Mentre
Tito Boeri annuncia che i trentaseienni andranno in pensione (da
fame) a 75 anni, c'è chi sostiene: «gli
anziani sono diventati più benestanti a spese dei giovani».
Continua il dibattito sulle pensioni italiane, luogo di certezze matematiche e di stress politico.
Spesso
gli articoli su carta stampata e in Rete, dopo sguardi sconsolati ai
conti dell'INPS, recriminazioni sul passato clientelare della prima
Repubblica (tempi d'abbondanza!) e critiche alla Fornero, diventata
il parafulmine delle politiche di Monti, si concludono nel solito
scontato modo: gli anziani sono privilegiati a danno dei giovani.
Al
refrain
non si sottrae nemmeno Stefano Feltri1,
confluendo nella corrente di pensiero che vede nel conflitto tra
generazioni, con i vecchi a farla da padroni, la ragione della
iniquità previdenziale.
Sicché
al lettore rimane l'impressione che la Fornero sia stata solo
piuttosto maldestra (i “tecnici”, si sa, vanno per le spicce),
nel perseguire una pur giusta linea politica di riequilibrio, tesa a
salvaguardare i giovani togliendo agli anziani, pensionati e
pensionandi.
Paradigmi
di politica economica
Riposizioniamo
il problema.
Le
pensioni del sistema retributivo stavano in relazione sistemica con
le remunerazioni del lavoro, il welfare
ed il ruolo attivo dello Stato in una data economia, tra il secondo
dopoguerra e la fine degli anni settanta del '900. Tenere i livelli
pensionistici un po' sotto, ma non troppo, rispetto a salari e
stipendi, con questi ultimi aggiornati tramite scala mobile e
contratti nazionali di lavoro, serviva a corroborare i consumi, a
dare sbocco alle produzioni e, complessivamente, a reggere il Pil con
il connesso gettito fiscale. Nel paradigma keynesiano
tout se tient.
Con
le riforme liberali e l'adesione all'economia globalizzata “di
mercato”, in cui lo Stato non è la soluzione ma il problema
(Reagan), si ridiede vita al paradigma liberista, deregolamentando
flussi di capitali, localizzazioni produttive, lavoro, dipendente ed
autonomo, e quant'altro. Dulcis in fundo, in Italia il sistema
pensionistico adottò il “contributivo”. E poi, tardivamente,
tramite aiutini fiscali si facilitò la nascita di Fondi pensione con
i Tfr (cointeressando le élites sindacali) e la
sottoscrizione di pensioni integrative private. Pure in questo
paradigma “tutto si doveva tenere”.
Per
troppi, Sergio Cofferati compreso, l'insieme era ben congegnato.
Senonché, a dispetto della perfezione in sé del modello
matematico-assicurativo, il paradigma generale liberista mostrò il
suo vero interno scopo. Per farla breve: i ricchi si arricchirono, i
poveri sprofondarono e la middle class vide sfoltirsi di molto
le sue fila. In particolare, il lavoro subì un possente attacco
salariale ed occupazionale, precarizzandosi strutturalmente. Potevano
le pensioni restarne fuori? Ciò che all'interno del passato
paradigma era considerato “normale”, divenne in quello ad esso
subentrato un “insopportabile privilegio”. Come se a ridurre
giovani e lavoro in queste misere condizioni non sia il perdurante
liberismo, bensì le vestigia dell'economia postbellica. Come se la
insostenibilità degli esborsi pensionistici non derivasse dalla
insostenibilità sociale del paradigma liberista, che ha sconfessato
nei fatti ogni sua promessa di “roseo avvenire”.
Poiché
il crack finanziario del 2007-2008 e la recessione ne
sancirono il fiasco storico, ma non il suo superamento politico, ora
si arranca alla ricerca di rattoppi.
Pezze
Tutto
ciò non è accaduto in un giorno.
In
itinere, i tempi di passaggio dal “retributivo” al
“contributivo”, prima diluiti (riforma Dini), sono stati a più
riprese accorciati, in misura però mai bastevole. Ed oggi, per non
deprimere troppo i giovani assicurati, l'INPS deve supporre, nelle
“buste arancioni”, un improbabile e costante aumento del Pil
nazionale negli anni a venire, se vuole dare a ciascuno di essi
l'idea che avrà una parvenza di pensione. Ma guai a gettare il
panico sulle aspettative giovanili, svelando la verità, pure la
Camusso si adombra.2
Pertanto,
in occasione dell'ennesima pezza al “contributivo”, relativa ai
pensionamenti anticipati, c'è chi propone di sottrarre ai già
pensionati quanto serve per rimettere in sesto i bilanci
dell'Istituto e del connesso debito pubblico, sollevando i giovani
lavoratori odierni dal peso di pagarne le perdite3
e sempre promettendo loro future pensioni meno penalizzanti.
“Domani
ti pago”, alla Totò
Incuranti
del fatto che, se ciò accadesse, il cane si morderebbe la coda
ancora una volta, giacché la domanda interna cadrebbe ulteriormente,
rafforzando il circuito vizioso deflazionistico e ne risentirebbe il
malandato Pil.
È
un déjà
vu.
Se non bastasse l'esperienza rovinosa del governo Monti, a questo
proposito si veda la Grecia: tagliando le pensioni, insieme ad altre
componenti del welfare,
il debito pubblico, invece di rientrare, cresce. E viene messa in
forse la stessa capacità
di “ristoro” dei suoi arcigni creditori internazionali.
Da
qui la schizofrenia che pervade il FMI, membro della Troika insediata
ad Atene, ma anche coloro che da un lato invocano tagli e sacrifici
e, dall'altra, visto l'esito deludente del Quantitative
easing
di Draghi, prospettano di “gettare soldi dall'elicottero”,
guardandosi bene però dal dirci quanti, quando, dove e, soprattutto,
a chi.4
Non
ripeterò il già scritto in questo Blog5
sul nostro sistema pensionistico. Mi limito ad una considerazione.
Come
il “retributivo” concorse a determinare il prolungamento della
vita, perseverare col “contributivo” accorcerà la vita ai vecchi
a tal punto che esso diverrà “sostenibile”, auto-convalidandosi.
Problema contabile risolto.
1
Stefano Feltri, “I pensionati non sono la priorità”, il Fatto
Economico, 20 aprile 2016. La citazione virgoletta nel sottotitolo è
tratta da questo articolo.
2
Vedi dichiarazione di Susanna Camusso del 20 aprile 2016 contro gli
avvertimenti di Tito Boeri, presidente dell'INPS.
3
Vigente la “ripartizione” di cassa, per cui il gettito corrente
dei versamenti contributivi paga le erogazioni pensionistiche
attuali.
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