sabato 25 marzo 2017

Fake history

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FAKE HISTORY

e perché viene raccontata

La fake history è storia fasulla, somministrata spesso a piccole e disciolte dosi, tra le righe dei commenti, magari associando immagini ad eventi o/e invertendo l'ordine cronologico dei fatti.
Nel propinarcela alla chetichella il mainstream mediatico sottace implicite teorie, le cui verità vengono ostinatamente date per scontate, a dispetto delle verifiche a cui la storia le ha sottoposte.
Immagine dell'iperinflazione tedesca spesso
associata all'ascesa al potere di Hitler
Insospettate radici
Comincio dalla tesi più nota e ripetutamente smentita, in modo argomentato, sul Web: inflazione e svalutazione generarono il malcontento sociale su cui fecero leva fascismo e nazismo per prendere il potere.
È sostenuta dai gruppi dirigenti tedeschi attuali.1 Essi, con riferimento all'iperinflazione della Repubblica di Weimar, la usano in particolare per resistere a qualsiasi misura di rilancio pubblico dell'economia comunitaria che implichi inflazione nella zona euro, insomma a misure di stampo keynesiano.
Siccome qui importa non tanto il dibattito sulle teorie economiche quanto i riscontri storici effettivi di quelle teorie, mi limito su queste ultime ad offrire spunti di riferimento [vedi il riquadro “L'implicito teorico”, in pagina], ricordando che la radice dell'atteggiamento tedesco sul rapporto tra inflazione-svalutazione e nazifascismo risale al neoliberismo europeo ed alla scuola ordoliberista nata negli anni trenta.
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L'implicito teorico
Lo spauracchio dell'inflazione viene agitato sulla base di un implicito teorico, dato per generalmente valido: la “teoria quantitativa della moneta.” Secondo questa teoria, elaborata nel 1911 dall'economista americano Irving Fisher e perfezionata nel trascorso secolo, “i prezzi generali dei beni sono direttamente proporzionali (se cresce l'uno, cresce l'altra e viceversa) alla quantità di moneta in circolazione nel dato momento.”*
Per gli “appassionati” annoto che, accanto a questo caposaldo monetario, la restaurata visione economica liberista (siamo alla seconda storica riedizione dell'economia classica) si alimenta di altre collegate teorie. Più volte rielaborate pure in forme matematiche assai sofisticate, si rifanno essenzialmente alla “legge degli sbocchi” dell'economista francese J. B. Say (1767-1832) e alla teoria dei “vantaggi comparati”, la cui prima formulazione risale a David Ricardo (1722-1832).
In breve, per questa visione liberista bisognerebbe:
  1. evitare ogni “artificiosa” immissione di moneta non giustificata sul piano strettamente “tecnico”, per non falsare l'andamento dei prezzi interni (inflazione) ed internazionali (svalutazione);
  2. lasciar fare (laissez-faire) al libero mercato concorrenziale, oggi globale, il quale, non sviato da falsate informazioni sui prezzi, provvederà “naturalmente” ad allocare nel modo più efficiente le risorse, ad investire secondo sana convenienza d'impresa, generando l'offerta. Ciò innescherà alfine un circuito allargato di ripresa benefico per tutti, disoccupati compresi.
Su quel “alfine” ebbe modo di ironizzare J. M. Keynes, quando affermò che nel lungo termine saremo tutti morti. E poco importa se il mondo reale sia stato e sia tutt'altro rispetto a quello teorizzato dal liberismo. Peggio per il mondo (dei disoccupati).
Infatti, giusto per fare un esempio a noi vicino, la Bce è stata dichiarata “indipendente” dal controllo politico democratico e vincolata al tabù antinflazionistico: tra i suoi scopi statutari annovera la difesa della stabilità della moneta, ma non la salvaguardia dell'occupazione...
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La qual cosa rivestirebbe minore importanza se, come è accaduto poi, l'ordoliberismo (in tedesco Ordoliberalismus) non avesse profondamente influenzato la pratica costruzione dell'Unione europea.2 Non per nulla il liberalismo italiano più impegnato a sostenere una certa idea d'Europa nutrì un forte legame con l'ordoliberismo. Proprio negli scritti di uno di loro, Luigi Einaudi, ritroviamo una tesi analoga a quella dei dirigenti tedeschi:
«La svalutazione della lira italiana e del marco tedesco, che rovinò le classi medie e rese malcontente le classi operaie fu una delle cause da cui nacquero le bande di facinorosi che diedero il potere ai dittatori.»3
Per l'ordoliberismo inflazione e svalutazione sono mali che si manifestano di pari passo. Anche in mutate condizioni rispetto alla Germania dei decenni venti e trenta. È ricorrente l'dea, altro esempio d'attualità, che una svalutazione della lira, conseguente ad una eventuale uscita dall'euro, provocherebbe in automatico una disastrosa inflazione interna. Anche se proprio la recente rilevante svalutazione dell'euro rispetto al dollaro4 non abbia provocato affatto una corrispondente inflazione nell'eurozona.
Passiamo alla verifica storica di quanto sostenuto dai gruppi dirigenti tedeschi e dal liberale Einaudi.
Cronologie sovvertite
Hitler diventa cancelliere il 30 gennaio del 1933. La disoccupazione è salita al 20% e riguarda 6 milioni di lavoratori; la malnutrizione è diffusa. Le difficilissime condizioni economiche e sociali della Germania, ereditate dalla guerra persa, sono ulteriormente peggiorate dopo il crollo di Wall Street del 1929, a cui segue una grande depressione resa più acuta da politiche di austerità.
Sono oramai trascorsi dieci anni dalla grande inflazione che raggiunse il suo apice nel 1923. L'inflazione interna era effettivamente andata a braccetto con la svalutazione del marco rispetto alle altre principali valute mondiali [vedi tabella “Germania, 1923: svalutazione ed inflazione”, in pagina].

Germania, 1923: svalutazione ed inflazione

http://www.viaggio-in-germania.de/inflazione-1923.html
Tuttavia, già nel 1924 la Germania era ritornata al gold standard5 ed il rigore depressivo coincise con il ripristino di gran parte delle regole liberiste a fondamento della globalizzazione finanziarizzata della belle époque, andate forzatamente sospese per lo scoppio del conflitto mondiale.
Pertanto, nei primi anni trenta tutto il mondo occidentale, non solo la Germania, è afflitto dalla deflazione. Il malcontento su cui fa leva il nazismo per affermarsi al potere è generato dalla disoccupazione e dai persistenti vincoli esterni, imposti alla Germania dai vincitori. Appare stupefacente l'andamento della disoccupazione in rapporto al voto dato al nazismo [vedi grafico “Disoccupazione tedesca e voto al nazismo”, in pagina], che si affermò collegando la “questione occupazionale” alla frustrazione nazionale indotta dalle condizioni dettate dalla pace di Versailles.

Disoccupazione tedesca e voto al nazismo

Fonte: SG Cross Asset Research, GFD
Non a caso J. M. Keynes, che aveva esordito con la pubblicazione di un pamphlet6 contro i risarcimenti sanciti nel Trattato di Versailles, a conclusione dei colloqui di pace ai quali aveva direttamente partecipato come membro della delegazione britannica, approfondì la propria critica all'economia classica proprio in quel periodo.
Nel 1933, appena insediatosi a capo del governo tedesco, Adolf Hitler affida il ministero delle finanze a Hjalmar Schacht, architetto della riforma MeFo. Schacht crea una compagnia statale, la Metallurgische Forschungsgesellschft m.b.H (MeFo), una scatola vuota con un solo azionista: la Banca Centrale del Reich. La MeFo emette obbligazioni, svincolate dal bilancio pubblico e dal suo debito, per finanziare la ripresa economica ed il riarmo tedeschi.
Tra il 1933 ed il 1936 consegue straordinari risultati, in termini di uscita dalla deflazione e di ripresa dell'occupazione. Così ne scrisse J. M Keynes:
«L'accorgimento consisteva nel risolvere il problema eliminando l'uso della moneta con valore internazionale e sostituendola con qualcosa che risultava un baratto, non però fra individui, bensì fra diverse unità economiche. In tal modo riuscì a tornare al carattere essenziale e allo scopo originario del commercio, sopprimendo l'apparato che avrebbe dovuto facilitarlo, ma che di fatto lo stava strangolando.»7
Fu un modo per sottrarsi ai vincoli del Trattato di Versailles e, al contempo, evitare l'iperinflazione e la svalutazione, rimettere in moto il mercato interno a vantaggio esclusivo delle imprese nazionali.
La base politica consistette nella ripresa della sovranità monetaria della Germania, attraverso una “moneta impropria” di baratto interno.
J. M. Keynes considerò la riforma MeFo un “vantaggio tecnico” offerto “al servizio di una buona causa”, che non fosse il riarmo nazista. Va tuttavia rilevato che l'avversione del liberalismo all'interventismo dello Stato in economia non si è mai esteso alla spesa pubblica in armi: basti ricordare il “keynesismo bellico” del liberalizzatore Ronald Reagan e l'enorme spesa bellica degli Stati Uniti negli ultimi trent'anni di liberoscambismo e globalizzazione finanziaria.
Ventennio fascista double-face
Dal '22, per quasi dieci anni Mussolini continuò a perseguire politiche liberiste, di deflazione salariale e si incaponì sulla “quota novanta”.8 Solo tardivamente prese atto del nuovo quadro economico planetario.
Non fu senza ragione che i liberali, salvo rare eccezioni per lo più pagate col sangue, negli anni venti o si fecero neutrali o diedero sostanziale appoggio al fascismo. Vi videro un'accettabile uso della violenza per sottomettere il movimento operaio e ripristinare la minacciata libertà del mercato ed in particolare della proprietà privata, beni primari rispetto alla stessa democrazia della rappresentanza.
Piuttosto numerosi furono i liberali che aderirono al listone nazionale fascista, allestito da Mussolini per il voto del 1924, indette dopo l'approvazione della legge elettorale Acerbo.
Il filosofo liberale Benedetto Croce votò a favore del governo Mussolini anche dopo il delitto Matteotti. Motivò il proprio condizionato benestare al fascismo in una intervista rilasciata il 9 luglio a “Il Giornale d'Italia”:
Benedetto Croce
«Voi sapete che ho sempre sostenuto che il movimento fascistico fosse sterile di nuove istituzioni, incapace di plasmare, come i suoi pubblicisti vantavano, un nuovo tipo di Stato. Perciò esso non poteva, e non doveva essere altro, a mio parere, che un poste di passaggio per la restaurazione di un più severo regime liberale, nel quadro di uno Stato più forte. Doveva rinunciare a inaugurare una nuova epoca storica, conforme ai suoi vanti, ma poteva ben soddisfarsi della non piccola gloria di ridare tono e vigore alla vita politica italiana, cogliendo, per merito dei già combattenti, il miglior frutto della guerra.»

In buona sostanza, il fascismo andava bene sin quando si fosse attenuto al programma liberale classico, limitandosi a compiti repressivi nel rafforzamento dello Stato ed a cogliere il “miglior frutto della guerra”.
Sulla stessa scia si mosse anche il giovane Luigi Einaudi, il quale nel 1922 accoglieva il fascismo in quanto portatore del programma liberale classico e fautore, con i “mezzi adatti a raggiungere lo scopo”, della “grandezza materiale e spirituale della patria.”9
Una bella sintesi di liberal-nazionalismo, disposto ad un “transitorio” fascismo pur di realizzarsi.
Come abbiamo visto, il più maturo Einaudi dimenticò quanto, ancor giovane, aveva sostenuto di fronte alle imprese dello squadrismo mussoliniano.
Luigi Einaudi
Ma furono le “bande di facinorosi”, ovvero gli squadristi della marcia su Roma, a dare “il potere ai dittatori”? O, piuttosto, le “classi dirigenti” del tempo, tra cui i maggiori esponenti del liberalismo nazionale?
Che dire poi di come andarono le cose in Germania, allorché fu conferita una maggioranza parlamentare al primo cancellierato di Hitler (gennaio 1933), dopo che nelle elezioni federali del 193210 aveva ottenuto il 33,10 % dei voti?
Globalizzazione pacifista
Se il falso storico sull'inflazione tedesca viatico del nazismo è stato abbastanza e diffusamente smentito, ora è la volta di altre “disinvolte” affermazioni del mainstream, ripetute come scontate verità.
Si sostiene che la costruzione dell'Europa abbia garantito la pace, cancellando dalla storia le guerre nella ex-Jugoslavia e quella ancora in atto in Ucraina. Per non parlare di quelle esterne, in partnership con gli Stati Uniti. Vere e proprie “rimozioni dalla memoria collettiva” di fatti che “disturbano” l'immagine ostentata. A ruota si sostiene che l'attuale globalizzazione, di cui la costruzione europea è parte integrante, non sia priva di qualche correggibile difetto, ma ciò nonostante rappresenti pur sempre l'unico sicuro baluardo contro la guerra.
Sull'intreccio tra commercio internazionale, globalizzazione contemporanea, armamenti e guerra non ritorno.11 Mi pare invece indispensabile qualche ulteriore accenno al nesso tra globalizzazione della belle époque e prima guerra mondiale.
Non è necessario condividere la visione vichiana dei “ricorsi storici” per trovare forti analogie tra i fenomeni prodotti dalla globalizzazione del periodo 1870-1913 e quelli attualmente in atto. Né dal loro riproporsi si può essere indotti, evitando l'analisi concreta della situazione concreta odierna, ad automatiche conclusioni sul nostro futuro prossimo.
Partiamo da un dato di fatto storico: la globalizzazione della belle époque sfociò direttamente nel primo conflitto mondiale. Nel periodo non mancarono ventate protezionistiche e guerre commerciali, da reputarsi fisiologiche nel processo.
Col primo conflitto si avviò una lunga guerra mondiale durata tre decenni, poi conclusasi con il secondo conflitto. Si trattò di uno scontro tra due blocchi colonialisti ed imperialisti rivali per il dominio sul globo, benché ammantato di sentimenti patriottici ed in Italia inizialmente fatto passare come compimento del Risorgimento e dell'unità nazionale.
Il conflitto combattuto tra il 1939 ed il 1945 fu il tentativo, più esteso, di rivincita sulla sconfitta patita dalla Germania nel '14-'18. Il fascismo italiano recriminò a lungo sulla “vittoria mutilata” dalla pace di Versailles e sul “posto al sole” negato all'Italia dalle potenze coloniali concorrenti, ragione per la quale essa si trovò alleata col revanscismo nazista tedesco.
A partire da Versailles le potenze vincitrici cercarono di restaurare l'insieme dei rapporti economici, finanziari e monetari (compreso il gold standard) internazionali compromesso dalla guerra che tali rapporti avevano generato. Nel ricorso alle armi, i governi dovettero poggiare sull'intervento dello Stato in economia (con grande beneficio per gli industriali, grandi liberali del tempo), ma fu interpretato come un “forzato frangente” che non mise in discussione i capisaldi del laissez-faire economico-sociale e della internazionalizzazione, sottoposti entrambi all'aspra critica di J. M. Keynes.
Prova ne sia che quella globalizzazione entrò definitivamente in crisi solo dopo il successivo crack finanziario del 1929, che ebbe effetti tanto più vasti in quanto era stata pervicacemente ripresa. Dopodiché, a seguito della grande depressione, dal 1933 si affermò il New Deal rooseveltiano in parallelo con la riforma MeFo del ministro tedesco Hjalmar Schacht.
Perché insistono
Malgrado una pur approssimativa ricostruzione storica non possa prescindere dalla cronologia degli eventi, i nostri propagatori di fake history la sovvertono. In tal modo l'iperinflazione tedesca e non la dilagante disoccupazione diventano la leva di malcontento su cui il nazismo poggiò per affermarsi.
Per disgiungere il liberismo dal nazionalismo cancellano la specifica storia del primo decennio liberista del fascismo italiano, condiviso dai maggiori esponenti liberali del tempo in nome della Patria.
Per non ammettere l'intima dinamica connessione tra liberismo, globalizzazione liberoscambista e guerra, asseriscono che l'abbandono della globalizzazione della belle époque precedette e permise lo scatenamento della guerra del '14-'18, “dimenticando” pure la sua riproposizione post-bellica, che portò al crollo finanziario del '29, evento decisivo nel creare le condizioni per il successivo secondo conflitto mondiale.
Per accreditare una costruzione europea “garanzia di pace” cancellano le guerre indotte in Europa e quelle a cui hanno partecipato e partecipano gli Stati europei fuori dall'Europa.
Il loro scopo è avvalorare un inesistente antagonismo: quello tra un liberalismo globalizzatore che aprirebbe alla pace ed un nazionalismo protezionistico che chiude, spianando la via alla guerra.
Senonché gli Stati Uniti si scoprono liberal-nazionalisti, avendo praticato da tempo il riarmo da superpotenza unica, il protezionismo doganale ed anche dato inizio alla costruzione del muro anti-immigrati al confine messicano che Trump vuole completare.
Fake history: dominare il racconto storico per continuare a dominare più facilmente il presente politico.

Note
1 Vedi anche Edoardo Ferrazzani:
2 Per una comprensione del legame tra ordoliberismo e costruzione dell'Ue, vedasi Luciano Barra Caracciolo, “La Costituzione nella palude”, Imprimatur, 2015.
3 L. Einaudi, “La guerra e l'unità europea”, Edizioni di Comunità, 1950, pagg. 81-82.
4 Considerato da Washington una manipolazione dei cambi ed un iniquo vantaggio commerciale per la Germania.
5 Regime monetario internazionale basato sulla convertibilità in prefissate quantità di oro delle monete nazionali.
6 John Maynard Keynes, “Le conseguenze economiche della pace”, Adelphi, 2007 (1919).
7 J. M. Keynes, “Il problema degli squilibri finanziari globali. La politica valutaria del dopoguerra” (8 settembre 1941), in Id., Eutopia, a cura di L. Fantacci, et. al. Edizioni, 2011, pagg. 43-55. Su questo argomento, vedasi il Post: “Storia recente che parla al presente – ottobre 2014”.
8 Politica fascista di tenere il cambio di 90 lire per una sterlina, da cui "quota novanta", insistendo oltre l'abbandono del gold standard da parte del governo inglese.
9 Vedi Paolo Mieli, “Liberalismo all'italiana: l'alternanza impossibile – Perché Einaudi e Croce all'inizio difesero Mussolini”, in http:/www.corriere.it/cultura/libri/11_novembre_29/salvadori-liberalismo-italiano_39037088-1a73-11e1-a0da-00d265bd2fc6.shtml
10 Da non confondere con le elezioni del marzo 1933.
11 In questo Blog:”Globalizzazione addio?”, marzo 2017.

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giovedì 9 marzo 2017

Globalizzazione addio?

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GLOBALIZZAZIONE ADDIO?

Per comprendere lo stato di salute della globalizzazione, messa in discussione da più parti ed in primo luogo dal nuovo presidente degli Stati Uniti, Donald Trump, è ottimo lo spunto offerto dall'intervento di Jack Ma all'annuale sessione del World Economic Forum di Davos del 17-20 gennaio 2017.
Il capo di Alibaba, impresa cinese leader nel commercio tramite la Rete, l'@-commerce, è un addetto ai lavori ai livelli massimi. Esprime un punto di vista relativamente “altro”, rispetto a quello occidentale. Partire dalla sua dichiarazione consente di focalizzare alcune questioni e discuterle.

Outsourcing internazionale
Secondo il racconto di Jack Ma,1 attorno alla metà degli anni '80 dello scorso secolo, gli Stati Uniti adottarono una nuova strategia economica di crescita: l'outsourcing2 internazionale.
Jack Ma
«(...) la manifattura andava al Messico e alla Cina, i servizi all'India. (…) Grossomodo gli americani dicevano: noi vogliamo mantenere il controllo della proprietà intellettuale, della tecnologia, del brand, e lasciare il resto alle altre parti del mondo, le compagnie americane hanno fatto miliardi dalla globalizzazione.»
Molte produzioni di merci e servizi traslocarono nei Paesi in via di sviluppo, sotto la supervisione delle società committenti, proprietarie dei prodotti e della loro commercializzazione. Sicché lo sfruttamento dei dislivelli di salario e di welfare, rispetto ai Paesi sviluppati, convogliò enormi profitti (e liquidità) verso le più grandi imprese occidentali.
Si tratta di una fotografia della globalizzazione e del suo reale spirito originario, alla quale Jack Ma aggiunge un esempio pratico:
«Quando mi sono laureato, in Cina, provai a comprarmi un cercapersone Motorola. Costava 250 dollari, e io ne guadagnavo 10 al mese come insegnante. Produrre il chip ne costava 8. Ecco, con questo metodo, 30 anni dopo Ibm, Cisco, Microsoft hanno fatto molti più profitti che le 4 maggiori banche cinesi messe assieme.»
Resa l'idea dell'enorme differenza tra costi e ricavi, tramite la quale le multinazionali nord-americane si sono gonfiate di utili, che hanno avvantaggiato fiscalmente anche il loro Stato d'appartenenza, l'imprenditore cinese si chiede:
«Ma dove sono finiti tutti questi soldi?»
Qui emerge la sua critica non alle modalità di profitto, ma alla sua destinazione:
«Da un lato, le compagnie della Silicon Valley hanno investito in Wall Street, dove la crisi finanziaria ha bruciato 19,2 trilioni di dollari e cancellato 34 milioni di posti di lavoro nel mondo. Inoltre, in questi anni gli americani hanno avuto 13 guerre, spendendo 14,20 trilioni di dollari. Quel danaro non è stato usato per le infrastrutture o per sostenere i lavoratori del Midwest, gli impiegati e gli operai. La soluzione, allora, è cominciare a spendere i soldi per i cittadini.»
Chiaro e diretto il riferimento alla Midwest strategy3, che ha consentito a Donald Trump di vincere la corsa alla Casa Bianca.
L'attenzione di Jack Ma non riguarda solo “il come” si spendono i dividendi della globalizzazione, egli propone di allargare la platea dei suoi controllori:
«La globalizzazione dev'essere inclusiva. Nei 30 anni passati, questo processo è stato controllato da 60.000 grandi compagnie. (...) Perché invece nei prossimi 30 anni non facciamo in modo di portare questo processo a 60 milioni di imprese?»
Infine, per una visione d'insieme del suo intervento, va considerata la sua preoccupazione di fondo:
«Cina e Usa non dovrebbero mai avere una guerra tra loro. È facile iniziare una guerra, difficile è finirla. In Iraq, Afghanistan, la guerra è finita? Ecco perché dobbiamo dar tempo a Trump, così potrà riflettere. (...) È proprio quando il commercio si ferma che la guerra inizia. Il commercio porta a cambiare valori e comunicare. E allora come possono (gli Usa, ndr) immaginare una guerra con la seconda economia mondiale? Sarebbe un disastro.»
Aspetti discutibili
Consapevole della crisi in cui versa la globalizzazione, Jack Ma, comprensibilmente data l'impresa di cui è a capo, vorrebbe riformarla per salvarla:
  • rompendo il guscio oligopolistico, tramite l'ampliamento del numero delle imprese che la controllano;
  • indirizzandone i profitti verso impieghi a favore dei cittadini e dell'occupazione, al contempo scongiurando i tracolli finanziari e la corsa alle armi;
  • sviluppando il commercio internazionale, visto come sicuro antidoto alla guerra.
Dalle sue stesse affermazioni, tuttavia, emerge una visione dei processi economici eccessivamente soggettiva, poco attenta alla tendenze fisiologiche del capitalismo degli oligopoli ed al ruolo dello Stato.
In particolare, se è vero che la strategia dell'outsourcing è stata lucidamente assunta dalle grandi imprese statunitensi, sembra piuttosto discutibile che la iniziale matrice oligopolistica potesse:
  • non foggiare la globalizzazione sul piano pratico;
  • evitare il prevalere, al suo interno, della componente finanziaria (finanziarizzazione).
Appare inoltre abbastanza discutibile considerare il ruolo dello Stato solo a posteriori dell'intero processo, quale beneficiario di una parte del tesoro andato sprecato. Quel processo senza l'imprinting governativo, segnatamente della presidenza Reagan, non avrebbe potuto né avviarsi né compiersi, e, pertanto, la corsa alle armi ed alla guerra è assai difficilmente imputabile ad una “cattiva destinazione delle risorse”, disgiunta dall'insieme degli assetti politici ed economici di partenza, sia interni che internazionali.
Ne consegue che, per arrivare a comprendere le tendenze politiche emergenti ed i cambiamenti in animo del neo-presidente Donald Trump, è indispensabile innanzitutto chiarire come fu avviata la globalizzazione, quali contraddizioni abbia comportato ed in quali problemi si sia nel tempo ritrovata.
Uno sganciamento mega
Dal 1981 (G7 di Cancun) si avviò una trasformazione detta neo-liberista, basata su privatizzazioni, aggiustamenti strutturali imposti ai Paesi del Sud e liberalizzazione dei tassi di cambio e d'interesse. Essa subì una forte accelerazione dopo i crollo dell'Urss nel 1989. Così venne creato l'ambiente “naturale”, l'habitat destinato a permettere le delocalizzazioni a prevalente vantaggio delle imprese transnazionali non solo degli Stati Uniti.
Di converso, nei Paesi sviluppati si aprì una stagione di pesante attacco alle conquiste del lavoro, salariato ed autonomo, sottoposto a pesanti ristrutturazioni produttive ed alla concorrenza internazionale al ribasso. I governi dovevano evitare di intervenire in economia, limitarsi alle “regole”, smetterla di favorire l'occupazione e dismettere il welfare.
Complessivamente nel mondo la crescita della produttività ebbe una impennata ed i salari reali rimasero stazionari se non calanti: uno sganciamento di enorme entità [vedi grafico “Produttività e salari reali, manifattura 1890-2007”].
Produttività e salari reali
manifattura 1890-2007
Per avvalorare l'idea che il ritrarsi dello Stato dall'economia fosse buono e desiderabile, si raccontò la favoletta della perdita di ruolo di tutti gli Stati-nazione, ivi compreso lo Stato grande Leviatano che potentemente armato andava insediando basi militari e spargendo guerre per il mondo. Jack Ma ne ricorda 13 (di guerre), che per gli Stati Uniti hanno comportato una spesa di 14,2 trilioni di dollari. Quest'ultima, a dispetto della propaganda, costituì un potente intervento statale in economia: una sorta di “keynesismo bellico”, del quale fece grande uso Ronald Reagan, uno dei massimi fautori delle liberalizzazioni.(Tralasciamo qui ogni considerazione sulle conseguenze dello sganciamento in rapporto alle grandi crisi recessive).4
A gettare le premesse per gli svolgimenti degli anni '80 era intervenuta la decisione di Richard Nixon (15 agosto del 1971) di abbandonare la convertibilità in oro del dollaro statunitense.
Con questa misura veniva meno uno dei fondamenti degli accordi di Bretton Woods5 ed iniziata la destrutturazione di tutto il quadro regolativo del secondo dopo-guerra.
La Gran Bretagna di Margaret Thatcher (1986) inaugurò per prima in Europa la liberalizzazione dei mercati finanziari. La Borsa di Londra divenne una impresa privata a responsabilità limitata e gli standards regolativi imposti dal Restrictive Trade Pratictices Act del 1956 furono disattivati.
Seguì, a breve distanza, la liberalizzazione dei mercati dei capitali per la creazione di uno spazio finanziario europeo unitario, a premessa della unificazione monetaria. Sicché, come scrive Maria Rosaria Ferrarese in una sua recente pubblicazione:6
«(...) le negoziazioni sulla liberalizzazione dei capitali andarono di pari passo con le discussioni sulla instaurazione della moneta unica.»
Sin dagli esordi la deregolamentazione (deregulation) aveva ad oggetto la circolazione dei capitali, le monete, i tassi di cambio e d'interesse, gli assetti finanziari. Implicò una nuova regolamentazione dei rapporti internazionali, attuata tramite l'Organizzazione del Commercio Mondiale (WTO), la Banca Mondiale, il Fondo Monetario Internazionale (FMI) e suggellata da trattati tra Stati sovrani, quali quelli che strutturarono l'Unione europea e le sue a-simmetrie.
D'altro canto i Paesi dell'Occidente ricco non erano vergini territori di libera concorrenza, essendosi accentrati in pochi gruppi monopolistici i poteri determinanti le dinamiche di mercato. Lo sviluppo capitalistico degli anni precedenti aveva comportato un notevole processo di concentrazione, rilevato da dati indiscutibili ed in mille modi discusso dagli economisti del tempo.
Benché in effetti si trattasse di dare uno sbocco internazionale agli investimenti ed alla accumulazione in difficoltà, la fuoriuscita dalla crisi degli anni '70 fu condotta sotto le insegne della crescita e dell'efficienza. Tale fuoriuscita, date le premesse e la dimensione mondiale, assunse la forma oligopolistica con una forte impronta finanziaria.
In questo svolgimento venne situata la delocalizzazione,7 con la industrializzazione di una parte dei Paesi in via di sviluppo e la corrispondente parziale de-industrializzazione di quelli ricchi, reintroducendo al loro interno una disoccupazione strutturale e congeniale all'abbattimento della remunerazione del lavoro.
I presupposti della finanziarizzazione dell'economia globale erano già presenti agli esordi della liberalizzazione negli stessi atti dei globalizzatori. E divenne dominante, quando, cammin facendo, l'impiego strettamente finanziario si mostrò più redditizio rispetto a quello nella “economica reale”.
Champagne, ma solo per pochi intimi
Non si trattò di una deviazione dal “buon impiego” dei profitti, ma del loro miglior uso possibile nella logica ed ai fini di coloro che li percepirono.
Cosa avrebbe potuto impedirlo?
Solo una politica di “repressione finanziaria” da parte dei governi, ma essi continuarono a liberalizzare, sino agli ultimi anni del secolo scorso.8
Nelle grandi corporations il comparto finanziario assunse il ruolo guida. La bussola delle decisioni dei loro dirigenti non furono più il fatturato, le vendite, i volumi produttivi, l'occupazione, gli utili di gestione, gli investimenti in capitale fisso, la ricerca e sviluppo, ma, in primo luogo, il valore delle imprese secondo il giudizio dei mercati finanziari. Era lo svolgimento teorizzato sin dagli anni '60 da Milton Friedman,9 campione del neo-liberismo. Il rischio si era spostato dall'investimento nelle produzioni all'investimento nei valori finanziari, misurabili e “giocabili” in real time, istantaneamente, sul mercato globale dotato delle nuove tecnologie comunicative telematiche.
Qualora non volessimo tenere conto né della storia del capitalismo, i cui cicli espansivi, più o meno geograficamente allargati, approdano sempre alla fase finanziaria “finale”, né delle premesse poste in opera sin dalla deregulation degli anni '80, dobbiamo considerare i meccanismi interni all'economia capitalistica del 1900 e dei primi anni 2000. Essi sono animati da processi di concentrazione e finanziarizzazione che, come sono sfociati nei crolli del '29 e del biennio 2007-2008, in assenza di interventi politici coercitivi e strutturali, produrranno nuove devastanti crisi.
Infatti, la sfera finanziaria non è isolabile da quella delle produzioni: se ne nutre più di quanto non le nutra; le struttura e le indirizza a proprio favore; riversa su di esse le conseguenze delle proprie priorità e dei propri fallimenti. Se, come ci dice Jack Ma, l'ultimo crollo di Wall Street ha cancellato 34 milioni di posti di lavoro nel mondo, quante imprese subiscono quotidianamente le conseguenze distruttive della prevalenza finanziaria in seno alla economica reale?
In ultima analisi, la mondializzazione è consistita in una gigantesca redistribuzione dei redditi effettuata su scala planetaria a favore:
  • delle classi superiori;
  • di una minoranza della popolazione mondiale [vedi grafico “Distribuzione a coppa di champagne”];
  • dei Paesi già ricchi come gli Stati Uniti.

Una redistribuzione cercata, politicamente voluta dalle élites dominanti e palesatasi nelle rilevazioni statistiche, secondo le quali, a fine 2015, l'1% della popolazione mondiale possiede una ricchezza pari a quella del restante 99%.
Pertanto, anche la “patrimonializzazione”10 con il prepotente riemergere della figura “ottocentesca” e parassitaria del réntier, è connaturata alla globalizzazione e ne ipoteca l'eventuale futuro.
Negli ultimi tre lustri [Vedi grafico “A chi è andata la crescita della ricchezza tra il 2000 e il 2015”], la crescita della ricchezza è andata al Nord per il 66,7% e la percentuale accaparrata da Paesi come il Regno Unito (6,3%) si spiega unicamente in base al loro ruolo finanziario,11 soprattutto se posto a confronto con quello industriale, ben più potente, della Germania (4,6%).
A chi è andata la crescita della ricchezza 
tra il 2000 e il 2015 (in miliardi di euro)
[fonti: Eurostat; ilmioblogdieconomia.blogspot.it]
Tuttavia, nel medesimo periodo, anche alcuni Paesi emergenti hanno potuto “trattenere” per sé una quota della crescita prodotta.
Ciò è avvenuto nella misura in cui i loro governi non hanno obbedito al diktat di lasciare tutto al “libero gioco del mercato”, negando allo Stato ogni rilevante intervento diretto in economia, bollato come “inefficiente”. Altrimenti non si spiega il relativo successo conseguito dalla Cina (13,7%), per esempio, in rapporto all'India (1,7%). All'intera Africa toccherà una percentuale (1,1%), pari solo alla destrutturazione degli Stati del continente nero, così maggiormente esposti al saccheggio delle loro risorse.
Quando i glorificatori della globalizzazione vantano l'uscita dalla povertà di milioni di persone di una parte del Terzo Mondo, “dimenticano” questo aspetto cruciale, che, come si vedrà più avanti, è lo stesso ad indurre adesso una parte di loro a fare retromarcia.
Pesanti sbilanci
La crisi finanziaria del 2007-2008 ha trascinato in basso sia le produzioni che il commercio mondiale. Quest'ultimo, dopo essersi ripreso dal crollo del 2009, mostra nuovi segnali di frenata: nel 2016 è diminuito, in termini di valore complessivo, di -13,2%; rispetto alla crescita del Pil, valutata a +2,2%, si è attestato a +1,7%, ossia ad un livello inferiore. Secondo il ministro Calenda12 le attese per il 2017 sono pessime, anche per la constatata paralisi in cui versa il WTO.
Un breve sguardo alle posizioni assunte dai singoli Paesi nel commercio globale [Vedi grafico “Bilance commerciali 2004-2014”] aiuta a comprendere i più recenti sviluppi politici.
(*) External trade flows with extra EU-28 - (*) Including Lichtenstein - (*) Excluding Hong Kong
Bilance commerciali 2004-2014 (in miliardi di euro)
[fonte: Eurostat]
Superando la Cina, il surplus tedesco è arrivato nel 2016 a ben 252,9 miliardi di euro:All'interno del rallentamento generale, Cina e Russia tra gli emergenti, e Germania tra quelli ricchi, hanno acquisito un rilevante surplus commerciale, in base ad esportazioni piuttosto superiori alle importazioni. È importante annotare che se, tra il 2004 ed il 2014, nell'insieme l'Ue ha riequilibrato la propria bilancia commerciale, al suo interno è la Germania a giocare la parte del leone.
«Un risultato ottimo, certo, ma che mette nel mirino la Germania Paese che, secondo le regole Ue non potrebbe superare il 6% nel surplus commerciale mentre oggi questo dato, vola agilmente verso il 10%.»13
Al contrario, nel decennio il Giappone è andato in sbilancio e gli Stati Uniti, in particolare, pur essendo riusciti a ridurlo al di sotto dei 500 miliardi di euro, sono rimasti con un pesante deficit commerciale al di sopra dei 400 miliardi, esponendosi ad un marcato indebitamento privato verso l'estero ed a riscontri interni destabilizzanti. Va ricordato che ai successi mercantili esterni corrisponde il consolidamento di produzioni di merci e servizi all'interno nei Paesi che tali successi conseguono. Da ciò deriva la tenuta dei loro livelli occupazionali che, a loro volta, attestano la maggiore o minore stabilità sociale e politica interna.
Non desti sorpresa, pertanto, la propensione statunitense a prendersela con la “sottovalutazione” della moneta cinese, operata a loro dire dal governo, e con l'euro, una moneta tanto debole e favorevole alla Germania, quanto penalizzante per i concorrenti internazionali, oltreché per la maggior parte dei restanti Paesi dell'Unione europea. Ecco il reale motivo delle guerre commerciali in corso, magari combattute sul piano fiscale o su quello delle “regole ambientali”.
Non era dorata
Se riandiamo alle condizioni dettate per aderire alla globalizzazione, si capisce ciò che è andato storto. Per partecipare al “duro ma eccitante gioco della globalizzazione”, i cosiddetti “Paesi dell'ulivo”, ossia i Paesi del Sud del mondo, dovevano indossare la “camicia di forza dorata” sul taglio unico della ortodossia liberista, adottando una serie di misure politico-economiche [Vedi riquadro “Per partecipare”].
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Per partecipare
al “duro ma eccitante gioco della globalizzazione”, i “Paesi dell'ulivo” dovevano adottare una serie di misure, così riassunte da Thomas Friedman:*
  • privatizzare l'industria di Stato;
  • mantenere basso il tasso di inflazione;
  • limitare il peso della burocrazia statale;
  • mantenere il bilancio dello Stato in pareggio (se non in attivo);
  • eliminare o abbassare le tariffe sulle importazioni;
  • rimuovere le restrizioni all'investimento estero;
  • deregolamentare il mercato dei capitali;
  • rendere la propria valuta convertibile;
  • eliminare la corruzione;
  • privatizzare il sistema previdenziale.
*Thomas Friedman, “Le radici del futuro. La sfida tra Lexus e l'ulivo: che cos'è la globalizzazione e quanto conta la tradizione”, Mondadori, 2001 (2000), pag. 117.
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Quali e quante di queste misure sono state attuate dai “Paesi dell'ulivo”?
Tra i Paesi del Sud mondiale, quelli che le hanno messe in atto completamente si sono trovati in successive maggiori difficoltà, rispetto a quelli che prudentemente se ne sono discostati, almeno in parte.
La Cina si è guardata dall'indossare la “camicia di forza dorata” ed ha saputo ritagliarsi un vestito su misura propria. Da un lato si è aperta agli investimenti stranieri, alle delocalizzazioni, sottoponendo i propri lavoratori allo sfruttamento intensivo delle multinazionali e liberalizzando parzialmente i propri mercati. Pur privilegiando le zone costiere e le grandi città (squilibri che peseranno sul suo futuro), non ha aderito al modello agricolo occidentale, temendo le conseguenze dirompenti dello spopolamento delle campagne dell'interno. Dall'altro, ha tenuto nelle mani dello Stato finanza, moneta, bilanci pubblici e, soprattutto, le redini delle produzioni. Sicché il suo sviluppo è stato ad un tempo: concavo, nell'accogliere investimenti stranieri; convesso, nello sviluppare via via esportazioni in proprio. Ha cercato di modulare la sua politica secondo il concetto tradizionale cinese dello Yin e Yang.
Benché l'aver incorporato molta parte del debito pubblico statunitense possa ora costituire un problema (per tutti coloro che lo detengono), alla stessa stregua di una banca troppo esposta verso un debitore, la Cina è oramai diventata la seconda economia mondiale dopo gli States ed il secondo esportatore dopo la Germania, in termini di valore.
Il gioco non vale più la candela
Questa interpretazione della globalizzazione, qui esposta per sommi capi, rende conto dei motivi per i quali essa viene oggi messa in discussione, proprio dai suoi principali promotori, non più esclusivi beneficiari. Essi sono perfettamente consapevoli del fatto che solo dominando il processo di creazione del valore, la loro posizione nel mondo può uscirne riconfermata. Una posizione non più solida come agli esordi e nel trentennio liberista.
Solo una parte delle grandi imprese statunitensi (in gran parte le stesse della Silicon Valley che, secondo Jack Ma, investirono in Wall Street) è in grado di comandare su scala mondiale il processo dall'input all'output, cioè dalla committenza alla commercializzazione; la parte restante ha bisogno di venire protetta e trainata da una politica federale che, per “rifare grande l'America”, poggi su più solide basi il controllo dell'ampio mercato interno.
Se Trump fosse preoccupato del predominio della “finanza barbara” e di Wall Street non si appresterebbe a togliere di mezzo le pur blande limitazioni alle operazioni finanziarie introdotte da Obama.14 Qualsiasi misura pur lontanamente assomigliante al welfare novecentesco, come la riforma sanitaria di Obama, è avversata in nome di una supposta riduzione della presenza dello Stato, il quale, tuttavia, rafforza il suo ruolo di Grande Leviatano nella “sicurezza”, poliziesca interna e militare esterna, a cui destinare la spesa pubblica risparmiata in altri settori.
La lotta al terrorismo viene mischiata con la islamofobia. Facendo leva, da un canto, sul primato razzista “bianco-cristiano” (suprematismo) e, dall'altro, sui risentimenti verso flussi migratori che hanno alimentato un imponente “esercito di riserva” a detrimento di occupazione e salari dei residenti, si chiude alla “libera circolazione della mano d'opera” proveniente soprattutto dal Messico e dall'America latina. Il bersaglio dichiarato viene esteso alla “libera circolazione delle merci” e persino la “libera circolazione dei capitali”, messa all'indice quando quelli statunitensi dislocano all'estero le produzioni per poi importarne i prodotti. Pertanto, la neo-presidenza punta ad allestire un nuovo impianto impositivo che defiscalizzi gli investimenti interni ed infligga selezionati dazi alle merci in entrata.
In sintesi, la linea della nuova amministrazione può essere definita come liberal-nazionalista, contrassegnato da pronunciate tendenze fascistizzanti.
Discontinuità relativa
Vi è una continuità nelle ansie nord-americane tra la nuova amministrazione e quelle precedenti.
Sia le misure protezionistiche in ambito commerciale che quelle anti-immigratorie non costituiscono una novità assoluta portata da The Donald. In quanto a misure protezionistiche già da anni attive, gli Stati Uniti detengono il primato globale: nove volte più numerose di quelle volte a liberalizzare il commercio internazionale.15 Mentre il famigerato muro al confine con il Messico fu iniziato nel 1990 durante la presidenza di George H. W. Bush e sviluppato da Bill Clinton nel 1994. Chi attacca Barack Obama ha buon gioco nel rilevare che dal 2009 al 2015 gli Usa hanno espulso 2 milioni e 427 mila immigrati.16
La discontinuità consiste piuttosto nella strategia generale politica. Obama puntava a ripristinare la “leadership benevola” di Washington su una globalizzazione oramai sfuggita di mano, attraverso i trattati di libero scambio transpacifici-transatlantici (TTP e TTIP) ed il parallelo rafforzamento delle alleanze militari, nascondendo il manganello dietro la schiena. Trump, invece, opta direttamente per il nazionalismo economico e sbatte il manganello sul tavolo, preferendo i rapporti bilaterali alle “pastoie” multilaterali. Esercita una politica di potenza in proprio, senza mediazioni. La strategia di Obama, muovendo da alleanze economico-militari con Giappone e Unione Europea, cercava di isolare Cina e Russia. Quella di Trump vorrebbe separarle, concentrando il tiro sulle grandi esportatrici, Cina e Germania, e puntando a disgregarne gli “involucri”, ossia gli emergenti BRICS e l'Unione europea, in sé alquanto malmessa.
Quanto al rapporto privilegiato con Tokio, sembra esserci più continuità che discontinuità. Anche la Clinton era arrivata alla conclusione che il TTP non potesse costituire un sistema adeguato a contenere la potenza cinese. Come Donald Trump avrebbe rafforzato i legami con il Giappone in via di riarmo...
Ora non mi soffermerò sul conflitto in corso tra libero-scambisti e protezionisti, né sul relativo stucchevole dibattito, se non per un necessario appunto.
I “mondialisti” affermano che la fine della globalizzazione della belle époque condusse il mondo verso le successive due guerre mondiali, paventando disastri analoghi qualora la stessa sorte toccasse all'attuale.
Ad una siffatta ricostruzione si possono muovere mille argomentate critiche. Ma non sono né Trump né la Brexit ad innescare la crisi della globalizzazione contemporanea, di cui costituiscono solo una variante politica. Essa, in realtà, è da alcuni anni in preda alle sue connaturate esplosive contraddizioni, essendosi basata sui processi di liberalizzazione, concentrazione oligarchica, finanziarizzazione dell'economia, sfruttamento dei popoli, depredazione delle risorse dei Paesi alla ricerca del proprio sviluppo, asimmetrie tra aree del mondo. Da tali processi scaturiscono i fallimenti, le disgregazioni, le insorgenze fondamentaliste e nazionalistiche. Ragione per cui nel reiterarne le cause non c'è rimedio alcuno. Tanto più se vediamo da vicino il rapporto tra mondializzazione e guerra.
Infausti connubi
Ora, giustamente, l'opinione pubblica è spaventata dalle dichiarazioni di Trump sul riarmo atomico e dal programma di Marine Le Pen sulla force di frappe. È preoccupata dalla richiesta nord-americana di rispettare i paramatri di spesa militare, ripresentata da Trump a livelli fissati prima di lui: ciascuno dei Paesi della Nato dovrebbe spendere almeno il 2% del Pil per la difesa. Per l'Italia un ulteriore vincolo esterno che verrebbe a sommarsi ai pressanti vincoli europei sui nostri bilanci pubblici.
Programmata dal governo Renzi, la spesa militare italiana del 2017 supererà i 23 miliardi di euro, situandosi all'1,5% del Pil e registrando un incremento in 10 anni del 21%. Sarebbe un modo per promuovere l'ulteriore rafforzamento del nostro export di armi, triplicato nel 2015 e diretto verso Paesi in guerra, tra i quali l'Arabia Saudita. Appresso cresce l'intermediazione finanziaria delle principali banche italiane, tra le quali Unicredit, ed il peso specifico della vendita di armi nel complessivo export del Paese.
Secondo il SIPRI (Stockholm International Peace Research Institute) le spese militari mondiali hanno registrato un calo decennale dal 1989 (anno di caduta del muro di Berlino) in poi, per risalire potentemente tra il 2009 ed il 2015, fino a superare i livelli raggiunti nel 1988. Globalizzazione non fa rima con disarmo e la sua crisi coincide con la corsa agli armamenti.
Gli Stati Uniti detengono il primato assoluto sia nella propria spesa militare che nelle esportazioni, nonostante il forte sbilancio commerciale prima evidenziato. Per sé spendono più dell'insieme di Cina, Russia, Arabia Saudita, Francia, Regno Unito, India e Giappone. Detengono il 33% del mercato bellico mondiale. Pur posizionandosi al secondo posto per budget interno, la Cina è solo al 5,9% nell'export, mentre, viceversa la Russia, in rapporto alla spesa interna è assai rivolta all'export (25%). L'India tende ad accrescere le proprie spese in armi, importandole.
Se consideriamo la spesa aggregata e le esportazioni della triade Usa-Ue-Giappone non c'è confronto con il resto del mondo [vedi riquadro "Export mondiale di armi" e grafico “Visuale delle spese militari globali”].
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Export mondiale di armi
Secondo lo Stockholm International Peace Research Institute (SIPRI), la mappa dei 10 paesi che hanno esportato la maggior quantità di armi, nel periodo che va dal 2011 al 2015, è la seguente.
  1. STATI UNITI (33% del mercato). I principali clienti sono, nell’ordine: Arabia SauditaEmirati Arabi e Turchia.
  2. RUSSIA (25% del mercato). I principali clienti sono, nell’ordine: IndiaCina e Vietnam.
  3. CINA (5,9% del mercato). I principali clienti sono, nell’ordine: PakistanBangladesh e Myanmar.
  4. FRANCIA (5,6% del mercato). I principali clienti sono, nell’ordine: MaroccoCina e Egitto.
  5. GERMANIA (4,7% del mercato). I principali clienti sono, nell’ordine: Stati UnitiIsraele e Grecia.
  6. REGNO UNITO (4,5% del mercato). I principali clienti sono, nell’ordine: Arabia SauditaIndia e Indonesia.
  7. SPAGNA (3,5% del mercato). I principali clienti sono, nell’ordine: AustraliaArabia Saudita e Turchia.
  8. ITALIA (2,7% del mercato). I principali clienti sono, nell’ordine: Emirati ArabiIndia e Turchia.
  9. UCRAINA (2,6% del mercato). I principali clienti sono, nell’ordine: CinaRussia e Etiopia.
  10. OLANDA (2% del mercato). I principali clienti sono, nell’ordine: MaroccoGiordania e Stati Uniti.
Tra i Paesi che comprano tutte queste armi svettano: Arabia Saudita e India.
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Visuale delle spese militari globali
Dal quadro possiamo agevolmente ricavare che:
  • la globalizzazione non ha affatto disarmato il mondo e soprattutto gli Stati-nazione più forti;
  • i Paesi più ricchi presidiano la propria posizione e ricchezza con una spesa militare soverchiante;
  • gli emergenti occupano posizioni rilevanti, tuttavia assai inferiori a quelle del primo mondo;
  • la Germania, rispetto alla propria potenza economica e mercantile, nutre un basso profilo militare, peraltro organizzato nella Nato a predominio Usa;
  • l'Arabia Saudita è prima compratrice di armi e dai Paesi occidentali, i quali non possono ignorarne il suo ruolo nel fondamentalismo islamico e nelle guerre medio-orientali.
Davvero si può credere al de-potenziamento di tutti gli Stati derivante dalla globalizzazione?
Davvero si può credere in un Impero universale senza imperialismo?
Commercio armato
Per Jack Ma lo sviluppo del commercio si opporrebbe validamente alla guerra.
Nulla da ridire sulla funzione degli scambi nell'aprire alla comunicazione. Non altrettanto direi del commercio come antidoto alla guerra.
Una lunga storia contraddice i suo assunto: da cinquecento anni il commercio mondiale d'Occidente è commercio armato. E proprio in Estremo Oriente ebbe modo di sperimentare la sua straordinaria “efficacia”, laddove il “mostruoso attrezzo”, come lo definì lo storico Fernand Braudel, derivante dall'unione del capitalismo con la forza armata dello Stato, soggiogò un fiorentissimo commercio disarmato, dissanguandolo [vedi riquadro “La galea veneziana”].
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La galea veneziana
Nel Mediterraneo l'impresa privata mercantile e l'apparato militare dello Stato si erano emblematicamente fusi nella galea veneziana. Era una nave mercantile a vela che, alla bisogna, manovrava agilmente sospinta ai remi da galeotti (uomini ridotti in schiavitù), assumendo l'assetto di una nave da guerra, appositamente armata nell'Arsenale della Serenissima. I convogli di galee, le famose mude, assicuravano trasporti di merci e passeggeri su rotte garantite dalla Repubblica, sicché espansione commerciale privata e dominio militare di Stato procedettero di pari passo.
Alla fine del '400 il regno del Portogallo emulò Venezia sulle rotte transoceaniche.
Ha scritto David Graeber:
«Nel momento in cui Vasco de Gama entrò nell'Oceano Indiano nel 1498, il principio per cui i mari erano zona di commercio pacifico fu immediatamente eliminato. Le flottiglie portoghesi iniziarono a saccheggiare ogni porto che arrivava loro a tiro, prendendo poi il controllo di punti strategici ed estorcendo denaro in cambio di protezione ai mercanti disarmati dell'Oceano Indiano, che non avevano altra scelta se volevano continuare nella loro attività senza essere molestati.»*
Chi volesse, poi, rintracciare nella prima globalizzazione del '500 una connessa funzione della finanza, troverebbe l'incredibile arricchimento dei banchieri d'investimento italiani, olandesi e tedeschi che ne detenevano le leve, in seno ai rapporti mercantili (armati) tra Nuovo Mondo, Cina ed Europa.
*David Graeber, “Debito”, il Saggiatore, 2012 (2011), pag. 302. 
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Alla lezione devono aver prestato grande attenzione i governi della Cina e dell'India, a dispetto delle convinzioni del capo di Alibaba, quando hanno ritenuto di doversi dotare di portaerei con l'ansia di difendere le proprie rotte mercantili da minacce altrui...
Post globalizzazione
Il “gioco” è scompigliato da chi lo ha promosso.
Lo Stato cedeva sovranità ai trattati internazionali, i quali, a loro volta, tramite il sistema degli “arbitrati”, decretavano il prevalere del diritto privato sul diritto pubblico di Paesi, regioni e città. Tutto bene finché era la sovranità altrui a venire manomessa, a proprio esclusivo vantaggio. Non più, quando l'unica superpotenza vede intaccato il proprio ruolo dominante.
Perciò il Grande Leviatano statunitense esce dalle quinte per mostrarsi sulla scena globale, inducendo tutti gli Stati-nazione a ripensare alla propria sovranità, a recuperare, se vogliono e possono, quella ceduta. Per questo la riforma democratica della globalizzazione appare tanto illusoria quanto velleitaria.
Per gli “alleati europei” è uno shock: dovevano essere uniti, ma hanno costruito solo un continente delle diseguaglianze tra classi, popoli e Paesi, ad immagine e somiglianza della globalizzazione in crisi. Mentre la Germania si riscopre troppo grande per l'Europa eppure troppo piccola per il mondo, le “classi dirigenti” italiane abbaiano alla luna, in bilico tra un Europa mai esistita ed un mondo che non c'è più.
Per nostra fortuna, ai “sovranismi” nazionalistici e fascistizzanti può contrapporsi la resistenza di una società resa liquida e data per liquidata, ma insospettabilmente viva ed ancora capace delle migliori risposte. Come testimoniano gli esiti degli ultimi referendum costituzionali.

Note
1 Andrea Valdambrini, “Avete sprecato il tesoro della globalizzazione”, il Fatto Quotidiano, 3 febbraio 2017. Le citazioni che seguono sono tutte tratte da questo articolo.
2 Traducibile in processo di “esternalizzazione”, ovvero dare in appalto ad una società esterna funzioni o servizi, o interi processi produttivi, mantenendo per sé il core business, l'attività fonte dei guadagni. Una pratica possibile sia su scala locale sia mondiale.
3 Vincendo in alcuni Stati del Midwest, Donald Trump conquistò la maggioranza dei “grandi elettori”, avendo la meglio sulla Clinton che pure ebbe la maggioranza dei voti espressi nelle urne.
4 Per il grafico riportato ed il rapporto con le crisi, vedasi: http://goofynomics.blogspot.it/2013/11/produttivita-salari-crisi-logaritmi.html.
5 La conferenza di Bretton Woods (1-22 luglio 1944) stabilì le regole delle relazioni commerciali e finanziarie tra i principali paesi industrializzati del mondo, da attuare nel dopo-guerra. Diede origine ad un ordine monetario mondiale, incentrato sul dollaro statunitense, voluto dagli Usa per governare i rapporti monetari tra stati nazionali indipendenti.
6 Maria Rosaria Ferrarese, “Promesse mancate. Dove ci ha portato il capitalismo finanziario”, Il Mulino, 2017, pag. 71. Con riferimento a A.F.P. Bakker, “The Liberalization of Capital Movements in Europe; The Monetary Committee and Financial Integration 1958-1994”, Berlin, Springer, 1996.
7 Vedasi anche éric Laurent, “Le scandale des délocalisations”, Plon, 2011.
8 Nel 1999, presidente Bill Clinton, negli States fu abrogata la Glass-Steagall Act del 1933 che separava le attività propriamente bancarie da quelle assicurative e d'investimento.
9 Vedasi Milton Friedman, “Capitalismo e libertà”, Studio Tesi, 1987 (1962).
10 Fenomeno su cui si è soffermato Thomas Piketty, “Il capitale nel XXI secolo”, Bompiani, 2014 (2013).
11 Nonostante gli annunciati disastri della Brexit, l'economia dello UK sembra reggere proprio grazie al ruolo della City londinese.
12 http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2016-10-05/allarme-calenda-2017-crollo-commercio-mondiale-183418.shtml?uuid=ADMTkgWB
13 http://www.repubblica.it/economia/2017/02/09/news/germania_bilancia_commerciale_al_top_e_nel_2016_l_export_vola_a_1207_miliardi-157902113/.
14 Mi riferisco alle misure del Dodd–Frank Wall Street Reform and Consumer Protection Act. Divenuta legge federale il 21 luglio 2010, fu voluta da Barack Obama in seguito al crack finanziario 2007-2008.
15 Enrico Marro, “Protezionismo? Gli Usa sono già al top (anche prima di Trump)”, il Sole24ore, 23 gennaio 2017.
16 Fausto Biloslavo, “Obama ha il record di espulsi. Il buonista batte anche Bush”, Il Giornale.it, 31 gennaio 2017.

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