domenica 17 novembre 2019

Qui Brexit, a voi Europa...


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- Nel Regno Unito la Brexit ha messo in moto una crisi politica con risvolti paradossali. Ma solo in apparenza -

La crisi politica innescata dal voto referendario del 2016, a favore dell'uscita del Regno Unito dall'Unione europea (Brexit), è entrata in una nuova fase.
Nei mesi scorsi la Camera dei Comuni aveva ripetutamente bocciato ogni ipotesi di accordo, raggiunto con Bruxelles dai governi tory di Teresa May e di Boris Johnson, ponendo il veto, però, ad una uscita senza accordo (no-deal Brexit).
Ne è scaturito uno stallo, superabile solo con nuove elezioni politiche, infine fissate per il prossimo 12 dicembre. In attesa del loro esito, la scadenza “ultima” di uscita dall'Ue è slittata al 31 gennaio 2020.
La spinta al Leave
La Brexit mostra quanto la rappresentanza politica parlamentare si sia staccata dalla realtà sociale e fatichi a coglierne disagio ed aspirazioni. Il referendum per scegliere tra Remain or Leave, restare o uscire dall'Ue, ha scoperchiato un vasto malcontento. Vi si è riversato il malessere dei più penalizzati dalle politiche perseguite dai governi sia dei conservatori (tory), sia del New Labour di Tony Blair, nei quattro decenni neoliberisti.
L'economia britannica, in linea accentuata rispetto a quelle degli altri Paesi europei post-industriali, ha subito profonde trasformazioni dagli anni '80 in poi.
Le produzioni manifatturiere rappresentano ancora il 45% delle esportazioni, ma, dall'iniziale 25%, generano solo circa il 10% del Pil. In parte ciò è dovuto al fatto che alcune attività integrate nelle produzioni (come la logistica) sono state riclassificate nel settore dei servizi, i quali oggi generano l'80% del Pil nazionale. Tra i servizi, il più importante è quello finanziario, concentrato nella City di Londra, la principale piazza d'Europa ed una delle maggiori del mondo.
Bassi investimenti, bassi salari e dequalificazione della forza lavoro hanno comportato una bassa crescita della produttività. Nel frattempo si è rafforzata la proprietà straniera, come nel caso delle produzioni automobilistiche. Attualmente la Gran Bretagna ha una delle economie più finanziarizzate ed insieme più globalizzate, in termini di proprietà della capacità produttiva, di afflussi e deflussi di investimenti esteri diretti. Nel 2014 il Regno Unito, secondo la Bundesbank, era il primo Paese destinatario degli investimenti esteri diretti tedeschi.
Dagli anni '70 il manifatturiero ha perso più di 5 milioni di occupati. I colletti bianchi sono aumentati in relazione all'ampliamento dei servizi. Eppure l'importante settore dei servizi finanziari ed assicurativi occupava nel 2018 appena il 4,3% dei lavoratori attivi, meno di un terzo di quelli impiegati nelle attività sanitarie e dell'assistenza sociale (13,2%). Nel complesso l'andamento economico ha offerto opportunità solo ad una parte via via più ristretta della società, impoverendo l'altra in modo pesante. I buoni posti di lavoro si sono ridotti e quelli precari e malpagati si sono moltiplicati,1 per giunta in presenza di un generale indebolimento del welfare pubblico. Fenomeni comuni a tutti i Paesi dell'Europa post-industriale.
Il malcontento non ha trovato valide sponde a sinistra e tra i progressisti. Avversando la globalizzazione, la City e ciò che rappresenta si è espresso nel referendum per il Leave, ritrovandosi in compagnia di componenti sociali attestate su posizioni conservatrici, neo-nazionalistiche e xenofobe.
Queste posizioni intrecciano origini e prospettive diverse. Vanno da chi, anche nel blocco dominante, mal sopporta la limitazione di sovranità a favore di una Unione europea ad egemonia tedesca ed in misura minore francese, a chi suppone di poter rinverdire gli antichi splendori imperiali, puntando sul Commonwealth con le ex-colonie. Non mancano, inoltre, coloro che vorrebbero saldare un patto speciale transatlantico di partnership con gli Stati Uniti di Donald Trump, sposando le sue ricette di politica commerciale protezionistica.
Sullo sfondo persiste l'orgogliosa immagine che il Paese ha di sé, di essere comunque in grado di cavarsela facendo affidamento sulle proprie forze.
Le ambiguità del Labour
Nel voto a favore della Brexit confondere le spinte derivanti dal disagio sociale con quelle reazionarie, xenofobe e neo-nazionalistiche è un grave errore. Significa consegnare il malcontento popolare nelle mani sbagliate, condannando lo svolgimento della crisi ad un esito infausto. Rischio che il partito laburista di Jeremy Corbyn deve avere ben presente, quando, alla ricerca dei legami con gli strati operai e più poveri, perduti a causa delle politiche neo-liberiste del New Labour di Tony Blair, cerca una via per ricollocarsi.
Quanto difficile sia intraprendere questa via è testimoniata dalle sue permanenti ambiguità sulla Brexit. La leadership di Corbyn è sottoposta ad una duplice pressione: da un lato l'europeismo, sostenuto da molti occupati nei servizi trainanti, dalla “classe istruita” e da una consistente deputazione ai Comuni; dall'altra, i settori popolari “esclusi” che avversano l'Unione e reclamano una svolta sociale antiliberista e la lotta contro la preminenza del capitale finanziario rappresentato dalla City.
Come uscirne?
Una risposta sembra provenire da una conferenza programmatica [vedi nella finestra “Il nuovo manifesto del Labour Party”, in pagina] tenutasi alla fine dello scorso settembre, in cui si palesa il tentativo di ricomporre l'unione tra diversi strati popolari divisi dalle trasformazioni degli ultimi quarant'anni, tramite l'adozione di una linea di sviluppo ecologico, tecnologico e sociale di nuovo welfare, attuabile solo con una forte ripresa del ruolo dello Stato in economia.

Il nuovo manifesto del Labour Party

«L'ultima conferenza programmatica del partito guidato da Jeremy Corbyn è andata oltre l'abbandono della «terza via» blairiana, immaginando una radicale riorganizzazione dell'economia. (…)
«Un nodo chiave di questa visione sono la progressiva automazione del lavoro e l’avvento di una epoca sempre più “robotizzata”. (…)
«Di fatto, quello che si sostiene, ed è un punto fondamentale, è che se la tecnologia in sé è neutra, il suo utilizzo e le sue conseguenze sono invece fattori squisitamente politici. Lo stesso vale per reddito e disoccupazione, che non sono il semplice risultato dell’incontro di domanda e offerta sul mercato del lavoro, ma riflettono piuttosto i rapporti di forza nella società. (...)
«E dunque è proprio attraverso una diversa allocazione delle risorse e all’utilizzo sociale della tecnologia che il Labour punta a ridisegnare tanto l’economia che la società britannica. Si parte da una «decommodificazione» dei bisogni sociali, attraverso inizialmente l’introduzione di un reddito di base universale (universal basic income), per poi passare a garantire servizi sociali universali (universal basic services), dalla sanità all’istruzione (dove Corbyn mette, finalmente, al centro del progetto di riforma scolastica e l’abolizione delle scuole private) ai trasporti all’abitazione – puntando a costruire almeno 3 milioni di nuove case popolari in 20 anni, introducendo, se necessari, controlli sui prezzi e arrivando a proporre la requisizione degli appartamenti sfitti.
Allo stesso tempo si punta su un grande piano di sviluppo, il cosiddetto Green New Deal per puntare alla riconversione ecologica dell’economia: zero emissioni in un decennio, decarbonizzazione da ottenere attraverso una tassazione fortemente progressiva in modo da nazionalizzare tutti i trasporti pubblici e renderli gratuiti o a bassissimo costo, investimenti in ferrovie, retrofitting di tutte le council house ed edifici pubblici esistenti. Il tutto accompagnato dalla creazione di posti di lavoro «verdi» in nuovi settori: da abitazioni a energia solare all’investimento in energia eolica; dall’accelerazione nella transizione alle auto elettriche fino alla riforestazione della Gran Bretagna e la messa in sicurezza del territorio. Ma anche, appunto, maggiori assunzioni in settori a impatto zero come sanità e istruzione. È però chiaro che un programma di così grande ambizione sarebbe possibile solo sotto una guida pubblica e una subordinazione del sistema finanziario al ruolo della politica, come in effetti fece Roosvelt con il suo, originale, New Deal.
E non è dunque un caso che l’ultimo asse del programma di Corbyn sia una rimodulazione del sistema delle corporations. (…)
«L’articolazione del programma del Labour punta dunque a una vera e propria riorganizzazione dell’economia per superare quella che Polanyi definiva società di mercato, l’organizzazione liberale che asservisce le esigenze sociali a quelle economiche. (...)»

estratti da un articolo di Nicola Melloni - 11 Ottobre 2019 (da jacobin.it)
Scaricabile integralmente da: http://www.puntorosso.it/materiali.html
Osservo che, al di là di ogni giudizio di merito, paradossalmente - ma solo in apparenza - questo programma avrebbe maggiori possibilità di successo in caso di sganciamento dall'Ue, piuttosto che dal mantenimento dei vincoli connessi al Remain. Nel Labour, invece, pare prevalere la tendenza al Remain and Reform, a restare nell'Ue per riformarla, con in subordine, in caso di Brexit, l'idea di raggiungere con Bruxelles un accordo (Deal) che mantenga con l'Europa una sorta di cordone ombelicale, sulla cui natura, peraltro, non c'è chiarezza.
Per completare il quadro, occorre tenere conto di due aspetti collegati all'orientamento degli elettori.
  1. La ripetizione del referendum Remain or Leave in Gran Bretagna sarebbe un azzardo altamente rischioso. A dispetto del risalto dato dai nostri media tradizionali, giornali e televisioni, alle manifestazioni pro Ue, i risultati delle ultime elezioni europee (2019) ribadiscono il Leave: al voto ha partecipato solo il 37% degli aventi diritto e tra i voti espressi ha primeggiato il Brexit Party di Nigel Paul Farage con il 30,52%; secondo i sondaggi nella stessa Londra, considerata capitale dell'europeismo, il 40% dei cittadini sarebbe pro-Brexit. Qualora un secondo referendum confermasse gli esiti del primo (2016), l'intero sistema politico britannico si avviterebbe su se stesso.
  2. Dato il sistema elettorale uninominale, in numerosi collegi i candidati del partito laburista non hanno alcuna possibilità di venire eletti senza il voto di una consistente parte di coloro che si sono espressi pro Brexit. Il che priverebbe il partito della maggioranza necessaria ad assumere il governo del Paese.
Remain and Reform
Il semplice Remain (restare nell'Ue) non è più predicabile. È stato sostituito da Remain and Reform, perché l'attuale assetto dell'Unione anche agli occhi di gran parte degli europeisti non è accettabile, sia sul piano delle politiche economico-sociali, sia sul piano istituzionale, essendo palese il suo permanente deficit di democrazia interna.
Così l'europeismo britannico approda alla posizione assunta nei Paesi del continente da molte forze politiche, tra le quali anche quelle più critiche verso l'Unione, come Syriza e Podemos, nonché, ultimamente, il M5S. (La stessa Lega di Salvini ha ripiegato su questa linea, ma in modo del tutto “tattico”.)
Benché il progetto di riformare l'Ue non sia affatto nuovo e negli anni non abbia conseguito apprezzabili risultati - cosa che dovrebbe indurre ad un radicale ripensamento -, permane un'aspettativa politica con la quale è doveroso confrontarsi.
Cosa impedisce all'Unione europea di riformarsi e cambiare?
Per rispondere a questa domanda parto dalla constatazione di un eclatante dato di fatto e dalla valutazione di un aspetto più teorico, ma dai molteplici risvolti pratici.
Il dato di fatto eclatante riguarda la riforma in itinere del Meccanismo europeo di stabilità (Mes), detto anche Fondo monetario europeo, perorato da Germania e Francia.
Non c'è traccia della invocata condivisione dei rischi, tanto cara all'europeismo del “restare per riformare”. Oggi Berlino e Parigi si muovono esattamente in senso contrario a quello auspicato. Vogliono istituire un meccanismo finanziario “tecnico” di preservazione dai rischi dei Paesi “forti”, a danno di quelli deboli, i quali, nel caso in cui abbiano bisogno di credito, vedrebbero saccheggiate le proprie economie tramite l'imposizione di una preventiva “ristrutturazione del debito”.
Non solo il M5S si è schierato contro la riforma del Mes [vedi nella finestra dedicata, in pagina].
La riforma del Mes
«In effetti ad oggi il MES non può decidere in solitaria quali sono le correzioni macro che i Paesi assistiti devono applicare. L’ultima parola è della Commissione Europea, che con tutti i suoi difetti rimane un organismo politico. Con la riforma studiata dall’Eurogruppo, invece, il MES avrebbe poteri di fatto esclusivi, emarginando la Commissione e rendendo tecnico un meccanismo che è profondamente politico.
Al nuovo MES, inoltre, potrebbero accedere solo gli Stati che rispettino tre condizioni molto rigide, tutte calibrate sul deficit e sul debito pubblico:
  • un rapporto deficit/Pil non superiore al 3%;
  • un saldo strutturale pubblico in pareggio o al di sopra del parametro di riferimento richiesto al singolo paese;
  • un rapporto debito pubblico/Pil al di sotto del 60% o, in caso di valori superiori a tale soglia, che tale rapporto sia stato ridotto di 1/20 in media nei due anni che precedono la richiesta di aiuto finanziario.
Otto paesi dell’area euro, tra i quali l’Italia, non rientrano in questi parametri e non potrebbero quindi essere aiutati, a meno che non accettino di firmare un memorandum di impegni gravosi che di fatto corrisponderebbe ad un commissariamento del Governo e del Parlamento nazionale.»

A giudizio dell'Osservatorio sui conti pubblici di Carlo Cottarelli, un think tank certamente non euro-scettico, la riforma costituisce un pericolo per l'Italia e gli italiani. Allarmanti sono le parole di un suo esponente, l'economista Giampaolo Galli, rivolte alle Camere: «L'Italia ha risparmio di massa e il 70% del debito è detenuto da residenti, tramite banche e fondi di investimento. In queste condizioni, una ristrutturazione sarebbe una calamità immensa, genererebbe distruzione del risparmio, fallimenti di banche ed imprese, disoccupazione di massa e impoverimento della popolazione senza precedenti nel Dopoguerra. Nessun governo può prendere una decisione del genere se non nel momento in cui non fosse più in grado di pagare stipendi e pensioni, ecc. Una ristrutturazione preventiva sarebbe un colpo di pistola a sangue freddo alla tempio dei risparmiatori.»2
Pur essendo il terzo contributore del Fondo, l'Italia potrebbe attingervi solo accettando condizioni draconiane. Qualora l'attuale governo non ponesse il veto alla riforma del Mes, alla quale il ministro Tria non aveva opposto la dovuta resistenza, disattenderebbe una risoluzione parlamentare che in giugno l'ha vincolato a non accettare qualsivoglia “condizionalità” penalizzante per i Paesi deboli dell'Unione.
L'aspetto teorico, dai molteplici risvolti pratici, si fonda sulla distinzione tra Unione europea e più ristretta Zona euro (Unione Economica e Monetaria, UEM). Anche per il compianto professor Gallino era auspicabile uscire dall'euro, senza uscire dall'Ue.3
A rendere allettante questa soluzione, la costatazione che le economie europee non aderenti all'euro hanno conseguito in questi anni migliori risultati economici rispetto a quelle aderenti.
Il Regno Unito non ha mai rinunciato alla sterlina in favore dell'euro. Tuttavia, pur godendo di una invidiabile condizione di sovranità monetaria, ha prevalso la spinta a lasciare l'Unione.
Il motivo sottostante e sostanziale deriva dalla struttura stessa dell'Unione che è basata su trattati tra Stati nazionali e non riesce ad uscire dalla combinazione contraddittoria tra:
  • trasferimento delle “dure decisioni economiche e sociali”, sottratte alla sovranità democratica nazionale, in capo alle istituzioni dell'Ue, le quali assumono il ruolo paternalistico sovranazionale di dettare austere regole (e fastidiose regolucce) e “compiti a casa” agli Stati membri per il “bene di tutti”, ma in realtà penalizzano salari e lavoro, tagliano il welfare pubblico e perciò sono invise ad un crescente numero di cittadini delle classi popolari;
  • progressiva gerarchizzazione delle relazioni tra gli stessi Stati, la quale, benché coperta dalla retorica solidaristica ed anti-nazionalista, non riesce a nascondere l'emergente egemonismo (tartufesco) del nucleo tedesco che, sebbene si affermi soprattutto sulle economie e sulle società delle Periferie del Sud e dell'Est europeo, oltremanica appare insopportabile.
Senza sovranità non può esserci democrazia. E la gerarchizzazione trasforma un problema sociale in un problema nazionale.
Questa combinazione contraddittoria trae origine dalle strutture stesse dell'Ue, basate sul mercato unico e sulla connessa moneta unica.
La funzione per così dire “attiva” risiede nel mercato unico: libera circolazione di denaro, merci, servizi e persone (lavoro), secondo l'indirizzo neo-liberista sancito da Maastricht (1992) in poi, giacché il trattato di Roma (1957) fu sottoscritto in una fase storica in cui prevalevano le politiche economiche keynesiane.
Il moto economico “inerziale” del mercato unico ha prodotto la polarizzazione tra un centro forte e periferie deboli. Fenomeno affatto insolito nei rapporti capitalistici tra Paesi e territori. Quand'anche un Paese forte non agisse politicamente per assumere un ruolo egemonico, questo gli verrebbe conferito “naturalmente” dai meccanismi del mercato liberalizzato. Caso che non riguarda la Germania, il cui ruolo di potenza economica dominante è stato consapevolmente perseguito anche tramite il controllo del denaro, “merce” suprema.
Alla moneta unica è affidata la funzione per così dire “passiva”: la sua stabilità dev'essere difesa ad ogni costo.4 Ciò impone disciplina di bilancio (patto fiscale), attraverso le politiche di austerità ed un regime di deflazione salariale concorrenziale, soprattutto a chi ha adottato l'euro e non comanda più il denaro interno. Comando posto in capo alla Banca Centrale Europea, formalmente “indipendente”, la quale ha come obiettivo costitutivo ed assoluto la lotta all'inflazione. È significativo il fatto che nemmeno sia riuscita ad elevarla al 2%, pur volendolo in funzione anticiclica. Di contro, ha inondato di liquidità il sistema finanziario con il Quantitative easing, senza che tale liquidità percolasse nella sottostante economia “reale” per ridarle linfa.
Va ricordato che il patto fiscale è stato sottoscritto sia dagli aderenti alla Unione monetaria, sia dagli altri membri dell'Unione. Inoltre, l'euro influenza le operazioni finanziarie anche nei Paesi dell'Ue non aderenti alla moneta unica. Pertanto, è arduo sostenere che esista una divaricazione tra insieme dell'Unione e Unione monetaria, perché quest'ultima ne è il cuore. Non casualmente il trattato sull'Unione europea prevede solo una uscita dall'Unione (art. 50), ma non dall'euro.
Il prezzo del dominio
La locomotiva tedesca sembra inceppata.
Secondo l'economista Martin Wolf,5 l'euro funziona a vantaggio della Germania, la quale tuttavia «è presa in quella che si chiama una “trappola della liquidità” globale: con investimenti deboli nonostante i tassi d'interesse estremamente bassi, i risparmi non sono scarsi ma sovrabbondanti.»
A differenza del Giappone che soffre di malanni analoghi, la Germania ha goduto di un tasso di cambio reale stabile e competitivo, sia ovviamente verso i Paesi della zona euro con la quale condivide la moneta, in direzione dei quali va il 40% delle sue esportazioni, sia verso l'esterno, giacché il tasso di cambio dell'euro «riflette la competitività della media ponderata dei paesi che lo utilizzano». Ossia è inferiore a quello di un ipotetico marco. Pertanto, questi vantaggi «hanno notevolmente facilitato la combinazione tanto auspicata in Germania di avanzi privati, fiscali e commerciali.»
Se ne deduce che invece di lamentarsi dei bassi tassi d'interesse sul “risparmio delle famiglie”, a cui è andato il 72% dell'avanzo privato complessivo, la Germania dovrebbe essere grata all'euro e a Draghi.
Allo sguardo meramente economico non compare ciò che il problema dei bassi tassi d'interesse nasconde.
Anche la Germania è intrappolata nella combinazione contraddittoria poc'anzi evidenziata, la stessa che domina la scena della Brexit. È restia a pagare il prezzo del proprio dominio, perdendo in sovranità. Al tempo stesso non pare disposta né a riattivare la spesa interna, né a consentire un riequilibrio del rapporto tra import ed export a favore delle economie periferiche, né, tantomeno, alla condivisione dei rischi.
D'altro canto, la Brexit britannica colloca la Francia in posizione militare leader nell'Unione. Le recenti dichiarazioni di Macron sulla Nato6 sottendono la volontà di Parigi di rinnovare l'asse con Berlino, in vista di una autonoma forza armata dell'Unione. La Germania, in altri termini, è chiamata a sostenere maggiori costi per la “fortezza Europa” ed un ruolo più attivo sul piano militare. Sotto la retorica che invoca una economia verde, si fa strada quella grigia.
Un modo di uscire dalla crisi dell'Unione non proprio auspicabile.
Riviene in mente la battuta provocatoria di Andreotti quando si trattò di avallare la riunificazione tedesca: ”Amo talmente tanto la Germania che ne preferivo due”.
Note
1 Nel 2013 solo i contratti a zero ore (zero hours) coinvolgevano il 3,5% della mano d'opera totale (fonte: ilsole24ore).
2 Marco Palombi, “Banche e un nuovo fondo Salva-Stati: le minacce all'Italia”, Il Fatto Economico, 13/11/ 2019.
3 Luciano Gallino, “Come e perché USCIRE DALL'EURO ma non dall'Unione europea”, Laterza, 2016.
4 Nel quale rientra la riforma prima citata del Mes.
5 Martin Wolf, articolo per il Financial Times pubblicato dal Fatto Quotidiano del 3/11/2019, col titolo “Germania inceppata, sindrome giapponese e il Draghi salvatore”.
6 «La Nato è in stato di morte cerebrale», Emmanuel Macron in un'intervista all'Economist del 9 novembre 2019.