domenica 27 dicembre 2015

Parole burka

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Parole burka

Velo integrale sui significati. Stato sedicente e Stato eterodiretto nella guerra dei nomi. La “strana” guerra non guerra al terrorismo.



  • Isis o Daesh? Il termine ufficiale ministeriale per definire il Califfato di Al-Baghdadi è Daesh.
  • Per Marco Travaglio è uno “Stato abusivo”, come se occupasse un luogo non assegnato (da chi?).
  • Considerato da quasi tutti una “base terroristica rivolta contro di noi”, al momento ubicata tra Siria e Iraq, nel linguaggio mass-mediale prevalente è sempre e comunque: “l'autoproclamato Stato Islamico” o “sedicente” tale.
  • L'Isis è uno Stato? Dalle risposte al quesito discendono diverse prospettive.
Nomi
In risposta all'interrogativo iniziale, sulla Stampa1 di Torino è comparsa una dotta dissertazione:
«Come Isis, anche Daesh è un acronimo: significa al-Dawla al-Islāmiyya fī ʿIrāq wa l-Shām, cioè “Stato Islamico dell’Iraq e del Levante”, o “della Grande Siria”. Apparentemente il significato è lo stesso ma l’accezione attribuita a Daesh (o Dāʿish, per essere precisi) è spesso dispregiativa, perché somiglia a un altro termine arabo che significa “portatore di discordia”. Secondo il The Guardian, addirittura, la Francia avrebbe preferito il termine Daesh perché simile al francese dèche, cioè “rompere”. Che il termine sia disprezzato dai seguaci di Abu Bakr al-Baghdadi è confermato anche dalle testimonianze di chi racconta di punizioni corporali per chi utilizza pubblicamente il nome Daesh.»
A proposito, da noi la parola ha assonanza con un detersivo per lavatrici...
Riferirsi all'Isis con un termine spregiativo (Daesh) fa parte dell'usuale linguaggio bellico.
Ma siamo in guerra?
Stato di guerra
Davvero “strana” questa guerra non-guerra al terrorismo. Sulla quale, a partire da come considerare la definizione che dà di sé il Califfato (Isis) si scatenano le più aspre dispute.
Meno “strane”, invece, paiono le posizioni di alcuni giornalisti della stampa internazionale, se poste a confronto con quelle dei propri governi nazionali.
«Non siamo in guerra, perché lo “Stato Islamico” è un gruppo piratesco-predatorio che non ha nulla a che vedere con uno Stato.» Il ragionamento è stringente: se l'Isis non è uno Stato, bensì un “gruppo piratesco-predatorio” non possiamo essere in guerra, giacché la guerra è prerogativa tra gli Stati; abbiamo soprattutto un problema interno di miseria e banlieue. Angela Merkel approverebbe queste affermazioni del connazionale Udo Gumpel2, il che non preclude alla Germania la partecipazione ai bombardamenti.
«Formalmente non siamo in guerra, perché in Francia è il Parlamento che la dichiara, ma di fatto, in un certo senso, sì.» Non dovremmo..., eppure “in un certo senso” lo siamo. Lo saremmo “in senso compiuto” se l'Europa ci stesse a farla, come propose inascoltato Hollande, e sulla cui scia si mette Eric Jozsef3.
Rula Jebreal4, molto accreditata negli States ed in Italia, parte dalla premessa che la guerra: «esportata in Medio Oriente dall'Occidente torna indietro.» Come non essere d'accordo? Tuttavia, tra le future accettabili “esportazioni” sembrano rientrare eventuali nuovi interventi militari, quando l'Occidente si dotasse però di «piani di medio e lungo termine».
Inoltre: «Bisogna convincere Turchia, Arabia Saudita e Iran, paesi che ora hanno altre priorità, che combattere contro l'Isis viene prima di ogni altra cosa. Poi serve un piano politico per dare un'alternativa alla Siria. Ma questa alternativa non deve essere rappresentata da un dittatore.»
Rula Jebreal
“Altre priorità”? Un elegante modo per dire che l'Isis serve agli uni perché la priorità consiste nel combattere gli altri. In sintesi Jebreal vorrebbe prendere due piccioni (Isis e Bashar al-Assad) con una fava (il piano politico di pace) mantenendo ferma la priorità sovrastante di contenere la Russia e la Mezzaluna sciita tramite forze locali alleate, disposte, eventualmente, alla guerra per procura. Esattamente quanto si propone Barack Obama, al quale si accoda il governo Renzi. Quest'ultimo non intende rincorrere i “bombardamenti altrui” (soprattutto dei partners europei), ma con spirito idro-umanitario proteggere gli appalti “nostri”5 vicino a Mosul (la Folgore a guardia della diga omonima) e gli affari dell'Eni in Libia in rivalità-concorrenza con Francia ed Inghilterra, per petrolio e gas. Anch'esso, a suo modo, vuole esserci.
Realismo italiano
L'ex ex capo di Stato maggiore del Comando Nato per il Sud Europa, generale Fabio Dini, sostiene che poiché l'Isis «non amministra un territorio e controlla soltanto tre tratti del corso dell'Eufrate, del Tigri e della bretella che li collega da Mosul e Raqqa. (...) Dal punto di vista politico e strategico non è nulla senza gli stati e i privati che lo appoggiano e lo foraggiano di soldi ed armi.»6
Diga di Mosul
Sicché basterebbe fare effettivamente quel-che-si-dice-di-voler-fare che il capitolo Isis sarebbe chiuso? La cosa non è così semplice.
Secondo il generale dovremmo prima riconoscere lo Stato Islamico perché «Quello che noi chiamiamo “sedicente Califfato” è in realtà uno Stato con un governo, un territorio, una popolazione.» (…)
«Venendo al sodo che cosa bisognerebbe trattare col Califfato? Al Baghdadi che di fatto controlla l'intero mondo jihadista dovrebbe impegnarsi a non uscire dall'area di sua competenza e quindi stoppare ogni attentato terroristico in Europa, negli Usa e altrove. Se non lo facesse gli si potrebbe formalmente dichiarare guerra come si faceva ai vecchi e più onesti tempi. Mandando però le truppe sul terreno e non in questa vile guerra di macchine contro uomini che non fa che aumentare le simpatie per lo jihadismo.»7
Sorgerebbero, in questo caso, due fastidiose domande: qual è l'”area di competenza” del transnazionale Califfato? Che fare dopo avergli vittoriosamente mosso un'onesta e coraggiosa guerra?
Dall'impelagarsi in Medio Oriente occorre tenersi lontani. Tanto più che l'Isis non è uno Stato, ma una “banda armata” e, tuttalpiù, si può riconoscerla come tale.
A pensarla in questo modo è Massimo Fini8: «I requisiti giuridici e materiali di uno Stato sono essenzialmente 5: avere un popolo, un governo riconosciuto dal popolo, un territorio sul quale esercita i poteri statali e tutela i diritti e i doveri della popolazione, un corpo di leggi e la capacità di interagire con gli altri Stati. (…) Il cosiddetto Stato islamico non ha alcuna idea costruttiva, neppure islamica, (…) ed è in mano a un piccolo gruppo di senzadio. (...) anche se è sostenuto da alcuni stati islamici, è solo il burattino nelle mani di burattinai rivolti ai propri interessi personali o di casta. Il solo riconoscimento possibile oggi è quello di “banda armata”. Ed è già tanto.»
La linea di non-intervento, seppur condivisibile, mi pare qui basata su labili motivazioni che appartengono più all'idea morale dello Stato, per come dovrebbe essere, piuttosto che allo Stato qual è in realtà. Inoltre, si pone al di fuori delle contraddizioni che generano la concreta contesa tra gli Stati reali, sia locali sia dei loro capofila mondiali. E l'Italia non è fuori da tale contesa, pur non giocando un ruolo di primo piano.
Pirati e predoni
Tra le parole emerge l'idea che, etichettando l'Isis come “un gruppo piratesco-predatorio” o “una banda armata”, ciò basti: “nulla a che vedere con uno Stato?”
Se un'entità politica, disponendo della coazione della forza armata, governa un territorio e una residente popolazione con leggi proprie, fiscalità e casse pubbliche, battendo moneta, esercita de facto la sovranità tipica di uno Stato. Potrà essere provvisorio (nei confini) e in via di consolidamento (nelle strutture) e alquanto instabile (politicamente), ma di fatto è uno Stato.
Quanto al consenso popolare, molti analisti sostengono che la popolazione sunnita preferisca il Califfato (sunnita) alle scorribande delle milizie sciite di varia provenienza...
D'altro canto a quali altri canonici requisiti deve rispondere per assurgere alla superiore dignità di uno Stato? E, soprattutto, c'è una superiore dignità nell'essere Stato?
La Germania nazista9, a detta di certi commentatori e storici, fu governata da un pazzo (Hitler). Si pose a capo di una potente struttura industrial-militare capitalistica, nel cuore della civiltà europea ed occidentale, forse meno piratesca dell'Isis, certamente assai più predatoria. Di sicuro meglio organizzata, moderna e scientifica nell'esercizio sistematico della dittatura terroristica, dell'aggressione e dello sterminio di massa. Tuttavia, tra i sostenitori della pazzia del Führer (alla quale dovremmo aggiungere l'impazzimento dell'intera élite dirigente nazionale), al pari di coloro che non condividono questa comoda versione della storia, nessuno ha mai avanzato la stupida idea che la Germania del Terzo Reich non fosse uno Stato.
Non è al suo carattere predatorio, né alle condizioni psichiche del leader, né al livello della potenza che possiamo fare riferimento. Tantomeno alla qualità della sua cultura, giacché l'ideologia della superiorità della razza bianca ariana fa il paio con quella della legge islamica fondamentalista e passatista portata dalla Jihad, in nome della quale tutto è moralmente consentito.
Per esempio: a Sinjar, nel nord iracheno, assassinare gli yazidi e schiavizzarne le donne, o fare strage di inerme popolazione sciita in un mercato di Beirut.
Per esempio: vestire di arancione10 i propri prigionieri “infedeli” e diffondere al mondo i filmati del loro crudele sgozzamento.
Creazioni
Il costituirsi di un nuovo Stato non può che essere una auto-proclamazione (dirsi Stato, da cui sedicente) a cui possono, o meno, corrispondere, immediatamente o successivamente, riconoscimenti da parte di altri Stati con l'apertura delle relazioni diplomatiche. A quest'ultimo fine ufficiale e formale non manca il già esistente presupposto della “interazione con gli altri Stati”, di cui parla Fini (e nemmeno l'”esercizio dell'autorità statale”).
Sostiene Romano Prodi11: «La metà di quella ricchezza [ndr dell'Isis] arriva dal petrolio, il resto da estorsioni, traffico di esseri umani e dall'esercizio dell'autorità statale. Poi ci sono i finanziamenti che passano per fondazioni dei paesi dell'area del Golfo Persico.»
Senza l'”interazione” con la Turchia ed i reami dal Golfo non sarebbe possibile né il business del petrolio e delle opere d'arte, solo in parte distrutte per l'uso terroristico “culturale”, né il flusso finanziario garantito dalle estorsioni da rapimenti (pagate dai governi) e, soprattutto, dai fondi privati. I traffici sono tanto noti da indurre, a metà dicembre, il Consiglio di Sicurezza dell'Onu ad una risoluzione esplicitamente contraria a questo genere di sostegni.
All'opposto della auto-proclamazione abbiamo una etero-proclamazione, determinata da poteri esterni, tipica del periodo coloniale dei protettorati, che rimandava l'esercizio della sovranità di uno Stato alla potenza europea protettrice.
Oggi, nella ovvietà del linguaggio mediatico si nasconde un retro-pensiero, diciamo “di contesto”: ogni dichiarazione d'indipendenza e sovranità è nulla senza il previo consenso della Comunità internazionale, ovvero degli Stati che se ne sentono interpreti e depositari, potendo agire in suo nome. Stati Uniti in primo luogo.
Nel periodo della lunga Guerra Mondiale in due atti quel “contesto” era messo in discussione dall'interno dell'Occidente industrializzato, delle potenze coloniali ed imperialiste in lotta tra loro, e da parte di una sua componente: lo Stato tedesco. Non poteva certo venire etichettato “sedicente” o “auto-proclamato” e, ancor meno, come “etero-proclamato”.
Fabio Mini
Di contro, sull'Isis pesa la considerazione che sia uno Stato etero-determinato (come lo definisce con altre parole il generale Fabio Mini), da potenze locali facenti parte proprio del sistema di alleanze di Stati Uniti ed Europa che pure lo disconoscono.
Di mezzo ci sono l'Arabia saudita, gli Emirati arabi, la Turchia ed appare per lo meno ipocrita condannare la loro creatura senza chiamare a risponderne e suoi creatori, i quali non possono aver agito all'insaputa dei loro più potenti patrocinanti. Non è una questione di poco conto: è stata costruita una specie di “catena di Sant'Antonio” del terrore che ora ci esplode addosso, come già successe con le Torri Gemelle.
Stallo operativo
Assodato che i bombardamenti servono più all'esserci (nei cosiddetti “futuri equilibri”) che ad una efficace operazione di eliminazione dell'Isis, rimane da comprendere cosa si vada preparando e se le soluzioni oggetto dell'intensa attività politico-diplomatica in corso siano davvero tali.
Nell'intervista citata il professor Prodi constata: «Quando si sbaglia la prima volta, penso alla guerra tra l'Iraq e l'Iran, si continua a sbagliare, errore dopo errore, fino alle guerre a Saddam e a Gheddafi. Tutti contro tutti. (...)»
Romano Prodi
Ma cos'è errore degli “amici che sbagliano” e cosa, invece, c'è di sistematicamente sbagliato, per cui si finisce sempre ed inevitabilmente per aggiungere “errore dopo errore”?
Il piano di John Kerry e degli Stati Uniti prevede di ridisegnare, con un accordo tra tutte le parti coinvolte, la futura Siria. Essa dovrebbe restare un Paese unico, laico e con uno Stato che protegga le minoranze. Similmente si vorrebbe sistemare il caos libico.
Di pari passo con la discussione che, a quanto pare, entrerà nel vivo a gennaio, fervono i preparativi strategici sul terreno e per interposti governi, essendo risaputa la ritrosia delle principali potenze a mettere “gli scarponi al suolo”.
Da un lato c'è la Mezzaluna crescente sciita, appoggiata dalla Russia, e dall'altra la Coalizione sunnita messa in piedi da Arabia Saudita e Turchia, appoggiata dagli Usa e dai partners europei.
Per capire la “strana” guerra bisogna riandare alla storia di come furono fissati i confini degli Stati dalle potenze coloniali, di quali ostacoli abbiano più tardi impedito l'unità araba e, alla radice, al ruolo negato di quest'area nella vita mondiale.
Importa, da subito, mettere in evidenza la contraddizione: per porre fine alla catena degli errori, evocati da Prodi, si vorrebbe che (non mettendo piede a terra) ad estirpare il “cancro dell'Isis” siano coloro stessi che l'hanno generato la metastasi. Per di più, secondo un preordinato piano di riassetto-spartizione che salvi, da un lato, minoranze, libertà di confessione religiosa, laicità ed unità degli Stati, consentendo, dall'altro lato, una “stabilizzazione” della regione in conformità con fin troppo (e fin troppi) palesi interessi esterni, sovrapposti ai popoli direttamente coinvolti e vittime delle guerre.
Senz'altro le sottostanti e sovrastanti “priorità” romperanno il guscio dei bei rivestimenti di cui vorrebbero ammantarsi questi interessi.
Passatismo
Per quanto instabile l'Isis è sì uno Stato, ma etero-determinato, un nuovo tipo di protettorato occulto, privo di protettori dichiarati.
Esso usa sistematicamente il terrorismo stragista sia per condurre la guerra di supremazia nell'area, sia come ricatto destabilizzante verso gli Stati capofila mondiali (che vorrebbero “mollarlo” dopo averlo usato per i propri obiettivi). Nelle città d'Occidente manda a morire giovani delle banlieue disillusi e spesso emarginati, reclutati da un richiamo identitario che riveste le loro radici culturali, etniche e religiose, di una narrazione storica tanto fantasiosa quanto esaltante e glorificante nella “purificazione”.
Non riuscirà a dare voce unitaria ad una rinnovata potenza mediorientale, a base araba, che, nel sogno di un resuscitato passato, si contrapponga alla “corrotta civiltà occidentale”. Per auto-intestarsi lo “scontro di civiltà” il Califfato divide innanzitutto i popoli che dice di voler rappresentare, compattando sotto la guida dei loro governi quelli che combatte come fossero un unico mondo “di crociati”. Sicché ne discende un'infinita guerra intestina tra confessioni, etnie, bande armate fondamentaliste in un crescente isolamento verso l'opinione pubblica internazionale. Ciò consente al dominio occidentale di continuare il doppio gioco: sponsorizzarlo, usarlo e al tempo stesso, al momento ritenuto opportuno disfarsene (ma non del tutto). Come fece con al-Qaeda.
Tuttavia, checché se ne dica, il Califfato e gli altri movimenti jihadisti cercano di incanalare bisogni ed aspirazione reali. Traggono alimento dalla frustrazione e dal risentimento verso l'oppressione e lo sfruttamento di un'intera area del mondo.
Auto-determinazione
Nel periodo di decolonizzazione e di liberazione, successivo alla fine del lungo conflitto mondiale, assunse particolare rilevanza il principio di auto-determinazione nazionale dei popoli associato alla non-ingerenza nei loro affari interni. Successivamente, in nome dell'assoluto diritto all'”ingerenza umanitaria” o alla superiorità di una democrazia da “esportare”, questi principi sono stati dati per “superati”.
È assai difficile credere che si possa ottenere una pace stabile “anche per noi”, senza ridare forza e pratico vigore a questi due associati principi.
Il mondo è sottosopra e reclama relazioni internazionali multipolari, dalle quali non può più essere esclusa questa area del pianeta, alla ricerca di una propria autonoma voce. Nonostante il passatismo essa (i suoi popoli) troverà modo di esprimersi.
Per parte mia, qui ho inteso solo sollevare la primaria esigenza di liberare i significati dal linguaggio delle parole burka.
Nella piena consapevolezza che pretendere di proibire “laicamente” qualsiasi velo, più o meno integrale, alle donne di un'altra cultura, è anch'esso un atto di negazione del diritto di auto-determinarsi, arrogante ingerenza nel modo in cui esse vogliono e vorranno vivere la propria identità.

1http://www.lastampa.it/2015/11/16/esteri/dobbiamo-chiamarlo-stato-islamico-isis-o-daesh-0iPgbppHrzgdRKXJjWYX6M/pagina.html
2 Udo Gumpel, tedesco, corrispondente Ntv-Rtl, “La miseria nelle banlieue è il nemico. A Berlino 500 salafiti”, il Fatto Quotidiano,19/11/2015.
3 Eric Jozsef, francese, corrispondente di Libération, “C'è molta rabbia, ma non decide Hollande: è un conflitto europeo”, il Fatto Quotidiano,19/11/2015.
4 Rula Jebreal, giornalista e scrittrice palestinese naturalizzata italiana, “Isolare i profughi è un regalo ai jihadisti: serve piano politico”, il Fatto Quotidiano,19/11/2015.
5 Della ditta Trevi di Cesena, impiegando come vigilantes forze armate nazionali a protezione di imprese private. Un uso che richiama la vicenda indiana dei due marò.
6 Fabio Mini, “La nuova guerra simmetrica che l'Isis non può vincere”, il Fatto Quotidiano, 22/11/2015.
7 Fabio Mini, “Non è questione di Stato, ma di soldati sul terreno”, il Fatto Quotidiano, 17/12/2015.
8 Massimo Fini, “Riconoscere l'Isis? Sì, ma come banda armata”, il Fatto Quotidiano, 17/12/2015.
9 Il paragone non è improprio se, con Domenico Quirico, si vede nel terrorismo jihadista del Califfo una nuova forma di nazismo.
10 È il colore delle tute dei detenuti a Guantanamo, nel limbo di una “legalità extraterritoriale” perciò passibili di legali torture.
11 Intervista di Giampiero Calapà, “Volevo pacificare la Libia, mi dissero no e ora c'è l'Isis”, il Fatto Quotidiano, 1/12/2015.

venerdì 4 dicembre 2015

Lo scheletro di Leopoldo

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Lo scheletro di Leopoldo

Il Belgio e la sua capitale Bruxelles, sede principale anche dell'Unione Europea, è stata in questi giorni al centro dell'attenzione internazionale per lo stato di emergenza contro il terrorismo.
Dal cuore della “civiltà europea” forte è il generale richiamo ai suoi “valori universali”.
Pochi hanno ricordato che il piccolo Belgio, nel cuore della ricca Europa, non ha accumulato la ricchezza di cui gode solo in virtù del proprio lavoro, ma di un passato coloniale che non passa mai, anche nei monumenti.
Nell'armadio del Belgio c'è uno scheletro rimosso dalla memoria e dalla politica.

Ostenda - Monumento a re Leopoldo II
La statua equestre del re, in uniforme militare, sovrasta due
gruppi ai suoi piedi. Sul lato sinistro un gruppo di congolesi
lo ringrazia per averli liberati dalla schiavitù sotto gli arabi.
Il riferimento è a Leopoldo II, re del Belgio (1865-1909), e alle statue a lui dedicate che campeggiano a Bruxelles come altrove. Particolarmente significativa quella di Ostenda [vedi foto “Monumento a re Leopoldo II]
In epoca coloniale Leopoldo II fu sovrano anche dello "Stato libero del Congo" dal 1885 al 1909.
L'eroe esaltato dalla statuaria civile è noto storicamente per la brutale amministrazione del Paese africano, in cui si ricavò uno spazio tutto suo per una sorta di colonialismo privato. Trasse un'enorme fortuna personale dal commercio della gomma, prodotta riducendo in schiavitù la popolazione locale, terrorizzata con metodi ora definiti criminali, quali l'educativo “taglio della mano” [vedi foto “Taglio della mano”].
Si calcola che il suo regno abbia provocato la morte di circa 2 milioni di indigeni, su un totale di 15 milioni di abitanti. Senza considerare le vittime indirette.
Da sottolineare la continuità del linguaggio dai tempi coloniali ad oggi: lo Stato congolese da lui fondato fu chiamato “libero”; nella raffigurazione del monumento i congolesi avrebbero avuto motivo di ringraziarlo per il suo intervento “liberatorio”, dunque “umanitario”, dalla schiavitù degli arabi.
Taglio della mano
Immagini delle amputazioni a cui il Regno belga ricorreva sistematicamente 
per costringere la popolazione congolese al lavoro schiavile.
Anche allora i “popoli arretrati”, furono assoggettati per dotarli delle adeguate strutture che definiscono uno “Stato moderno”, in tal modo protetti e sorretti nel loro doveroso cammino verso un radioso “civile progresso”.
Sarebbe bene che il Belgio chiedesse “scusa”, alla Tony Blair? Qualcuno l'ha proposto...
Quanto ai monumenti dedicati alla gloria di Leopoldo II, l'idea di abbatterli sarebbe, a mio avviso, un cattivo servizio: essi non andrebbero cancellati e rimossi dalla memoria collettiva, bensì preservati e trasformati opportunamente in installazioni artistiche aperte a tutti.
Allo scopo potrebbero servire anche immagini delle vittime di quel colonialismo.
Coltivarne il ricordo serve più che mai all'oggi.
O, davvero, pensiamo di vivere un tempo presente totalmente altro da quello di quel periodo storico?

Aut aut dell'ipocrisia

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AUT AUT dell'IPOCRISIA

- Nei dibattiti televisivi si discute più che mai di terrorismo e di grandi temi.
- Giornalisti e politici pongono Aut Aut, scelte drastiche di chiarezza ideale e politica, come se la “civiltà europea e occidentale”, in nome dei suoi “valori”, avesse titolo morale per imporle.
- Alla ricerca di risposte che coinvolgono le radici religiose Eugenio Scalfari evoca episodi biblici.
- Nel linguaggio qualche nesso di senso da recuperare criticamente.

Atti di obbedienza
Dagli schermi televisivi le affermazioni di un giornalista top possono pesare sugli orientamenti della pubblica opinione. In questo caso della parte ritenuta più informata, alla quale si rivolge Massimo Gramellini dagli studi di Che tempo che fa, trasmissione condotta da Fabio Fazio su RAI3.
Gramellini, ribadendo il concetto dalle colonne de La Stampa [vedi riquadro “La Stato anteposto al Corano”] su cui abitualmente scrive, non si limita a chiedere agli islamici d'Europa di dichiararsi altro e avversi al terrorismo scatenato in nome di Allah (Not in my name), rifiutandosi al richiamo identitario (l'Islam) del quale si vorrebbe avvalere lo stragismo jihadista. Non gli basta si attengano praticamente alle leggi del Paese ospitante (che si impongono, pena l'illegalità e la sanzione, indifferenti alle riserve mentali di chi non le rispetti): vuole l'atto di obbedienza. Chiede loro di aderire pubblicamente e compiutamente alla legge laica dello Stato occidentale, di mettere la Costituzione prima del Corano.
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Lo Stato anteposto al Corano


Massimo Gramellini esprime questa posizione da Fabio Fazio a Che tempo che fa (RAI3) e poi, il 21 novembre 2015, su La Stampa con un pezzo dal titolo:

Islam in piazza, quel che vorremmo sentire
Bene il «Not in my name», però non basta
(...)
«Il mondo a cui noi occidentali apparteniamo fin dalla nascita è il risultato di un percorso lungo e faticoso. Ci sono voluti secoli di scontri non solo dialettici per approdare a una società capace di separare la sfera statale da quella religiosa e di mettere la Costituzione davanti alla Bibbia. Non vogliamo tornare indietro. Chi viene a vivere qui è bene accetto, ma a sua volta deve accettare le regole di convivenza che ci siamo conquistati e che riguardano il diritto di divertirci come ci pare e di rispettare le donne e gli omosessuali. Nessuno pretende che i nuovi arrivati brucino le tappe (del resto anche tra i parlamentari indigeni c’è chi non ha ancora assimilato certi principi). Però sarebbe un primo passo in avanti straordinario se oggi in piazza, oltre a prendere le distanze dall’Isis, i musulmani prendessero esempio dall’elettrotecnico francese di religione islamica Bassem Breiki, che in un video ha detto chiaro e tondo come la Costituzione della Repubblica debba sempre venire prima del Corano, ottenendo quattro milioni di visualizzazioni in poche ore.»
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Ciò che vorrebbe sentire l'editorialista de La Stampa e di Che tempo che fa, al di là del linguaggio e del riferimento al video dell'elettrotecnico francese Bassem Breiki, non è né d'importanza secondaria né ingenuo. A partire dalla dissociazione dal terrorismo jihadista, propone l'adesione ideologica dei musulmani allo Stato laico che li accoglie o in cui sono nati, anteponendolo al Corano.
Non sfugga il possibile implicito politico contenuto in una siffatta adesione. I diritti di cittadinanza, della acquisita appartenenza, del convivere con noi come “uno di noi” nella promessa integrazione, sarebbero concessi solo in cambio dell'atto di pubblica obbedienza.
Nel nostro Paese gli aut aut che traggono occasione dal terrorismo non sono una novità; un ampio arco di forze politiche ed istituzionali vi ha fatto ricorso già negli anni settanta del novecento1.
In questo momento l'aut aut politico ed ideologico viene dettato da più parti e in modo differente. Se al posto della Costituzione mettiamo la Civiltà Occidentale in toto, con tanto di “cristianesimo” incorporato, otteniamo: “o con l'Occidente euro-cristiano o con l'Islam!”. Come, nella sostanza, lo intende Matteo Salvini, magari parlando dagli studi di Mattino 5, nell'Arena di Massimo Giletti.
Pertanto l'osservazione di Daniela Ranieri2 dalle pagine de il Fatto Quotidiano, coglie un bersaglio multiplo appartenente alla stessa logica: «Non risulta infatti che ai cattolici sia stato mai chiesto di dissociarsi ufficialmente dai terroristi dell'Ira, dallo stragista di Oslo Anders Beivik, o dai teoconservatori americani che sparano alla cieca nelle cliniche dove si pratica l'aborto.»
Consapevole della deriva alla quale si espone, Gramellini riconosce quanto, per “noi occidentali”, il percorso sia stato lungo e faticoso, durato secoli, ed incompiuto da una parte degli stessi “parlamentari indigeni” con riferimento al mancato rispetto delle donne e degli omosessuali. Ma trascura il fatto, politicamente non meno significativo, che le Costituzioni occidentali sono spesso ignorate o trattate come carta straccia dai “legittimi governi democratici”, pur tenuti a rispettarle da un atto formale di giuramento, a cui, comunque, vengono regolarmente anteposti gli interessi dello Stato di appartenenza e delle sue classi dominanti.
Ciò chiama in causa l'ipocrisia morale del “mondo a cui noi occidentali apparteniamo”.
Esso pone continuamente aut aut al suo interno e al resto del mondo, minacciando di trattare come nemici chi non obbedisce, riservando per sé solo il privilegio di un'infinita doppiezza.
Credi a ciò che dico...
Se il Kuwait invece di petrolio avesse prodotto broccoli3, gli Usa non sarebbero mai intervenuti contro Saddam Hussein, sin dai tempi di Bush I.
Se il Mali non fosse reputato strategico per il controllo di una vasta zona africana ricca di petrolio, gas naturale, oro, uranio e bauxite, in mano soprattutto a grandi imprese occidentali, il governo dell'amica Francia avrebbe mai mosso guerra a Gheddafi4 e ora (con l'amica Germania) interverrebbe mai in quel Paese africano?
Di quale Europa ed Occidente stiamo parlando?
Ancora non si è chiuso il caso delle torture nella prigione “extra-territoriale” di Guantanamo che la Francia dichiara sospeso il proprio rispetto dei diritti dell'uomo.
Per fare cosa?
Non so di quanti casi pratici abbiano bisogno i nostri più autorevoli commentatori ed opinionisti per vedere la sostanza della relazione di sopraffazione e sfruttamento, costante e complessiva, sistemica, tra l'Occidente ricco ed il resto del mondo.
È proprio nei supposti “valori morali” occidentali che si annida il vulnus politico, poiché essi sono visti oramai universalmente come doppiezza ipocrita, linguaggio di una “lingua biforcuta”.
Di questo vulnus approfittano a man bassa i fautori del terrorismo jihadista. E lo fanno ricorrendo anch'essi agli stessi mezzi ideologici, nel retaggio passatista, religioso integralista, accettando e pretendendo di far accettare lo “scontro di civiltà”.
Si prenda in esame il cratere originario della crisi nel più ampio Medio Oriente: la Palestina.
Israele è un'isola d'Occidente nel vasto mare arabo mediorientale. Anche prescindendo dal modo come si è costruito (in arabo Nakba5), dalla storica pulizia etnica a danno degli arabo-palestinesi e dalle politiche del suo attuale governo, constatiamo che esso è privo di una vera e propria Costituzione. Non manca di leggi fondamentali facenti funzione, ma sfugge alla proclamazione di sé come Stato confessionale, esclusivo o quasi di un solo popolo, della sua religione, su un definito territorio.
Se lo facesse, dovrebbe ammettere che il numero dei cittadini arabo-palestinesi, ammessi all'interno del proprio territorio, non deve superare costitutivamente una certa soglia minoritaria controllabile “democraticamente”, proibendo la crescita demografica degli “altri”, se non sovrastata più che proporzionalmente dalle immigrazioni dalla diaspora.
Di conseguenza, i governi d'Israele impediscono ogni soluzione pacifica e adducono mille motivi difensivi per continuare a praticare la forza. Non accettano né l'idea di uno “Stato per due popoli e due nazioni”, plurireligioso, né quella di “due Stati e due popoli”, delimitando i propri confini (secondo il diritto internazionale) e riconoscendo uno Stato palestinese fuori di essi, ma solo bantustan6 per i palestinesi.
Benché il terrorismo jihadista, di stampo wahabita saudita o di Al Qaeda o dell'Isis, dimentichi Israele e combatta semmai contro Hezbollah (perché sono sciiti?), dal “patrimonio” di odio generato da quel cratere originario attinge, come da tante altre innumerevoli ipocrisie occidentali attorno ai propri sacri “valori”.
Alla pratica del Dio vendicatore, di parte ebraica e cristiana, contrappone, nella stessa logica fondamentalista, un altro Dio vendicatore, il proprio, di parte musulmana.
Dio della misericordia
Nel dibattito s'inserisce l'intervento di “un grande vecchio” del giornalismo italiano di successo, Eugenio Scalfari, dagli schermi di la7 [vedi riquadro “Abramo il capostipite”].
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Abramo il capostipite


Eugenio Scalfari, ospite con Marco Travaglio di Lilli Gruber a “Otto e mezzo”, il 19 novembre 2015.
Scalfari ricorda che Maometto svolse un ruolo analogo a quello di San Paolo per la religione cristiana e afferma:

«Maometto riconosce in Abramo il capostipite. Abramo riceve da Dio l'ordine di andare con Isacco, suo figlio, ad ammazzarlo. Si porta un coltellone. Dentro avrà un dramma suo interno, ma obbedisce a Dio (…). Quando tira fuori il coltello, Iddio gli dice: “Ferma. Adesso prendi tuo figlio, non solo non lo ammazzi, ma lo accarezzi, lo curi, lo educhi.” (…) Quindi l'origine storica della religione musulmana è un origine che nasce da questo episodio. Cioè il Dio è un Dio misericordioso, non vendicatore, mentre invece (…) nientemeno Giovanni Calvino, riformatore all'epoca, nel 1559 in Svizzera, a Ginevra, dice: perché Dio ci ha predestinato, noi siamo predestinati. (…) Tutto quello che è scritto è perché Dio l'ha già in testa. Dio comincia condannando Adamo ed Eva prima ancora della caduta, cioè di quando li caccia (…) li fa peccare nel giardino dell'Eden. Siccome è Lui che sa tutto, noi siamo predestinati, ci ha predestinato ad essere un Dio vendicatore (…) Il Dio misericordioso la chiesa cattolica l'ha sempre predicato, spesso ha fatto il contrario.»
Conclude, evidenziando come Francesco stia tentando per la prima volta di riportare la preminenza del Dio misericordioso.
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Per il fondatore di La Repubblica sul monte Moriah si manifestò un Dio misericordioso che fu all'origine delle religioni musulmana e cattolica. Da essa si staccò la riforma calvinista, la quale invece, tramite il concetto di predestinazione e l'interpretazione del peccato originale di Adamo ed Eva nel giardino dell'Eden, elaborò la rappresentazione di un Dio vendicatore.
Francesco, pertanto, situerebbe il proprio pontificato nel solco originario, riportando la Chiesa cattolica alla preminenza del Dio della misericordia.
Qui non è in discussione l'interpretazione autentica dell'episodio narrato nel Vecchio Testamento.
Storicamente le tre religioni monoteiste (ebrea, cristiana, musulmana) che derivano dallo stesso ceppo, muovendo tutte da Abramo, hanno vissuto anche in modo conflittuale, al proprio interno ed in relazione tra loro, sia il Dio vendicatore sia il Dio misericordioso ed il relativo “uso politico”.
Tuttavia, la misericordia mal si aggiusta con i diktat, gli aut aut ideologici e politici, la richiesta di atti di pubblica obbedienza, siano essi d'ispirazione religiosa o laica. Questi, al contrario, finiscono per alimentare contrapposizione, odio e guerra. D'altro canto la misericordia non risolve, di per sé, le contraddizioni che generano odio.
La catena dell'odio
L'odio è un sentimento umano. Detestabilissimo se rivolto all'escluso, al povero, all'altro perché omosessuale o di genere sessuale diverso dal proprio, a chi è già vittima di oppressione e spesso ridotto ai margini. È un odio che si unisce al disprezzo in chi si sente superiore e pretende per sé il diritto di opprimere, sfruttare, maltrattare, uccidere.
Ma se ad odiare è invece un congiunto dell'assassinato, la vittima di un sopruso, di un'ingiustizia individuale o sociale e politica, il soldato mandato al macello7, possiamo detestarlo allo stesso modo per questo suo sentimento? Possiamo condannarlo perché odia chi lo opprime o, al contrario, dobbiamo riconoscergli il pieno diritto di farlo?
Potremmo far presente che se all'odio non subentra una presa di coscienza e la lucidità del giudizio, politico innanzitutto, se esso viene coltivato per una rivalsa o per la vendetta, il suo giustificato sentimento facilmente si traduce o nell'astio sordo ed impotente (socialmente e politicamente) o/e nel prolungamento perenne di una rovinosa catena di lutti, in una perdita generale di umanità senza scampo per alcuno.
Ma – ed è quel che penso – ciò a cui siamo chiamati non è tanto rifuggire dal coltivare il nostro odio anche quando siamo “vittime incolpevoli”, quanto di non indurre più un mondo ad odiarci, nel rifiuto politico attivo di sentirci e fare parte della parte del mondo giustamente odiata.

1 Alla fine degli anni settanta un altro Aut Aut fu posto ai movimenti: “O con lo Stato o con le BR!”. Quei movimenti, pur avversando qualsiasi metodo di lotta terroristico, si ponevano in contrasto sociale e politico con lo Stato, ma “conveniva” metterli nello stesso sacco del terrorismo. Sicché le BR vennero sconfitte, come era inevitabile ed auspicabile, nel mentre, annichilita e disattesa ogni spinta a necessari profondi cambiamenti, ebbe via libera la “restaurazione innovativa” che poté regalarci i meravigliosi anni del liberismo. Ma questa è un'altra storia...
2 Daniela Ranieri, il Fatto Quotidiano, 24 novembre 2015.
3 Problema posto da un celebre cartello inalberato da suore nord-americane in una manifestazione pacifista.
4 Tra i motivi per cui Sarkozy decise di intervenire in Libia vi fu l'avversione al ruolo di Gheddafi nell'Africa sub-sahariana.
5 Traducibile in “catastrofe”. É l'esodo a cui furono costretti più di 700.000 arabi palestinesi in seguito alle guerre locali del 1947-48 che diedero origine allo Stato di Israele.
6 Bantustan (o homeland) da “Paesi dei bantu”. Riserve nere nel Sudafrica dell'apartheid, sul modello delle riserve indiane negli Stati Uniti. Erano isole su territori, percentualmente minoritari, privi di continuità e di unitaria sovranità statuale. La comunità indigena “proprietaria del luogo” poteva esercitare solo un limitato autogoverno attenendosi alle proprie tradizioni etniche.
7 Ricorrendo il centenario della Grande Guerra, gli storici ci ricordano quanto fosse “odiato” il generale Cadorna dai soldati contadini mandati al macello dalle trincee italiane.