lunedì 4 dicembre 2017

Morale catalana

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Morale catalana

La ribellione non violenta della Catalogna – Ruolo dei tribunali spagnoli – Chi ha rotto il patto costituzionale – Il sogno europeista catalano alla prova dell'Unione europea reale – Nella perdita dei riferimenti la questione morale.

Qualche ammaestramento la vicenda catalana può offrircelo.
Uno riguarda la messa a nudo della struttura del potere nella Spagna odierna, che rimanda alla irrisolta transizione dal fascismo ed ai lasciti franchisti non incompatibili con l'appartenenza all'Unione europea.
Un altro ci racconta di quanto pesante sia l'impatto della gestione austera della crisi ed a quali rifugi territoriali induca, in un singolare rovesciamento per cui le piccole patrie tanto furono esaltate ad Est quanto sono aborrite ad Ovest.
In questo contesto l'Unione ed i principali governi europei, tra cui quello italiano, riscoprono le virginali virtù della non ingerenza negli affari interni. Ma cosa sono gli affari interni e quelli esterni all'Europa?
Disperso il “patriottismo costituzionale” che doveva cementarla, l'Europa appare priva di un processo condiviso d'unificazione politica. Non può proiettare nel suo futuro un'identità che non ha, nel mentre le identità preesistenti di partenza, gli Stati-nazione, traballano o rischiano di essere preda di ritorni fascistizzanti, magari in combutta con mafie e malaffare. Ai fini delle oligarchie dominanti, fascismo xenofobia e mafie sono preferibili a qualsiasi apertura al cambiamento: è la morale della mattanza morale.

Sedizione
Il governo della Catalogna è destituito.
I suoi membri ed il presidente sono o rifugiati in Belgio, passibili di estradizione, o detenuti in Spagna. Tutti sono posti sotto accusa dalla giudice della Audiencia National, Carmen Lamela Diaz. La ex presidente del parlamento catalano, Carme Forcadell, invece, è imputata per ordine di un gip del Tribunal Supremo e non più detenuta grazie al versamento di una cauzione, emblematica di una società in cui la libertà (provvisoria) è disponibile in cambio di un pegno in denaro.
Sono accusati di ribellione, sedizione, disobbedienza all'autorità, distrazione di fondi pubblici (un corollario insinuante), con una imputazione rivolta a Carles Puigdemont, l'ex presidente della Generalitat de Catalunya, di aver “promosso e usato la forza, spingendo per l’insurrezione e sfidando l’ordine costituzionale”.
Ciò che più colpisce è l'intervento di corti centrali, con speciali competenze su tutto il territorio dello Stato [vedi nella finestra “Corti speciali”], in stretto legame con l'applicazione dell'articolo 155 della Costituzione da parte del governo Rajoy. Sicché il loro attivarsi in difesa dello Stato appare direttamente conforme alla volontà del potere politico, dal quale non sono affatto indipendenti.
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Corti speciali

A parte il Tribunal Constitutional che vigila sul rispetto della Costituzione, il sistema giuridico spagnolo è piuttosto speciale se paragonato a quello in vigore in altri Paesi dell'Europa occidentale.
Il Fiscal General è un Procuratore generale con giurisdizione sull'intero Stato. Viene nominato dal re su proposta del governo da cui dipende gerarchicamente.
In sostituzione del franchista Tribunal de Orden Público, nel 1977 viene istituita, con decreto-legge reale (!) la Audiencia Nacional, che ne eredita funzionari e funzioni di repressione politica, compresa la sede centrale di Madrid. La sua giurisdizione è allargata all'intero territorio spagnolo, violando il diritto al giudice naturale. Tratta delitti assai differenti e tende ad allagare le proprie competenze, mancando di un fine non equivocabile. Detiene il monopolio sui delitti di terrorismo, in un sistema legale che qualifica come terrorismo delitti che non lo sono. Ai detenuti dell'AN è proibito qualsiasi contatto con avvocati e familiari. 
Dal 1812 opera da Madrid il Tribunal Supremo che ha giurisdizione unica sul territorio dello Stato. Cura i ricorsi di cassazione. È tribunale superiore per gli ambiti civile, penale, contenzioso-amministrativo e sociale. Nel caso Forcadell, appare in conflitto di competenza con il Tribunal Superior de Justicia de Catalogna.
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Non si tratta né di una scelta contingente, in base ad un mero calcolo di convenienza elettorale, né di una pura reazione istituzionale, una specie di atto dovuto di fronte ad un gesto di sedizione. Sia perché, in realtà, il governo indipendentista non ha mai usato od istigato all'uso della forza e della violenza, senza le quali la sedizione non sussiste, sia perché l'innesco del meccanismo repressivo, a cui i tribunali hanno dato consistenza, risponde ad una linea politica del Partido Popular e dei suoi alleati, perseguita con coerenza da molti decenni. Un continuismo politico da cui inizialmente si erano tenuti distanti i socialisti del PSOE, salvo man mano aderirvi, fino alla più recente svolta in sostegno di Rajoy.
Benché a Mariano Rajoy non manchino i motivi immediati per infiammare lo scontro con la Catalogna, come il tentativo di raccogliere tutto il voto di richiamo reazionario, distogliendo l'attenzione dagli scandali per corruzione che coinvolgono il suo esecutivo, tali motivi presentano il grande vantaggio di sposarsi perfettamente con quelli sottostanti di più solida e lunga durata.1
Continuismo politico
La costituzione del 1978 fu conseguenza della conversione del regime fascista di Francisco Franco in una democrazia parlamentare pluripartitica. Si disse che la transición democrática adottata fosse l'unica alternativa alla ripresa della guerra civile. Ma, come dimostrò il fallito golpe del colonnello Tejero, il ricatto era inconsistente e finalizzato esclusivamente a consentire ai gruppi sociali ed agli apparati dello Stato compromessi col fascismo di passare indenni nel gattopardo del cambiamento politico. A tal fine dovettero disporre:
  • del ritorno in regia della monarchia borbonica;
  • di un esecutivo di ex ministri e notabili franchisti, comunque non antifascista;
  • della garanzia di continuità di istituzioni quali le corti speciali di giustizia;
  • della espressa esclusione di ogni misura tesa a regolare i conti col passato regime;
  • di una costituzione a suggello del compromesso pattuito.
A distanza di alcuni decenni, nonostante forti movimenti di piazza conseguenti al crack del 2008 e la crisi della rappresentanza parlamentare (tra il 2015 ed il 2016, circa 10 mesi senza maggioranza), al governo resiste il Partido Popular di Rajoy, in coalizione con Ciudadanos e con l'appoggio esterno dei socialisti del PSOE, sotto forma di astensione. Si noti bene: nell'emiciclo parlamentare nessuna forza sta alla destra del Partito popolare. Inoltre, re Felipe è sceso in campo non per unire ma a favore del governo, immischiandosi direttamente nella contesa politica; le Corti speciali fanno con diligenza estrema il lavoro per cui sono state istituite o, se preferite, re-istituite.
Il patto costituzionale, invece, è stato rotto.
A segnare la rottura è stata la decisione dei popolari di Rajoy, giunto allora al minimo elettorale, di ricorrere al Tribunal Constitutional contro lo Estatut d'Autonomia, voluto dal socialista Zapatero in esecuzione del compromesso costituzionale [vedi nella finestra “Il compromesso”]. Lo Statuto era stato approvato dai parlamenti catalano e spagnolo, poi ratificato da un referendum popolare in Catalogna. Correva l'anno 2006. Nel 2010, giunge la sentenza della Corte, che svuota lo Statuto e nega alla Catalogna la qualità di nazione. Così doveva essere, giacché, nella logica dei giudicanti, se è dalla nazione che sorge lo Stato, riconoscere la Catalogna come nazione le avrebbe conferito automaticamente il diritto di farsi Stato.
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Il compromesso

«Il 14 aprile 1931, i repubblicani spagnoli vinsero le elezioni municipali nella maggior parte delle grandi città, proclamando diverse Repubbliche fra le quali la Repubblica catalana sotto la direzione di Lluís Companys, consigliere municipale di Esquerra Republicana de Catalunya [Erc, …] Applicando un programma federalista, le repubbliche indipendenti proclamarono la Seconda repubblica spagnola, poi schiacciata da Franco. Una volta morto il dittatore, i repubblicani sostennero che la repubblica federale rimaneva il regime legale al quale occorreva tornare. La questione – come quella dell'unità territoriale – si risolse in un compromesso: i catalani rinunciavano a formare una repubblica federale ed accettavano sia il regime monarchico (articolo 1.3 della Costituzione) che “l'unità indissolubile della nazione spagnola” (articolo 2), abbandonando il progetto di dichiarare unilateralmente la propria indipendenza come nel 1931. In cambio ottenevano il diritto di sviluppare uno statuto di autonomia e diritti civili specifici, benché strettamente definiti.»

Estratto da:
Sébastien Bauer, “La crisi catalana è nata a Madrid”, Le Monde diplomatique – il Manifesto, novembre 2017.
Lluis Companys fucilato dai franchisti nel 1940
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In definitiva, ciò che impedì di liquidare i conti col franchismo ed i suoi lasciti, di ordine sociale e nazionale, è tuttora garante del continuismo politico centralista e nazionalista spagnolo, nonché del mantenimento in sella delle vecchie classi ed apparati statali dominanti, seppure aggiornati.
Represión legal
Tuttavia, il compattamento del potere centrale sbarrava la strada non solo all'indipendenza ed al federalismo, ma pure ad una soluzione di tipo autonomistico, conferendo all'articolo 155 ed alle corti speciali un ruolo “necessario”, nel caso in cui l'idea nazionale catalana si fosse comunque riaffermata su basi democratico-istituzionali locali.
Dopo aver osteggiato il referendum del 1° ottobre a tratti in modo violento, le porte del carcere si sono aperte innanzitutto per i leaders dei movimenti indipendentisti della società civile, i due Jordi,2 “esterni” alle istituzioni rappresentative. Poi, in seguito all'attivazione dell'articolo 155, i mandati di arresto si sono abbattuti anche sulle cariche elettive. Nonostante prevalga il racconto di uno svolgimento incruento o si preferisca tenere nascosta nelle pagine interne dell'informazione la espinosa questione catalana, la represión legal pratica la reclusione preventiva e minaccia decenni di galera per azioni politiche non violente e condivise democraticamente da circa metà della popolazione catalana. Un problema politico di prima grandezza è stato trasformato in un problema di ordine pubblico e legalista, con la pretesa di ripristinare la normalità grazie al semplice ricorso ad una nuova consultazione elettorale. È persino banale prevedere che, qualsiasi sia il responso delle urne del 21 dicembre, esse non annulleranno quanto è successo, che peserà sul futuro non solo della Catalogna e della Spagna, ma anche dell'Unione europea.
Fede malriposta
Le oligarchie politiche e finanziarie europee sono refrattarie ai referendum. Dopo quelli del 2005 che in Francia ed Olanda hanno rigettato la cosiddetta Costituzione europea,3 più recentemente nel Regno Unito ha prevalso il leave. In aggiunta, nel referendum italiano del 2016 la Repubblica parlamentare del '48 è stata preferita ad una riforma costituzionale congegnata per rafforzare i poteri dell'esecutivo, proprio in funzione della costruzione di una “Europa degli esecutivi”.
Nel dopo-muro i governi dell'Europa occidentale, in preda alla foga di reconquista dell'Est, si precipitarono a riconoscere in Jugoslavia le piccole patrie etnico-confessionali, sorte da plebisciti secessionisti tenutisi in un clima di sanguinosa e preordinata violenza. Perché, al contrario, quei governi si oppongono ora al pacifico indipendentismo catalano? Perché ad Est e fuori dall'allora Comunità europea non fu adottato il principio di non ingerenza negli affari interni, così evitando di sospingere quei popoli nell'abisso della guerra intestina e nella reciproca pulizia etnica, mentre ora quello stesso principio viene fatto valere intra moenia, tra le mura dell'Unione, pur di disconoscere che la Catalogna sia un problema europeo?
Inutilmente cercheremmo un efficace chiarimento nelle dichiarazioni di Carles Puigdemont [vedi nella finestra “Carles a Concita”]. Come scrive Concita de Gregorio,4 Puigdemont ha invano “continuato in pubblico e in privato a invocare l'intervento dell'Europa”: i vertici dell'Unione ed i governi dei maggiori Paesi hanno fatto orecchie da mercante, letteralmente.
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Carles a Concita


Affermazioni di Carles Puigdemont sull'Europa, riportate da Concita De Gregorio.
«A cosa serve, altrimenti, l'Europa di Altiero Spinelli se non a dirimere le questioni di democrazia, di libertà, di rispetto reciproco e di rispetto del voto dei cittadini degli Stati membri?»
«Un'Europa che risponde solo alle banche, all'interesse economico, alla convenienza dello Stato guida non è quello per cui in tutta la nostra storia ci siamo battuti.»
«Il punto, oggi, è che l'Europa non può tacere. Non può voltare le spalle e liquidare quel che è avvenuto come un fatto interno. Non vogliamo un'Europa dei banchieri, vogliamo un'Europa dei cittadini. Non sono io il problema, è la Catalogna. Io non ci sarò in futuro, la nostra gente sì. La mia missione politica si chiude qui.»
Concita De Gregorio, “Carles, il ribelle riluttante porta la sfida catalana nel cuore dell'Europa”, la Repubblica, 1/11/2017.
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Forse pensava che la professione di fede nell'Europa a moneta unica da parte di un governo dell'area più ricca della Spagna, qual è quello catalano, bastasse a metterlo al riparo dalle ritorsioni madrilene. Puigdemont insiste su ciò che l'Europa dovrebbe essere per non restare “solo” quella che in effetti è. Ma è proprio perché la Catalogna si è trovata dinnanzi ad un'Unione rispondente “solo” alle banche, all'interesse economico loro, alla convenienza nazionale di uno Stato guida e del suo immediato intorno, che essa non può trovare risposte “anche” alle questioni di libertà e democrazia.
Qualora avesse potuto intavolare una trattativa, magari grazie ad una mediazione europea, l'ex governo catalano si sarebbe accontentato di una qualche forma federalista, se non persino di un ripristino dello Statuto di Autonomia del 2006. Chiedeva tutto pur di ottenere il minimo. Ma l'assenza dell'Ue da un terreno che dovrebbe esserle proprio, sancisce il prevalere del punto di vista ad un tempo delle oligarchie finanziarie e delle élites politiche, sotto la guida di uno Stato-nazione. Un prevalere che spiazza Puigdemont.
Non si capisce per quali ragioni quelle oligarchie dovrebbero privarsi dell'appoggio di una Spagna subalterna e soddisfatta nei piani alti della sua società. Perché quei piani alti puzzano di centralismo franchista? Perché dovrebbero operare per un federalismo spagnolo su scala ridotta, quando non nutrono alcuna intenzione di volerne uno su scala continentale? Per favorire, a seguito di un successo di Barcellona, l'affermarsi di un nuovo indirizzo della politica spagnola più attenta alle libertà sociali, da precariato e disoccupazione, piuttosto che alla libertà della grande finanza di fare e disfare a proprio comodo? Sarebbe puro autolesionismo.
Certo, qui sorge una questione: l'Europa mostra di nutrire una morale prêt-à-porter, quando di non favorire addirittura una mattanza della morale.
Scioglimenti nell'acido
A denunciare la deriva è Beppe Grillo in un articolo significativamente intitolato: “L'Europa abolisce la morale: dalla Spagna al ritorno di B.”5
Secondo Grillo6 l'Europa detta una morale di comportamento sul latte da produrre, ma non su “un possibile stravolgimento dei suoi confini interni”, come in Catalogna.
Date le propensioni di “quel gruppo di banchieri che pretende di esserne il faro” forse è meglio così e dovremmo “ringraziare il cielo per questo ma... cos'è un affare interno dell'Europa?”
Per “la svendita dei beni e delle garanzie pubbliche” imposto dall'Unione, non c'è sovranità nazionale che tenga: essa “non esiste più, violentata e risucchiata dai tentacoli europei”. La materia è scottante. Investe sia la dimensione del vivere quotidiano, sia quella istituzionale: le ragioni finanziarie cambiano le Costituzioni e soverchiano quelle popolari. È il caso dell'euro “spada nella roccia”, in apparenza impossibile da estrarre. Ne deriva una conclusione lapidaria, sulla scorta del giudizio espresso dal Nobel Amartya Sen: “Il peccato originale dell'Ue è stato proprio di aver concentrato biecamente i propri sforzi sull'economia 'ingegneristica' anziché su quella 'etica'.”
Amartya Sen, Nobel per l'economia 1998
Grillo mette il dito nella piaga, ma vede uno “scollamento tra economia ed etica” laddove si potrebbe pensare a qualcosa di meno etereo e spirituale. Per esempio, ad un sistema tanto intriso di materialità da non nutrire necessariamente una morale. Anzi di poterla tranquillamente sciogliere nell'acido.
Nella logica propria degli affari capitalistici, i governi dei principali Paesi occidentali alla caduta del muro di Berlino, decisero di espandere la propria egemonia ad Est e nei Balcani, per conto di coloro che, con la successiva trasformazione finanziaria, sarebbero diventati “quel gruppo di banchieri”. Si ingerirono pesantemente negli affari di Paesi allora fuori dalla Comunità, quindi “esterni”. Spinsero alla guerra tra etnie e confessioni religiose. Predicando ipocrita tolleranza, agirono per minare le basi stesse della convivenza. Previo affermazione del “diritto d'ingerenza umanitaria”, scatenarono infine una “guerra umanitaria”.
Erano affari esterni e divennero interni.
Seguendo la stessa logica ora, per il principio di intangibilità non dei confini ma dei propri affari, è preferibile un governo Rajoy nella continuità centralistica del franchismo ad una mediazione europea per una Spagna riunita in federazione, la quale, avviando a soluzione la questione catalana, potrebbe presentarsi unita contro la politica economica europea verso le Periferie, a cui appartiene.
Ecco, allora, che gli affari interni all'Unione divengono esterni.
È la liberal-democrazia reale, non quella sognata, che ha permeato di sé l'Europa odierna, concentrandosi sulla ingegneria del danaro, la finanza, che non conosce etica, se non quella che obbliga il debitore, fino all'autodistruzione, verso il suo creditore. L'uno tanto incorreggibile peccatore, quanto l'altro predestinato alla santità.
Alexis de Tocqueville
Ed il richiamo da parte di Grillo ad uno dei massimi pensatori liberal-democratici, Alexis de Tocqueville, mostra ancor più come l'approdo finale del liberalismo smentisca le sue promesse ottocentesche. Nella sua evoluzione infatti, per sfuggire ai movimenti di lotta delle classi cosiddette subalterne (per ricondurle alla subalternità), ha internazionalizzato il mondo e l'Europa. Il suo scopo era “togliere la terra sotto i piedi dell'avversario”, ovvero luogo e contesto in cui quei movimenti potessero organizzarsi ed essere efficaci. La globalizzazione liberalista ha voluto impedire l'organizzazione politica (e persino sindacale), nonché qualsiasi influenza sugli affari di Stato da parte di quelle classi e di quei movimenti, togliendo innanzitutto sovranità alla democrazia, senza rinunciare a togliere, laddove possibile, democrazia alla sovranità.7
Così facendo, però, ha finito per sottrarre sovranità e democrazia pure all'insieme dei cittadini dello Stato-nazione, destabilizzando il “comun sentire” di una società che, dal sopravvenire della crisi, si riconosce sempre meno in esso.8 Per questo quel cittadino precipita nell'aporia morale, è ridotto a “suddito” ed indotto ad oscillare “tra servitù e licenza”, come nel 1840 Tocqueville pensava potesse succedere unicamente in alcuni Paesi europei, a differenza dell'esemplare America.
Mattatoio morale
Per Grillo non esiste una morale europea rispetto alla Spagna, come non esiste una morale italiana rispetto al ritorno in campo di Berlusconi e financo della mafia, vecchio attrattore sociale in Sicilia.
Nel restringimento della morale di partenza (pre-crisi) in sottogruppi più piccoli, il sistema tende a preservare se stesso e, grazie all'azione fondamentale dei media, si camuffa sotto altre spoglie, “generando una seconda morale profondamente amorale”. “Una morale che, per esempio, digerisce l'osceno ritorno del Re Sòle, un vecchio malvissuto dalla canizie vituperosa, per dirla alla Manzoni (…). E, al contempo, si cercano pretesti per attaccare chi stoicamente insiste nel tentativo (difficilissimo) di mantenere e migliorare quel che resta della morale di partenza del gruppo iniziale, dello Stato italiano o comunque lo si voglia chiamare.”
Sicché Grillo giunge ad una seconda conclusione: “(...) tanto più è rarefatto e spersonalizzato quel vuoto centrale, tanto più profondo sarà l'arretramento dei frammenti che ne derivano. E ancora più intenso il loro rifugiarsi e rinchiudersi intorno a vecchie, putride, logiche: mafia, padre-padrone, fascismo, ecc.” Per porre rimedio alla mattanza della morale e alla “tirannia dell'ignoranza” non v'è che una “educazione NUOVA, che sia elemento costitutivo del cittadino, europeo e nazionale, e possa formarlo nella sua libertà e intelligenza, dandogli gli strumenti per crearsi una morale capace di penetrare la vita sociale.”
Ciò che vorrebbe Grillo è, dunque una rinnovata morale del cittadino che lo tolga dalla condizione di suddito o dal dover oscillare incessantemente tra servitù e licenza. Un nuovo riempimento del vuoto centrale dello Stato nazionale, a presupposto di un'Europa non più in mano a “quel gruppo di banchieri”.
A loro difesa, però, è schierato il vecchio establishment che in Italia, analogamente a quanto avviene in Spagna, preferisce il grande evasore fiscale Berlusconi ed il suo corredo di malaffare, mafia, xenofobia e neofascismo, al pentastellato Di Maio, portatore di uno spazio offerto al cambiamento, alla necessità impellente di voltare pagina.
È quel che serve a ridare sovranità nazionale alla democrazia, per ridarla ai popoli d'Europa. È quel che serve a ribadire la difesa delle libertà democratiche costituzionali.
È quel che temono le élites responsabili di tanto sfacelo e declino, perché offrirebbe alle classi ricondotte alla subalternità l'occasione per riprendere un ruolo di protagoniste, per se stesse e per l'insieme sociale.
Ci sarà bisogno di un più vasto afflato di quello attuale: di rinnovati movimenti di lotta, veicolo di educazione e di organizzazione nel vivo dello scontro sociale e politico. Internet e l'impegno nelle istituzioni non basteranno, senza il contatto di pelle e di parola di una ritrovata socialità degli esclusi (dal lavoro, dal salario e/o da un salario adeguato, dalla pensione, dall'istruzione, dalle cure...) che rifiutino di venire esclusi anche dalla politica.

Note:
1 Per Concita De Gregorio (“Carles, il ribelle riluttante porta la sfida catalana nel cuore dell'Europa”, la Repubblica, 1/11/2017) l'atteggiamento di Rajoy sarebbero invece dettato essenzialmente dagli interessi immediati sia elettorali, sia di occultazione della corruzione.
2 A metà ottobre Carmen Lamela della Audiencia National ha deciso la carcerazione preventiva di Jordi Sánchez e Jordi Cuixart leaders rispettivamente dell’Assemblea Nazionale Catalana (ANC) e di Ómnium, le due più importanti organizzazioni indipendentiste della società civile catalana.
3 In realtà si trattava di un trattato internazionale.
4 Vedi articolo citato alla Nota 1 e nella finestra “Carles a Concita”.
5 Beppe Grillo, “L'Europa abolisce la morale: dalla Spagna al ritorno di B.”, il Fatto Quotidiano, 22 ottobre 2017. Testo integrale rintracciabile su Internet: https://infosannio.wordpress.com/2017/10/22/beppe-grillo-leuropa-abolisce-la-morale-dalla-spagna-al-ritorno-di-b/
6 Parole e frasi virgolettate sono citate dal pezzo di cui alla nota precedente.
7 Non si tratta solo e semplicemente di negazione di un'opportunità evolutiva della democrazia, come sostiene Carles Puigdemont: “L'evoluzione della democrazia nel secolo XXI passa attraverso la partecipazione delle persone alla politica senza dovere essere politici di professione, ma cittadini che partecipano, si autorganizzano e si autoresponsabilizzano. Stiamo dimostrando in Catalogna che ciò può avvenire. In questo aspetto c'è l'opportunità del miglioramento dell'Europa. Però questa opportunità è anche una minaccia per gli Stati nazionali tradizionali, ma anche per i lobbisti di una certa politica degli Stati-nazione, come Tajani e Juncker.” (Da un'intervista di Luis Cabasés, “Riconoscete il nostro voto? Madrid e Ue dicano sì o no”, il Fatto Quotidiano, 24/11/2017).
8 La disaffezione elettorale ne è sintomo.

venerdì 20 ottobre 2017

Soluzioni forti per un'Europa in crisi

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Soluzioni forti per un'Europa in crisi
Catalogna test europeo – Centralismo autoritario contro piccola patria – La disgregazione da Est ad Ovest – Chiusure tedesche ed austriache – Il sogno di un “Napoleon francese” - Penetrazioni straniere nella vuotaggine europea – La continuità sulla soglia di un salto.
  • Stretta nel contrasto tra continuità centralista (di lascito franchista) e rottura indipendentista (di piccola patria), la Catalogna mette alla prova la residua capacità di unificazione politica dell'Unione.
  • Ciò accade dopo le elezioni tedesche ed in contemporanea con quelle austriache; entrambe chiudono ad un'Europa della condivisione.
  • In pochi mesi la stella del presidente francese Macron è già declinante, ma in Italia c'è che sogna una neo-napoleonica “Europa dei cannoni”.
  • L'Europa delle nazioni in preda al micro-patriottismo? Il “vuoto” europeo penetrato dal “pieno” costituito da Russia ed Islam?
  • Per dare continuità ai poteri che la dominano, l'Unione europea, dalle molte divisioni e chiusure, è posta di fronte ad un pericoloso salto.
Il test catalano
La maggior parte dei commentatori mainstream avvalora la tesi della illegalità costituzionale del referendum voluto dalla Generalitat de Catalunya, che, per giunta, avrebbe raccolto un consenso minoritario.
Viene sottovalutato il successo rappresentato da una partecipazione al voto del 42,64% del corpo elettorale (90% di sì), pur in presenza di un intervento repressivo da parte del governo centrale di Rajoy che ha limitato in modo violento l'accesso ai seggi, quando non ne ha distrutto schede ed urne. In aggiunta, la pretesa di Madrid di ridurre la questione catalana ad un problema di ordine pubblico, ha sicuramente rafforzato l'indipendentismo, laddove appariva ancora numericamente minoritario.
Poiché gli svolgimenti in atto potrebbero produrre ricadute assai pesanti sull'intero continente, l'Unione europea è stata chiamata da più parti a mediare tra le contrastanti ragioni della Generalitad, basate sulla “autodeterminazione democratica e sulla volontà popolare catalana”, e del governo Rajoy, fondate sulla “inviolabilità costituzionale dell'integrità territoriale e della sovranità nazionale della Spagna”.
Dalle colonne del Messaggero, Alessandro Campi1 parte da una constatazione critica piuttosto “tiepida”. Riconosce che l'Unione soffre di scarso gradimento. Ma vede un'efficacia minima del suo operato e solo “errori”, laddove dovrebbe registrare dei fallimenti, dovuti alle logiche dei poteri che la indirizzano.
Per Campi la crisi catalana è l'occasione per ridare “forma ed obiettivi” al “suo progetto continentale”.
«E dovrebbe farlo proponendo alle parti l'unica soluzione politica che salvando l'unità e la continuità istituzionale della Spagna salvi anche, in prospettiva sé stessa: quella di un'Europa fondata su Stati nei quali unità e decentramento, sovranità nazionale e autonomia politico-territoriale, coesione politica e pluralismo socio-culturale possono, anzi debbono, tranquillamente convivere. (…)
«(...) è l'alchimia istituzionale che dovrà realizzarsi in Spagna per sbarrare la strada all'indipendentismo che probabilmente implicherà l'evoluzione costituzionale di quel Paese in senso compiutamente federalista. Ma è anche la formula politica intorno alla quale, su una scala più grande, dovrà ricostruirsi l'Europa di domani.»
In altri termini, se l'Unione europea, proponendosi nella mediazione, non è in grado di impedire la secessione, supportando una transizione di tipo federalista in Spagna, non può costruirsi, su una scala più grande, come entità federale.
In buona sostanza, ed adottando il linguaggio dei teorici dello state building, qualora l'Europa non mostri di saper superare, come Unione, questa prova interna che coinvolge un suo Paese membro, dimostrerà ancor più di essere priva della capacità-forza di unificazione politica dell'insieme continentale.
Accantonate virtù
Non sappiamo cosa stia succedendo dietro le quinte. Nell'occasione i partners europei hanno riscoperto ufficialmente le accantonate virtù della non ingerenza negli affari interni. Un principio che non valse allorché l'Europa occidentale, caduto il muro di Berlino, volle espandersi ad Est e nei Balcani.
Ricordate la ex-Jugoslavia?
Eppure ne va dell'appartenenza della Catalogna all'Unione europea, giacché la secessione ne comporta l'automatica esclusione, resa poi irreversibile dalla sicura opposizione della Spagna al suo reintegro.2 Un esito che coinvolge pure la partecipazione alla zona euro3 e l'appartenenza alla Nato, in contraddizione con le aspettative del governo catalano, che ha convogliato il malcontento sociale, generato dalla crisi economica, in direzione di uno sganciamento non solidaristico della “ricca Catalogna” dalla più “povera Spagna”.
Di contro, se per la costituzione spagnola il referendum era illegale, non di meno era illegittimo privare i catalani della libertà di esprimersi pacificamente in un referendum. Per negarla il governo centrale ha usato le maniere forti, approfondendo un fossato divisorio già ampiamente scavato.
Nella situazione venutasi a creare, ai fini dell'unità spagnola la mediazione doveva poter contare su due opposte rinunce e su una convergenza: di Madrid al centralismo di origine e spirito franchista; di Barcellona al nazionalismo indipendentista di piccola patria; insieme convergendo su un disegno di riassetto costituzionale di impronta federalista.
Rifiutandosi al "parlem, hablamos", proposto dalla parte dialogante della piazza, alla quale Carles Puigdemont aveva prestato ascolto mettendo in mora l'indipendenza, Madrid ha risposto con un ultimatum. Il partito socialista (PSOE) di Pedro Sánchez, per confermare il suo sostegno alla chiusura al dialogo del governo Rajoy e di Felipe VI, ha chiesto ed ottenuto in cambio una labile promessa di riforma costituzionale a posteriori: un pannicello caldo.
L'indipendentismo catalano è stato “circondato” dal ricatto finanziario ed economico (quasi in stile Grecia) e dalla minaccia di revoca dello status di autonomia [vedi riquadro “Costituzione spagnola, art. 155”] in una escalation che potrebbe condurre persino ad una dichiarazione di stato d'assedio. Eppure piegare l'indipendentismo al diktat non consegnerà la Spagna ad un futuro di unità e forza. Al contrario, la indebolirà e, nel radicarsi dei risentimenti, rinvigorirà le spinte alla disunione.
Costituzione spagnola, art. 155
«(I) Ove la Comunità Autonoma non ottemperi agli obblighi imposti dalla Costituzione o dalle altre leggi, o si comporti in modo da attentare gravemente agli interessi generali della Spagna, il Governo, previa richiesta al Presidente della Comunità Autonoma e, ove questa sia disattesa con l’approvazione della maggioranza assoluta del Senato, potrà prendere le misure necessarie per obbligarla all’adempimento forzato di tali obblighi o per la protezione di detti interessi.
(II) Il Governo potrà dare istruzioni a tutte le Autorità delle Comunità Autonome per l’esecuzione delle misure previste nel comma precedente.»
La continuità preferita
L'appoggio al governo centrale di Madrid, dato dai partners europei, include una decisa preferenza per la continuità rappresentata da Rajoy, autoritario all'interno quanto subalterno alle élites politico-economiche europee ed ai governi del Centro dell'Unione, restii a rischiare una discontinuità nella quale una Spagna riunita potrebbe presentarsi al loro cospetto con un governo indignado.
Se ciò è vero, ne consegue che la conservazione degli assetti di potere interni all'Unione comporta un ulteriore indebolimento degli Stati-nazione in posizione periferica, nella convinzione (illusione?) che quelli al Centro abbiano sufficiente forza per trainare dietro di sé l'insieme comunitario.
Una transizione irrisolta
La situazione spagnola attuale è anche l'amara eredità di una transizione irrisolta.
Il fascismo di Francisco Franco non entrò nel secondo conflitto mondiale, a fianco di Hitler e Mussolini che erano intervenuti direttamente in suo soccorso nella guerra civile. Nel dopoguerra poté sopravvivere, in quanto parte dello schieramento anti-comunista atlantico, per trent'anni e fino a metà degli anni settanta. Alla morte del caudillo transitò alla democrazia parlamentare e pluripartitica in modo “pacifico”4. Tuttavia, non fece i conti fino in fondo con i pesanti lasciti del franchismo. Tra questi, quello delle nazionalità oppresse, inclusa la Catalogna, terra di tenace resistenza antifascista.
Sul filo della continuità, garantita dal ritorno del Re Borbone,5 non approdò ad una Costituzione federalista, adeguata alle sue diversità. Se il fascismo aveva represso nel modo più brutale le nazionalità, in seguito il Partido Popular (PP), erede della tradizione centralista franchista,6 passa ai mezzi “legali”. Il PP giunge a presentare ricorso al Tribunal Constitucional contro lo Statuto del 2006, approvato dal parlamento spagnolo e ratificato dai catalani con un referendum popolare. Ne ottiene l'annullamento, bloccando da quel momento in poi, per dieci anni, ogni soluzione condivisa sul tema delle autonomie.
Mariano Rajoy
In un contesto europeo contrassegnato dall'allargamento delle divergenze strutturali, che accentuano i preesistenti dislivelli interni (in Spagna come in Italia), la Catalogna, più ricca rispetto ad altre aree della Spagna, tende ad agganciare il Centro continentale piuttosto che scivolare nella periferia iberica. Sicché, confluendo le conseguenze della crisi economica nelle cause storiche e politiche, forze politiche prima autonomiste si sono convertite all'indipendentismo, determinando una maggioranza in suo favore nella rappresentanza parlamentare catalana.
Inclusione ed esclusione
Data per finita, la storia mostra tutto il suo insospettato peso. Chi di disgregazione ferisce...
Negli anni '90, per espandersi verso Oriente e verso i Balcani, i governi dell'Europa occidentale, non esitarono a riconoscere le piccole patrie etnico-confessionali della ex-Jugoslavia, fomentando una guerra disgregatrice. Invece di operare per una soluzione unitaria, di rinnovamento e ricomposizione della federazione già esistente,7 fecero a gara nei riconoscimenti in funzione della penetrazione egemonica dei propri capitali nazionali, incuranti delle conseguenze, salvo versare poi ipocrite lacrime di coccodrillo.
Al fine dell'assoggettamento balcanico, oggi evidente nelle differenziate posizioni periferiche di quelle piccole patrie, era meglio se, gettando il bambino con l'acqua sporca (il socialismo con il regime politico), uno Stato plurinazionale, plurireligioso e multietnico fosse diviso in deboli “taglie piccole”.
Mentre la Germania si unificava grazie all'Anschluß della DDR, i Balcani venivano spezzettati, la Cecoslovacchia si scompose in due e pure la Serbia fu divisa dal Kossovo, in seguito alla “guerra umanitaria” giustificata dal “diritto d'ingerenza umanitaria”. Infine, ai giorni nostri, anche l'Ucraina, terra di confine, invece di fungere da trait d'union di pace tra Europa e Federazione Russa, è stata trasformata in avamposto militare occidentale, spingendola nel sangue di una guerra intestina e di confine.
In quella fase d'espansione, la secessione preludeva all'inclusione nelle Periferie d'Europa; oggi la secessione fa rima, semplicemente, con esclusione.
Instabilità teutonica
Prima che in Spagna scoppiasse la questione catalana, in Germania si sono tenute le elezioni politiche, dalle quali è emersa una instabilità sconosciuta nel Paese [vedasi nella finestra “Legenda tedesca”], su cui fa perno l'attuale assetto europeo.

        Legenda tedesca

Questi i risultati per il rinnovo del Bundestag, la camera bassa del Parlamento tedesco:
Unione Cristiano Democratica di Germania (Christlich Demokratische Union Deutschlands – CDU): 26,8%, 193 seggi (-73);
Unione Cristiano-Sociale in Baviera (Christlich-Soziale Union in BayernCSU): 6,2%, 45 seggi (-11);
Partito Socialdemocratico di Germania (Sozialdemokratische Partei Deutschlands - SPD): 20,5%, 148 seggi (-45);
Alternativa per la Germania (Alternative für DeutschlandAfD): 13%, 95 seggi (+95);
Partito Democratico Libero (Freie Demokratische ParteiFDP): 10,7%, 78 seggi (+78);
La Sinistra (Die Linke): 9,2%, 66 seggi (+2);
I Verdi (Die Grünen): 8,9%, 65 seggi (+2).
Rispetto al 2013, CDU-CSU (federate) perdono l'8,5% dei voti e la SPD perde il 5,2%. AfD supera per la prima volta la soglia minima del 5% per accedere alla rappresentanza. La FDP rientra in parlamento dopo che nelle precedenti elezioni era rimasta al di sotto della soglia minima. Leggeri gli incrementi della Sinistra e dei Verdi.
I partiti della grande coalizione tra la democristiana CDU e la socialdemocratica SPD hanno registrato pesanti perdite, a vantaggio dei “patrioti” xenofobi e fascistizzanti della AfD e dei liberali della FDP, che hanno visto convalidata la propria annunciata rigidità contro ogni condivisione dei rischi nella zona euro. Persino le posizioni austere del ministro delle finanze uscente, Wolfgang Schäuble, potrebbero sembrare permissive ed indulgenti, rispetto a quelle che tendono a prevalere nel governo “Giamaica”,8 al quale Angela Merkel sta lavorando.
Stante il rafforzamento delle forze “euroscettiche” e di chiusura verso ogni condivisione democratica, rimane da capire come l'europeismo dei Verdi tedeschi si sistemerà nella futura coalizione.
Intanto in Austria, il partito popolare (ÖVP) capeggiato dal giovane Sebastian Kurz, vince perché gioca d'anticipo, facendo propria la piattaforma politica della destra xenofoba e “patriottica”.
Un salvatore napoleonico
In Francia, a pochi mesi dal voto, la stella del neo-presidente è già appannata, anche per l'esplicitarsi delle sue politiche interne. Mentre ha prontamente adottato misure sul lavoro di deflazione salariale competitiva, della promessa solidarietà sociale non c'è traccia. La pretesa di coniugare liberalismo e giustizia sociale era solo un bluff elettorale.
Sul piano europeo, l'asse franco-tedesco, su cui Macron fondava la propria prospettiva, non appare né sufficientemente saldo, né in grado di assumere un ruolo di leadership politica, capace di radunare attorno a sé un generale consenso europeo transnazionale.
Ciò nonostante in Italia non mancano coloro che ripongono speranza nell'unico “potere forte” rimasto nel vecchio continente, quale sarebbe quello francese. Dalle colonne di uno dei maggiori quotidiani italiani,9 il professor Angelo Panebianco palesa entusiasmo per il programma di Macron di “sovranità europea”, espresso alla Sorbona il 26 settembre scorso:
«(...) in grado di fronteggiare le sfide che incombono: una vera difesa comune, la capacità di controllare i confini esterni, innovazioni istituzionali per completare l'integrazione economico-finanziaria, governare la rivoluzione digitale, fronteggiare i mutamenti climatici.»
Quando si prescinda dalle buone intenzioni sui mutamenti climatici e dall'immancabile necessità di governare la rivoluzione digitale, rimangono le vere priorità di Macron: difesa, confini, economia.
Prima di passare tra l'Europa e l'intorno, la chiusura dei confini è stata effettuata tra Stati dell'Unione.
La coabitazione politica sull'asse Parigi-Berlino dovrebbe “completare l'integrazione economico-finanziaria”, tramite “innovazioni istituzionali”.
Data l'impresentabile storia militare della Germania, la Francia, dotata di un “esecutivo forte” ed unica potenza nucleare rimasta nell'Unione, aspira ad assumere il ruolo guida della “difesa comune”,
Esplosione nucleare francese
riequilibrando a proprio favore la schiacciante egemonia politica ed economica tedesca sul continente. Avvalendosi di questa leva, Parigi vorrebbe rimodulare il duopolio con Berlino connettendo,
ça va sans dire, il rilancio delle produzioni belliche per la “difesa comune” al compimento dell'integrazione economico-finanziaria. Uno schema, direi classico, nel quale può riconoscersi un sostenitore, come Panebianco, dell'Europa non del burro ma dei cannoni.
Ma in base a quale “sovranità europea”?
Si tratterebbe di dare continuità all'attuale dominio delle oligarchie politico-economiche tramite il governo di istituzioni, come quelle del sistema a moneta unica,10 sovrapposte a detrimento della sovranità democratica e costituzionale dei Paesi dell'Unione. Con l'aggravante che, in questo caso, le “innovazioni istituzionali” produrrebbero un salto nel rapporto tra produzioni belliche e finanza.
Di come vi si aggiusterebbe l'Italia abbiamo avuto importanti avvisaglie. In due illuminanti occasioni: l'affaire tra Fincantieri e STX France (cantieri di Saint-Nazaire)11; la “pacificazione” della Libia.
D'altro canto, per ottenere la conferma delle posizioni gregarie in Europa di Italia e Spagna, occorrerà garantire la continuità d'indirizzo politico dei loro futuri governi. Non interferendo nei loro affari interni?
Chiusure multiple
Ciascun Paese è indotto a far da sé, a chiudersi nelle proprie contraddizioni, tanto più se viene ribadita la continuità dell'assetto continentale. Questa chiusura verso l'interno si accompagna alla chiusura comune sia verso la Federazione Russa, a colpi di sanzioni e contro-sanzioni in seguito alla crisi ucraina, che nel Mediterraneo.
D'altronde, l'imposizione all'Africa del modello agricolo euro-occidentale, dal quale deriva l'accalcarsi degli esclusi dall'accesso alla terra nelle bidonvilles di immense megalopoli, è destinato ad infoltire la susseguente spinta migratoria.12
In Europa abbiamo avuto una prova di cosa significhi l'imposizione di questo modello, allorché le campagne dei Paesi dell'Est si sono spopolate, accentuando le migrazioni verso l'estero, mentre i loro terreni più pregiati finivano nelle mani del business agro-alimentare internazionale.
Volendo perseverare nello squilibrio sistemico, di depredamento delle risorse di suolo e sottosuolo, distruttivo dell'ambiente, “aiutarli a casa loro” è solo un modo ipocrita di mascherare i propositi di chiusura nella crisi della globalizzazione a cui partecipa l'Ue.
A tale riguardo, non sfugga all'attenzione che proprio la Spagna di Rajoy, nelle sue enclavi di Ceuta e Melilla in Marocco, abbia eretto barriere di filo spinato pagate dall'Ue, poi rialzate sotto l'egida di Frontex.
Esterni pericoli
Alla difficile ricerca di una spiegazione di quanto sta accadendo sotto i nostri occhi, non poteva mancare il contributo di Ernesto Galli della Loggia.
In un fondo sul Corriere della Sera13 egli parte dalla constatazione che gli Stati europei, in particolare occidentali, sono in declino, a causa dell'autonomismo e del localismo, nonché dalla crescente perdita di legittimità. Tuttavia, invece di indagare ulteriormente sui portati della globalizzazione in versione europea e della sua presente crisi, nella profondità sociale e nel distacco tra potere politico-finanziario e popoli, addita il pericolo derivante da “due fenomeni nuovi”: il lavorio sotterraneo multiforme della Russia di Putin e l'aggressività finanziaria di una parte del mondo arabo islamico. Un terzo pericolo è solo accennato: quello della Cina che si accaparra i porti del continente per sviluppare la sua politica mercantilistica.
Ne trae “due conclusioni, perlomeno indiziarie”.
«La prima è che sulle società dell'Europa occidentale, in specie sulla loro vicenda pubblica, sta cominciando a gravare l'ipoteca di un iniziale, ambiguo condizionamento esterno sempre più vario e penetrante. La Seconda concomitante conclusione è che nella stessa area si è messo in moto – in parte consapevolmente voluto, in parte no – un processo di erosione da di dentro dell'intero sistema della sovranità, e dunque un progressivo indebolimento della statualità.»
Gli Stati occidentali, ricchi di tutto, sarebbero però poveri di spirito combattivo, fragili, nei quali i cittadini ben poco s'identificano. Ne deriverebbe un problema di “pieno” e di “vuoto”:
«(...) mentre dietro il “pieno” si stagliano i profili di due grandi tradizioni teologiche-politiche – quella dell'ortodossia russa della Terza Roma da un lato, e quella dell'Islam dall'altro – dietro il “vuoto”, invece c'è la progressiva evanescenza della coscienza cristiana dell'Occidente europeo.»
In attesa che Galli della Loggia ci chiarisca quali possano essere i possibili riempimenti del “vuoto” ed in cosa si sostanzi la differenza tra la sua visione e “lo scontro di civiltà”, dal quale dice di divergere, va da sé che occorra da subito contrastare il sopravvento di un “pieno” quantomeno indesiderabile. Par di capire che da subito andrebbero avversate le minacce esterne costituite dalle insidiose pratiche di Putin, forti dell'ortodossia della Terza Roma, e dalle penetrazioni della finanza araba, forte della tradizione dell'Islam.
Ma come rimediare alla “evanescenza della coscienza cristiana dell'Occidente europeo”?
Il prezzo della continuità
I maîtres à penser di casa nostra si aggirano (sconsolati) tra un'Europa che manca di capacità di unificazione in una comune identità politica, tanto debole di statualità e spirito combattivo quanto vuota di idealità, sì da lasciarsi penetrare da Russia ed Islam, e la ricerca di un campione continentale in grado di darle force de frappe e di istituzionalizzarne l'integrazione economico-finanziaria già imperante.
Alle conseguenze delle politiche liberiste e della globalizzazione si accenna troppo spesso en passant. Sul modo in cui è stata costruita sin qui l'Europa si sorvola. Men che meno ci si addentra nella sopravvenuta fase di crisi della globalizzazione, e dell'Unione in essa. Il riconosciuto declino non ha genitori.
Divisioni e chiusure procedono di pari passo. È quanto accade all'Europa ed in Europa.
In difesa delle oligarchie dominanti, sempre più lontane e contrapposte agli interessi ed alla sovranità dei popoli, si escogitano soluzioni che propongono di realizzare l'unificazione politica non per via democratica e nella giustizia sociale, ma individuando nemici esterni e riempiendo il “vuoto” tramite una verticistica ristrutturazione degli assetti economico-finanziari in base all'opzione militare.
Ma i conflitti sociali e tra gli Stati non si sono estinti, si sono solo trasferiti. Il compito di comprenderne divenire e riapparire, abbandonando schemi interpretativi ad hoc, non va affidato a chi vuole perseverare, con un salto pericoloso, nello stato di cose presenti.

Note
1 Alessandro Campi, “Dietro la crisi catalana anche gli errori dell'Europa”, il Messaggero, 9 ottobre 2017.
2 Per essere ammessi è necessaria l'unanimità degli Stati membri.
3 La materia è controversa se teniamo conto del Principato di Andorra, che ha l'euro come moneta ma non è nell'Unione europea.
4 In realtà, tra l'altro, fu tentato un golpe da parte di alcuni comandanti militari capeggiati dal colonnello Tejero (23 febbraio 1981).
5 Poiché la guerra civile era stata scatenata contro la Repubblica, durante il fascismo la Spagna restò un Regno provvisoriamente senza Re.
6 Alleanza Popolare (Alianza Popular), progenitrice del PP, venne creata nel 1976 da un ex ministro del governo di Francisco Franco, Manuel Fraga Iribarne.
7 La Jugoslavia, frutto di un movimento risorgimentale, nacque come Stato unitario dopo il primo conflitto mondiale. Fu assalita e divisa dalla Germania nazista e dall'Italia fascista, quindi ricomposta a seguito della vittoria della resistenza comunista titina.
8 Dai colori della bandiera giamaicana che sono quelli dei partiti chiamati a far parte della nuova coalizione, dalla quale i socialdemocratici della SPD si sono già dichiarati fuori ed alla opposizione.
9 Angelo Panebianco, “L'Europa dei leader deboli”, Corriere della Sera, lunedì 9 ottobre 2017.
10 Alla Sorbona Macron ha affossato la mutualizzazione del debito, gli eurobond e la condivisione del rischio.
11 Il disegno francese di supremazia sul militare è assecondato dalla propensione italiana a dedicarsi alla produzione degli scafi (50% del valore delle imbarcazioni) piuttosto che ai sistemi elettronici e di armamento (restante 50%) con il loro notevole indotto territoriale. Sull'argomento, vedasi intervista a Pier Francesco Guarguaglini di Giorgio Meletti, “Governo e manager stanno affondando Finmeccanica”, il Fatto Quotidiano, 11/10/2017.
12 Sul tema vedasi il Post “Immigrazione”, ottobre 2014.
13 Ernesto Galli della Loggia, “Il declino degli Stati europei”, Corriere della Sera, 11 ottobre 2017.


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