lunedì 16 maggio 2016

Sovranità a referendum

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Lasciti del referendum sulle trivelle. Governabilità, riforma costituzionale ed elettorale. Il voto diseguale. Poteri concentrati. Repubblica dell'esecutivo. Modalità referendarie.
  • Dal referendum sulle trivelle un'anticipazione dello scontro d'autunno sulla riforma costituzionale.
  • Uno strano 2013. Ripercorrerne gli eventi aiuta a meglio focalizzare il contesto politico da cui sono scaturite la riforma elettorale e quella costituzionale.
  • L'eventuale convalida del ddl Boschi conduce, come affermano i suoi ideatori, alla nascita della Seconda Repubblica.
  • È in gioco la sovranità.
Un referendum preliminare
La rottamazione è un concetto di epoca industriale. Nel senso comune richiama immediatamente il fine vita di un'auto oramai consumata e, appunto, da rottamare. Secondo il dettame ecologico post-industriale, politicamente corretto, alla dismissione deve seguire recupero e riciclaggio.
Trasferita nell'ambito politico, la rottamazione renziana ha avuto un'applicazione particolare. A venire recuperata e riciclata non è stata, diciamo così, la “carrozzeria”, bensì il “motore”, rappresentato, nel caso, dal gruppo di interessi lobbistico dell'energia fossile nazionale ed internazionale, nella persona del ministro dell'Economia Pier Carlo Padoan.1
Pier Carlo Padoan
Questi,
liberista e docente universitario, era stato direttore della Fondazione Italianieuropei, il centro di ricerca dedicato ai temi di politica economica e sociale voluto da Massimo D'Alema, il “rottamato” per eccellenza. 
Una scelta non occasionale e coerente col decreto legge “Sblocca Italia”, volto a ridare fiato all'economia all'insegna di “non importa come, purché si faccia”. In questo modo il governo ha “sbloccato” trivellazioni ed oleodotti, elevandoli al rango strategico-nazionale e sottraendoli alle prerogative locali; ma, incontrando l'opposizione di ben 7 Regioni2 anche governate dal PD, si sia dovuto ricredere, lasciando comunque nel piatto la polpetta avvelenata (residuale, se si considera quanto ha dovuto rimangiarsi) di un solo quesito referendario su cui rivalersi. L'espediente gli ha permesso la vittoria. Nel referendum del 17 sulle trivelle ha prevalso l'astensione, ma l'immagine innovativa ed ambientalista del governo ne è uscita deturpata.
Oltretutto, è emersa la sua propensione a sottrarre alle Regioni importanti poteri, accentrandoli a Roma. In questo modo ha offerto un'anticipazione delle conseguenze pratiche della riforma costituzionale Boschi, laddove riordina, in particolare sull'energia e sulle infrastrutture, il rapporto con le autonomie locali a favore del governo. Un concreto assaggio di cosa significhi la riforma rispetto alla sovranità popolare sui territori.
Infine, cosa implica una vittoria conseguita tramite l'invito esplicito, da parte del governo, a disertare le urne dalle quali istituzionalmente dovrebbe passare l'esercizio della volontà popolare?
Senza dubbio si è trattato di un referendum di posizionamento, in vista del prossimo appuntamento referendario d'autunno sulla Costituzione e nell'ambito di uno scontro politico di più vasta portata, di cui vanno indagati i termini reali.
A cominciare dal modo in cui si è affermato l'esecutivo attualmente in carica.
Mezzi giustificati dal fine
Una rilettura del 2013, più precisamente del periodo intercorso tra le elezioni politiche e la nascita del governo Renzi3, può indurre a due errori.
O individuare una specie di “complotto” nel suo “strano” svolgimento, come se l'esatta concatenazione degli eventi fosse stata preordinata da una “cupola segreta”; o, per l'estrema difficoltà di preordinare una così intricata sequenza, concludere sbrigativamente che fu un “farsi quotidiano”, privo di una sua trama di fondo e di poteri capaci di tesserla.
Le elezioni politiche del 2013 si erano tenute secondo il maggioritario di coalizione della legge Calderoli (Porcellum), non conducendo né al bipolarismo “destra” versus “sinistra”, né alla stabilità di governo basata su una maggioranza il cui programma avesse raccolto il consenso degli elettori.
Questo fallimento avrebbe potuto portare l'insieme delle forze politiche e la presidenza della Repubblica a riconsiderare sia il maggioritario sia le liste bloccate, prima che fosse la Corte costituzionale a farlo. Tanto più in considerazione del consistente successo del M5S e dell'assetto “tripolare” assunto dal sistema, segnato da una “fuga dalle urne” di portata storica4.
In altri termini, avrebbe potuto spingere la “classe politica” a rinnovarsi, per cercare di rigenerare i legami tra “rappresentanti e rappresentati”.
Assistemmo, al contrario, al ripetersi di vecchie logiche di Palazzo, al precipitoso abbandono dei vantati programmi5, serviti al dunque solo per “acchiappare” consensi, e, poi, ad una serie infinita di “cambiamenti di casacca” dei parlamentari, da un partito e da uno schieramento all'altro, quasi sempre in direzione del governo e del sottogoverno.
Assistemmo al Patto del Nazareno su riforme istituzionali rispetto alle quali le due forze contraenti si erano presentate agli elettori su posizioni antitetiche, salvo poi ritrovarsi in sintonia (con Renzi al posto di Bersani).
Ma fu solo il prologo di un'ulteriore torsione in direzione della “governabilità”, perseguita con ostinazione e attraverso mezzi anche “non convenzionali”.
Questi mezzi gettano un'inquietante luce sul fine.
Giorgio Napolitano
Si pensi sia al modo in cui fu reinsediato pro tempore Napolitano, sia al modo in cui Matteo Renzi è diventato presidente del Consiglio. Nel primo caso, la defezione dei 101, che bocciò Romano Prodi aprendo la via a Napolitano, comportò le dimissioni di Bersani da segretario del PD. Nel secondo, Renzi divenne premier su incarico di Napolitano, in quanto nuovo segretario del PD stesso. Un valzer sorprendente.
Tra i due avvenimenti, il “governo delle larghe intese” di Letta appare come il viatico temporalmente necessario per perseguire l'obiettivo.
Sicché, stando ai fatti, l'attuale governo e la sua fase ri-costituente sono stati avviati in base a:
  1. Una oscura manovra di Palazzo (la predetta defezione dei 101).
  2. Un cambiamento di programma, di linea e di leadership interna ad un partito, il PD, determinato da regole sue “private” e non “pubbliche”, in barba alle elezioni appena svolte.
  3. La dote di un premio di maggioranza conseguito dal PD, da un lato grazie al Porcellum ed in violazione della Costituzione, e dall'altro in virtù di un programma e di una coalizione (di Bersani) ripudiati.
Quanto vale un voto
Dagli svolgimenti dello strano 2013 abbiamo ereditato un duplice peso specifico arbitrario assegnato al voto dei cittadini: l'uno, derivante da un voto particolare e parziale, “privato”, nelle elezioni riguardanti il solo PD (con regole sue autodefinite, ad hoc), posto al di sopra di quello repubblicano per decisione del Presidente; l'altro, derivante dal premio di maggioranza conseguito in base al Porcellum.
Senonché, la successiva legge elettorale (Italicum)6 ha confermato il meccanismo premiale ed accentuato la differenza di peso specifico assegnato al voto. Per eleggere un rappresentante di minoranza serviranno ancor più voti di quelli necessari ad eleggere un rappresentante di maggioranza. La divaricazione, che contraddice il fondamentale principio di uguaglianza dei cittadini, è evidenziata dal rapporto tra i due quozienti: un deputato di minoranza risulterebbe eletto con 3,67 voti o addirittura 4,02, mentre nel 2013 ne sono bastati 2,75.
Ne consegue che le opposizioni vengono marginalizzate. Ad esse, pur godendo tra il 75% ed 65% dei suffragi al primo turno, toccherebbe, comunque e nel loro insieme, il 45% dei deputati.
Di converso il futuro governo godrebbe di una base parlamentare ampia e, tramite il prevalere del numero di “nominati” sui “preferiti”, docile ed obbediente.
Secondo l'ideologo renziano della Seconda Repubblica, dovremmo essere felici di tutto ciò. Già in Francia, ai tempi in cui era commissariata da Charles De Gaulle in occasione della crisi algerina, il rapporto tra Parlamento e Governo venne brillantemente risolto a favore di quest'ultimo, rafforzando la “Europa della decisione” e sconfiggendo quella della “impotenza”. Colmeremmo semplicemente un ritardo storico, completando una “transizione” lunga 70 anni.7
Efficienze
Veniamo alla riforma costituzionale Boschi8 che, insieme all'Italicum, genera il “combinato disposto”.
Anche per la riforma costituzionale la motivazione addotta, ovunque rintracciabile, è di natura pragmatico-funzionale.
Una volta dismesso il “bicameralismo perfetto” e la relativa “navetta tra Camera e Senato”, il percorso legislativo sarebbe snellito, reso più rapidamente “produttivo”, in altri termini più “efficiente”.
Secondo argomentate critiche la maggiore funzionalità non sarebbe per nulla garantita dalla nuova normativa, perché scritta in modo farraginoso e prefigurante una pluralità di «procedimenti legislativi differenziati, a seconda delle diverse modalità di intervento del nuovo Senato.»9
Il persistere di una zona grigia tra le competenze affidate alle Regioni rispetto a quelle dello Stato, è rafforzata dalla mutevole durata del mandato dei senatori, non coincidente con quella dei deputati della Camera, perché dipendenti dalla durata dei Consigli Regionali in carica. Con il variare della composizione di questi ultimi cambierebbero le maggioranze politiche al loro interno e, dunque, gli orientamenti del Senato. Ciò, dato il numero di senatori ed i poteri loro rimanenti, non destabilizzerà il governo, ma potrebbe complicare ulteriormente i rapporti tra i due rami del Parlamento, invece di semplificarli.
Michele Ainis
Sull'efficienza, dalle colonne del Corriere della sera, il costituzionalista Michele Ainis10 obietta: «Una maggior concentrazione del potere dovrebbe assicurarla, però non è detto, dipende dalle complicazioni della semplificazione. L’iter legis, per esempio: qui danno le carte soltanto i deputati, tuttavia il Senato può emendare, la Camera a sua volta può respingere a maggioranza semplice, ma talora a maggioranza assoluta. Mentre rimangono pur sempre 22 categorie di leggi bicamerali. Insomma, dalla teoria alla prassi il principio efficientista rischia di rivelarsi inefficiente. E voi, siete teorici o pragmatici?»
Poteri concentrati
Tuttavia, l'aspetto principale consiste proprio nell'accennata concentrazione dei poteri, derivante dalla combinazione con la nuova legge elettorale.
Attraverso il maggioritario di lista “secca” (coalizioni escluse), i deputati della lista vincente al ballottaggio, si troverebbero nella condizione, da un lato, di votare la fiducia al governo e di legiferare e, dall'altro, di scegliersi il Presidente della Repubblica, il suo Supplente, un determinante numero di giudici della Consulta11 e di membri laici del Consiglio superiore della Magistratura (Csm).
Ne esce sconvolto la pluralità dei poteri, dei “pesi” e “contrappesi”, di governo e di controllo, ma anche il loro decentramento.
Nello stesso articolo, Michele Ainis scrive: «Primo: il potere. La riforma lo concentra, lo riunifica. Una sola Camera politica (l’altra è una suocera: elargisce consigli non richiesti). Un governo più stabile e più forte, senza la fossa dei leoni del Senato, che ha divorato Prodi e masticato tutti i suoi epigoni, nessuno escluso. E uno Stato solitario al centro della scena. Via le Province, pace all’anima loro. Via le Regioni, cui la riforma toglie di bocca il pasto servito nel 2001, sequestrandone funzioni e competenze: dal federalismo al solipsismo. Perciò il decisionista Carl Schmitt voterebbe questo testo, l’autonomista Carlo Cattaneo lo disapproverebbe. Voi da che parte state?»
Oligarchie
Roberto Scarpinato
Un chiarimento a questo proposito ci viene direttamente da un magistrato in prima linea. Roberto Scarpinato, procuratore di Palermo, in un'intervista a la Repubblica12, afferma: «Si è avviato un complesso e sofisticato processo di reingegnerizzazione oligarchica del potere che si declina a livello sovranazionale e nazionale lungo due direttrici. La prima è quella di sovrapporre i principi cardini del liberismo a quelli costituzionali trasfondendo i primi in trattati internazionali e trasferendoli poi nelle costituzioni nazionali.»
A questo proposito Scarpinato propone, come esempio cardine, l'inserimento dell'articolo 81 nella Costituzione, che fissa l'obbligo del pareggio di bilancio sopra ogni altro diritto sancito nei valori fondanti.
Quindi prosegue: «La seconda direttrice consiste nel trasferimento dei centri decisionali strategici negli esecutivi nazionali, declassando i Parlamenti a organi di ratifica delle decisioni governative e sganciandoli dai territori tramite la selezione del personale parlamentare per cooptazione elitaria grazie a leggi elettorali ad hoc.»
In termini più stringenti, le “forze che governano i mercati”, ossia le oligarchie economico-finanziarie internazionali ed europee, mirano a creare un sistema politico oligarchico a propria immagine e somiglianza. Per raggiungere lo scopo devono rendere subalterne le Costituzioni ai loro interessi e disporre di esecutivi che possano decidere senza dovere rendere conto ai popoli, ai parlamenti e ad altre istituzioni dello Stato. Devono esautorare la sovranità democratica, nazionale e territoriale, per imporre una “nuova” sovranità dello Stato confacente al loro potere oligarchico.
Come si vede il problema è sì di efficienza, ma funzionale a poteri “altri” e opposti a quelli popolari.
Plebiscito
La riforma Boschi investe più di 40 articoli della Costituzione e muta la forma di governo: alla Repubblica parlamentare subentra una Repubblica imperniata sull'esecutivo e sul Capo dell'esecutivo.
Non è una semplice revisione, prevista dall'art. 138 della Carta del 1° gennaio 1948. Viene introdotta un'altra Costituzione. Essa ordina nella normalità la forza decisionale di un accentrato potere governativo, che è già stato e viene praticato. Ne è la convalida.
Il premier trasforma il referendum in plebiscito, su di sé perché si è auto-attribuito l'interpretazione autentica della volontà popolare: si sente il portatore della “legittimità” ri-costituente della Seconda Repubblica rispetto alla “legalità” costituita della Prima.
Al decisionismo non può che corrispondere, a suggello, un plebiscito ultimativo. Infatti, il governo Renzi vuole non sia concesso ai cittadini di convalidare singole parti della riforma Boschi oppure respingerle: o tutto o niente.
Il suo carattere ultimativo è nell'aut aut “o con me o contro di me”, ascrivibile al ferreo dualismo amico-nemico. Il gergo appare bonariamente calcistico. I nemici sono chiamati “gufi”, ma, per il loro “tifo” contro il “gioco di squadra” del governo che “prova a governare”, sono imputati del peggior crimine politico-morale: di anteporre il proprio tornaconto particolare e fazioso al bene generale e supremo dell'Italia.13
Una volta ripristinata l'unità di forma e contenuto nella ri-costituita Repubblica, alla maggioranza del demos e all'esercizio della sua sovranità resterebbe, sul piano istituzionale, solo l'eventuale ricorso a strumenti diretti14 e, per le rappresentanze all'opposizione, il diritto di tribuna.
Nel governo, e in capo al premier, si concentrano i poteri della Repubblica. Rimane in campo una rimaneggiata indipendenza della Magistratura, sulla quale si vanno concentrando i più furiosi attacchi.
Tutto ciò in un Paese già considerato a scarsa libertà d'informazione cartacea e televisiva, con un personale politico partitico screditato dalla penetrazione mafiosa e dalla corruzione.
Incertezze
È ancora incerto se il referendum si svolgerà secondo le intenzioni del governo, con un Sì/No secco a tutta la riforma Boschi.
La riforma non ha ottenuto la maggioranza parlamentare dei due terzi, sicché, secondo le norme vigenti15, la richiesta di referendum può essere presentata da un quinto dei membri di una Camera, da 500.000 elettori o da cinque Consigli regionali.
I parlamentari della minoranza PD non hanno firmato la richiesta approntata dal governo perché: ”E' giusto che siano le opposizioni a farlo altrimenti sembra si voglia il plebiscito.”
Pure la data della consultazione è incerta.
Tempi e modi influiranno sulla consultazione, spostando l'accento sui contenuti della riforma o sul “prendere o lasciare” di riforma ed annesso governo.
Qualsiasi sia l'esito anche di questa contesa, ritengo che, in caso di vittoria del Sì, vada preso sul serio l'allarme lanciato da Nadia Urbinati: «Se finisse nelle mani sbagliate, con un'altra maggioranza, ci sarebbe da rabbrividire».16
Con un'osservazione aggiuntiva.
Non mi pare indispensabile paventare il peggio per essere allarmati, quando si comprenda come è maturata la svolta, in cosa consista la Seconda Repubblica e quali poteri reali porti con sé.
***
Appendici:
  1. Uno strano 2013
  2. Porcellum & Italicum
  3. La riforma costituzionale
1 Come si evince dalle affermazioni dell'ex ministro dello Sviluppo Federica Guidi, nelle intercettazioni telefoniche riguardanti l'inchiesta giudiziaria sul suo ex compagno Gianluca Gemelli.
2 Le Regioni che hanno posto in essere i referendum abrogativi.
3 Vedi nel Blog: “Uno strano 2013”, Appendice 1 di questo post.
4 A questo proposito si veda: Federico Fornaro, “Fuga dalle urne”, Epoké, 2016.
5 La legge elettorale Calderoli ne imponeva il deposito contestuale alla presentazione delle liste.
6 Vedi il confronto tra i due sistemi elettorali nel Blog: “Porcellum & Italicum”, Appendice 2 di questo post.
7 È quanto si evince dal libro “La transizione è (quasi) finita” di Stefano Ceccanti, Giappichelli editore, 2016. Un testo sul quale è necessario ritornare.
8 Vedi in questo Blog: “La riforma costituzionale”, Appendice 3 di questo post.
9 Appello per No al ddl Boschi firmato da 56 costituzionalisti, La Repubblica, 24 aprile 2016.
10 Michele Ainis, “Le spine e la rosa: al referendum vince o perde l’Italia (non Renzi)”, Corriere della sera, 11 aprile 2016.
11 I 15 giudici costituzionali sono nominati: 5 dal Presidente, 5 dal Parlamento; 5 dalle supreme magistrature ordinaria ed amministrativa.
12 Roberto Scarpinato, “Il nostro compito è vigilare sui politici fedeli alla Carta più che alla legge”, la Repubblica, 11 maggio 2016, intervista di Liana Milella.
13 Sia il rapporto tra “legale” e “legittimo” che quello tra “amico” e “nemico” sono agiti secondo le “categorie del politico” presenti nel testo di Carl Schmitt citato prima in questo scritto e, non a caso, assunto a riferimento critico anche da Michele Ainis.
14 La riforma Boschi promette di ampliare lo spazio dei diritti referendari, rimandandone però la normativa ad un'ulteriore riforma costituzionale.
15 Art. 138 della Carta, con procedura disciplinata dal titolo I della legge 25 maggio 1970, n. 352
16 Nadia Urbinati, neo-presidente di Libertà e Giustizia, “Renzi vuole il plebiscito per non spiegare la verità”, Il Fatto Quotidiano, 23 aprile 2016, intervista di Luca De Carolis.

Appunto quasi teorico
I sostenitori dello Stato come “sovranità della mediazione politica” avrebbero di che rallegrarsi. Le tensioni tra Società e Politica sono state contenute e mantenute nella Norma, grazie al Presidente.
Il Paese non è caduto nella ingovernabilità; ha potuto superare lo stallo politico e rispondere alle urgenze interne della crisi; ha fatto fronte ai suoi improcrastinabili impegni europei ed internazionali. E, comunque la si pensi, pur sempre al popolo è rimandata la decisione, l'ultima parola referendaria.
Tutto quadra? Sia lecito dubitarne.
La mediazione si è avvalsa di mezzi ad un tempo istituzionali, extra-costituzionali ed extra-parlamentari, per nulla trasparenti, elevando la governabilità ad un pressoché assoluto imperativo categorico, rispetto alla fonte prima dalla quale dovrebbe sgorgare la sovranità: il popolo italiano.
Si badi bene: la governabilità si presenta come un'astratta e superiore ragione pragmatico-funzionale, ma corrisponde poi all'affermazione concreta di un governo politico, affatto neutrale e slegato dai poteri delle “cerchie” dominanti, fattosi primo motore di riforme istituzionali tali da rimodellare la Repubblica.
Il governo si è pre-costituito come potere costituente. Non restituisce al popolo, in una nuova Carta, il frutto della sua lotta democratica. Gli chiede di convalidare a posteriori non una revisione, ma una vera e propria ri-costituzione dall'alto, prodotta in dubbia legalità, su misura di oligarchie economico-finanziarie e sotto la pressione dello stato di crisi.
Lampante è la contraddizione tra le scelte politiche a cui fu chiamato il popolo italiano, nell'esercizio elettorale della propria sovranità, ed il risultato di governo in cui i vari passaggi, intra ed extra-istituzionali, hanno tradotto il suffragio universale.
Palese la contraddizione sostanziale con l'articolo 1 della Costituzione.
Pertanto, insieme ai sostenitori della “sovranità della mediazione”, avrebbero ragione di rallegrarsi anche i sostenitori della “decisione sovrana”, che vorrebbe imporsi sulla Resistenza dei popoli, oggi come ieri.

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