla Camera. (…) Napolitano (...) spiega con incredibile, profetica chiarezza: “Inserendoci in quest’area, nella quale il marco e il governo tedesco hanno un peso di fondo, dovremo subire un apprezzamento della lira e un sostegno artificiale alla nostra moneta. Nonostante ci sia concesso un periodo di oscillazione al 6%, saremo costretti a intaccare l’attivo della bilancia dei pagamenti. Lo Sme determinerà una perdita di competitività dei nostri prodotti e un indebolirsi delle esportazioni. C’è un attendibile pericolo di ristagno economico.” (…) “Nelle più nobili motivazioni di La Malfa – insiste Napolitano – vi è alla base un giudizio catastrofico sull’Italia” ed “emerge una concezione strumentale degli impegni internazionali in funzione interna (antisindacale)”. (...)
Sarà proprio lui, com’è noto, a intervenire alla Camera, spiegando il no del Pci con un lucidissimo discorso sugli squilibri regionali che l’irrigidimento del cambio rischia di accentuare (e il dato è sotto gli occhi di tutti, compreso il “rigore a senso unico”): “Si è finito per mettere il ‘carro’ dell’accordo monetario davanti ai ‘buoi’ di un accordo per le economie”, anche per “le sollecitazioni pervenuteci dai governi amici”, scandì Napolitano. Il pericolo che questo costituiva per la sinistra italiana gli era chiaro: se qualcuno volesse “far leva sulle gravi difficoltà che possono derivare dalla disciplina del nuovo meccanismo di cambio per porre la sinistra e il movimento operaio dinanzi alla proposta di una politica di deflazione e di rigore a senso unico, diciamo subito che si tratta di un calcolo irresponsabile e velleitario, non meno di quelli che hanno spinto pezzi della Dc a premere per l’ingresso immediato nello Sme in funzione di meschine manovre anticomuniste, destinate a sgonfiarsi rapidamente”. (...)»
Marco Palombi, il Fatto Quotidiano, 14 maggio 2014
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Appena la situazione l'avesse imposto, il carro sarebbe stato ricollocato “dietro ai buoi”.
Quella strategia federalista conteneva due semi negativi e antidemocratici: uno, a priori, di metodo politico; un'altro, di completa “sottovalutazione” degli interessi che spingevano a quella “forzatura”.
  1. Supponeva di imporsi in modo indipendente dalla volontà dei popoli e in forza, per giunta, delle loro sofferenze. Tanto che, come osserva criticamente Bagnai, si è giunti a teorizzare un federalismo obtorto collo: «La violenza di queste crisi è cosa buona e giusta, perché permette agli ottimati di condurre il gregge, col bastone del mercato, verso lo Stato promesso.»25
    Da questa via al federalismo non si discosta l'Altra Europa con Tsipras. Presentando la lista, nella discutibile pretesa di mettere nello stesso sacco “conservatori” ed “euroscettici”, Barbara Spinelli26 propose un “momento hamiltoniano”, dedicato alla trasformazione in senso federale dell'Europa, e un “momento roosveltiano”, appena successivo, dedicato alla crescita economica in senso anti-liberista. Sicché il richiamo ad Alexander Hamilton [vedi riquadro dedicato] che, dopo la guerra d'indipendenza americana, usò la crisi del debito per trasformare gli Stati Uniti da confederazione in federazione, appare piuttosto appropriato.
    Conferma, quanto meno, l'adozione di una sorta di illuminismo paternalistico.
  2. Attraverso la moneta unica e in diverse tappe è stato costruito un sistema di governo, sin dagli inizi fortemente asimmetrico, sia in senso sociale che territoriale. Attorno ad esso si è affermato e concentrato un grumo di potere politico-finanziario oligarchico a detrimento della sovranità democratica nazionale e popolare, del welfare sociale, contro gli interessi delle classi lavoratrici.
    L'economicismo, come il monetarismo e tanto più il neo-mercantilismo, non sono impolitici né privi di una loro logica e razionalità, ma la forma della politica nel costituirsi di questo potere. Come non esiste un mercato a sé, indistinto, unitario ed autoregolato, non esiste un potere del mercato avulso, distinto e contrapposto a quello politico.
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Alexander Hamilton
«Alexander Hamilton, aiutante di Washington durante la guerra, era uno dei leader più efficaci e scaltri della nuova aristocrazia. Ecco come esprimeva la sua visione politica:
Tutte le comunità sono divise fra i pochi e i molti. I primi sono ricchi di nascita elevata, i secondi la massa del popolo […]. Il popolo è turbolento e mutevole; raramente giudica o decide rettamente. Date perciò alla prima classe un ruolo permanente nel governo […]. Soltanto un organo permanente può frenare l'imprudenza della democrazia.”
Alla Costituente Hamilton propose che il presidente e il Senato fossero designati a vita. L'assemblea non accolse la sua proposta, ma non approvò nemmeno l'elezione popolare, salvo che nel caso della Camera dei rappresentanti, per la quale erano i parlamenti statali a stabilire i requisiti (in quasi tutti gli stati aveva diritto di voto solo chi deteneva qualche proprietà), ferma restando l'esclusione delle donne, degli indiani e degli schiavi. La Costituzione stabilì che i senatori sarebbero stati eletti dai parlamenti statali, che avrebbero scelto anche gli elettori del presidente, al quale a sua volta competeva la nomina dei membri della Corte suprema.»
Howard Zinn, Storia del popolo americano, il Saggiatore, 2010 (2005), pag. 71.
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Sovranità
Da Bruxelles e da Francoforte dettano la politica dei Paesi presi nel cappio del debito. Minacciano sanzioni e di stringere i cordoni della liquidità, di cui detengono il monopolio. Impongono “riforme strutturali” basate su privatizzazioni, svalutazione del lavoro e delle produzioni legate ai mercati interni. Somministrano salassi che sprofondano il paziente nella prostrazione e nell'ulteriore dipendenza dalle loro cure.
Non desti sorpresa che il Jobs Act italiano incontri il loro entusiastico favore. Né che, in rapida successione, il pragmatismo renziano voglia completare l'iter riformistico forzando i tempi di approvazione del “combinato disposto” della riforma elettorale e delle riforme costituzionali. La spinta alla svalutazione del lavoro si abbina perfettamente alla “torsione autoritaria”, tesa a depotenziare democrazia repubblicana e sovranità nazionale. Per usare le parole di Hamilton, occorre “frenare l'imprudenza della democrazia”, giacché il “popolo è turbolento e mutevole”.27
All'opposto, non si riesce a comprendere come possa avere successo una lotta politica e sociale contro l'austerità e questo indirizzo politico governativo, mantenendosi nelle complessive compatibilità del sistema di potere europeo a moneta unica, nei suoi vincoli, nei suoi trattati.
Senza sovranità non c'é democrazia, anche se la sovranità può imporsi facendo a meno della democrazia. Insistere sui pericoli non serve, in mancanza di un'azione politica adeguata.
Nella sovranità democratica popolare non rientrano semplicemente le assemblee elettive ad ogni livello, ma soprattutto la partecipazione diretta della società alla politica, da cui l'hanno allontanata proprio gli inafferrabili poteri “lontani”. Che ciò rimetta in moto dinamiche conflittuali, anche di classe, è tanto auspicabile quanto indispensabile, sia politicamente che culturalmente.
Poiché lo snodo della sovranità evoca un insieme di altre relazioni, dalla trasformazione degli Stati nella globalizzazione al ruolo delle monete nelle contese egemoniche (comprese quelle militari), alla “geopolitica”, dalla natura oligarchica del potere politico ed economico allo “sdoppiamento” delle borghesie occidentali un tempo “nazionali”, occorrerà a questi temi dedicare attenzione e approfondimenti.
In cosa possa sostanziarsi, oggi, la sovranità dipende dallo sviluppo di queste relazioni.

1 Unione Europea, Banca Centrale Europea, Fondo Monetario Internazionale ai cui si è aggiunto il Fondo salva-stati.
2 Avanzo al netto degli interessi.
3 Paul Krugman, What Greece Won (27/2/2015), inserto "The New York Times" in La Repubblica di lunedì 9/3/2015.
4 "outbreak of reasonableness".
5 ANSA, New York, 9/2/15, "Aspetto di ascoltare dalla cancelliera Merkel la sua valutazione su come l'Europa e il Fmi possano lavorare insieme col nuovo governo greco per trovare il modo grazie al quale la Grecia possa tornare a una crescita sostenibile nell'Eurozona".
6 Il Partenariato transatlantico per il commercio e gli investimenti (Transatlantic Trade and Investment Partnership, TTIP).
7 Come annota Mimmo Porcaro sul blog di Alberto Bagnai (4/3/15), http://www.goofynomics.blogspot.it/2015/03/atene-chiama-fassina-risponde.html.
8 Traducibile in: tosatura del debito.
9 Marcello Minenna, Corriere Economia, 6/2/15, L'Europa alla tedesca: rischi condivisi (ma i vantaggi a senso unico).
10 http://keynesblog.com/2015/03/02/le-riforme-di-tsipras-e-varoufakis-un-addio-alla-logica-della-troika/.
11 Benoît Bréville e Pierre Rimbert, Una sinistra seduta a destra rispetto al popolo, Le Monde diplomatique il Manifesto, marzo 2015.
12 Traducibile in: Alleanza contro l'austerità.
13 Sergio Cofferati: “La sinistra è poca, si chieda perché”, Sinistra e Lavoro, intervista di Daniela Preziosi, 4/03/15.
14 Infatti Podemos si propone, a partire dal movimento degli indignados, come una organizzazione non tradizionale.
15 Traducibile in: disperate mogli casalinghe (titolo della celebre serie televisiva americana).
16 Al contrario di quanto afferma Claudio Grassi (http://www.claudiograssi.org/wordpress/2015/03/eppure-non-si-muove/), salvo mostrare interesse alla novità della Coalizione sociale (http://www.claudiograssi.org/wordpress/2015/03/dentro-la-coalizione-sociale-per-la-sinistra/).
17 Tra questi il marxista Vladimiro Giacché e il docente alla Cattolica di Milano, Claudio Borghi Aquilini, responsabile economico della Lega Nord.
18 http://www.goofynomics.blogspot.it/2015/03/atene-chiama-fassina-risponde.html
19 D'Attorre: «la situazione oggi non è sostenibile: o in Europa si crea un percorso federale o si torna alle monete nazionali» (Dagospia, 6/11/2014). Visco: «mi chiedo se sia stata la cosa giusta»; Boccia: «senza eurobond e solidarietà è un progetto fallito» (il Fatto Quotidiano, 7/11/2014)
20 Matteo Orfini contro Fassina e Cuperlo: "Euro insostenibile? Linea di estrema destra." Europa, 11 novembre 2014.
21 http://www.goofynomics.blogspot.it/2015/03/atene-chiama-fassina-risponde.html
22 Yanis Varoufakis, "Europa, non è tempo di giochi", Lavoro & Politica (dal New York Times), 27/02/15.
23 Presidente della Commissione europea dal 1985 al 1995.
24 Sistema Monetario Europeo, in vigore dal 13 marzo 1979.
25 Alberto Bagnai, L'Italia può farcela, il Saggiatore, 2014, pag. 160.
26 Il Fatto Quotidiano, “Salviamo l'Europa dai conservatori e dagli euroscettici”, intervista di Stefano Feltri. 9/02/2014.
27 Appare rilevante l'analogia di logica politica tra le proposte di Hamilton e il “combinato disposto” del governo: liste elettorali di prevalenti nominati; senatori a elezione indiretta; impatto sulle future nomine alla Corte Costituzionale.