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Ambiente e morale della responsabilità -
Greta Thunberg all'ONU |
Invitata
all'ONU a rappresentare le giovani generazioni impegnate in difesa
del pianeta,
Greta è stata snobbata dal “negazionista” Donald Trump, che
aveva disdetto l'accordo di Parigi sul clima, due anni prima
sottoscritto da Obama. In quel momento - era il 2017 - un
coro di critiche si alzò da “gran parte del mondo imprenditoriale”
e da numerosi governi.1
Oggi quel mondo si mostra in sintonia con Greta ed il movimento di
cui è protagonista, dicendosi disposto a contrastare il cambiamento
climatico ed intraprendere uno sviluppo ecosostenibile.
In
tanto ambientalismo ufficiale qualcosa non quadra: ma il
“mondo imprenditoriale” non è lo stesso che ha ridotto il
pianeta in queste pietose condizioni, badando, come dice Greta,
unicamente al soldo? E gran parte dei governanti, tanto desiderosi di
riceverla e di apparirle accanto, non sono gli stessi che hanno
politicamente sovrainteso allo scempio?
Vanno
capiti i motivi per cui non temono Greta, anzi l'accolgono e la
innalzano ad icona mediatica dell'ambientalismo.
***
La
nuova ondata ecologista ha l'indubbio merito di riproporre
all'ordine del giorno un tema vitale, di non demordere, di chiamare
chi sta “in alto” alle proprie responsabilità, certo di gran
lunga maggiori di chi (non esente del tutto) sta “in basso”.
Tra
i poteri ed i potenti del mondo economico, le posizioni verso
l'ambientalismo, da cui troppo spesso derivano
quelle dei governi, appaiono alquanto diversi.
Non
è difficile individuare coloro che negano sia il cambiamento
climatico, sia la insostenibilità della vita umana sul pianeta se
proseguisse l'attuale sistema di saccheggio della natura. Sono
“negazionisti” e snobbano il movimento, quando non lo avversano
apertamente. Di fatto mirano a
salvarsi non dai, ma nei mutamenti climatici. Iscrivono la
propria salvezza ad una sorta di competizione globale, dalla quale
scommettono di uscire “vincenti”, in quanto già sin d'ora più
“adatti a farcela”, perché posizionati tra i ricchi e nei Paesi
ricchi della Terra.
A
questa posizione si oppone uno schieramento piuttosto eterogeneo,
principalmente distinto in due correnti:
- all'interno dell'establishment l'ecologismo è visto come un'occasione di riconversione e ripresa del capitalismo globalizzato;
- fuori dall'establishment, l'ecologismo è concepito come incompatibile con le logiche stesse del capitalismo.
Attenendomi
allo scopo di questo articolo mi asterrò, salvo qualche accenno, dal
commentare le molte ed importanti posizioni “intermedie” tra le
due summenzionate. Intendo focalizzare l'attenzione sul problema
della responsabilità morale, giacché è a questa che fa appello la
giovane attivista svedese.
Infatti,
Greta chiede di ridare speranza alla sua generazione, quasi ammonendo
i responsabili dell'incombente disastro a riparare il malfatto, prima
che sia troppo tardi. L'accusa e l'invito al ravvedimento, purché
sia rapido e concreto, presuppone che anch'essi si sentano minacciati
dalle conseguenze del loro stesso operato. Ed il richiamo ad una
morale della responsabilità investe il futuro tanto dell'umanità,
quanto quello dei propri figli e nipoti.
Una
morale, tuttavia, imperniata sul personale individuale e/o tuttalpiù
generazionale.
Sicché,
a chi in passato ha partecipato all'impegno ed alla mobilitazione
ecologista (e pacifista),2
l'incipit di Greta
Thunberg può apparire in qualche modo “ingenuo”, in assenza di
un più chiaro riferimento alle strutture socio-economiche, alle
quali gli individui appartengono.
Difatti,
dopo decenni di deregulation
e di euforia neoliberista (distruttive dell'ambiente), in seguito
alla crisi del 2007-2008, assistiamo al ritorno di una stagnazione
economica di lunga durata, ritenuta definitivamente superata dagli
anni Ottanta in poi. Da qui il ritorno dell'interesse per l'ecologia.
Una
parte del “mondo imprenditoriale” crede di poterla superare
attraverso una riconversione “verde” che:
- da un lato punta ad una “distruzione creativa” delle vecchie produzioni su scala mondiale, attivando nuove tecnologie ecocompatibili;
- all'altro ripropone l'intervento dello Stato (della cassa pubblica) per pagare i costi della ricerca e delle cosiddette “esternalità”, vale a dire dei danni a società e natura, provocati dalle produzioni e dai connessi consumi di massa.
In
cambio, promettono l'abbandono dell'ottica neoliberista, che ha
considerato solo gli interessi degli azionisti (shareholders),
per abbracciare quella protesa a soddisfare tutte le altre parti
coinvolte (stakeholders)
dalle attività d'impresa.
Questa
componente pensa ad una ripresa generale dell'espansione e della
accumulazione capitalistica, basata sull'innovazione di
prodotto-processo e sul “consenso attorno” dei cittadini. Vede
nell'ecologismo un'opportunità di profitto, non un limite
invalicabile.
Ma
nei decenni dell'euforia neoliberista l'economia è stata
finanziarizzata dai grandi gruppi oligopolistici. La finanza è stata
elevata dal pensiero dominante al rango di industria moralmente
“meritevole”, in quanto produttiva di valore e ricchezza. Tanto
da venire sistematicamente computata nel Pil.
Gli
oligopoli, sia propriamente finanziari che finanziarizzati,
guadagnano gran parte del proprio
surplus di danaro dal danaro. Essendo la finanza riconosciuta
come produttiva in sé e per sé, essa si ritiene esente dalla
responsabilità ambientale, posta in capo alle produzioni agricole,
minerarie, manifatturiere e di servizi. Finge di non sapere che, in
realtà, estrae i propri utili non solo dal depauperamento dei
salari, ma dal complesso dell'economia “reale”.
Considerando
la posizione dominante della finanza nell'attuale mondo economico
globalizzato, si palesa una prima
contraddizione: come può attuarsi la riconversione ecologica,
produttiva e sociale, non mettendone radicalmente in discussione il
ruolo, quasi fosse un dettaglio trascurabile? La si reputa eco
compatibile e sostenibile?
Inoltre,
rispetto alla evocata morale della responsabilità, la dominante
finanza, costituita da imprese troppo grandi per fallire (too
big to fail), ha già goduto e gode di un ”azzardo
morale” (moral hazard),3
al quale si aggiungerebbe quello di estrarre utili da una
riconversione produttiva, da subito realizzata con il decisivo
apporto di risorse pubbliche.
Inoltre,
la riconversione ecologica, vista in contesto più complessivo,
ripropone una seconda e più grave
contraddizione.
L'espansione
e l'accumulazione capitalistica, benché frutto della “distruzione
creativa”, rimuovono il vincolo ambientale dato dall'esistenza di
un limite. Ossia dalla bio-capacità di società e Paesi di produrre
e riprodurre le condizioni di vita del pianeta, posto in relazione
con il corrispondente consumo limitato (alla bio-capacità) delle
risorse.
Come
si pensa di conciliare questo limite invalicabile con l'illimitato
consumo delle risorse, insito nel modo di produzione capitalistico?
In altri termini, può esistere, a dispetto dell'esperienza storica,
un capitalismo “stazionario”?
La
visione dell'ecologismo, alimentata fuori dall'establishment,
chiama in causa una concezione della società non più basata sul
valore di scambio (e sul prezzo), ma sul valore d'uso di cui la
natura è sorgente prima ed irrinunciabile. Chiama ad un cambiamento
radicale della morale della responsabilità.
Note:
2 Le lotte per l'ambiente e la pace si sono sempre inevitabilmente intrecciate.
3 Si parla di moral hazard, giacché il rischio delle grandi imprese finanziarie di fallire è azzerato dalle conseguenze sistemiche che il loro fallimento comporta (too big to fail). Ragione per la quale ogni loro azzardo é di fatto coperto dalla fiscalità pubblica.
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Non hanno paura di Greta. Perché? [2]
- Ambiente e morale della responsabilità -
Il
produttivo di valore
La
propensione dell'establishment globale a preferire il tema
ecologico come campo di battaglia (il terreno a sé più favorevole)
data da lunga pezza. Samir Amin1
vide comparire questa tendenza già alla Conferenza di Stoccolma del
1972.
Tuttavia,
lo studioso terzomondista avvertì che il campo era “minato” per
chi l'aveva prescelto per riaffermare la propria egemonia, alla
ricerca di consenso attorno al dominio. Quel campo poteva rivelarsi
un terreno propizio per le forze del cambiamento radicale, qualora
queste, nello sviluppo della propria lotta, avessero saputo
utilizzare al meglio il valore d'uso sociale, contenuto nella nuova
categoria della “impronta ecologica”. [Vedi
nella finestra “Valore d'uso sociale”, in pagina.]
Valore
d'uso sociale
«Wackernagel
e Rees portarono alla ribalta una nuova categoria, quella
dell'impronta ecologica, e non solo.
Essi elaborarono un sistema per misurarla, definito in termini di
'ettari globali', mettendo a confronto la bio-capacità di società e
paesi (la loro capacità di produrre e riprodurre le condizioni di
vita del pianeta) con il consumo delle risorse a loro disposizione
grazie a questa bio-capacità.
Gli
autori pervennero a una conclusione inquietante. La bio-capacità del
nostro pianeta, in termini umani, è di 2,1 ettari globali (gha)
pro-capite, in altri termini 13,2 miliardi di gha per una popolazione
di 6,3 miliardi di persone. Comunque, il livello medio delle risorse
a livello mondiale raggiungeva già, a metà degli anni novanta, 2,7
gha. Il termine 'medio' nasconde una enorme disparità: la media dei
paesi della Triade (ndr: Usa, Ue e Giappone) aveva già
quadruplicato la media mondiale. Gran parte della bio-capacità delle
società del Sud era stata assorbita dal centro per il proprio
profitto. (…)
In
tal modo si dimostra che è possibile calcolare il valore d'uso
sociale in modo assolutamente razionale. Questa prova ha un impatto
decisivo, poiché il
socialismo è definito come società basata sul valore d'uso
e non sul valor di scambio.»
Samir
Amin, “L'imperialismo contemporaneo”, Punto Rosso, 2010, pagg.
13-15.
______________________________________________________
Tale
impronta non si misura in dollari o in altra moneta, sicché il
valore della natura non è prezzato. In una economia che deriva il
valore dal prezzo, la categoria dell'impronta ecologica misurabile
rappresenta un vero e proprio cambio di paradigma che incontra il
sentire popolare. Infatti, benché ci siamo dovuti abituare a
prezzare la terra, i boschi ed ogni bene naturale, tra cui anche la
forza-lavoro umana, resistiamo al tentativo di venderci l'acqua
comunale come una qualsiasi merce. Per il comun sentire, la natura e
gli elementi primi di cui si compone “non hanno prezzo”.
D'altro
canto, l'abitudine a considerare ogni bene naturale una merce
scambiabile, con relativo prezzo, non cade dal cielo. Al
suo affermarsi contribuisce il prevalere di una determinata ideologia
del valore e della ricchezza. Per chiarire questo punto,
ricordo alcuni passaggi della storia del pensiero economico per la
loro influenza sulle idee dominanti.
Per
un pensatore classico dell'economia politica come David Ricardo
(1772-1823), il valore proveniva dalla produzione. Sicché i
proprietari delle terre e delle miniere, posti a confronto con gli
imprenditori agricoli ed industriali, fruivano di rendite
impropriamente percepite. In altri termini: estraevano
valore pur non avendo alcun “merito” nel produrlo.
Produttivo di valore era solo il lavoro incorporato nella merce,
quantificabile in base al tempo impiegato per produrla.
Nella
seconda metà dell'Ottocento avviene una svolta: l'”utilità
marginale” diventa l'elemento base unificante della scienza
economica. Ne furono iniziatori studiosi di più parti dell'Europa,2
vissuti tra la seconda metà dell'Ottocento ed i primi del Novecento.
I redditi dei fattori produttivi diventano nient'altro che prezzi determinati dal mercato. Tutto ciò che è scambiato ad un prezzo, costituisce valore. Viene invertita la sequenza logica: invece che dalla produzione al consumo, l'analisi parte dal comportamento del consumatore per giungere a quello della produzione. Si passò dall'approccio "oggettivo" a quello "soggettivo", in quanto il valore di un bene non derivava più dal lavoro, bensì dalla preferenza accordata dall'acquirente al bene, in base alla sua percezione di utilità. Utilità definita marginale, o finale, perché decrescente col decrescere della soddisfazione nel consumarlo. Alla percezione di utilità corrispondeva la disponibilità a pagarne il relativo prezzo. Con l'utilità marginale, aspetto non secondario, la scena è dominata dall'individuo e scompaiono le classi.
I redditi dei fattori produttivi diventano nient'altro che prezzi determinati dal mercato. Tutto ciò che è scambiato ad un prezzo, costituisce valore. Viene invertita la sequenza logica: invece che dalla produzione al consumo, l'analisi parte dal comportamento del consumatore per giungere a quello della produzione. Si passò dall'approccio "oggettivo" a quello "soggettivo", in quanto il valore di un bene non derivava più dal lavoro, bensì dalla preferenza accordata dall'acquirente al bene, in base alla sua percezione di utilità. Utilità definita marginale, o finale, perché decrescente col decrescere della soddisfazione nel consumarlo. Alla percezione di utilità corrispondeva la disponibilità a pagarne il relativo prezzo. Con l'utilità marginale, aspetto non secondario, la scena è dominata dall'individuo e scompaiono le classi.
Alfred
Marshall (1842-1924), docente all'università di Cambridge, diede
forma più completa ed articolata al marginalismo. Nel farlo, finì
per evidenziarne le criticità. Oggetto dei suoi studi: il cosiddetto
“equilibrio generale”. Cercò di conciliare la dicotomia tra
valore-costo della produzione e valore-utilità del consumo
(paragonati ad un paio di forbici3),
tra valori determinati dalla domanda e dall'offerta, analizzando
equilibri e squilibri di mercato nel brevissimo, nel breve e nel
lungo periodo. Poiché la crescita capitalistica si dimostrava
altamente squilibrata e contraddiceva la teoria dell'”equilibrio
generale”, elaborò la teoria degli “equilibri parziali”.
Tra
i suoi vari apporti, per quel che qui ci interessa, va evidenziata
l'attenzione da lui posta alle “economie e diseconomie esterne”.
La
determinazione di ciò che è produttivo (rispetto a cosa invece non
lo è), si è venuta spostando col mutare della società e del
capitalismo. Le aree dell'attività economica definite produttive si
sono vieppiù allargate. Per
comprendere l'entità di questa estensione, basti segnalare che nella
ricchezza nazionale, oggetto degli studi di Adam Smith (1723-1790)
fondatore dell'economia politica classica, sino a tempi recenti non
rientravano le attività finanziarie, ritenute oggi una vera e
propria industria generatrice di valore. Tanto da venire
contabilizzate nel Pil. Alla
finanza viene riconosciuto il merito di contribuire alla ricchezza
nazionale, in base
all'idea di valore del marginalismo, reiterata dal
neoliberismo.
Finanza
meritevole
Che
la creazione di ricchezza sia merito di chi fa denaro col denaro può
apparire una stranezza.
A
questo proposito, Mariana Mazzuccato4
ha scritto: «Se il valore deriva dal prezzo, come sostiene
l'economia neoclassica, il reddito derivante dalla rendita deve
essere produttivo. Perciò oggigiorno il concetto di reddito non
guadagnato è scomparso.»
Come
è potuto accadere che l'estrazione di valore, tipico di ogni rendita
e specifico di chi fa danaro col danaro, sia divenuta creazione di
valore?
Lo
spostamento della finanza dall'esterno all'interno della produzione
di valore, è dovuto alla progressiva finanziarizzazione dell'insieme
dell'economia, alla quale ha concorso in modo decisivo la
deregulation.
Le
premesse teoriche della finanziarizzazione sono rintracciabili nel
ruolo unico affidato alle banche nello sviluppo economico, grazie ad
alcuni economisti della metà del ventesimo secolo, quali J. A.
Schumpeter (il teorico della “distruzione creativa”) ed A.
Gerschenkron.
Osserva
Mazzuccato: «Il settore finanziario ora rappresenta una notevole e
crescente parte del valore aggiunto dell'economia e degli utili
societari. Ma solo il 15% dei fondi erogati va ad imprese non
finanziarie. Il resto viene scambiato tra istituzioni finanziarie,
facendo soldi semplicemente con lo scambio di soldi, un fenomeno che
si è molto sviluppato dando origine a ciò che Hyman Minsky chiamava
“money manager capitalism” (“il capitalismo dei gestori del
denaro”).»
Il
forte accentramento di utili dell'economia in capo alla finanza segna
i tempi del suo sopravvento: «Quando iniziò la
deregolamentazione nei primi anni Ottanta, gli utili delle società
finanziarie del settore privato – che si erano aggirati intorno al
10-15% degli utili totali delle società nei quarant'anni dopo la
Seconda guerra mondiale – salirono di oltre il 20%, toccando il 40%
all'inizio del ventunesimo secolo (figura 15).»
Il
fenomeno non è dovuto unicamente alle società bancarie e
finanziarie, definite in senso stretto. Pure le altre grandi imprese
finanziarizzano le loro attività di produzione e distribuzione per
renderle redditizie, almeno quanto quelle delle imprese finanziarie
propriamente dette. Ad esempio, negli anni 2000 il ramo americano
della Ford ha realizzato più utili con i prestiti sulle auto che
vendendo le auto stesse. Nel medesimo periodo, anche il ramo
finanziario di General Electric ha fatto quasi la metà degli utili
di tutto il gruppo.
Dediti
esclusivamente alle attività finanziarie o meno, la
finanziarizzazione dell'economia è dovuta ad un esiguo numero di
oligopoli.
Il
peso “produttivo” attribuito alle attività finanziarie comporta
delle conseguenze: da un lato falsa la misurazione dell'effettiva
crescita della ricchezza nazionale e globale e, seppure “mediata”
da una serie di accorgimenti tecnico-contabili, dello stesso Pil;
dall'altro, è fuorviante ai fini della valutazione delle
performances
del capitalismo liberalizzato dagli anni Ottanta in poi e del suo
attuale stato di salute.
Abbiamo
incominciato a conoscere quanto pesi la finanziarizzazione
oligopolistica nel determinare le diseguaglianze sociali, l'estrema
polarizzazione di reddito e ricchezza a fronte della crescita delle
povertà, che dalle periferie del Sud del mondo tende ad estendersi
ad ampi strati di popolazione dei Paesi ricchi del centro. Ma poco ci
è dato sapere sul nesso diretto tra finanza, sue “responsabilità”,
ed emergenza ambientale. A questo proposito permane uno spesso velo
ideologico. Seppure qualche indizio ci provenga dal risalto dato alle
iniziative per una “finanza sostenibile”,5
ammettendo implicitamente che quella attuale non lo è affatto.
Il
pensiero contro e quasi contro
Facciamo
un passo indietro.
Karl
Marx (1818-1883) muove dalla critica dell'economia politica di Smith
e Ricardo, mutuando da quest'ultimo l'dea del valore-lavoro, per
inserirla in una visione teorica estranea al suo predecessore.
Considera il produttivo di valore in relazione al Capitale nei suoi
rapporti sociali e storici di produzione, all'interno dei quali si
determina.
Nel
capitalismo è produttiva l'attività economica che genera profitto
attraverso la merce. La sequenza da Denaro-Merce-Denaro (D-M-D),
precapitalistica, diventa D-M-D', allargata, giacché in quel D'
giace il plus-valore estorto al lavoro. Di fronte al già presente
fenomeno finanziario, Marx descrive il passaggio diretto D-D', dove
scompare M, ossia la merce.
Nel
capitalismo è il valore di scambio ad assumere il ruolo chiave.6
Ad
esso Marx contrappone il valore d'uso, in una concezione della
ricchezza, nella quale la natura assume una posizione primigenia.
[Vedi nel
riquadro “La fonte di ogni ricchezza”, in pagina.]
La fonte di ogni ricchezza
«Il
lavoro non
è la fonte
di ogni ricchezza. La
natura
è la fonte dei valori d'uso (e in questi consiste la ricchezza
effettiva!) altrettanto quanto il lavoro, che, a sua volta, è
soltanto la manifestazione di una forza naturale, la forza-lavoro
umana. (…) E il
lavoro dell'uomo diventa fonte di valore d'uso, e quindi anche di
ricchezza, in quanto l'uomo è fin dal principio in rapporto, in
quanto proprietario, con la natura, fonte di tutti i mezzi e oggetti
di lavoro, e li tratta come cosa che gli appartiene. I borghesi hanno
i loro buoni motivi per attribuire al lavoro una forza
creatrice soprannaturale;
perché proprio dal fatto che il lavoro ha nella natura la sua
condizione deriva che l'uomo, il quale non ha altra proprietà
all'infuori della sua forza-lavoro, deve essere, in tutte le
condizioni di società e di civiltà, lo schiavo degli altri uomini
che si sono resi proprietari delle condizioni materiali del lavoro.
Egli può lavorare solo col loro permesso, e quindi può vivere solo
col loro permesso.»
Karl
Marx, “Critica al Programma di Gotha”, maggio 1875
in
K. Marx – F. Engels, “Opere scelte”, Editori Riuniti, 1969.
______________________________________________________
In
controluce, possiamo stimare la distanza assunta da David Ricardo
da parte di Karl Marx. È a questa concezione che fa riferimento il
discorso di Samir Amin, poc'anzi citato.
Tra
i contemporanei di Marx, la questione dello sviluppo sostenibile è
anticipata dal pensiero economico-filosofico di J. S. Mill
(1806-1873), con sorprendenti accenti premonitori. Mill giunge a
proporre la scelta di una società “stazionaria” che riecheggia
oggi nei sostenitori della “decrescita felice”. Scrive Mill: «Se
la bellezza che la terra deve alle cose venisse distrutta
dall'aumento illimitato della ricchezza e della popolazione (…),
allora io spero sinceramente, per amore della posterità, che questa
sarà contenta di rimanere stazionaria, molto tempo prima di esservi
obbligata dalla necessità.»7
Anni
dopo, sulla scorta delle analisi di Marshall sulle “economie
e diseconomie esterne”, il suo discepolo e successore alla cattedra
di economia politica all'Università di Cambridge, Arthur
Cecil Pigou,8
giunge a dimostrare come le
diseconomie siano causa di non
coincidenza tra il massimo prodotto netto privato ed il massimo
prodotto netto sociale. Le conclusioni a cui perviene Pigou
implicano l'intervento dello Stato a correzione delle diseconomie.
Intervento che diviene non solo “utile” ma indispensabile. È
aperta una breccia che schiuderà ad un percorso di grande sviluppo
per il ruolo dello Stato in economia, anche grazie all'innovativo
contributo di John Maynard Keynes (1883-1946).
Esternalità
Ma
tali costi, tra cui quelli ambientali, possono essere considerati
“esterni” al modo di produzione? O, al contrario, è la stessa
logica del profitto e dell'accumulazione che guida il capitalismo a
porsi strutturalmente in antagonismo con il “sociale”?
Domande
che evocano un chiarimento sul concetto di “sociale”.
Alla
prima domanda si può assentire, purché il modo di produzione venga
considerato non sociale (e non storicamente
determinato).
Dopodiché
andrebbe spiegato come si possa chiedere ad intere regioni o
territori di essere competitors, competitivi con altri
territori, ad esempio, d'Europa, se non considerandoli un tutt'uno
sociale con i “distretti industriali” o la “eccellenza food”
di cui sono sinonimo. Una simile richiesta viene poi rivolta
all'intero Paese, che dovrebbe “fare squadra”, in competizione
concorrenziale col mondo intero...
Nell'attuale
mondo globalizzato la produzione è sempre più socializzata, tanto
più quella erroneamente ritenuta “immateriale”, cresciuta con le
nuove tecnologie. A tal punto socializzata da rendere pressoché
impossibile tracciare una netta demarcazione tra “interno” della
produzione socializzata ed “esterno” della vita sociale sulla
quale impatta.
Eppure
è su questa separazione che insiste una visione dei costi ecologici
assimilata a fatti esteriori: basti pensare al metodo di analisi di
costi/benefici per misurare il valore di scambio, dall'adozione del
quale si perviene ad un “prezzo giusto” per integrare interno ed
esterno delle “diseconomie”.
Su
tale metodo, basato sul valore di scambio e sul supposto “giusto
prezzo”, viene eretta l'idea di “sostenibilità ecologica” del
capitalismo. Essa offre al capitalismo una via d'uscita perché, da
un lato, prescinde dal valore reale del lavoro, mentre, dall'altro,
apre nuovi campi alla “distruzione creativa” della economia di
mercato, di schumpeteriana memoria.9
Ne
deriva, ad esempio, una riconversione “verde” che vuole
sostituire alle energie fossili quelle derivanti dagli
agro-combustibili, con la messa in produzione dei terreni agricoli
dei Paesi poveri per fornire i Paesi ricchi, perpetrando la loro
dipendenza nel quadro della vigente divisione internazionale del
lavoro.
Altrettanto
perniciosa è l'idea di appaltare le risorse naturali del pianeta ad
un “giusto prezzo”, come i diritti di pesca, i permessi di
inquinare e quant'altro.
Inoltre,
le “esternalità” non sono a somma zero:
- un'impresa può inquinare le acque o l'aria, riducendo i propri costi, ma aumentando in misura superiore quelli sociali necessari al disinquinamento;
- non tutte le produzioni comportano inquinamenti “rimediabili a posteriori”, ad esempio quelli delle centrali nucleari.10
La
faccenda si complica se parliamo di cambiamento climatico.
Nel
rapporto 2018, presentato in Corea dal Gruppo intergovernativo sul
cambiamento climatico IPCC (Intergovernmental
Panel on Climate Change),
si indica la soglia limite di incremento della temperatura media
della Terra a 1,5°C.
In assenza di adeguate politiche di contrasto, nel 2100 la
temperatura salirebbe di 3,66°C, con una caduta del Pil mondiale del
2,6%. In altri termini, gli effetti negativi di un secolo di
cambiamento climatico sarebbero equivalenti a quelli di un anno di
recessione economica. A questo punto la logica costi/benefici conduce
inesorabile alla domanda: siamo sicuri
che privilegiare la riduzione delle emissioni, rispetto al Pil, sia
la via “ottimale”?
Poiché
viene dato per scontato che ai più poveri e deboli arrechi più
danni un calo del Pil, piuttosto che una serie di “fenomeni
estremi”, va da sé che la via “ottimale” e maestra
consisterebbe nel mettere al carro del Pil le misure contro il
cambiamento climatico!
Ovviamente,
da simili conteggi è escluso che un nuovo crack finanziario produca
una forte recessione che verrebbe a sommarsi ai “fenomeni estremi”,
come è esclusa la guerra, nella quale si realizza la più efficace
“distruzione creativa”...
La
morale è politica
L'individuazione
delle responsabilità investe la “questione morale” e dunque la
politica.
Alla
ricerca di risposte al quesito posto all'inizio, ho accennato a
quella che si affida ai pentimenti ed ai ravvedimenti operosi.
Tuttavia, subito dopo ho supposto l'esistenza di altre motivazioni,
alla base dell'adozione del tema ecologico, diciamo “interessate”.
Una
parte consistente dei vertici degli oligopoli, posizionati da questa
parte del globo (nord-occidentale), pensa che sia possibile una
ripresa della crescita capitalistica compatibile con l'ambiente.
Magari approfittando della diffusa percezione dello stato di
necessità, per attenere consenso al proprio disegno.
Benché
coinvolti nella massima fruizione distruttiva dei mari, come ad
esempio la grande compagnia di navigazione danese Maersk, con più di
600 navi mercantili, dicono di potersi virtuosamente riconvertire.
Nella
loro prospettiva non rientra minimamente l'idea che i traffici
mondiali di merci connessi alla divisione internazionale del lavoro,
debbano cambiare radicalmente, visto quanto inquinano i mari le navi
portacontainers. Per non parlare dell'enorme estensione del traffico
aereo, di passeggeri e merci, che inquina i cieli. Trascurano
volutamente la contraddizione tra l'idea ecologica del “chilometro
zero” e il devastante “via vai” del free trade, del
commercio internazionale della globalizzazione.
Posta
a confronto con l'inquinamento navale ed aereo, la riconversione dei
propulsori delle auto è piuttosto utile a diminuire i veleni
nell'aria cittadina, ma con scarsi effetti sull'atmosfera terrestre.
Soprattutto è gradita alle grandi case automobilistiche per
risollevarsi, con sconti fiscali, dal calo delle vendite.
Siamo
ben lontani anche solo dall'introdurre l'”economia circolare”, la
quale tra l'altro impone che un prodotto sia concepito sin dal suo
nascere in funzione della rigenerazione naturale di ogni sua parte,
annullando l'idea stessa di rifiuto e di “esternalità”.
Né
pare rientrare nella prospettiva delle grandi industrie fare a meno
delle supply chains, le catene mondiali delle forniture
provenienti dai più disparati Paesi del globo, ciascuno
specializzato (e provvisoriamente competitivo) nella produzione della
singola componente da assemblare nel prodotto finito. Dovrebbero
rinunciare alle “economie di scala” su scala mondiale, nonché
alle sue continue rimodulazioni d'efficienza, con annesse
delocalizzazioni e ricollocazioni.
Che
dire poi delle multinazionali dell'acqua e dell'agro-alimentare che
governano le terre e le tavole?
Pensano
ad una ripresa generale dell'espansione e dell'accumulazione
capitalistica, basata sull'adozione di
nuove tecnologie e di nuovi processi produttivi ecosostenibili.
Vedono nell'ecologismo un'opportunità di profitto, non un limite
invalicabile.
Ma
quali sono le conseguenze della ennesima “distruzione
creatrice” data dalle riconversioni? Come si ritiene possibile
continuare a riversare sulla società, come “esternalità”
collaterali, le conseguenze di un modo di produzione che si
auto-reputa non sociale?
Ecco
il motivo per cui evocano una ripresa del ruolo dello Stato e della
fiscalità pubblica (da loro malridotta), a supporto del loro
dominio, propagandando l'idea che esso possa divenire eco e
socialmente sostenibile.
Tra
gli oligopolisti, i vertici delle multinazionali delle produzioni
cosiddette “immateriali”, si sentono esentati da ogni
responsabilità e costitutivamente ecocompatibili. Come se il
continuo potenziamento del software, pur prescindendo dal
modo materiale in cui viene prodotto, non implicasse una imposizione
a rinnovare l'hardware su cui gira, o la share economy
si reggesse unicamente sugli algoritmi delle loro “app” scaricate
dai cellulari.11
Sopra
a coloro che vedono nell'ecologismo una opportunità piuttosto che un
limite, opera la finanza, elevata al rango di industria produttiva di
valore e ricchezza. Perché mai dovrebbe ritenersi responsabile di
ciò che avviene a causa della sottostante economia “reale”?
Non
sono stati chiamati a rispondere del suo depredamento e, meno ancora,
del depredamento che a sua volta quella economia attua ai danni del
lavoro e della natura. Coloro
che
guadagnano il proprio surplus di danaro dal danaro possono sentirsi
esentati da ogni responsabilità sociale ed ambientale.
Possono continuare a nutrire una falsa immagine di sé e del loro
reale ruolo.
Pertanto,
in mancanza di una generale de-finanziarizzazione, una riconversione
ecologica siffatta, porrebbe le attività finanziarie oligopolistiche
nella condizione di continuare ad estrarre utili anche dalle
produzioni riconvertite. Sicché
l'”azzardo morale” sperimentato dopo il crack del
2007-2008, allorché, ritenute “troppo grandi per fallire”,
furono poi salvate dalle casse pubbliche, si
allargherebbe alla green
economy, sostenuta sin
dall'inizio da quelle stesse casse.
Di
contro, la spinta a mettere i “ceppi alla finanza” e a riportare
in primo piano il ruolo dello Stato in economia, può schiudere nuove
vie ad un vero cambiamento. Per realizzarsi, esso deve assumere come
invalicabile il limite della bio-capacità di società e Paesi di
produrre e riprodurre le condizioni di vita del pianeta in rapporto
al corrispondente consumo delle risorse naturali rese effettivamente
disponibili.
Si
tratta di avviare la transizione da una società basata sul valore di
scambio (e sul prezzo), ad una società basata sul valore d'uso.
Questa assume su di sé la improcrastinabile necessità ecologica,
coniugandola con una piena ed indivisibile responsabilità sociale.
Note:
1
Samir Amin,”The Battlefields Chosen by Contemporary Imperialism:
Conditions for an Effective Response from the South”, tradotto ed
edito da Punto Rosso nel 2010 con il titolo “L'imperialismo
contemporaneo”.
2
L'inglese W. S. Jevons (1835-1882), l'austriaco Carl Menger
(1840-1921) ed il francese Léon Walras (1834-1910) .
3
In
“Principi di economia”, Utet 1972, Marshall scrive: «Discutere
se il valore sia regolato dall'utilità o dal costo di produzione
sarebbe altrettanto ragionevole quanto discutere se, di un paio di
forbici, sia la lama superiore o quella inferiore che taglia un
foglio di carta.»
4
Mariana Mazzuccato, “Il valore di tutto – Chi lo produce e chi
lo sottrae nell'economia globale”, Laterza, 2018.
6
Alla
base del valore di scambio della merce sta la quantità del lavoro
socialmente necessario per produrla, ma, avverte Marx, il prezzo non
dipende solo da questo fattore.
7
J. S. Mill, “Principi di economia politica”, Utet, 1953.
8
L'opera principale di A. C. Pigou (1877-1959), uscita nel 1912 col
titolo “Wealth and Welfare”
(Ricchezza e Benessere), é ripubblicata nel 1920 col titolo “The
Economics of Welfare”, in Italia “Economia del
benessere”, Utet, 1960.
9
In
“Capitalismo, Socialismo e Democrazia” del 1942 (Etas, 2001),
Joseph A. Schumpeter descrive il funzionamento di un’economia di
mercato come un processo di “distruzione creativa”.
10
Alcuni governi, come quello francese, non vi rinunciano. Pretendono
di separare la lotta contro il cambiamento climatico dall'impegno
ecologista più complessivo.
11
Airbnd, ad esempio, genera sconquassi sul mercato delle abitazioni
che, a loro volta, impattano sugli assetti urbanistici...