lunedì 28 ottobre 2019

Non hanno paura di Greta. Perché?


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    - Ambiente e morale della responsabilità -
Greta Thunberg all'ONU


Invitata all'ONU a rappresentare le giovani generazioni impegnate in difesa del pianeta, Greta è stata snobbata dal “negazionista” Donald Trump, che aveva disdetto l'accordo di Parigi sul clima, due anni prima sottoscritto da Obama. In quel momento - era il 2017 - un coro di critiche si alzò da “gran parte del mondo imprenditoriale” e da numerosi governi.1 Oggi quel mondo si mostra in sintonia con Greta ed il movimento di cui è protagonista, dicendosi disposto a contrastare il cambiamento climatico ed intraprendere uno sviluppo ecosostenibile.
In tanto ambientalismo ufficiale qualcosa non quadra: ma il “mondo imprenditoriale” non è lo stesso che ha ridotto il pianeta in queste pietose condizioni, badando, come dice Greta, unicamente al soldo? E gran parte dei governanti, tanto desiderosi di riceverla e di apparirle accanto, non sono gli stessi che hanno politicamente sovrainteso allo scempio?
Vanno capiti i motivi per cui non temono Greta, anzi l'accolgono e la innalzano ad icona mediatica dell'ambientalismo.
***
La nuova ondata ecologista ha l'indubbio merito di riproporre all'ordine del giorno un tema vitale, di non demordere, di chiamare chi sta “in alto” alle proprie responsabilità, certo di gran lunga maggiori di chi (non esente del tutto) sta “in basso”.
Tra i poteri ed i potenti del mondo economico, le posizioni verso l'ambientalismo, da cui troppo spesso derivano quelle dei governi, appaiono alquanto diversi.
Non è difficile individuare coloro che negano sia il cambiamento climatico, sia la insostenibilità della vita umana sul pianeta se proseguisse l'attuale sistema di saccheggio della natura. Sono “negazionisti” e snobbano il movimento, quando non lo avversano apertamente. Di fatto mirano a salvarsi non dai, ma nei mutamenti climatici. Iscrivono la propria salvezza ad una sorta di competizione globale, dalla quale scommettono di uscire “vincenti”, in quanto già sin d'ora più “adatti a farcela”, perché posizionati tra i ricchi e nei Paesi ricchi della Terra.
A questa posizione si oppone uno schieramento piuttosto eterogeneo, principalmente distinto in due correnti:
  1. all'interno dell'establishment l'ecologismo è visto come un'occasione di riconversione e ripresa del capitalismo globalizzato;
  2. fuori dall'establishment, l'ecologismo è concepito come incompatibile con le logiche stesse del capitalismo.
Attenendomi allo scopo di questo articolo mi asterrò, salvo qualche accenno, dal commentare le molte ed importanti posizioni “intermedie” tra le due summenzionate. Intendo focalizzare l'attenzione sul problema della responsabilità morale, giacché è a questa che fa appello la giovane attivista svedese.
Infatti, Greta chiede di ridare speranza alla sua generazione, quasi ammonendo i responsabili dell'incombente disastro a riparare il malfatto, prima che sia troppo tardi. L'accusa e l'invito al ravvedimento, purché sia rapido e concreto, presuppone che anch'essi si sentano minacciati dalle conseguenze del loro stesso operato. Ed il richiamo ad una morale della responsabilità investe il futuro tanto dell'umanità, quanto quello dei propri figli e nipoti.
Una morale, tuttavia, imperniata sul personale individuale e/o tuttalpiù generazionale.
Sicché, a chi in passato ha partecipato all'impegno ed alla mobilitazione ecologista (e pacifista),2 l'incipit di Greta Thunberg può apparire in qualche modo “ingenuo”, in assenza di un più chiaro riferimento alle strutture socio-economiche, alle quali gli individui appartengono.
Difatti, dopo decenni di deregulation e di euforia neoliberista (distruttive dell'ambiente), in seguito alla crisi del 2007-2008, assistiamo al ritorno di una stagnazione economica di lunga durata, ritenuta definitivamente superata dagli anni Ottanta in poi. Da qui il ritorno dell'interesse per l'ecologia.
Una parte del “mondo imprenditoriale” crede di poterla superare attraverso una riconversione “verde” che:
  • da un lato punta ad una “distruzione creativa” delle vecchie produzioni su scala mondiale, attivando nuove tecnologie ecocompatibili;
  • all'altro ripropone l'intervento dello Stato (della cassa pubblica) per pagare i costi della ricerca e delle cosiddette “esternalità”, vale a dire dei danni a società e natura, provocati dalle produzioni e dai connessi consumi di massa.
In cambio, promettono l'abbandono dell'ottica neoliberista, che ha considerato solo gli interessi degli azionisti (shareholders), per abbracciare quella protesa a soddisfare tutte le altre parti coinvolte (stakeholders) dalle attività d'impresa.
Questa componente pensa ad una ripresa generale dell'espansione e della accumulazione capitalistica, basata sull'innovazione di prodotto-processo e sul “consenso attorno” dei cittadini. Vede nell'ecologismo un'opportunità di profitto, non un limite invalicabile.
Ma nei decenni dell'euforia neoliberista l'economia è stata finanziarizzata dai grandi gruppi oligopolistici. La finanza è stata elevata dal pensiero dominante al rango di industria moralmente “meritevole”, in quanto produttiva di valore e ricchezza. Tanto da venire sistematicamente computata nel Pil.
Gli oligopoli, sia propriamente finanziari che finanziarizzati, guadagnano gran parte del proprio surplus di danaro dal danaro. Essendo la finanza riconosciuta come produttiva in sé e per sé, essa si ritiene esente dalla responsabilità ambientale, posta in capo alle produzioni agricole, minerarie, manifatturiere e di servizi. Finge di non sapere che, in realtà, estrae i propri utili non solo dal depauperamento dei salari, ma dal complesso dell'economia “reale”.
Considerando la posizione dominante della finanza nell'attuale mondo economico globalizzato, si palesa una prima contraddizione: come può attuarsi la riconversione ecologica, produttiva e sociale, non mettendone radicalmente in discussione il ruolo, quasi fosse un dettaglio trascurabile? La si reputa eco compatibile e sostenibile?
Inoltre, rispetto alla evocata morale della responsabilità, la dominante finanza, costituita da imprese troppo grandi per fallire (too big to fail), ha già goduto e gode di un ”azzardo morale” (moral hazard),3 al quale si aggiungerebbe quello di estrarre utili da una riconversione produttiva, da subito realizzata con il decisivo apporto di risorse pubbliche.
Inoltre, la riconversione ecologica, vista in contesto più complessivo, ripropone una seconda e più grave contraddizione.
L'espansione e l'accumulazione capitalistica, benché frutto della “distruzione creativa”, rimuovono il vincolo ambientale dato dall'esistenza di un limite. Ossia dalla bio-capacità di società e Paesi di produrre e riprodurre le condizioni di vita del pianeta, posto in relazione con il corrispondente consumo limitato (alla bio-capacità) delle risorse.
Come si pensa di conciliare questo limite invalicabile con l'illimitato consumo delle risorse, insito nel modo di produzione capitalistico? In altri termini, può esistere, a dispetto dell'esperienza storica, un capitalismo “stazionario”?
La visione dell'ecologismo, alimentata fuori dall'establishment, chiama in causa una concezione della società non più basata sul valore di scambio (e sul prezzo), ma sul valore d'uso di cui la natura è sorgente prima ed irrinunciabile. Chiama ad un cambiamento radicale della morale della responsabilità.
Note:
2 Le lotte per l'ambiente e la pace si sono sempre inevitabilmente intrecciate.
3 Si parla di moral hazard, giacché il rischio delle grandi imprese finanziarie di fallire è azzerato dalle conseguenze sistemiche che il loro fallimento comporta (too big to fail). Ragione per la quale ogni loro azzardo é di fatto coperto dalla fiscalità pubblica.
[Per un approfondimento, leggere quanto segue...]


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Non hanno paura di Greta. Perché? [2]

- Ambiente e morale della responsabilità -
Il produttivo di valore
La propensione dell'establishment globale a preferire il tema ecologico come campo di battaglia (il terreno a sé più favorevole) data da lunga pezza. Samir Amin1 vide comparire questa tendenza già alla Conferenza di Stoccolma del 1972.
Tuttavia, lo studioso terzomondista avvertì che il campo era “minato” per chi l'aveva prescelto per riaffermare la propria egemonia, alla ricerca di consenso attorno al dominio. Quel campo poteva rivelarsi un terreno propizio per le forze del cambiamento radicale, qualora queste, nello sviluppo della propria lotta, avessero saputo utilizzare al meglio il valore d'uso sociale, contenuto nella nuova categoria della “impronta ecologica”. [Vedi nella finestra “Valore d'uso sociale”, in pagina.]

Valore d'uso sociale

«Wackernagel e Rees portarono alla ribalta una nuova categoria, quella dell'impronta ecologica, e non solo. Essi elaborarono un sistema per misurarla, definito in termini di 'ettari globali', mettendo a confronto la bio-capacità di società e paesi (la loro capacità di produrre e riprodurre le condizioni di vita del pianeta) con il consumo delle risorse a loro disposizione grazie a questa bio-capacità.
Gli autori pervennero a una conclusione inquietante. La bio-capacità del nostro pianeta, in termini umani, è di 2,1 ettari globali (gha) pro-capite, in altri termini 13,2 miliardi di gha per una popolazione di 6,3 miliardi di persone. Comunque, il livello medio delle risorse a livello mondiale raggiungeva già, a metà degli anni novanta, 2,7 gha. Il termine 'medio' nasconde una enorme disparità: la media dei paesi della Triade (ndr: Usa, Ue e Giappone) aveva già quadruplicato la media mondiale. Gran parte della bio-capacità delle società del Sud era stata assorbita dal centro per il proprio profitto. (…)
In tal modo si dimostra che è possibile calcolare il valore d'uso sociale in modo assolutamente razionale. Questa prova ha un impatto decisivo, poiché il socialismo è definito come società basata sul valore d'uso e non sul valor di scambio.»

Samir Amin, “L'imperialismo contemporaneo”, Punto Rosso, 2010, pagg. 13-15.
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Tale impronta non si misura in dollari o in altra moneta, sicché il valore della natura non è prezzato. In una economia che deriva il valore dal prezzo, la categoria dell'impronta ecologica misurabile rappresenta un vero e proprio cambio di paradigma che incontra il sentire popolare. Infatti, benché ci siamo dovuti abituare a prezzare la terra, i boschi ed ogni bene naturale, tra cui anche la forza-lavoro umana, resistiamo al tentativo di venderci l'acqua comunale come una qualsiasi merce. Per il comun sentire, la natura e gli elementi primi di cui si compone “non hanno prezzo”.
D'altro canto, l'abitudine a considerare ogni bene naturale una merce scambiabile, con relativo prezzo, non cade dal cielo. Al suo affermarsi contribuisce il prevalere di una determinata ideologia del valore e della ricchezza. Per chiarire questo punto, ricordo alcuni passaggi della storia del pensiero economico per la loro influenza sulle idee dominanti.
Per un pensatore classico dell'economia politica come David Ricardo (1772-1823), il valore proveniva dalla produzione. Sicché i proprietari delle terre e delle miniere, posti a confronto con gli imprenditori agricoli ed industriali, fruivano di rendite impropriamente percepite. In altri termini: estraevano valore pur non avendo alcun “merito” nel produrlo. Produttivo di valore era solo il lavoro incorporato nella merce, quantificabile in base al tempo impiegato per produrla.
Nella seconda metà dell'Ottocento avviene una svolta: l'”utilità marginale” diventa l'elemento base unificante della scienza economica. Ne furono iniziatori studiosi di più parti dell'Europa,2 vissuti tra la seconda metà dell'Ottocento ed i primi del Novecento.
I redditi dei fattori produttivi diventano nient'altro che prezzi determinati dal mercato. Tutto ciò che è scambiato ad un prezzo, costituisce valore. Viene invertita la sequenza logica: invece che dalla produzione al consumo, l'analisi parte dal comportamento del consumatore per giungere a quello della produzione. Si passò dall'approccio "oggettivo" a quello "soggettivo", in quanto il valore di un bene non derivava più dal lavoro, bensì dalla preferenza accordata dall'acquirente al bene, in base alla sua percezione di utilità. Utilità definita marginale, o finale, perché decrescente col decrescere della soddisfazione nel consumarlo. Alla percezione di utilità corrispondeva la disponibilità a pagarne il relativo prezzo. Con l'utilità marginale, aspetto non secondario, la scena è dominata dall'individuo e scompaiono le classi.
Alfred Marshall (1842-1924), docente all'università di Cambridge, diede forma più completa ed articolata al marginalismo. Nel farlo, finì per evidenziarne le criticità. Oggetto dei suoi studi: il cosiddetto “equilibrio generale”. Cercò di conciliare la dicotomia tra valore-costo della produzione e valore-utilità del consumo (paragonati ad un paio di forbici3), tra valori determinati dalla domanda e dall'offerta, analizzando equilibri e squilibri di mercato nel brevissimo, nel breve e nel lungo periodo. Poiché la crescita capitalistica si dimostrava altamente squilibrata e contraddiceva la teoria dell'”equilibrio generale”, elaborò la teoria degli “equilibri parziali”.
Tra i suoi vari apporti, per quel che qui ci interessa, va evidenziata l'attenzione da lui posta alle “economie e diseconomie esterne”.
La determinazione di ciò che è produttivo (rispetto a cosa invece non lo è), si è venuta spostando col mutare della società e del capitalismo. Le aree dell'attività economica definite produttive si sono vieppiù allargate. Per comprendere l'entità di questa estensione, basti segnalare che nella ricchezza nazionale, oggetto degli studi di Adam Smith (1723-1790) fondatore dell'economia politica classica, sino a tempi recenti non rientravano le attività finanziarie, ritenute oggi una vera e propria industria generatrice di valore. Tanto da venire contabilizzate nel Pil. Alla finanza viene riconosciuto il merito di contribuire alla ricchezza nazionale, in base all'idea di valore del marginalismo, reiterata dal neoliberismo.
Finanza meritevole
Che la creazione di ricchezza sia merito di chi fa denaro col denaro può apparire una stranezza.
A questo proposito, Mariana Mazzuccato4 ha scritto: «Se il valore deriva dal prezzo, come sostiene l'economia neoclassica, il reddito derivante dalla rendita deve essere produttivo. Perciò oggigiorno il concetto di reddito non guadagnato è scomparso.»
Come è potuto accadere che l'estrazione di valore, tipico di ogni rendita e specifico di chi fa danaro col danaro, sia divenuta creazione di valore?
Lo spostamento della finanza dall'esterno all'interno della produzione di valore, è dovuto alla progressiva finanziarizzazione dell'insieme dell'economia, alla quale ha concorso in modo decisivo la deregulation.
Le premesse teoriche della finanziarizzazione sono rintracciabili nel ruolo unico affidato alle banche nello sviluppo economico, grazie ad alcuni economisti della metà del ventesimo secolo, quali J. A. Schumpeter (il teorico della “distruzione creativa”) ed A. Gerschenkron.
Osserva Mazzuccato: «Il settore finanziario ora rappresenta una notevole e crescente parte del valore aggiunto dell'economia e degli utili societari. Ma solo il 15% dei fondi erogati va ad imprese non finanziarie. Il resto viene scambiato tra istituzioni finanziarie, facendo soldi semplicemente con lo scambio di soldi, un fenomeno che si è molto sviluppato dando origine a ciò che Hyman Minsky chiamava “money manager capitalism” (“il capitalismo dei gestori del denaro”).»
Il forte accentramento di utili dell'economia in capo alla finanza segna i tempi del suo sopravvento: «Quando iniziò la deregolamentazione nei primi anni Ottanta, gli utili delle società finanziarie del settore privato – che si erano aggirati intorno al 10-15% degli utili totali delle società nei quarant'anni dopo la Seconda guerra mondiale – salirono di oltre il 20%, toccando il 40% all'inizio del ventunesimo secolo (figura 15).»
[Vedi la figura 15, riportata qui sotto.]
Il fenomeno non è dovuto unicamente alle società bancarie e finanziarie, definite in senso stretto. Pure le altre grandi imprese finanziarizzano le loro attività di produzione e distribuzione per renderle redditizie, almeno quanto quelle delle imprese finanziarie propriamente dette. Ad esempio, negli anni 2000 il ramo americano della Ford ha realizzato più utili con i prestiti sulle auto che vendendo le auto stesse. Nel medesimo periodo, anche il ramo finanziario di General Electric ha fatto quasi la metà degli utili di tutto il gruppo.
Dediti esclusivamente alle attività finanziarie o meno, la finanziarizzazione dell'economia è dovuta ad un esiguo numero di oligopoli.
Il peso “produttivo” attribuito alle attività finanziarie comporta delle conseguenze: da un lato falsa la misurazione dell'effettiva crescita della ricchezza nazionale e globale e, seppure “mediata” da una serie di accorgimenti tecnico-contabili, dello stesso Pil; dall'altro, è fuorviante ai fini della valutazione delle performances del capitalismo liberalizzato dagli anni Ottanta in poi e del suo attuale stato di salute.
Abbiamo incominciato a conoscere quanto pesi la finanziarizzazione oligopolistica nel determinare le diseguaglianze sociali, l'estrema polarizzazione di reddito e ricchezza a fronte della crescita delle povertà, che dalle periferie del Sud del mondo tende ad estendersi ad ampi strati di popolazione dei Paesi ricchi del centro. Ma poco ci è dato sapere sul nesso diretto tra finanza, sue “responsabilità”, ed emergenza ambientale. A questo proposito permane uno spesso velo ideologico. Seppure qualche indizio ci provenga dal risalto dato alle iniziative per una “finanza sostenibile”,5 ammettendo implicitamente che quella attuale non lo è affatto.
Il pensiero contro e quasi contro
Facciamo un passo indietro.
Karl Marx (1818-1883) muove dalla critica dell'economia politica di Smith e Ricardo, mutuando da quest'ultimo l'dea del valore-lavoro, per inserirla in una visione teorica estranea al suo predecessore. Considera il produttivo di valore in relazione al Capitale nei suoi rapporti sociali e storici di produzione, all'interno dei quali si determina.
Nel capitalismo è produttiva l'attività economica che genera profitto attraverso la merce. La sequenza da Denaro-Merce-Denaro (D-M-D), precapitalistica, diventa D-M-D', allargata, giacché in quel D' giace il plus-valore estorto al lavoro. Di fronte al già presente fenomeno finanziario, Marx descrive il passaggio diretto D-D', dove scompare M, ossia la merce.
Nel capitalismo è il valore di scambio ad assumere il ruolo chiave.6
Ad esso Marx contrappone il valore d'uso, in una concezione della ricchezza, nella quale la natura assume una posizione primigenia. [Vedi nel riquadro “La fonte di ogni ricchezza”, in pagina.]

La fonte di ogni ricchezza

«Il lavoro non è la fonte di ogni ricchezza. La natura è la fonte dei valori d'uso (e in questi consiste la ricchezza effettiva!) altrettanto quanto il lavoro, che, a sua volta, è soltanto la manifestazione di una forza naturale, la forza-lavoro umana. (…) E il lavoro dell'uomo diventa fonte di valore d'uso, e quindi anche di ricchezza, in quanto l'uomo è fin dal principio in rapporto, in quanto proprietario, con la natura, fonte di tutti i mezzi e oggetti di lavoro, e li tratta come cosa che gli appartiene. I borghesi hanno i loro buoni motivi per attribuire al lavoro una forza creatrice soprannaturale; perché proprio dal fatto che il lavoro ha nella natura la sua condizione deriva che l'uomo, il quale non ha altra proprietà all'infuori della sua forza-lavoro, deve essere, in tutte le condizioni di società e di civiltà, lo schiavo degli altri uomini che si sono resi proprietari delle condizioni materiali del lavoro. Egli può lavorare solo col loro permesso, e quindi può vivere solo col loro permesso.»

Karl Marx, “Critica al Programma di Gotha”, maggio 1875
in K. Marx – F. Engels, “Opere scelte”, Editori Riuniti, 1969.
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In controluce, possiamo stimare la distanza assunta da David Ricardo da parte di Karl Marx. È a questa concezione che fa riferimento il discorso di Samir Amin, poc'anzi citato.
Tra i contemporanei di Marx, la questione dello sviluppo sostenibile è anticipata dal pensiero economico-filosofico di J. S. Mill (1806-1873), con sorprendenti accenti premonitori. Mill giunge a proporre la scelta di una società “stazionaria” che riecheggia oggi nei sostenitori della “decrescita felice”. Scrive Mill: «Se la bellezza che la terra deve alle cose venisse distrutta dall'aumento illimitato della ricchezza e della popolazione (…), allora io spero sinceramente, per amore della posterità, che questa sarà contenta di rimanere stazionaria, molto tempo prima di esservi obbligata dalla necessità.»7
Anni dopo, sulla scorta delle analisi di Marshall sulle “economie e diseconomie esterne”, il suo discepolo e successore alla cattedra di economia politica all'Università di Cambridge, Arthur Cecil Pigou,8 giunge a dimostrare come le diseconomie siano causa di non coincidenza tra il massimo prodotto netto privato ed il massimo prodotto netto sociale. Le conclusioni a cui perviene Pigou implicano l'intervento dello Stato a correzione delle diseconomie. Intervento che diviene non solo “utile” ma indispensabile. È aperta una breccia che schiuderà ad un percorso di grande sviluppo per il ruolo dello Stato in economia, anche grazie all'innovativo contributo di John Maynard Keynes (1883-1946).
Esternalità
Ma tali costi, tra cui quelli ambientali, possono essere considerati “esterni” al modo di produzione? O, al contrario, è la stessa logica del profitto e dell'accumulazione che guida il capitalismo a porsi strutturalmente in antagonismo con il “sociale”?
Domande che evocano un chiarimento sul concetto di “sociale”.
Alla prima domanda si può assentire, purché il modo di produzione venga considerato non sociale (e non storicamente determinato).
Dopodiché andrebbe spiegato come si possa chiedere ad intere regioni o territori di essere competitors, competitivi con altri territori, ad esempio, d'Europa, se non considerandoli un tutt'uno sociale con i “distretti industriali” o la “eccellenza food” di cui sono sinonimo. Una simile richiesta viene poi rivolta all'intero Paese, che dovrebbe “fare squadra”, in competizione concorrenziale col mondo intero...
Nell'attuale mondo globalizzato la produzione è sempre più socializzata, tanto più quella erroneamente ritenuta “immateriale”, cresciuta con le nuove tecnologie. A tal punto socializzata da rendere pressoché impossibile tracciare una netta demarcazione tra “interno” della produzione socializzata ed “esterno” della vita sociale sulla quale impatta.
Eppure è su questa separazione che insiste una visione dei costi ecologici assimilata a fatti esteriori: basti pensare al metodo di analisi di costi/benefici per misurare il valore di scambio, dall'adozione del quale si perviene ad un “prezzo giusto” per integrare interno ed esterno delle “diseconomie”.
Su tale metodo, basato sul valore di scambio e sul supposto “giusto prezzo”, viene eretta l'idea di “sostenibilità ecologica” del capitalismo. Essa offre al capitalismo una via d'uscita perché, da un lato, prescinde dal valore reale del lavoro, mentre, dall'altro, apre nuovi campi alla “distruzione creativa” della economia di mercato, di schumpeteriana memoria.9
Ne deriva, ad esempio, una riconversione “verde” che vuole sostituire alle energie fossili quelle derivanti dagli agro-combustibili, con la messa in produzione dei terreni agricoli dei Paesi poveri per fornire i Paesi ricchi, perpetrando la loro dipendenza nel quadro della vigente divisione internazionale del lavoro.
Altrettanto perniciosa è l'idea di appaltare le risorse naturali del pianeta ad un “giusto prezzo”, come i diritti di pesca, i permessi di inquinare e quant'altro.
Inoltre, le “esternalità” non sono a somma zero:
  1. un'impresa può inquinare le acque o l'aria, riducendo i propri costi, ma aumentando in misura superiore quelli sociali necessari al disinquinamento;
  2. non tutte le produzioni comportano inquinamenti “rimediabili a posteriori”, ad esempio quelli delle centrali nucleari.10
La faccenda si complica se parliamo di cambiamento climatico.
Nel rapporto 2018, presentato in Corea dal Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change), si indica la soglia limite di incremento della temperatura media della Terra a 1,5°C. In assenza di adeguate politiche di contrasto, nel 2100 la temperatura salirebbe di 3,66°C, con una caduta del Pil mondiale del 2,6%. In altri termini, gli effetti negativi di un secolo di cambiamento climatico sarebbero equivalenti a quelli di un anno di recessione economica. A questo punto la logica costi/benefici conduce inesorabile alla domanda: siamo sicuri che privilegiare la riduzione delle emissioni, rispetto al Pil, sia la via “ottimale”?
Poiché viene dato per scontato che ai più poveri e deboli arrechi più danni un calo del Pil, piuttosto che una serie di “fenomeni estremi”, va da sé che la via “ottimale” e maestra consisterebbe nel mettere al carro del Pil le misure contro il cambiamento climatico!
Ovviamente, da simili conteggi è escluso che un nuovo crack finanziario produca una forte recessione che verrebbe a sommarsi ai “fenomeni estremi”, come è esclusa la guerra, nella quale si realizza la più efficace “distruzione creativa”...
La morale è politica
L'individuazione delle responsabilità investe la “questione morale” e dunque la politica.
Alla ricerca di risposte al quesito posto all'inizio, ho accennato a quella che si affida ai pentimenti ed ai ravvedimenti operosi. Tuttavia, subito dopo ho supposto l'esistenza di altre motivazioni, alla base dell'adozione del tema ecologico, diciamo “interessate”.
Una parte consistente dei vertici degli oligopoli, posizionati da questa parte del globo (nord-occidentale), pensa che sia possibile una ripresa della crescita capitalistica compatibile con l'ambiente. Magari approfittando della diffusa percezione dello stato di necessità, per attenere consenso al proprio disegno.
Benché coinvolti nella massima fruizione distruttiva dei mari, come ad esempio la grande compagnia di navigazione danese Maersk, con più di 600 navi mercantili, dicono di potersi virtuosamente riconvertire.
Nella loro prospettiva non rientra minimamente l'idea che i traffici mondiali di merci connessi alla divisione internazionale del lavoro, debbano cambiare radicalmente, visto quanto inquinano i mari le navi portacontainers. Per non parlare dell'enorme estensione del traffico aereo, di passeggeri e merci, che inquina i cieli. Trascurano volutamente la contraddizione tra l'idea ecologica del “chilometro zero” e il devastante “via vai” del free trade, del commercio internazionale della globalizzazione.
Posta a confronto con l'inquinamento navale ed aereo, la riconversione dei propulsori delle auto è piuttosto utile a diminuire i veleni nell'aria cittadina, ma con scarsi effetti sull'atmosfera terrestre. Soprattutto è gradita alle grandi case automobilistiche per risollevarsi, con sconti fiscali, dal calo delle vendite.
Siamo ben lontani anche solo dall'introdurre l'”economia circolare”, la quale tra l'altro impone che un prodotto sia concepito sin dal suo nascere in funzione della rigenerazione naturale di ogni sua parte, annullando l'idea stessa di rifiuto e di “esternalità”.
Né pare rientrare nella prospettiva delle grandi industrie fare a meno delle supply chains, le catene mondiali delle forniture provenienti dai più disparati Paesi del globo, ciascuno specializzato (e provvisoriamente competitivo) nella produzione della singola componente da assemblare nel prodotto finito. Dovrebbero rinunciare alle “economie di scala” su scala mondiale, nonché alle sue continue rimodulazioni d'efficienza, con annesse delocalizzazioni e ricollocazioni.
Che dire poi delle multinazionali dell'acqua e dell'agro-alimentare che governano le terre e le tavole?
Pensano ad una ripresa generale dell'espansione e dell'accumulazione capitalistica, basata sull'adozione di nuove tecnologie e di nuovi processi produttivi ecosostenibili. Vedono nell'ecologismo un'opportunità di profitto, non un limite invalicabile.
Ma quali sono le conseguenze della ennesima “distruzione creatrice” data dalle riconversioni? Come si ritiene possibile continuare a riversare sulla società, come “esternalità” collaterali, le conseguenze di un modo di produzione che si auto-reputa non sociale?
Ecco il motivo per cui evocano una ripresa del ruolo dello Stato e della fiscalità pubblica (da loro malridotta), a supporto del loro dominio, propagandando l'idea che esso possa divenire eco e socialmente sostenibile.
Tra gli oligopolisti, i vertici delle multinazionali delle produzioni cosiddette “immateriali”, si sentono esentati da ogni responsabilità e costitutivamente ecocompatibili. Come se il continuo potenziamento del software, pur prescindendo dal modo materiale in cui viene prodotto, non implicasse una imposizione a rinnovare l'hardware su cui gira, o la share economy si reggesse unicamente sugli algoritmi delle loro “app” scaricate dai cellulari.11
Sopra a coloro che vedono nell'ecologismo una opportunità piuttosto che un limite, opera la finanza, elevata al rango di industria produttiva di valore e ricchezza. Perché mai dovrebbe ritenersi responsabile di ciò che avviene a causa della sottostante economia “reale”?
Non sono stati chiamati a rispondere del suo depredamento e, meno ancora, del depredamento che a sua volta quella economia attua ai danni del lavoro e della natura. Coloro che guadagnano il proprio surplus di danaro dal danaro possono sentirsi esentati da ogni responsabilità sociale ed ambientale. Possono continuare a nutrire una falsa immagine di sé e del loro reale ruolo.
Pertanto, in mancanza di una generale de-finanziarizzazione, una riconversione ecologica siffatta, porrebbe le attività finanziarie oligopolistiche nella condizione di continuare ad estrarre utili anche dalle produzioni riconvertite. Sicché l'”azzardo morale” sperimentato dopo il crack del 2007-2008, allorché, ritenute “troppo grandi per fallire”, furono poi salvate dalle casse pubbliche, si allargherebbe alla green economy, sostenuta sin dall'inizio da quelle stesse casse.
Di contro, la spinta a mettere i “ceppi alla finanza” e a riportare in primo piano il ruolo dello Stato in economia, può schiudere nuove vie ad un vero cambiamento. Per realizzarsi, esso deve assumere come invalicabile il limite della bio-capacità di società e Paesi di produrre e riprodurre le condizioni di vita del pianeta in rapporto al corrispondente consumo delle risorse naturali rese effettivamente disponibili.
Si tratta di avviare la transizione da una società basata sul valore di scambio (e sul prezzo), ad una società basata sul valore d'uso. Questa assume su di sé la improcrastinabile necessità ecologica, coniugandola con una piena ed indivisibile responsabilità sociale.
Note:
1 Samir Amin,”The Battlefields Chosen by Contemporary Imperialism: Conditions for an Effective Response from the South”, tradotto ed edito da Punto Rosso nel 2010 con il titolo “L'imperialismo contemporaneo”.
2 L'inglese W. S. Jevons (1835-1882), l'austriaco Carl Menger (1840-1921) ed il francese Léon Walras (1834-1910) .
3 In “Principi di economia”, Utet 1972, Marshall scrive: «Discutere se il valore sia regolato dall'utilità o dal costo di produzione sarebbe altrettanto ragionevole quanto discutere se, di un paio di forbici, sia la lama superiore o quella inferiore che taglia un foglio di carta.»
4 Mariana Mazzuccato, “Il valore di tutto – Chi lo produce e chi lo sottrae nell'economia globale”, Laterza, 2018.
6 Alla base del valore di scambio della merce sta la quantità del lavoro socialmente necessario per produrla, ma, avverte Marx, il prezzo non dipende solo da questo fattore.
7 J. S. Mill, “Principi di economia politica”, Utet, 1953.
8 L'opera principale di A. C. Pigou (1877-1959), uscita nel 1912 col titolo “Wealth and Welfare” (Ricchezza e Benessere), é ripubblicata nel 1920 col titolo “The Economics of Welfare”, in Italia “Economia del benessere”, Utet, 1960.
9 In “Capitalismo, Socialismo e Democrazia” del 1942 (Etas, 2001), Joseph A. Schumpeter descrive il funzionamento di un’economia di mercato come un processo di “distruzione creativa”.
10 Alcuni governi, come quello francese, non vi rinunciano. Pretendono di separare la lotta contro il cambiamento climatico dall'impegno ecologista più complessivo.
11 Airbnd, ad esempio, genera sconquassi sul mercato delle abitazioni che, a loro volta, impattano sugli assetti urbanistici...

giovedì 3 ottobre 2019

L'Oracolo algoritmico

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È rimasta nella memoria di molti la domanda rivolta dalla regina Elisabetta agli accademici della prestigiosa London School of Economics:
"Ma perché nessuno ha visto arrivare questa crisi economica?"
Got save the Queen!
Era il novembre del 2008.
In realtà la più grande crisi dal crollo del '29, ancora un volta innescata da un crack finanziario nord-americano, era stata prevista da alcuni economisti controcorrente e “poveri”, ma non dai più accreditati nell'establishment, premi Nobel inclusi, che pur disponevano di enormi mezzi per effettuare le loro diagnosi. Mezzi comprensivi di numerosi collaboratori esperti, un mare di dati base storici, elaboratori elettronici all'avanguardia, linee informative privilegiate, sofisticati algoritmi.
Gli uni hanno previsto giusto e gli altri hanno clamorosamente fallito. Perché?
L'Oracolo al 2.0
La ragione del fallimento potrebbe dipendere dal fatto che la scienza delle previsioni, basata sugli algoritmi, non fosse matura, o non lo fosse a sufficienza per affrontare problemi economici e sociali di tale complessità. A distanza di 10 anni dal 2008, tuttavia, questa immaturità sembra essere superata. Lo annuncia Alessandro Vespignani, uno dei massimi esperti mondiali in materia.
Nel libro “L'algoritmo e l'oracolo”1 non sviluppa «un'analisi di quali previsioni funzionano o no.» Non traccia un bilancio delle loro vittorie e sconfitte, ivi comprese quelle riguardanti l'economia e la finanza, ma spiega i motivi per cui l'Oracolo dei nostri giorni ha acquisito nuove sorprendenti potenzialità. Motivi che lo mettono in grado di predirci con successo cosa accadrà in futuro anche in campo umano e sociale, valicando i limiti delle scienze naturali, entro i quali si è prevalentemente esercitato. L'autore ne è convinto, anche per i risultati conseguiti nelle predizioni sulla diffusione delle epidemie che hanno incluso «nelle proiezioni le condizioni socioeconomiche degli individui».
Secondo Vespignani, due rivoluzioni hanno consentito il nuovo potere predittivo:
  1. la “scienza della complessità”, attraverso la quale «abbiamo infatti scoperto che sistemi come le strutture gerarchiche delle formiche non sono il risultato di una leadership, ma la conseguenza di fenomeni collettivi, descrivibili matematicamente e statisticamente, che emergono da semplici interazioni tra un grande numero di individui»;
  2. la rivoluzione digitale che mappa la nostra quotidianità, accumula una montagna di dati storici e statistici, trasformandoli in apprendimento automatico (learning machine) tramite gli algoritmi. «Abbiamo costruito algoritmi basati su equazioni e regole che simulano gli individui e le loro interazioni.» Gli algoritmi trasformano i dati in potere predittivo.
In quanto potere, avverte Vespignani in modo politically correct, può essere usato per manipolarci e controllarci, o, al contrario, per consentirci di migliorare il nostro futuro.

Algoritmi
«Semplificando, definiamo “algoritmi” una serie di istruzioni precise ed espressioni matematiche che usiamo per trovare associazioni, identificare tendenze, estrarre le leggi e le dinamiche alla base di fenomeni come il contagio, la diffusione delle idee, o l'andamento dei mercati finanziari.»
«Un algoritmo è un insieme di regole che definiscono con precisione una sequenza di operazioni. Gli algoritmi possono eseguire operazioni di calcolo, elaborazione dati e ragionamento automatico, e sono fondamentali per il modo in cui i computer eseguono istruzioni specifiche.»
Le citazioni racchiuse tra i caratteri « », presenti nell'articolo e nei riquadri, sono tutte tratte dal libro di Alessandro Vespignani “L'algoritmo e l'oracolo”.
Curiosità inevase
Non traendo un bilancio delle predizioni che funzionano o no, la curiosità pedestre del lettore non viene soddisfatta.
Ad esempio: le offerte “personalizzate” che riceviamo con la posta elettronica quotidiana, in base alle nostre “preferenze” opportunamente catalogate in un profilo psico-sociale, rientrano nella manipolazione o nel miglioramento della qualità della nostra vita?
Analogamente, saremmo curiosi di conoscere eventuali previsioni sulle conseguenze sociali delle applicazioni utilizzate da Uber o da Airbnb.2
Un fattorino in bicicletta di Uber Eats
Potendo disporre dei dati operativi registrati e mappati dai cellulari, nonché dell'interazione tra i diversi gruppi umani coinvolti (le imprese multinazionali detentrici delle App, i fattorini in bicicletta, i viaggiatori in cerca di passaggio auto, i turisti e i residenti alla ricerca di alloggio, eccetera), tramite adeguate costruzioni algoritmiche, la scienza delle previsioni non dovrebbe incontrare soverchie difficoltà nel definire l'impatto sociale e persino prospettare soluzioni politiche ai derivanti problemi.
Il che ci risparmierebbe inutili fatiche, condotte secondo obsoleti metodi e strumenti, per comprendere tutti i risvolti della sharing economy. O siete scettici a tale proposito?
Dal meccanico al probabile
Da un punto di vista concettuale, la scienza delle predizioni per avere successo deve potersi dotare di una teoria, senza la quale è perlomeno depotenziata.
Sostiene infatti Vespignani: «La scienza delle predizioni è però dotata di un'arma più potente e straordinaria del punto di vista concettuale. La teoria.»
Per dimostrarlo ricorre all'esempio dell'astronomia.
Grazie al telescopio, Galileo Galilei è riuscito a scrutare il cielo e porre le basi per la legge di gravitazione universale e le leggi del moto poi formulate da Isaac Newton.
Il fenomeno, codificato in equazioni, a loro volta basate su leggi fisiche, produce «un modello che si fonda sui meccanismi d'interazione tra i corpi celesti, ed esegue le previsioni sulla base della comprensione delle interazioni tra i vari elementi del sistema. Non dobbiamo più osservare il sistema per molti anni e costruire un modello empirico. Abbiamo invece un modello meccanicistico che usa una costruzione algoritmica, ovvero un insieme di istruzioni e calcoli matematici, per prevedere il futuro.»
Fu così che dalla rilevazione del “moto anomalo” di Urano si giunse ad ipotizzare l'esistenza di un altro pianeta, poi sperimentalmente osservato e battezzato Nettuno.
Tuttavia, sulla scorta delle difficoltà incontrate in meteorologia, all'approccio del determinismo meccanico è subentrato quello delle “previsioni probabilistiche”.
«La difficoltà delle previsioni meteorologiche, infatti, non risiede solamente nel numero di equazioni e variabili; esiste un problema fondamentale, legato al fatto che in queste equazioni anche una piccola variazione sulle condizioni iniziali viene amplificata in modo esponenziale.» Si tratta del cosiddetto “effetto farfalla”, nato dal modo di dire: “una farfalla che batte le ali in Indonesia può provocare un uragano in Florida.”
Constato che le previsioni sul clima generato dal surriscaldamento globale sono probabilistiche, benché, in mancanza di una tempestiva “rivoluzione solare”, risulti difficile determinare quali effettive chances di sopravvivenza abbia il genere umano.
Ad ogni modo, data la potenza di calcolo, basata su un afflusso di dati socioeconomici senza precedenti, la scienza delle previsioni si appresta a varcare in modo sistematico i limiti delle scienze naturali per entrare da protagonista nelle scienze umane e sociali. «La scienza delle previsioni si è evoluta assimilando dati, modelli matematici, intelligenza artificiale, tramutando l'uomo in un atomo sociale e rendendolo quindi predicibile.»
Gerarchie
I più accreditati studiosi di economia e finanza hanno fallito, non sapendo prevedere la crisi del 2008, pur disponendo di già sofisticati algoritmi. Ancor meno hanno previsto le dimensioni della spaventosa crescita delle disuguaglianze planetarie, in seguito alla globalizzazione capitalistica contemporanea.
I modelli delle “reti relazionali” potranno aiutarci ad evitare futuri ulteriori fallimenti?
In questo specifico ambito di studi si è verificato un sorprendente ribaltamento: una teoria economica è stata assunta a modello per una ricerca della “fisica sociale”, mentre prevale la tendenza delle scienze umane, in economia a esempio, ad introiettare modelli dalle scienze della natura.
La teoria economica è quella di Vilfredo Pareto (1848-1923), per la quale nel capitalismo meno del 20% della popolazione è destinata a possedere più ricchezza di oltre il restante l'80%. La previsione di Pareto è confermata su scala mondiale dal distribuirsi a “coppa di champagne” del reddito [vedi grafico qui sotto] ma pare non turbi granché i teorici pluripremiati del neoliberismo.

Trascurata da molta scienza economica per diagnosticare le tendenze della globalizzazione capitalistica contemporanea, è stata invece assunta all'interno del modello di rete dei flussi relazionali elaborato da uno scienziato ungherese originario della Transilvania, Albert-László Barabási.
Nel 1999 elabora un modello: «Il modello era basato su due principi (…). Il primo è che le reti sociali ma anche tecnologiche e infrastrutturali, sono oggetti dinamici, in continua crescita. I nuovi nodi che entrano nelle reti – che siano persone in una rete sociale o computer che si allacciano ad Internet – devono decidere con chi stabilire le loro connessioni e interazioni. Il secondo principio è proprio un meccanismo di scelta basato sulla nostra tendenza a preferire connessioni con chi è altamente connesso.»
A chi l'”atomo sociale” accorderà la “preferenza” relazionale e connettiva, se non a chi è già altamente connesso? La scienza delle reti adotta la teoria di Pareto per dirci che la società capitalistica gerarchizzata nella ricchezza si riprodurrà nella società gerarchizzata nelle connessioni.
Potenza delle previsioni: le gerarchie sociali rimarranno immutate e ben conservate, giacché per ritrovarsi ancora in quel “meno del 20%” ai più ricchi basterà dominare l'orientamento delle “preferenze” nelle connessioni, con la fastidiosa variante (aggiungo) di dover accettare tra le proprie fila qualche parvenu, magari tra gli influencers marketing, che la darwiniana “selezione delle specie” loro imporrà.
Presupposti teorici
In seguito alle mancate previsioni degli economisti main stream sulla crisi è nata una discussione sulla validità della matematica in quanto tale. Una discussione che mi pare manchi di cogliere il punto essenziale. Sarebbe assurdo inibirci l'uso del linguaggio matematico, o dei linguaggi, visto che esistono più matematiche. Purché non si pretenda di conferire loro una insita ed indiscutibile capacità di verità.
In economia questa pretesa risale all'avvento della scuola marginalista, la cui teoria del valore fu espressa in termini matematici dal suo massimo esponente, l'inglese Alfred Marshall (1842-1924)3. Una pretesa riproposta da molti teorici del neoliberismo, insigniti del Nobel per l'economia.4
Al contrario, non si trascuri il fatto che l'economista antiliberista inglese John Maynard Keynes, benché fosse un valente matematico e fosse stato allievo di Marshall a Cambridge, abbia preferito per lo più esprimersi in un linguaggio discorsivo.
A proposito del ruolo della teoria, Vespignani critica la tesi di Chris Anderson del 2008 per cui «la correlazione è sufficiente. Possiamo analizzare i dati senza ipotesi su cosa potrebbe mostrare.» Secondo lui se ci priviamo della teoria, corriamo «il rischio di costruire un sapere su basi concettuali sbagliate senza esserne consapevoli.»
Il sistema tolemaico, per esempio, «riusciva ad ottenere predizioni in accordo con le osservazioni non estremamente precise di quei tempi.» «Nella nuova era dell'intelligenza artificiale e delle scatole nere, rischiamo di replicare all'infinito trappole concettuali come il sistema tolemaico.»
Scatole nere
«Black Box Definizione di alcuni sistemi di machine learning che da un input forniscono un output, ma nei quali i calcoli che avvengono durante il processo non sono facilmente interpretabili.»


Per parte mia, ricordo che la teoria eliocentrica è stata geometricamente dimostrata da Aristarco di Samo (310 a.C. - 230 a.C.) più di duemila anni fa.
Perché per secoli quella dimostrazione fu condannata all'oblio? Non è un azzardo supporre l'essenziale motivo per cui venne accantonata dai poteri dominanti per lungo tempo: contraddiceva l'immagine del cielo che loro serviva per governare sulla terra.
Siamo davvero sicuri che ai poteri dominanti dei nostri giorni sia così indifferente l'immagine del cosmo che abbiamo in testa?
Mi permetto di osservare, inoltre, che le contraddizioni di una crisi sociale e politica non si risolvono come si ricompone uno stormo di uccelli che eviti un ostacolo. Giacché è proprio al modello naturalistico dello “sciame di uomini” che fa riferimento la nuova scienza delle previsioni.
Uno stormo di uccelli
Ahinoi, le contraddizioni, gli antagonismi tra gruppi sociali umani, di cui la scienza è pervasa in quanto parte di essi...
Emblematica è la storia di 300 anni del pensiero economico sul valore.
Per i “classici” come David Ricardo il valore derivava “oggettivamente” dal lavoro. Era così anche per Karl Marx, pur in una visione anticapitalistica estranea a Ricardo.
Dall'avvento del marginalismo del prima citato Marshall, il valore è teorizzato da un punto di vista “soggettivo”, poiché risiede nella “utilità marginale” percepita dal soggetto acquirente, il quale (è solo un esempio) per la prima merendina sarà disposto a pagare un prezzo, via via decrescente per le merendine successive, pari al decrescere marginale della soddisfazione da lui provata nel mangiarle. Fino al punto da rinunciare al loro acquisto: a prezzo zero corrisponderà valore zero.
Da un simile approccio soggettivo derivano molte conseguenze, che investono l'economia nel suo complesso. Si pensi alla green economy, nella quale si ripresenta ingigantita la contraddizione tra valore di scambio e valore d'uso, già pensata da Marx. Quale valore attribuire all'acqua o all'aria?
La scuola marginalista, quando asseriva che non più il lavoro, bensì il prezzo è il fondamento del valore, poneva una condizione: i mercati nei quali il prezzo veniva fissato dovevano essere perfettamente concorrenziali. Infinita e perdurante è la discussione sui “mercati perfetti” e la loro possibile esistenza, oltreché sul valore nell'odierna economia finanziarizzata.
Tutto possiamo asserire, tranne che lo sviluppo della teoria del valore sia avvenuto per mera accumulazione di conoscenza, ovvero per evoluzione. Al contrario, ciascuna teoria è scaturita dall'aspro contrasto tra scuole ed ideologie, riflesso di quello sociale, in un contesto politico ed economico in continuo mutamento, al quale esse hanno partecipato in modo attivo. Sono state e sono parte della realtà in divenire. Non potrebbe essere altrimenti, poiché idee e teorie sono pensate ed architettate da uomini e donne che non abitano su un altro pianeta in un tempo storico indefinito.
La risposta ad Elisabetta
Ricapitolando: l'Oracolo previsionale è risultato della costruzione algoritmica, a sua volta assunta in base ad una o più teorie. Sicché una previsione, quando si basi su una o più teorie false, conduce a conclusioni inesorabilmente sbagliate.
Inoltre la costruzione algoritmica, per applicarsi alle scienze umane sociali, dichiara di partire dall'analisi delle molteplici e dinamiche interazioni dell'”atomo sociale” e poi di tradurle in algoritmi ritenuti validi al fine di prevedere l'andamento dell'insieme sociale. Lo si voglia o no, viene qui inserita una ulteriore supposizione teorica che assume a riferimento l'individuo ”atomo sociale”, dinamicamente inserito in una rete relazionale in movimento.
Questa ulteriore supposizione teorica, elaborata nell'ambito della “rivoluzione della complessità”, costituisce il secondo strato della “cipolla”, che contiene a sua volta il sostrato di teorie sociali, economiche e politiche, siano esse consapevolmente adottate (come ha fatto Albert-László Barabási) o meno.
Nella verifica di validità sarà molto difficile separare i due strati teorici, eppure basterà che uno solo di essi sia falso per condurre a sbagliate previsioni. Questa costatazione ci permette di rispondere alla domanda posta da Elisabetta.
Tanti prestigiosi accademici, pur esprimendosi nel linguaggio matematico più esatto, non sono riusciti a prevedere, né la crisi economica, né la smisurata crescita delle disuguaglianze sociali e, tantomeno, l'emergere delle contraddizioni sociali e politiche che ci attraversano.
Ciò e dovuto ad un motivo teorico “primario”.
Che il motivo, all'origine della débâcle messa in luce da Elisabetta, risieda nella teoria detta neoliberista, pre-assunta ad assioma, è una convinzione non solo mia. Parimenti, qualora l'Oracolo 2.0 insistesse a basarsi sul sostrato teorico del neoliberismo nelle sue predizioni è destinato alla medesima ingloriosa sorte.
Note
1 Alessandro Vespignani, “L'algoritmo e l'oracolo – Come la scienza predice il futuro e ci aiuta a cambiarlo”, il Saggiatore, 2019.
2 Uber è un'azienda USA. Ha iniziato fornendo un servizio di trasporto automobilistico privato attraverso un'applicazione mobile che mette in collegamento diretto passeggeri ed autisti. Poi ha esteso la propria attività ad altri settori, quali la consegna di cibo a domicilio. Airbnb è un portale online che mette in contatto persone in cerca di un alloggio, o di una camera per brevi periodi, con chi dispone di uno spazio da affittare. Uber ed AirBnb sono tra le maggiori imprese della sharing economy.
3 Marshall usò il calcolo matematico, preso a prestito dalla fisica newtoniana, per spiegare il funzionamento dell'economia.
4 Non mi riferisco solo a Milton Friedman, Nobel nel 1976, ma anche, tra gli altri, a Robert Merton e Myron Scholes, co-vincitori del Nobel nel 1997.