lunedì 23 marzo 2020

Il gioco dell'oca - Diario italo-europeo

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Emergenza economica da coronavirus
Nel difficile momento che tutti viviamo, il forzato isolamento a cui siamo costretti concede inusitati spazi alla ricerca di risposte a numerose domande.

Sono in molti a chiedersi per quale motivo, le contromisure annunciate e gli ingenti mezzi finanziari messi a disposizione a livello europeo non siano ritenuti bastevoli, sia dal nostro governo che da tutte le forze politiche nazionali.
La Commissione europea ha sospeso l'applicazione delle regole di bilancio dell'Unione alle quali dovevamo attenerci. Possiamo sforare i limiti di deficit e fare debito secondo nostra necessità e nostro insindacabile giudizio (come abbiamo già cominciato a fare). Inoltre, ha disposto la creazione di un Fondo di emergenza contro il coronavirus, al quale attingere.
Al contempo la Banca centrale europea (Bce) ha deciso un bazooka di 750 mld, nominato Pandemic Emergency Purchase Programme, promettendo liquidità più che ai tempi di Mario Draghi.
Eppure alcuni invocano l'utilizzo del MES, il Fondo salva-Stati, e/o delle Omt, 1ed altri ancora puntano, invece, sull'allargamento delle funzioni della Bce, oltre i suoi limiti statutari.
Quali sono le ragioni sostanziali che inducono a ritenere insufficienti gli interventi europei sinora decisi?
Da un lato, la necessità di far fronte alla situazione d'emergenza ed alla pesante recessione in corso, con una grande spesa e forti investimenti pubblici. Dall'altro, la preoccupazione che il Paese, dovendo proporzionalmente indebitarsi, sia oltremodo esposto, in mancanza di un protettivo ombrello comunitario, al giudizio di solvibilità dei mercati finanziari, ai quali questo potere è stato consegnato dalla nostra classe dirigente negli ultimi decenni liberisti.
Questo è il punto.
Quali ragionamenti stanno alla base delle preferenze accordate all'uno o all'altro strumento europeo al quale ricorrere?
Chi sostiene il ricorso alle Omt ed al MES, il quale disporrebbe di 410 mld di capitali versati dagli Stati membri - Italia inclusa -, vede la possibilità di accedere ad un credito ora a basso costo.
Per ottenere un prestito MES subito, il governo richiedente deve firmare un memorandum che implica le cosiddette “condizionalità” a garanzia, ossia future misure analoghe, o forse maggiori, di quelle imposte alla Grecia. Sicché in parlamento prevalgono le forze politiche che vi si oppongono: M5S e LeU nella maggioranza; Lega e Fd'I nell'opposizione.
Al fine di superare questo ostacolo, il premier Conte ha proposto che al MES chiedano collettivamente di accedere tutti i Paesi membri, disinnescando per tutti le temibili “condizionalità”. Un'altro modo per rendere potabile il prestito MES sarebbe fissarne la scadenza a 50 anni, escludendo di fatto sia il possibile rialzo degli interessi nei prossimi anni, sia il suo effettivo rimborso.
Inoltre, Conte ha avanzato l'idea di emettere eurobond straordinari, chiamandoli coronavirus bond, ossia buoni del tesoro europei, garantiti dalla Bce e da tutti i Paesi in solido. Sarebbe un modo per europeizzare il debito. Tuttavia, osservano i contrari, ciò sarebbe impossibile per la mancanza di un Tesoro europeo ed in presenza di limiti statutari insuperabili, salvo una riforma dai tempi lunghi, per la Bce (la Bce non è la Fed statunitense).
A differenza del passato lo schieramento dei Paesi favorevoli alla condivisione del debito e dei rischi connessi alla moneta unica, si è ampliato. All'Italia si sono aggiunti Spagna e Francia.
Tuttavia, Germania, Paesi Bassi ed altri dell'area del Centro, o si dicono espressamente contrari a questa condivisione, sotto le diverse forme qui riassunte, o si mostrano “scettici”.
In attesa dei prossimi sviluppi, prendiamo atto che, a causa dell'emergenza da COVID-19, si è riproposto il dilemma politico sul quale la Zona euro e l'Unione sono da tempo impantanate. Come nel gioco dell'oca, ci si ritrova sempre al punto di partenza.
Una cosa mi pare certa. Dopo tre decenni di tagli e di austerità constatiamo amaramente, a partire dalla sanità, quanto essi ci vengano a costare in termini di vite umane e di ricadute economiche complessive.
Quando un minimo di “normalità” sarà ripristinata, nulla dovrà tornare come prima.
PER UN ULTERIORE APPROFONDIMENTO DEI TEMI QUI ANTICIPATI, LEGGI IL SEGUITO...

Nota
1 Acronimo spiegato nel successivo Diario italo-europeo.



Diario italo-europeo

12-21 marzo, in tempi di coronavirus



Messaggi
12 marzo 2020.
Christine Lagarde: «Non siamo qui per ridurre gli spreads. Non è questa la funzione né la missione della Bce. Ci sono altri strumenti e altri attori deputati a queste materie.»
Errore di comunicazione? Lagarde come una principiante alle prime armi? La frase è allarmante ed i nostri media la contrappongono subito a quella rassicurante e salvifica di San Mario (Draghi): «Credetemi, sarà abbastanza», pronunciata quando, nel luglio 2012, mise in campo il bazooka della liquidità in difesa dell'euro “Whatever it takes”, costi quel che costi. Infatti le borse crollano e lo spread Btp-Bund sale.
Tanta cinica franchezza, benché coerente con quanto la Lagarde aveva annunciato all'indomani del suo insediamento a Francoforte, non è permessa. Alla gaffe mette una pezza il board di Bce che promette di proseguire la solita irrorazione di denaro a buon mercato.
Ciò nonostante nei giorni a seguire le borse, compresa Wall Street, continuano a perdere.
Il Covid-19 ha bucato una bolla finanziaria, cresciuta a dismisura nonostante fosse chiaro che stava gonfiandosi a dispetto dell'andamento della “economia reale”.
13 marzo 2020.
Ursula von der Leyen: «Siamo assolutamente pronti ad aiutare l'Italia con tutto ciò che è necessario.»
Muta per due settimane mentre ogni governo andava per proprio conto e Schengen evaporava, si fa viva la Commissione europea. Annuncia la sospensione del Fiscal compact. Ogni spesa necessaria per fronteggiare la pandemia verrà esclusa dal calcolo del deficit che i singoli Paesi dovevano rispettare. Saltano anche i paletti sugli aiuti di Stato, garantisce Margrethe Vestager, commissaria alla concorrenza.
Sin qui “elasticità” e mancate sanzioni.
Quanto alle misure attive, siamo ad un totale di 37 mld, poiché all'annunciato Fondo di emergenza contro il coronavirus, di 25 mld, ne vengono aggiunti altri 12. Sempre pochini in rapporto alla estensione dell'Unione. Non sono nemmeno tutti “soldi veri”, poiché si tratta per lo più di poste stornate dai programmi per la “coesione”, con 8 mld ricavati da un intervento sui pre-finanziamenti di quei programmi.
Intanto, per l'Italia con lo spread tra Btp e Bund sale l'ammontare degli interessi da pagare sul debito pubblico, benché cali dalle punte raggiunte subito dopo le parole della Lagarde.
Olivier Blanchard, ex capo economista del Fmi, auspica il soccorso dell'Italia tramite le Omt [vedi nella finestra dedicata, di seguito].

Omt
Outright monetary transactions: acquisti illimitati di bond pubblici e linee di credito a condizioni extra-mercato.
Annunciate da Mario Draghi nel 2012, le Omt della Bce non sono mai state utilizzate perché, per accedervi, bisogna sottoporsi alle draconiane “condizionalità” del Meccanismo europeo di stabilità (MES), previste per questo genere di interventi.
Il Paese che ne fa richiesta deve sottoscrivere una memorandum, tramite il quale si impegna a mettere in campo misure fiscali per rientrare dall'esposizione, tipo “cura greca” sotto la sorveglianza della Troika.

Cosa farà l'Eurogruppo, ossia l'insieme dei ministri delle finanze della zona euro?
Nell'attesa, ciascun Paese pensa per sé.
La Germania annuncia che userà 550 mld della banca di sviluppo statale (KfW, Kreditanstalt für Wiederaufbau) a sostegno delle proprie imprese, nazionalizzando per quel che serve. Il Regno Unito aveva predisposto l'impiego di 76 mld di sterline (84 mld di euro) in 4 anni, a prescindere dalla minaccia virale. L'Italia è a quota 25 mld di extra-deficit (20 effettivi).
Il referendum accantonato
14 marzo 2020.
La pentastellata Paola Taverna, intervistata da “Il Fatto Quotidiano”,1 segue una strana logica.
Afferma: «Purtroppo alcuni Paesi hanno ancora una visione egoistica dell'Unione. (…) Di certo da ora in poi deve cambiare tutto.»
Domande: «Fino a qualche anno fa il Movimento teorizzava la necessità di un referendum sull'euro...»; «Avete fatto bene a cambiare idea? Magari un po' della vostra base in questi giorni rimpiange la vecchia linea.»
Risposte: «(...) in che condizioni saremmo oggi se fossimo fuori dalla Ue e dall'euro?» «Quindi avevamo ragione noi del M5S a chiedere che l'Europa deve cambiare, diventare una vera comunità in cui i Paesi si aiutano l'uno con l'altro, con parametri economici molto diversi.»
Un momento, please.
In nessun caso si poteva praticamente essere già fuori dall'euro e dall'Unione. La richiesta di un referendum andava nella direzione di una verifica democratica del consenso alla moneta unica da parte dei cittadini, obbligando ciascuna forza politica alle proprie responsabilità.
Poiché questo istituto “consultivo” di democrazia diretta non è contemplato, come invece lo è nel Regno Unito, ciò implicava ed implica una procedura piuttosto lunga. Avviarla, avrebbe posto l'Italia sul terreno non dei “fervidi auspici”, ma delle iniziative concrete, per non continuare inutilmente a lamentarsi della “visione egoistica” di “alcuni Paesi”. Un modo eufemistico di nominare il nazionalismo, sempre meno dissimulato, degli Stati centrali a danno dei periferici.
Taverna non può cavarsela rispondendo a domanda con un'altra domanda, formulandola “per assurdo”.
Di contro, il ruolo di barriera contro la deriva fascistizzante, rivendicato da Beppe Grillo, è finito nei bei ricordi. Aver rinunciato a porre in atto la “minaccia democratica” ci ha indebolito verso chi comanda nell'Unione. Tanto più che da momentanea e “tattica”, tale rinuncia è diventata “strategica”, abbandonando un terreno decisivo sul quale ora prospera il duo Lega-Fd'I, al contempo omologando il M5S all'europeismo sempre disilluso e piagnone del PD.
Dice Costas Lapavitsas
15 marzo 2020.
Su “il Fatto Quotidiano” compare un'intervista a Costas Lapavitsas [vedi nella finestra “Zero possibilità”, a seguire]. Lapavitsas, tra l'altro, è autore di una interessante analisi della finanziarizzazione2 e noto per aver caldeggiato la leftBrexit, l'uscita del Regno Unito dall'Unione europea dell'austerità, da sinistra.
Costas Lapavitsas è docente di Economia alla 
School of Oriental and African Studies alla
Università di Londra. Editorialista del quotidiano
The Guardian, viene eletto nel 2015 tra i
parlamentari di Syriza, dalle cui file esce quando
Tsipras accetta di subire la Troika.

Zero possibilità
«L'integrazione europea non sta andando da nessuna parte da tempo. Le ragioni principali sono l'assurdità dell'Unione monetaria e la comparsa di una gerarchia fra centro e periferia, con una posizione egemonica per la Germania che però non sa o non vuole esercitarla. L'impatto della crisi migratoria e il malfunzionamento economico mettono un'enorme pressione sulla capacità di sopravvivenza dell'Ue: non collasserà, ma diventerà sempre meno importante. Gli Stati nazionali stanno tornando. Il primo esempio è la Brexit e il piano di Boris Johnson lo conferma: la Gran Bretagna è libera dai vincoli Ue e può adottare politiche keynesiane anche fuori dall'emergenza. L'altro esempio è la crisi dei rifugiati, su cui non esiste una politica comune.»
«Non esiste una classe dirigente europea. L'Ue è un'alleanza di Stati nazionali, un peculiare sviluppo storico in cui questi Stati cedono volontariamente una parte della loro sovranità nell'interesse della classe dirigente di ciascun Paese. Ciò permette, per esempio, di presentare le misure di austerità come prese da Bruxelles: una buona copertura politica.»
Rispetto alla proposta di Ashoka Mody per una manovra da 500 mld di salvataggio finanziario per l'Italia, ad opera del Mes e di altri attori internazionali, afferma:
«Ci sono zero possibilità. (…) non credo neanche per un secondo che la Germania contribuirebbe. Inoltre, c'è la grande esposizione dell'Italia nel sistema di pagamenti Target2,* di fatto verso la Bundesbank. Insomma, non c'è alcuna possibilità che il Mes possa gestire una crisi del debito italiano. (…) quello di cui avete bisogno è ridenominare il debito ed uscire dall'euro. Questa è la risposta perché l'economia italiana riprenda a muoversi. Londra le ha mostrato la strada.»

Estratti da “il Fatto Quotidiano”, 15 marzo 2020, intervista di Alessandro Bonetti a Costas Lapavitsas.
L'intervista esce in concomitanza con la pubblicazione da parte di Yanis Varoufakis, sul Blog di Diem25 (in stile Euroleaks), di tutte le registrazioni effettuate durante gli incontri dell'Eurogruppo ai quali ha partecipato, in qualità di ministro delle Finanze greco. Gli audio mostrano la totale assenza di solidarietà delle istituzioni europee e dei tecnocrati Ue nei confronti della Grecia durante la crisi del 2015. Tra questi, San Mario Draghi non ci fa proprio una bella figura.
Lapavitsas è in disaccordo con Varoufakis,3 al quale rimprovera scarsa coerenza tra denuncia dei fatti e proposta politica. Ma non è questo il tema principale dell'intervista.
Ne riprendo alcuni punti.
Innanzitutto l'idea che la Brexit, svincolando la Gran Bretagna dalle politiche comunitarie, ha comunque consentito ad un governo conservatore di adottare misure keynesiane.
Resta sottinteso che Corbyn avrebbe potuto attuare un vero salto di qualità, realizzando il suo avanzato programma sociale e verde, qualora non si fosse fatto imporre dagli europeisti del suo partito la richiesta di un secondo referendum per sconfessare il primo. Scelta fatale che consegnò la sua stessa base elettorale popolare, già espressasi per la Brexit, all'avversario Boris Johnson.
D'altro canto fu proprio Corbyn a riconoscere che la Brexit avrebbe creato il migliore contesto per le sue riforme, alle quali Bruxelles e Berlino si sarebbero opposte in forza dei trattati.
Importante è poi il giudizio sia sulla struttura nazionale dell'Ue, sia sulla situazione italiana.
«Non esiste una classe dirigente europea.»
La Germania non può o non vuole assumersi il ruolo egemonico, ove per “egemonia” s'intende un esercizio della supremazia imperiale che implichi l'addossarsi dei trasferimenti derivanti costi della “solidarietà comunitaria” - tanto più in occasioni d'emergenza come l'attuale - per esercitare un effettivo ruolo di leadership. Cosa piuttosto diversa dal limitarsi a raccogliere per sé i frutti dello status quo, scuotendo l'albero dei vincoli connessi alla difesa della “stabilità della moneta unica”.
È una foto delle attuali propensioni tedesche, non un invito a superarle, con tutte le conseguenze che ciò comporterebbe...
La classe dirigente italiana, ad esempio, si è rifugiata dentro e dietro l'Ue, diventando poi succube della sua voluta cessione della nostra sovranità monetaria e di bilancio. A questa scelta, pur con varie sfumature di grigie velleità riformiste, non vuole rinunciare.
Due giorni dopo
17 marzo 2020.
Massimo Cacciari, intervistato a CartaBianca su Rai3 dalla Berlinguer, manifesta pessimismo. A fronte della globalizzazione non c'è stato un parallelo riordino globale. L'Europa ha latitato. Dopo la pandemia nulla dovrà “ritornare ad essere come prima”. Dalla vacua “speranza” bisognerà passare a cambiamenti concreti. Quali? Una sorta di governo mondiale? Un'Europa che continua a latitare?
Il filosofo veneziano se la prende con i dissennati ed imprevidenti tagli alla sanità italiana. Poiché Germania e Francia non hanno fatto altrettanto, ne deduce che in Italia si poteva fare altrimenti.
[Per un resoconto sugli effettivi “Posti in terapia intensiva” nei Paesi europei, vedi nel riquadro a seguire.]
Posti in terapia intensiva
«Eppure, la 'preparedness' [preparazione precauzionale] della Francia non è superiore alla nostra. Secondo gli ultimi dati disponibili in letteratura, che risalgono al 2012, i posti in terapia intensiva in rapporto alla popolazione sono circa gli stessi che da noi, 12 ogni centomila abitanti considerando anche quelli degli ospedali pediatrici (ma da noi ci sono più anziani). La Spagna, con più di duemila casi, è messa peggio, perché lì i posti sono meno di 10 per centomila abitanti. Nel Regno Unito il rapporto posti/popolazione scende a 7. Fa eccezione a livello mondiale la Germania, che con quasi 30 posti di rianimazione ogni centomila abitanti è il paese più preparato di tutti a uno tsunami come quello italiano.»
Andrea Capacci, “Perché mancano le terapie intensive. Ma la 'preparedness” non è solo italiana”, il Manifesto, 18/3/20.
Trascura Cacciari un aspetto non irrilevante. Aderire e costruire questa Europa, da parte della classe dirigente politico-economica italiana, è stata una scelta di de-responsabilizzazione, implicita nella delega di quote importanti di sovranità nazionale, oltre ad un modo per nascondersi dietro al paravento “lo vuole l'Europa”.
Pur omettendo le conseguenze derivanti dai vincoli sottoscritti, ovvero i tagli imposti (sanità compresa) al Paese dal regime d'austerità, la dismissione di responsabilità si è trascinata appresso ogni malgoverno, compresa la cleptomania dei politici regionali in rapporto con i privati della sanità.
La morale è politica. E la prima “moralità” fa capo alle scelte politiche prime.
Appena 16 giorni prima
1 marzo 2020.
Dalle colonne de “Il Sole-24Ore”, il professor Minenna4 prendeva in esame la Comunicazione sull'efficacia della governance economica europea, pubblicata agli inizi dello scorso mese.
«(...) la Commissione giudica in termini positivi i risultati raggiunti (…) e ne evidenzia l'utilità per favorire la convergenza tre le economie dei vari Stati, sottolineando la ripresa di crescita ed occupazione.»
«I dati purtroppo non supportano questa valutazione. Uno sguardo alla dinamica del PIL reale dal 2008 in avanti mostra che i paesi periferici come l'Italia e la Grecia sono ancora lontani dai rispettivi livelli pre-crisi e, soprattutto, dai paesi core, come Germania e Francia.»
Di seguito riporta il grafico “Andamento del PIL reale di alcuni paesi europei” [qui sotto].
«Grosse differenze si riscontrano anche nei tassi di disoccupazione (in Grecia oltre 5 volte quella della Germania), come pure dei rendimenti pagati sui debiti pubblici di Stati che pure, in larga parte, condividono la stessa moneta. (…) Ad esempio, sulla scadenza decennale, Italia e Grecia hanno uno spread di circa 245 punti base (2,45%) rispetto alla Germania se si tiene conto dei differenziali d'inflazione.»
«Le dinamiche di queste grandezze economico-finanziarie sono peraltro interconnesse.»
Interconnessioni con effetti a cascata.
Quando ciascun Paese membro è ridotto ad adottare separatamente interventi con proprio maggiore deficit, condividere la moneta unica per i Paesi periferici significa:
  • pagare un più pesante differenziale di interessi (in misura dello spread) sul proprio debito pubblico, accumulandolo in un circuito vizioso;
  • maggiori costi di finanziamento per le loro imprese a vantaggio di quelle dei Paesi centrali con conseguenti sbilanci commerciali.
Infatti, il suddetto vantaggio competitivo si traduce in «abnormi avanzi delle partite correnti» con l'estero, da parte dei Paesi core, quali sono la Germania ed i Paesi Bassi.
Non mi spingo oltre nel riportare quanto ha sostenuto Minenna.5
Mi limito ad evidenziare, in relazione al dibattito attuale, quel che ne consegue:
  1. poiché, nonostante la grande liquidità, irrorata dalla Bce in questi ultimi anni, l'aumento dello spread reale ha comportato un aggravio di interessi e debito per l'Italia, nonché maggiore divario tra Paesi centrali e periferici, non si capisce come la prosecuzione del Quantitative easing possa produrre effetti diversi;
  2. poiché tale politica monetaria non ha impedito l'avanzare della recessione, resa manifesta dall'andamento della produzione industriale tedesca nel 2019,6 il sopraggiungere di quella da coronavirus rende indispensabile il diretto intervento degli Stati in economia per risollevarla.
Alla ricerca di una via d'uscita
17 marzo 2020.
I ministri delle Finanze della zona euro (Eurogruppo) accantonano l'idea di approvare subito la riforma del MES, il nuovo Meccanismo Europeo di Stabilità, detto Fondo salva-Stati.
Spiega il ministro Roberto Gualtieri: «Era evidente che dovevamo concentrarci solo sull'emergenza coronavirus. E comunque, non avendo avuto un mandato parlamentare, non avrei potuto concludere le negoziazioni.»
Non esiste una maggioranza parlamentare favorevole alla riforma e neppure all'utilizzo del MES in vigore: all'interno della maggioranza sono contrari M5S e LeU e, all'esterno, Lega e Fd'I.
Secondo il Financial Times i tecnici dei ministeri delle Finanze della zona euro continuano a discutere dell'ipotesi di dotare il MES di nuovi poteri, per fornire ai governi linee di credito precauzionali al fine di rassicurare i mercati. Ma non c'è accordo, poiché i Paesi centrali non intendono rinunciare, anche in emergenza, alle “condizionalità”, ossia ad imporre a chi volesse accedere alle linee di credito di sottoscrivere un memorandum di misure austere (la Troika) a garanzia della propria solvibilità. Ciò vale sia per il MES, sia per le citate Omt, che sono sottoposte alle sue “condizionalità”.
Ci si rigira sempre sulle stesse divergenze, mentre vengono ribadite le indicazioni della Commissione europea del 12 marzo ed ogni ulteriore iniziativa è rimandata al Consiglio europeo straordinario dei capi di governo.
Intanto, Goldman Sachs situa l'arretramento recessivo del Pil italiano dell'anno in corso a -3,4%, ossia ai livelli del 2020, quando iniziò il ventennio dell'euro.
18 marzo 2020.
Al vertice del Consiglio europeo il primo ministro Conte propone la emissione di eurobond, chiamandoli coronavirus bond.
La risposta del premier olandese Mark Ruffe è negativa. Frau Merkel si dice scettica. Se anche fosse d'accordo, non potrebbe acconsentire senza un mandato parlamentare, al quale si opporrebbe gran pare della sua compagine CDU-CSU, incalzata da Alternative für Deutschland e dal partito dei creditori, Bundesbank in testa. Questi chiederebbero il rispetto dei trattati, la cui eventuale modifica comporta tempi incompatibili con le urgenze italiane.
Di malavoglia la Lagarde annuncia un bazooka di 750 mld a cui verrà dato il nome di Pandemic Emergency Purchase Programme.
Se “rasserenare i mercati“ bastasse a “far bere il cavallo” della privata iniziativa, risollevandoci dalla recessione, non ci sarebbe tanta agitazione attorno alla ingente spesa pubblica sulla quale devono giocoforza contare i governi, invitati a rilanciare la “economia reale” anche dai più sfrenati liberisti che sino a poco tempo fa la indicavano come il peggiore dei mali.
Mentre il ministro Gualtieri cerca una via d'uscita per fronteggiare immediatamente lo stato di necessità, Enrico Letta e +Europa auspicano un ricorso al MES combinato con le Omt.
A quali condizioni?
20 marzo 2020.
Tramite il Financial Times, Giuseppe Conte invoca l'intervento del MES, supponendo che disponga di una «potenza di fuoco» di poco meno di 500 mld. Per Conte e Gualtieri la domanda di accesso al Fondo, se inoltrata in modo collettivo dai Paesi membri, oltre ad evitare l'effetto stigmatizzante che ricadrebbe sul singolo richiedente, dovrebbe azzerare le previste “condizionalità”.

L'utilizzo del MES fa temere che per prendere fiato, in cambio di un temporaneo allentamento del cappio, l'Italia si condanni senza scampo alla successiva impiccagione.

21 marzo 2020.
Per un piano da 1.000 mld, il M5S preferisce fare affidamento sulla Bce, la quale, allo scopo, dovrebbe “cambiare mandato”.
Non si tratta di una novità. La scelta risale agli inizi di maggio del 2019, quando, per bocca del capo politico Di Maio, vennero accantonati gli obiettivi del referendum sull'euro e dell'abolizione del principio di pareggio di bilancio in Costituzione,7 per puntare sulla riforma della Bce.
Operazioni di questo tipo sarebbero fattibili da parte della Banca centrale di uno Stato federale, come la Fed statunitense. Ma l'Unione non è uno Stato federale ed i limiti del suo mandato sono già stati raggiunti con il Quantitative easing di Mario Draghi ed il nuovo Pandemic Emergency Purchase Programme della riottosa Christine Lagarde. Superarli comporta l'assenso della Bundesbank...
Nel gioco dell'oca italo-europeo si ritorna sempre al punto di partenza.

Chiudo il Diario
alle ore 11,30 del 21 marzo del 2020.
Note
1 Intervista di Luca De Carolis, “Sull'Europa avevamo ragione noi 5Stelle. Lagarde? Un passo indietro sarebbe giusto”, 14/3/2020.
2 Costas Lapavitsas, “La finanziarizzazione del capitalismo: "Guadagna senza produrre", https://doi.org/10.1080/13604813.2013.853865.
3 A proposito delle posizioni di Varoufakis, vedi in questo Blog: “Le conseguenze della Grecia”, 3/2015; “Eurozona in semestre greco”, 1/2015; “Cul de sac”, 2/2016; “Jour de Gloire”, 5/2017; “Una chance per la sinistra francese”, 3/2019.
4 Marcello Minenna, “L'immobilismo della Ue su riforme fiscali e bilancio comune”, Il Sole24Ore, 1 marzo 2020.
5 Invito il lettore interessato a scaricarsene una copia direttamente dal sito dell'autore: http://www.marcello.minenna.it/
6 https://www.milanofinanza.it/news/gelata-sulla-produzione-industriale-tedesca-201912061032103748
7 La legge costituzionale 1/2012 ("Introduzione del principio del pareggio di bilancio nella Carta costituzionale") è una legge di modifica della Carta approvata nel 2012 dal parlamento. Essa ha modificato gli articoli 81, 97, 117 e 119 della Costituzione. La legge costituzionale è entrata in vigore l'8 maggio 2012, ma le sue disposizioni hanno avuto effetto a partire dall'anno 2014.

venerdì 13 marzo 2020

Oltre il limite

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Il corona virus segna il limite superato, oltre il quale un cambio di paradigma diventa vitale.
Prendiamo atto: senza confini si traduce in mille confini; il liberismo globalizzato si svela nemico della salute pubblica e della vita umana stessa; siamo in recessione ed infelice è la decrescita che s'impone.

Senza frontiere
Il nostro ministro della salute ha affermato una verità inoppugnabile: il coronavirus non conosce frontiere. Lode sia alla globalizzazione che ha sovrastato quegli inutili orpelli? Aggiungerei che il microrganismo è cosmopolita per vocazione, al pari del sistema di scambi tramite il quale si sparge per l'intero pianeta.
Sennonché, una volta dichiarata l'inutilità delle vecchie delimitazioni statuali ad impedire la pandemia - quindi, assurdo rimpiangerle -, il governo ha dovuto fronteggiare l'emergenza stendendo cordoni sanitari in seno al territorio nazionale, circoscrivendo zone rosse, decretando un “dentro” ed un “fuori”, con il corredo di differenziati divieti di circolazione e raduno. Una volta rese superflue le fisse membrane tra Stati, abbiamo dovuto ricorrere a quelle provvisorie interne, per poi riconoscere che tutto il Paese è zona rossa. Nel frattempo il trattato di Schengen è diventato di fatto lettera morta.
L'Italia intera è messa in quarantena da molti Paesi e dalle compagnie aeree. Dal circoscritto locale il governo è passato a più radicali misure su tutto il territorio nazionale: i luoghi di assembramento e di contatto diretto sono chiusi, dalle scuole agli stadi, a tutte le attività commerciali non essenziali. Rimangono in bilico trasporti pubblici e luoghi di lavoro. Fino a che punto potranno rimanere attivi?
Alla prova dei fatti, i sanciti contenimenti paiono sempre un passo indietro rispetto all'espandersi del morbo. Quanti sono coloro che si sono trasferiti da Nord a Sud, mettendo a rischio le aree meno attrezzate all'emergenza sanitaria? Certo più dei 40 mila che si sono autodichiarati.
Dal momento che l'epidemia è diventata pandemia, ci si potrebbe fare qualche domanda su questo contrappasso per cui il “senza frontiere” commina “mille frontiere”.
Improvvisamente, da un mondo che viveva l'esaltazione della veloce mobilità di capitali, merci e persone, siamo precipitati nella paura dello starnuto del vicino e nell'abolizione dell'abbraccio. Non sarà che l'una implichi le altre? Moderni Icaro, dal pullulare nei cieli cadiamo sulla terra delle deserte città.
Non sarà che invece del promesso passe-partout universale, costituito dal nostro stesso volto digitalizzato in un istantaneo “riconoscimento facciale”, sotto il vigile occhio delle polizie dall'alto della nube securitaria, finiremo per doverci dotare di autorizzazioni, nullaosta ed attestati, e di altro ancora, tali da rimpiangere la semplicità di un passaporto?
Sorge il dubbio che in mancanza di osmotiche membrane tra popoli e nazioni, in una globalizzazione a misura delle multinazionali e della fluidità accumulativa del capitale, rischiamo di venire divisi da innumerevoli muri, imposti da impensate emergenze non solo sanitarie.

Ripenso a Régis Debray.1 Dieci anni fa ci ammoniva a non cullare l'illusione di un mondo privo di limiti: «Limen, da cui provengono il nostro limitare, e i nostri preliminari, è contemporaneamente la soglia e la barriera, così come limes dice insieme la strada e il confine. Giano, dio del passaggio, ha due facce.»
Più del ponte Morandi
Al Sacco di Milano si è scoperta una affinità elettiva tra il ceppo Covid-19 tedesco, presente già a gennaio in Baviera, e quello di Codogno. La scienza smentisce lo scaricabarile nazionale. Quello sui cinesi “mangiatori di topi vivi” si smentisce da sé, visto che la loro disciplinata lotta al morbo ormai ci fa scuola.
Dopo il rassicurante isolamento della coppia di turisti cinesi e le quarantene allo Spallanzani di Roma, la vera emergenza è scattata solo quando si è palesata la falla di Codogno. Nonostante la “eccellente” sanità lombarda, vanto leghista, il “paziente numero uno” è stato rimandato a casa senza prova del tampone. Il protocollo adottato non lo prevedeva. Pertanto, il contagiato fu costretto a ripresentarsi febbricitante. Identificato positivo al test solo forzando il protocollo, aveva già infettato personale e presenti al pronto soccorso. Così il virus si insediava in un linfonodo della salute pubblica, trasformato in focolaio primario.
Casi simili si sono poi verificati in altre regioni, dal Veneto all'Emilia-Romagna, al Lazio. La sanità regionale è sembrata un colabrodo. Se l'epidemia attecchisse a Sud sarebbe disastro conclamato.
Il numero dei contagiati aumenta in modo esponenziale. Che fare?
Non sono mancati coloro per i quali era meglio far finta di niente.
Suvvia, il flagello non è poi tale: solo il 10/12% abbisogna di cure intensive e, tra questi, solo una sparuta minoranza muore. Una minoranza di vecchi o/e spesso affetti da serie patologie pregresse, derubricati dall'essere “persone”. Il sopravvenire di una forte insufficienza respiratoria, derivante dalla polmonite da virus, li sospinge a varcare più celermente l'ultima soglia. Il loro destino era già segnato. In definitiva il virus coronato porta a compimento la “naturale selezione della specie”, in virtù della quale i più inadatti soccombono.
Eppure, con l'espandersi del morbo e l'insufficienza di posti in terapia intensiva, alla “selezione naturale” se ne va aggiungendo una tutta sociale: verrà curato prima chi ha maggiori aspettative di vita (o qualche santo in paradiso o un cospicuo conto in banca) e per gli altri si vedrà.
Osservate lo strano fenomeno: il partito del Pil “brutto e subito” non vuole riconoscere il ripristino del limite, quindi è pronto a ripiegare sul tanto rumore per nulla. Il suo sottinteso motto è convivere con l'epidemia, lasciando che muti in endemia. Non tollera che qualsivoglia priorità pubblica sia anteposta al privato interesse, strappando il velo ideologico per cui quest'ultimo coincideva con l'interesse generale. Reagisce come per le concessioni autostradali, dopo il crollo del ponte Morandi. Sospetta che una volta usciti dall'emergenza potremmo essere tentati di aumentare stabilmente la spesa sanitaria, dopo averla ridotta di ben 37 miliardi negli ultimi 10 anni, diligenti esecutori dell'austerità di bilancio europea. Potremmo, addirittura, rivedere le privatizzazioni, altro vanto non solo leghista, che dovevano rendere migliore il sistema delle cure e lo hanno invece indebolito strutturalmente.
Passata la buriana, capovolgeremo le priorità acquisite?
Zona rossa
Crescendo il contagio, i posti in rianimazione non bastano. Ammettere la deriva endemica, senza che la curva al suo picco inverta la tendenza, conduce al disastro. Meglio evitare il peggio ed il governo corre ai ripari, ma esita, avendo scelto di somministrare la cura per gradi. Unicamente per tema che la popolazione non lo segua? O perché pressato non solo da Confindustria?
Tra l'altro mancano le mascherine ed i dispositivi di protezione individuali, riservati al mercato autarchico da Francia e Germania. Ah, i nemici giurati del nazionalismo! Si decide pure di potenziare la filiera italiana di produzione delle macchine per la terapia intensiva. Almeno disponiamo di una buona produzione bresciana di tamponi e dalla Cina si annunciano rifornimenti. Nell'occasione, aspettando Godot Europa, si batte la via della Seta. Continueremo a farlo anche in futuro, anche se Washington non vuole?
La minaccia del virus innervosisce i liberisti del farmaco. Si capisce che Big Pharma non ha alcuna convenienza a scoprire rimedi definitivi, cosiddetti one-shot, qual è un vaccino. Preferisce continuare a fare fatturato sulle malattie endemiche. Big Pharma e Partito del Pil “brutto e subito” uniti nella lotta.
Le multinazionali del farmaco non investono affatto sulla ricerca di lunga durata, ritenendo più redditizio campare, alla grande, sul percolato di quella finanziata dai soldi pubblici, in un meccanismo già descritto che oggi si ripete.2 Urge un cambio di paradigma che anteponga il pubblico al privato. Ne saremo capaci o dimenticheremo la lezione impartita dal coronavirus?
Nell'emergenza la verifica d'apprendimento è rimandata. Ci tocca fare come in Cina, a Wuhan e nell'Hebei, se ne siamo capaci, fino, eventualmente, all'ultimo gradino: il coprifuoco generale.

Un forte aumento del deficit di bilancio, ben oltre l'interpretazione “elastica” dei vincoli fissati dai parametri, s'impone. Il vagante e mutageno virus dev'essere fermato subito e non si può lasciare senza reddito chi di lavoro vive ed è costretto a restare a casa. È necessario metter mano alla borsa in Italia e in Europa. Eppure, nell'emergenza continentale, non sentiamo risuonare un perentorio “Whatever it takes”,3 come quando Mario Draghi volle salvare l'euro. Che la salute pubblica valga meno della moneta unica?
Stress-test
A Bruxelles si vive in un'altra dimensione. Alla prossima riunione dell'Eurogruppo, la pandemia è solo al terzo punto della discussione, dopo il MES ed il backstop per mettere al sicuro le grandi banche, tra le quali Deutsche Bank. La riforma del MES, detto fondo salva-Stati, non va approvata ed ogni decisione in merito almeno rimandata.
Attenzione, qui lo snodo politico è dirimente.
I 25 miliardi del nuovo fondo, annunciati da Ursula von der Leyen, sono pochini, rapportati a tutti i Paesi dell'Unione. Se verranno stornati da altri impieghi previsti, non meno solidali, sarebbe una beffa. Ad ogni modo, non si potrà continuare a giocare con i tempi e con le poste di bilancio, come fece la principessa tedesca del bluff quando presentò lo european green deal.4
Dovendo sforare i parametri di bilancio, l'Italia rischia un aumento sostanziale degli interessi sul debito pubblico, dovuto al dilatare dello spread, inevitabile conseguenza di un sistema a moneta unica con debiti nazionali separati. Verranno finalmente emessi i tanto invocati euro-bond per finanziare la lotta solidale al coronavirus? Adesso o mai più.
A questo concreto stress-test, il secondo dopo l'ultima crisi del 2007-2008, le famigerate regole di bilancio europee mostrano di non reggere la realtà. Non sono servite a prevenire, anzi hanno imposto il disarmo delle nostre difese sanitarie; ora ci caricano di interessi sul debito; domani ostacoleranno la ripresa dalla recessione. Fino a che punto saremo disposti a sopportarle?
Lega e Fratelli d'Italia attendono al varco le forze di governo.
Dopo avere ondeggiato, per settimane, tra la richiesta di estreme misure e, al contrario, l'invocazione al ripristino “normali attività economiche”, in sintonia con il partito del Pil “brutto e subito”, la Lega ha optato per la linea lombarda di Attilio Fontana. Salvini, l'indeciso decisionista, ha deciso e, insieme alla Meloni, ha chiesto un supercommissario con pieni poteri, magari un militare.
Non sorprenda che l'idea, in sé fascistizzante, sia condivisa anche dai “giornaloni” e da chi, a suo tempo, ci impose il “podestà straniero” – ovvero Monti da Varese – e non vede l'ora di sbarazzarsi di un governo con il M5S in posizione di maggior forza parlamentare.
La scala con i pioli rotti
Incombe la recessione economica. In Europa era già in viaggio, annunciata dalla caduta della produzione industriale tedesca, mentre, all'opposto, si gonfiava la bolla finanziaria. Un po' ovunque i valori azionari salivano, mentre i dividendi scendevano.
Da New York Federico Rampini5 ci informa: «Nel primo mese di allarme sanitario gli investitori avevano mantenuto la calma: l'ultimo record degli indici azionari americani risale a soli dieci giorni fa, il 19 febbraio. Eppure l'impatto del coronavirus era già presente....»
Anche Stefano Feltri, sul Fatto Quotidiano dell'11 marzo, ci avverte da Chicago che il Covid-19 può far detonare la bomba finanziaria globale.
Aprendosi il vuoto nella sottostante “economia reale”, di cui l'invasivo virus è causa immediata e concausa generale, la soprastante corsa finanziaria si avvede del vuoto e precipita.

Un altro “cigno nero”? Per definizione il “cigno nero” è unico. Non ammette repliche. La globalizzazione liberista appare sempre più un sistema in preda a ricorrenti “cigni neri”. Che sia giunta al capolinea?
Riflettiamo un attimo sulle decantate virtù della catena delle forniture, alias supply chain. Il fermo delle fabbriche cinesi nell'Hebei ha bloccato i montaggi di prodotti finiti anche in Italia. Ma nel momento in cui nell'impero celeste si ricomincia a lavorare, il morbo cosmopolita ferma il lavoro a casa nostra...
La globalizzazione garantiva economie di scala su scala mondiale: il miglior prezzo di ogni pezzo per la ottimizzazione dei costi del prodotto finale. Cosa meglio per i consumatori?
Sennonché, la promessa di godimento universale per gli acquirenti veniva smentita dall'impossibilità di comprare per molti di loro, in quanto disoccupati a casa propria, proprio per via delle delocalizzazioni, o con salari immiseriti dal dumping della competizione senza frontiere.
Dal coronavirus ci giunge ora una seconda smentita, poiché i pioli dell'economia di scala si sono rotti.
Aggiungiamo una ulteriore considerazione. Sulla efficienza di un tale sistema i più avveduti avevano avanzato argomentate critiche, giacché i prezzi non contenevano i costi reali, umani ed ambientali, connessi alla dislocazione delle produzioni in luoghi di intensivo sfruttamento del lavoro ed a grande distanza, con il conseguente moltiplicarsi dei trasporti di collegamento inquinanti (aerei, navi portacontainers, ecc.).
Quali nuovi calcoli di efficienza dovremmo fare?

La terra promessa dalla globalizzazione si rivela una chimera, mentre l'idea di un mondo senza limiti, privo di membrane osmotiche, protettive e dialoganti, è solo un potente valium somministrato a società in opulente (e cieca) decadenza.
Non tutto il male vien per nuocere: la recessione fa bene all'ambiente, il CO2 cala, l'aria è più respirabile.
Tra i limiti, quello alla continua crescita sembra cominciare a prendere inaspettata consistenza anche agli occhi che non volevano vedere. Il pianeta non sopporta più il suo depredamento, dovuto all'assunto che infinita sia la ricchezza naturale – dalla quale ogni ricchezza discende - di cui disporre per espandere vieppiù le produzioni, alla base, e generare infiniti profitti, assorbiti da un ristrettissimo vertice. Nemmeno sopporta di essere attraversato da una miriade di cose, delle quali potremmo disporre a chilometro zero.
Tanto più se, come avviene, non si produce per consumare secondo bisogno, ma si deve consumare il superfluo per produrre oltre ogni limite, pur continuando a mancare l'essenziale. Per esempio la pubblica sanità.


Post scriptum
Chiudo l'articolo il 13 marzo 2020, ore 17,30.

Note
1 Régis Debray, “Elogio delle frontiere”, add editore, 2012 (Gallimard, 2010).
2 Mariana Mazzuccato, “Il valore di tutto – Chi lo produce e chi lo sottrae nell'economia globale”, Laterza, 2018. Vedasi anche in questo Blog, “Non hanno paura di Greta. Perché? [2]”, 10/2019.
3 Traducibile “Ad ogni costo”.
4 Anche Greta Thunberg l'ha definito largamente insufficiente. Vedi in questo Blog, “Il nostro uomo sulla luna”, febbraio 2020.
5 Federico Rampini, “Virus, il 'cigno nero' che ci fa ripensare la globalizzazione”, la Repubblica, 29 febbraio 2020.