martedì 27 giugno 2017

Britannica

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  • Sicurezza interna: doveva essere il punto forte di Theresa May e si è rivelato, dopo gli attentati di Manchester e Londra, un punto piuttosto vulnerabile.
  • Notevole invece il successo di Jeremy Corbyn, sbrigativamente liquidato come esponente del “vecchio Labour”, quindi incapace di cogliere il nuovo e votato a sicura sconfitta.
  • Ossessionati dalla Brexit, molti commentatori hanno trascurato prese di posizione e fatti emersi durante la campagna elettorale.
  • I negoziatori di Bruxelles sono ora tentati di approfittare della debolezza del governo britannico per penalizzare gli inglesi e lanciare una minaccia a coloro che volessero uscire dall'euro.

Porte aperte (open doors)
La May riteneva che su una scelta elettorale impostata sulla sicurezza, la pluriennale esperienza a capo del Ministero degli Interni avrebbe giocato a suo favore. Ma proprio su questo punto si è manifestata la sua debolezza.
A seguito della strage di Manchester, sono venute alla luce delle falle nel sistema di cui era stata responsabile sia agli Interni che a capo del governo.
In cosa consisteva la strategia delle open doors? Venivano aperte le porte in uscita ai volontari jihadisti (foreign figthers), a migliaia desiderosi di trasferirsi dalle città occidentali in cui molti di loro, figli di immigrati, erano nati, per andare a combattere in Medio Oriente ed in Africa del Nord nelle file del fondamentalismo islamico sunnita. L'invito ad approfittarne era comunicato agli interessati dai Servizi segreti di intelligence.
Theresa May
Poiché in epoca Obama l'interventismo diretto di Bush era dato per accantonato, i governi del democratico e liberale Occidente supposero di “prendere due piccioni con una fava”: allontanare dal proprio territorio individui e gruppi sotto osservazione speciale e, al contempo, infoltire le file di combattenti sul campo contro il nemico comune: Bashar al-Assad in Siria, Muhammar Gheddafi in Libia e lo schieramento facente capo all'Iran, ossia nazionalismo arabo e mezzaluna sciita.
Grazie alle rivelazioni del Middle East Eye,1 abbiamo scoperto che uno di questi soggetti, il già noto (al mitico Mi5) Salman Abedi, ha potuto ancora beneficiare dei lasciapassare dei Servizi, approfittare delle benevoli open doors, non più per uscire ma per rientrare, e compiere una strage di bambini ed adolescenti a Manchester.
Una “strana amnesia” che ha riguardato anche le segnalazioni del Servizi segreti italiani su uno dei componenti del gruppo che ha partecipato alla successiva azione terroristica a Londra, nostro concittadino trasferitosi in Gran Bretagna.2
Questa vicenda ha messo in rilievo tutta l'ambiguità e l'ipocrisia della cosiddetta guerra al terrorismo dei governi occidentali e quanto le loro politiche, in verità, espongano la popolazione civile al terrorismo invece di proteggerla.
Asimmetria bellica
Mentre dall'Afghanistan allo Yemen divampano furiose guerre, quanto sta accadendo in città come Parigi, Berlino o Manchester non è paragonabile. Il terrorismo è usato in ambedue gli scenari, ma con rilevanti differenze.
Intanto, per quanto possa essere sanguinario il terrorismo nelle nostre città, non è nemmeno lontanamente equiparabile ai disastri umani che quotidianamente provoca tra le popolazioni, in particolare sciite, nei mille luoghi dell'area di guerra.
Solo una differenza, pur ragguardevole, nel conteggio della sofferenza?
Nel cratere del conflitto il terrorismo è collegato alle attività belliche “convenzionali”. Colpisce l'avversario seguendo la stessa traccia logica dei bombardamenti della Nazione nemica, attuata dagli Stati e che hanno caratterizzato i conflitti del Novecento. È finalizzato a fiaccare il nemico nel suo entroterra civile, per conseguire una vittoria diretta sul campo e ricavare un proprio spazio statuale.
Fuori dall'area bellica decisiva il terrorismo è ricatto funzionale al raggiungimento di accordi, inevitabilmente segreti o “di fatto”, coi governi delle potenze già impegnate militarmente e politicamente nell'area stessa. Benché, per spingere all'omicidio-suicidio i suoi giovani aderenti, la propaganda del fondamentalismo islamico vaneggi il contrario, non esiste la minima possibilità che nella cosiddetta guerra asimmetrica gli Stati dell'Occidente e la Russia possano venire sopraffatti.
Disgregati dall'interventismo bellico occidentale e dei loro alleati locali geopolitici, Iraq e Siria sembravano ad un passo dallo smembramento. Sui media erano comparse cartine di raffronto tra vecchie spartizioni e le eventuali nuove possibili. Ma sui termini di quella divisione territoriale il risiko mediorientale si è ingarbugliato, permettendo la temporanea stabilizzazione del Califfato.
Per decenni i governi occidentali hanno favorito, armato e foraggiato lo jihadismo di marca sunnita, in varia forma organizzato, tra cui Al Qaeda, Al Nusra ed Isis, per combattere guerre in Afghanistan, in Bosnia, in Siria-Iraq e Libia. Per farlo si sono avvalsi dei loro alleati locali: in particolare Arabia Saudita ed emirati del Golfo, Turchia e, per comune nemico, Israele. Senonché, come era già accaduto con Saddam Hussein, a più riprese si sono rifiutati di pagare il conto dei servizi resi,3 esponendo la popolazione civile dei propri Paesi allo stesso terrorismo che altrove avevano appoggiato.
D'altro canto, se non era per l'intervento russo a fianco di Damasco, il Califfato non avrebbe ancora conosciuto l'inizio della sua fine.
Poiché la “biscia” si è ritorta contro la mano liberatrice,4 recentemente il presidente Trump ha pensato di rimetterla nel sacco tramite un accordo di business. In cambio di una rinnovata alleanza quotata in dollari, petrolio contro armamenti, forse ha ottenuto rassicurazioni a Ryad che gli alleati sauditi toglieranno ogni appoggio all'Isis, concentrandosi sul nemico comune e nel conflitto yemenita.
Rimane da capire se nell'accordo era compresa la rottura con il Qatar (buon cliente delle armi made in Italy), sopravvenuta solo poche settimane dopo, prendendo a pretesto la torbida vicenda della caccia con il falcone, rivelata dal Financial Times.5
Dato il doppiogiochismo dei potentati locali si può dubitare degli effetti risolutivi della linea Trump. Ma un aspetto è pur sempre confermato: USA ed Arabia Saudita non smetteranno di utilizzare il fondamentalismo jihadista sunnita nel cratere bellico.
Dato il contesto, e prescindendo dalla questione del terrorismo internazionale, rimane il fatto che Theresa May ha “bucato” sul tema della sicurezza interna e the old Jeremy ha potuto persino rimproverarle i tagli al budget delle forze di polizia.
Nostalgia canaglia
Nei giorni successivi al referendum per il leave dalla Unione Europea, i riflettori si erano accesi su una disputa legale: un gruppo di europeisti, capeggiati dall'avvocato Gina Miller, aveva ottenuto che a pronunciarsi in via definitiva sulla Brexit dovesse essere il parlamento.
Nonostante chiunque disponesse di un minimo di senno politico non potesse aspettarsi che la Camera dei Comuni smentisse l'inter corpo elettorale, il giornalismo main stream continentale diede alla vicenda una sorprendente rilevanza.
Cosa sperava sotto sotto?
A chiarirci le idee sui reali motivi del contendere è intervenuta una più recente comunicazione di Ivo Ilic Gabara,6 un italiano del gruppo della Miller.
«(...) Annunciando il manifesto elettorale dei Tory, Theresa May ha ripudiato trent'anni di thatcherismo, inteso come politiche di libero mercato, privatizzazioni, deregulation e riduzione dello Stato in generale. Un paragrafo del manifesto recita: “Non credo nei mercati liberi senza freni. Rifiutiamo il culto dell'individualismo egoista. Aborriamo le divisioni sociali, l'ingiustizia e l'ineguaglianza. Riteniamo che il dogmatismo e l'ideologia siano non solo innecessari, ma pericolosi.” Questo paragrafo potrebbe benissimo essere di Jeremy Corbyn (…).»
Jeremy Corbyn
Gabara non manca di rilevare che la May, durante i sei anni alla guida del ministero degli Interni, ha contrapposto sicurezza ed immigrazione, trascurando l'apporto di quest'ultima al gettito fiscale di cui ha beneficiato il sistema sanitario nazionale.
Tuttavia questa annotazione politicamente corretta, ma in palese contraddizione con la sostenuta riduzione del ruolo dello Stato di cui fu alfiere la Lady di ferro, non riesce a nascondere la sua vera preoccupazione, ossia che un'uscita dura dall'Unione Europea, la hard Brexit, possa compromettere gli interessi della City finanziaria ed i valori immobiliari collegati alla sua attività “industriale”.
Secondo Gabara, la May sarebbe portatrice di una retrograda visione provinciale in tempi di globalizzazione:
«(...) incurante delle conseguenze economiche che cominciano a farsi sentire. Basti vedere il calo della sterlina nei confronti del dollaro e dell'euro, per non parlare della flessione del mercato immobiliare di Londra, da decenni indice della supremazia della City di Londra sui mercati finanziari mondiali. (…)»
L'intervento si chiude con la previsione auspicio che, non conseguendo una schiacciante vittoria:
«(...) la sua posizione negoziale a Bruxelles risulterà notevolmente indebolita.»
La Brexit come opportunità
Dalle posizioni del gruppo europeista britannico si possono ricavare alcune utili considerazioni.
Innanzitutto si comprende il motivo per il quale la City finanziaria abbia sostenuto il remain e, di converso, perché il voto popolare sia andato in direzione opposta [vedi riquadro “Stiglitz sulla Brexit”, in pagina].

Stiglitz sulla Brexit
«Il progetto europeo era nato per avvicinare i popoli e i paesi del continente. Per certi versi ha funzionato. I giovani di tutta Europa si considerano oggi europei e infatti, nel Regno Unito, circa tre quarti degli elettori giovani hanno votato per restare. Nutrivano speranze sul futuro dell'Europa, e sulla possibilità di poterla cambiare attraverso le riforme.
Forse si è trattato solo di un ingenuo entusiasmo giovanile. Gli elettori più maturi avevano perso le speranze, e a giusta ragione. Avevano visto un progetto nato per promuovere la solidarietà e il benessere ottenere risultati opposti, ostaggio dei grandi interessi corporativi e dell'ideologia neoliberista. Benché il Regno Unito si fosse risparmiato gli effetti peggiori, grazie al fatto di non aver aderito all'eurozona, i disoccupati oppure chi aveva un lavoro malpagato sapevano che le cose andavano male, sapevano che il sistema era ingiusto, sapevano che i leader politici che avevano promesso una nuova prosperità avevano mentito. Troppi, nel Regno Unito, avevano perso non solo la speranza ma anche la fiducia. E hanno votato di conseguenza.»

Da Joseph E. Stiglitz, “L'EURO, come una moneta comune minaccia il futuro dell'Europa”, Postfazione, Einaudi 2017 (2016) pag. 364.
Subita la sconfitta, per salvaguardare la stabilità della sterlina (la tenuta della moneta è un'idea fissa di tutti gli investitori finanziari in quanto creditori), il lucroso ruolo della City ed i valori immobiliari speculativi di Londra, non rimaneva che sperare in un indebolimento relativo della May.
Sennonché il voto alle elezioni politiche ha premiato oltremisura il Labour, penalizzando il partito nazionalista scozzese, pure di sinistra ma fervente europeista, fino al punto di volere la Scozia nell'Unione Europea a costo di separarsi dallo United Kingdom.
A completare il nuovo quadro è venuta la sparizione del partito UKIP di Nigel Farage, avendo esaurito lo scopo per cui era nato.
Al successo di Corbyn ha contribuito il suo supposto punto debole: la sua flebile difesa dell'adesione del Regno Unito all'UE che, va sottolineato, non ha mai compreso l'adesione alla zona euro.
Complessivamente i britannici sembrano aver assunto la Brexit come un'occasione sì per rigettare le mille regole dei tecnocrati di Bruxelles,7 ma soprattutto per riappropriarsi dello Stato sociale, magari dando occupazione ai giovani e meglio remunerando il lavoro. Per farlo hanno ritenuto più affidabile Jeremy Corbyn, piuttosto di una May pur desiderosa di rottamare l'eredità della Thatcher.
Come spesso accade la versione autentica è stata preferita alla sua brutta copia, ma stavolta all'inverso del solito.

Note
1 Riportate in Italia anche da Il Fatto Quotidiano, vedi Sabrina Provenzani, “Manchester, 007 caduti nella trappola libica. Il kamikaze ha sfruttato la spazio concesso dai Servizi ai dissidenti di Gheddafi”, 30 maggio 2017.
2 Youssef Zaghba, nato a Fez nel gennaio 1995 da padre marocchino e madre italiana.
3 Saddam Hussein, dopo aver scatenato una sanguinosissima guerra contro l'Iran, pensò di auto-compensarsi prendendo il Kuwait.
4 Julian Assange (WikiLeaks) sulla scorta di alcune e-mail di Hillary Clinton da lui rese note e delle donazioni alla Fondazione Clinton, ha potuto affermare che Isis e Clinton erano finanziati dagli stessi soldi, quelli di Ryad.
5 Riportata da Paolo Valentino, Il riscatto per i nobili falconieri. 
Così è esplosa la crisi con il Qatar - Doha ha pagato un miliardo ai jihadisti e all’Iran per liberare 26 reali rapiti. Il denaro sarebbe stato consegnato ad un gruppo qaedista siriano”, Corriere della Sera, 12/06/2017.
6 Ivo Ilic Gabara, “Rottamare la Thatcher: la sfida di Theresa May”, il Fatto Quotidiano, 31 maggio 2017.
7 Che secondo una leggenda metropolitana volevano “raddrizzare le banane”, abolendo il commercio di quelle curve al naturale.