mercoledì 19 novembre 2014

Storia recente che parla al presente

Riccardo Bernini - ottobre 2014

Storie

Storia recente che parla al presente

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I rapporti tra fascismo, liberismo e keynesismo. Successo delle socialdemocrazie. Eurocomunismo ed austerity. Il neoliberismo non muore per la crisi.

Keynes e Mussolini
Mesi fa Sergio Romano e Giorgio La Malfa1 hanno cercato di ricostruire i motivi per i quali il "Corriere" rifiutò l'offerta di collaborazione da parte di Keynes, dopo il successo del suo libro "Le conseguenze della pace" sulla conferenza di Versailles (1919). Pare per l'avversione che Mussolini, allora antigermanico e fautore delle riparazioni di guerra a favore delle potenze vincitrici, nutrisse per quanto sosteneva Keynes a questo proposito. Sul veto pesò anche la vicenda sorta attorno alla posizione di Piero Sraffa (oggetto della spalla di La Malfa), a Londra seguace di Keynes, che aveva avuto il torto di evidenziare la situazione in cui versavano le banche italiane. Un vero antitaliano, per i fascisti.
La Malfa ricorda l'atteggiamento compiacente della borghesia liberale milanese verso il fascismo2, mitigata dai ripensamenti di una piccola parte di essa dopo il delitto Matteotti.
Mentre Romano coglie l'occasione per manifestare un certo oltranzismo liberista. Riconosce che Keynes aveva ragione nel sostenere il deficit spending contro i difensori delle politiche di bilancio alla De Stefani3. Tuttavia, per Romano il keynesismo s'adattava meglio ai regimi autoritari: "Keynes non aveva torto, anche se la sua ricetta piacque a regimi autoritari, o poco inclini allo sviluppo dei traffici internazionali4, piuttosto che a Stati democratici e liberali."
A riprova porta l'entusiasmo suscitato in Mussolini dalla cooperazione istituzionalizzata (nella NRA5) tra governo-sindacati-imprenditori, messa in campo dal New Deal applaudito da Keynes. Nella recensione al libro del ministro dell'Agricoltura e collaboratore di Roosevelt, Henry Wallace, "Che cosa vuole l'America?", Mussolini accoglieva caldamente la novità della collaborazione istituzionalizzata perché vi intravvedeva una versione del suo corporativismo. Ma poiché quella "grande democrazia" disponeva di anticorpi, la NRA fu poi bocciata dalla Corte Suprema, al contrario di quanto successe in Italia.
"Niente è più mutevole della storia"
Il detto cinese è irridente. Canzonatorio ma acuto. Infatti, entrambi i commentatori saltano a piè pari un pezzo di storia e alcuni fatti rilevanti, dissimulando l'oggetto attuale del contendere.
Nell'immediato periodo postbellico e per i primi anni della dittatura, il fascismo fu liberista e la buona borghesia liberale non a caso ne fu affascinata. Alcuni studiosi hanno visto nel fascismo una primaria vocazione liberista, tale da rendersi violento strumento di ripristino del "libero mercato" contro le esigenze ed i vincoli posti dalla "società". Certamente il liberismo fu, per la borghesia, una bussola ben più importante della sua vocazione liberale, intesa come adesione alla liberal-democrazia. Transitoriamente poteva servire il fascismo in funzione antisocialista e antipopolare: l'obiettivo ben valeva una messa fascista! A questo allude La Malfa?
Ma la posizione di Mussolini, dopo il '29 e non immediatamente, cambiò. Obtorto collo, per il nazionalismo fascista. E la ragione della precedente avversione a Sraffa si comprende appieno in base al tentativo del governo di allora, ministro delle Finanze il liberista Alberto De Stefani, di convogliare sull'Italia investimenti dagli Stati Uniti in esuberante disponibilità. Mentre il sistema finanziario italiano è in palese difficoltà, gli americani, tra il 1913 e il 1929, hanno più che raddoppiato il prodotto nazionale e "l'eccedenza della bilancia commerciale ha comportato il versamento verso gli Stati Uniti di metà delle riserve auree del mondo."6 Era il tempo della famosa "quota novanta"7. Più tardi, appunto in seguito alla caduta di Wall Street, Mussolini cambiò rotta e, con l'aiuto di Beneduce, aderì di fatto al keynesismo. D'altro canto occorre ricordare che il New Deal ebbe pieno successo non prima, ma grazie all'impegno bellico. Un unico prolungato conflitto, svoltosi in due guerre mondiali dai connotati solo parzialmente diversi, avevano spostato il baricentro del sistema-mondo oltre l'oceano Atlantico.
Matrimonio e divorzio
Da quella storia, pertanto, possiamo evincere:
    1) il liberismo non fu affatto opposto al fascismo; il fascismo fu liberista nella sua prima fase, negli anni venti; e, anche in anni più recenti, come dimostra l'amore tra Cile di Pinochet e scuola di Chicago, fascismo e neoliberismo si sono felicemente coniugati;8
    2) il keynesismo fu adottato sia dalla "grande democrazia americana" che dal fascismo e dal nazismo, negli anni trenta del Novecento; ne fecero strumento per una crescita industriale trainata dalla produzione bellica;
    3) la distanza tra una politica economica orchestrata dall'insieme governo-imprenditori-sindacati (cooperazione negli USA di Roosevelt, concertazione9 dalla fine degli anni settanta in Italia) ed il corporativismo fascista non è poi tanto grande: appare diversa solo per i diversi gradi di istituzionalizzazione; il che, a scanso di equivoci, definisce anche diversi gradi di coercizione e repressione (assolutizzazione) verso gli esclusi.
Sull'orizzonte storico pesa la questione incombente e dirimente (non fu solo istintuale panico di classe), ossia come il capitalismo e l'imperialismo colonialista dovevano affrontare le conseguenze non tanto della pace, ma della Rivoluzione d'ottobre e di quel che conseguiva per il movimento operaio e per le lotte di liberazione nazionale. Il keynesismo10 di fatto salvò l'Occidente: dalla crisi prolungata successiva al '29 di Wall Street, ridando fiato alla crescita industriale e pieno sviluppo alla società dei consumi di massa; dalla concomitante decadenza della potenza inglese, permettendo che il suo baricentro si spostasse da Londra a New York; dal disorientamento ideologico, soppiantando liberismo e monetarismo e conferendo temporanea e rinnovata stabilità al sistema. Consentì poi all'Occidente atlantico a guida nord-americana di vivere i suoi "trenta gloriosi anni" nel secondo dopoguerra, pur se di glorioso per la grande maggioranza dei popoli del pianeta vi fu solo quello che derivava proprio dalle rivoluzioni contro quel sistema-mondo.
Il tardivo successo della socialdemocrazia europea
Le fortune delle socialdemocrazie politiche e sindacali, in quegli anni del dopoguerra, si ebbero nello spazio di mediazione tra la grande ondata rivoluzionaria11, la strategia di contenimento attuata con ogni mezzo dall'Occidente, compresa la guerra, e la necessità nei paesi confederati della Triade (USA, Europa, Giappone) di allargare la base di consenso popolare al proprio interno. Appunto tramite le politiche keynesiane che, appena la situazione internazionale e interna lo permise, vennero prontamente abbandonate, almeno per la parte riguardante le classi lavoratrici, non certo per il ruolo dello Stato a favore delle multinazionali e degli oligopoli. Liberismo per i poveri e keynesismo per i ricchi.12
In Europa il rapporto tra socialdemocrazia e comunismo ha vissuto fasi alterne, in forza delle quali la prima ha ceduto l'iniziativa strategica al secondo. Nel periodo precedente il primo conflitto mondiale, il movimento operaio era diviso tra riformismo e rivoluzione. La componente riformista fu spesso maggioritaria e la pratica politica della minoranza ne subiva l'iniziativa e ne veniva condizionata. Con l'adesione alle ragioni patrie della Grande Guerra, le socialdemocrazie si sottomisero alle superiori necessità del proprio imperialismo. Dall'Ottobre persero via via la leadership nel movimento operaio internazionale, al quale andava collegandosi l'imponente ed esteso movimento di liberazione anticoloniale e antimperialista. Al loro declino contribuì il partito socialdemocratico tedesco (SPD) con la repressione dei moti spartachisti.13
Nel secondo dopoguerra divennero forza di governo a pieno titolo, conseguendo un tardivo successo. In un quadro internazionale, politico ed economico nuovo, assunsero un ruolo di "mediazione" avendo come bersaglio il comunismo, con cui però rivaleggiare sul versante dello Stato Sociale e delle politiche salariali, fruendo degli spazi riformisti concreti offerti dall'affermazione delle ricette keynesiane e dallo sviluppo che esse garantirono. Quel successo è associato ai "trenta gloriosi anni" del capitalismo occidentale.
Dai primi anni '80 le socialdemocrazie europee finirono, tuttavia, per aderire al neoliberismo, alla sua globalizzazione e al dominio della finanza. I suoi connotati riformisti e di sinistra sono andati rapidamente stemperandosi, in modo tale da non essere più riconoscibili. Come meravigliarsi se agli occhi dell'opinione pubblica contemporanea "destra" e "sinistra" appaiono identità desuete e prive di consistenza politica?
Austerità ante litteram
Nel nostro Paese, questi passaggi hanno avuto un loro particolare svolgimento storico per la presenza del PCI. L'eurocomunismo (dei partiti italiano, francese e spagnolo) non significò adesione tout court alla socialdemocrazia europea, per ragioni che tralascio e sulle quali, con il vantaggio della distanza temporale, sarebbe utile ritornare per approfondirne la comprensione.
Importa qui sottolineare che nella seconda metà degli anni '70, i processi ristrutturativi che PCI e sindacati accettarono, in linea con la strategia del "compromesso storico", ebbero un'importanza decisiva nella lotta tra le classi: sgombrarono il campo al successivo prorompere della mondializzazione neoliberista14. Non a caso quella strategia impose austerità (!) ai lavoratori e al Paese. Ciò avvenne in un clima di caccia alle streghe, con una massiccia campagna mass-mediale di regime e facendo ampio ricorso alla repressione15: ogni movimento di opposizione, in particolare quella operaia, venne accusato di terrorismo e accomunato al brigatismo. Una responsabilità affatto irrilevante del PCI e del suo gruppo dirigente, che poi inquinò alla radice qualsiasi pretesa rifondativa.16
L'oggetto attuale del contendere
Consiste nelle divergenze sulle politiche economiche, da cui la diversa narrazione storica a supporto delle rispettive tesi.
Il governo Renzi, nonostante voglia differenziarsi dai precedessori Letta e Monti, persegue una linea che somiglia a quella del Mussolini di quota novanta (allora di aggancio alla sterlina e al gold standard, ora all'euro moneta unica) e della ricerca di finanziamenti esteri americani. Con un'aggravata coazione a ripetere17, se consideriamo che il nostro '29 ha avuto luogo nel 2007-200818, oramai più di 7 anni fa.
Gli ingredienti della austerity sono noti e non dissimili, per le conseguenze deflattive in primo luogo salariali, la depressione del mercato interno, la chiusura di una parte rilevante dell'industria manifatturiera: moneta forte e sopravvalutata rispetto all'economia territoriale; ricerca spasmodica e infruttuosa di capitali sul mercato finanziario internazionale; perseverante privatizzazione a favore dei Fondi con quartier generale a New York o Sovrani, dei Paesi che dispongono di un surplus esportativo da investire, come i reami arabi e la Cina.
"The Strange Non-Death of Neoliberism"19
Si è aperta un'aspra contesa sulla moneta unica europea e la politica di austerity. Anche la Germania arriva a soffrire delle misure imposte ai Paesi più deboli. Potrà reggere l'euro?
Tutta l'attenzione è concentrata sulla crisi dell'Europa e sulle guerre in Ucraina e nel Medio Oriente. In rapida successione il dibattito intellettuale si è spostato dalla critica all'Economics,20 alla ricerca di una alternativa al suo fallimento, verso la geo-politica e le sue implicazioni. Sbrigativamente sono stati messi in secondo piano sia la comprensione della crisi sistemica sia la riforma del sistema stesso, che sembrava ineludibile all'indomani del biennio 2007-2008.
Eppure l'interrogativo posto da Colin Crouch rimane essenziale. Il sociologo inglese, professore anche in Italia, riconduce la non-morte del neoliberismo alle strutture delle imprese giganti e alla loro prevalente forza nel mondo economico e politico. Sostiene che ciò pone un problema non solo di democrazia, ma soprattutto di mercato, osservando in particolare il fenomeno della "privatizzazione del modello keynesiano". Laddove, per arricchire i già ricchi, è stata data una base di consenso più ampia alla finanziarizzazione, attraverso, per esempio, i piani previdenziali e pensionistici gestiti da imprese private (i relativi Fondi), che apre un conflitto di interessi tra gli azionisti e le altre parti coinvolte (stakeholders) su cui vengono trasferiti i rischi.
Sicché, in estrema sintesi: "Siamo così diventati tutti complici del modello finanziario, cosa che ha reso ancor più difficile per i governi opporsi alle richieste delle banche di aiutarle a rimettersi in piedi per ricominciare tutto da capo."21
Mi pare poco convincente pensare di porre rimedio a tutto ciò, affannandosi su nuove regole o morali sulla responsabilità sociale d'impresa, magari con il corollario di apposite Autorities di cui abbiamo già sperimentato l'inutilità, se non la costosa funzione di reale copertura del sistema così come si è andato configurando.
Nondimeno l'analisi dello strapotere dei giganti e l'intreccio imprese-consenso-politica ha una sua consistenza ed induce a pensare alla post-democrazia a cui saremmo avviati.
Ritorno della storia (che era finita)
Rimane il fatto incontestabile che il neoliberismo non è defunto con la crisi, ma sopravvive come anima nel corpo di un sistema dominato dalle oligarchie finanziarizzate. Perché non è il cambiato il "paradigma", come avvenne dopo la crisi del '29? Ovvero, perché non sopravviene il change, una riforma del modello nel sistema nei e dai Paesi ricchi? Perché le politiche keynesiane, o neokeynesiane, non hanno sostituito quelle neoliberiste?
Dalla ricognizione storica sin qui condotta possiamo indicare, in breve, alcune concause.
  • Non esiste alcun pericolo esterno, uno "spettro" rappresentato da un sistema proprietario alternativo e da un esperimento attrattivo verso le classi lavoratrici del globo, né più un minaccioso vento dell'Est.
  • Sul piano interno l'industrialismo, non solo fordista, è stato assai indebolito. Il mondo non è in un'epoca post-industriale,22 ma i Paesi ricchi della confederazione USA-UE-Giappone vivono un passaggio post-industriale, dovuto alle delocalizzazioni e alla finanziarizzazione.
  • Il complesso sistema di globalizzazione, messo in piedi ai diversi livelli, appare congegnato come lo voleva Friedrich von Hayek23 e in modo tale da non permettere facili ritorni. Senza sovranità nazionale, devoluta a superiori organismi e regole internazionali negli anni di egemonia del pensiero unico liberal-liberista, non solo si fanno vieppiù ridotte le prerogative democratiche, ma gli spazi d'agibilità per una politica economica autonoma sono diventati asfittici. In particolare per Paesi come l'Italia.
  • Sul piano culturale i think tanks24 neoliberisti hanno sopraffatto le casematte del paradigma sostitutivo. Contemporaneamente si è diffuso un "riduzionismo" del pensiero che ha trasformato l'economia politica in Economics, astraendola dai problemi reali con modelli e proiezioni matematiche sempre più specialistici e settoriali, mentre soffoca nella microeconomia ogni respiro macroeconomico.25
  • Pure nelle istituzioni politiche, chiunque si opponesse alla révanche dei ricchi, sul tipo di quella imposta da Reagan,26 con tutta la devastante potenza di fuoco dei mass-media è stato ridotto all'angolo se non al silenzio.
Tuttavia, proprio per la tabula rasa effettuata in questi ultimi ingloriosi trent'anni, la crisi sistemica rimette in moto energie, critiche e cambiamenti esogeni, esterni al sistema asserragliato nel suo pensiero unico.
Intanto assistiamo a veri e propri boomerangs di ritorno. Coloro che vollero la globalizzazione, di fronte all'emergere dei BRICS27 nel quadro di una traballante leadership statunitense, sembrano quantomeno intenzionati a limitarne l'estensione per non accettare con la propria decadenza la realtà affiorante di un mondo multipolare. Nella vecchia Europa e ai suoi bordi, ad Oriente e sul Mediterraneo, ribollono antichi e nuovi maligni spiriti ed essa mostra la tendenza a riprendere, se non altro, il proscenio delle tensioni globali.
La storia breve, ma anche di lunga durata, chiede il conto.

1 "Corriere della Sera", 31 gennaio 2014
2 G. La Malfa, nell'articolo oggetto del commento: "(...) la buona borghesia liberale milanese (e non solo) guardava allora al fascismo con simpatia, come una medicina necessaria per portare ordine nel Paese."
3 Alberto De Stefani fu sostituito, come ministro delle finanze, da Giuseppe Volpi (1925-1928).
4 Una delle conseguenze del crollo di Wall Street fu la caduta del commercio internazionale, a cui le politiche keynesiane cercarono di porre rimedio. Quei fatti, per esempio (lo scrive Polany ne 'La grande trasformazione'), ebbero come conseguenza un forzato indirizzo della neonata URSS verso uno sviluppo autarchico.
5 Acronimo di National Recovery Administration.
6 G. Ruffolo, Testa e croce, Einaudi, 2011, pag. 116
7 Politica fascista di tenere il cambio di 90 lire per 1 sterlina, appunto "quota novanta", incaponendosi oltre l'abbandono del gold standard da parte del governo inglese. Vedi anche M. De Cecco, Ma cos'è questa crisi, Donzelli, 2013, pagg. 175-179.
8 Nel magma della destra xenofoba, nazionalismo fascistizzante e localismo "etnico" si mischiano al neoliberismo: M. Salvini della Lega Nord ripropone oggi la flat tax di Milton Friedman.
9 Non si dimentichi la questione della democrazia sindacale. Per tutto il periodo della concertazione ha prevalso l'erga omnes nella sottoscrizione dei contratti di lavoro; venuta meno tale politica, essa è stata risollevata (fu sollevata dal movimento della opposizione operaia alla fine degli anni '70) recentemente dalla Fiom di Maurizio Landini.
10 Il giudizio più complessivo sulle idee di J.M. Keynes non può limitarsi, tuttavia, all'uso che se ne fece.
11 Samir Amin, La Crisi, Punto Rosso, 2009.
12 Mi riferisco al keynesismo militare di Ronald Reagan e, più recentemente, all'enorme esborso degli Stati per salvare le rispettive banche nazionali dal fallimento.
13 Quella repressione, nel gennaio 1919, fu guidata dalla socialdemocrazia di Ebert, Scheidemann e Noske, che non esitò ad unirsi ai Freikorps, incubatori del nazismo. Vi furono assassinati Karl Liebnecht e Rosa Luxemburg.
14 Una funzione paragonabile a quella, più grande e drammatica, dell'ultimo PCUS di Gorbaciov nello spianare la via alla disintegrazione dell'Unione Sovietica perseguita da Eltsin.
15 Non a caso ne fu protagonista Francesco Cossiga che rivendicò la giustezza di Gladio in perfetta coerenza storica.
16 Nessuno dei nodi politici del periodo fu affrontato da Rifondazione, compreso quello sindacale. La stessa figura di E. Berlinguer restò e resta sospesa in un limbo mitico fuori dalla storia reale.
17 http://vocidallestero.blogspot.it/2012/04/john-maynard-keynes-spiega-le.html gioca con i nomi e, riproducendo il capitolo 5° del pamphlet di Keynes "Le conseguenze economiche di Winston Churchill", mostra la stupefacente analogia tra il gold standard, a cui era agganciata la sterlina e la lira di quota novanta, e l'attuale politica di gestione dell'Eurozona.
18 Al 2007 risale il crollo finanziario americano dei subprime. Al 2008 risale il fallimento di Lehman Brothers.
19 Colin Crouch, Il potere dei giganti, perché la crisi non ha sconfitto il neoliberismo, Laterza, 2011. Il titolo originario può essere tradotto in: "La strana non-morte del neoliberismo."
20 Traducibile in Economica, scienza economica.
21 Colin Crouch, ibidem, pag. 130.
22 Ha-Joon Ghang, 23 cose che non ti hanno mai detto sul capitalismo, Il Saggiatore, 2012 (2010), pagg. 95-106.
23 Friedrich von Hayek,The Economic Conditions of Interstate Federalism, rivista "New Commonwealth Quarterly", 1939.
24 Traducibile in serbatoi (tanks) di pensiero (think), ma tanks significa anche carrri armati.
25 Si è giunti al punto di considerare un Paese intero come un'impresa (l'impresa-Italia), ingenerando una perdita di cultura politica ben incarnata dall'attuale compagine governativa.
26 Paul Krugman nel libro "La coscienza di un liberal" (2007) sostiene che la svolta degli anni ottanta è stata una sorta di révanche della parte più ricca degli Stati Uniti contro il New Deal degli anni trenta, per riprendersi quanto avevano dovuto cedere.
27 Acronimo di Brasile, Russia, India, Cina, Sudafrica.

Anni trenta e Bretton Woods
Negli anni Trenta del secolo scorso si affermano le politiche keynesiane: lo sganciamento, nel settembre del '31, della sterlina inglese (vedi polemica di Keynes contro W. Churchill) dal gold standard a cui era incatenata; l'abbandono tardivo da parte di Mussolini della sciagurata "quota novanta"; l'adozione del New Deal di Roosevelt (presidente dal '33) negli States; le obbligazioni MeFo di Hjalmar Schacht (1933-36) nel Terzo Reich.* Da quelle iniziali affermazioni il keynesismo arriverà a dominare il pensiero economico d'Occidente fino alla svolta (stagflazione, inconvertibilità del dollaro, shocks petroliferi, petrodollari e prestiti di prima istanza della Fed) dei primi anni Settanta.
Le politiche economiche dei governi, tuttavia, come dimostra l'esito della conferenza di Bretton Woods, seguirono le indicazioni di Keynes solo parzialmente
La battaglia di Bretton Woods (luglio 1944). Così fu chiamata poiché nella località americana si fronteggiarono due progetti: quello di Harry Dexter White, delegato statunitense e quello di John Maynard Keynes, delegato del Regno Unito. Prevalse quello di White, a segnare il definitivo passaggio della leadership sull'altra sponda dell'Atlantico.
Secondo Keynes ogni tre anni i debiti ed i crediti derivanti dai volumi di scambio del commercio internazionale dei paesi partecipanti, computati in Bancor, moneta di conto, dovevano essere compensati (sull'esempio della compensazione annuale legata alle fiere di Champagne nella Lione medioevale) per evitare gli squilibri più volte sperimentati storicamente (e puntualmente riemersi negli anni a venire). Keynes voleva soppiantare ad un tempo il sistema a base aurea e l'assunzione della valuta di un paese (convertibile in oro) a riferimento degli scambi internazionali.
Il piano White assumeva, al contrario, il dollaro a valuta di riferimento, convertibile (gold exchange standard), con delle limitazioni sia nei cambi che nella mobilità dei capitali. I rapporti tra le valute erano fissi, tutte agganciate al dollaro, seppur aggiustabili per decisione dei rispettivi governi, come di fatto avvenne in seguito. Fu creato il Fondo Monetario Internazionale. Restarono in sospeso molti problemi, tra cui gli eccessi di esportazione.
Non si sfugge all'impressione postuma che l'impianto delle relazioni economiche e monetarie internazionali uscito da Bretton Woods fosse già posizionato su un labile confine: una parziale restaurazione, nessuna rinuncia di principio al liberismo, un keynesismo circoscritto per guadagnare tempo.
* Sull'argomento vedi "Le MeFo di Hjalmar Schacht".
Le MeFo di Hjalmar Schacht
Riporto qui alcuni passaggi dal libro "Il film della crisi" di G. Ruffolo e S. Sylos Labini, Einaudi, 2012, pagg. 79-81, che a sua volta riporta un passo di Keynes.
"Schacht lanciò le obbligazioni Mefo, che venivano emesse da una compagnia statale inesistente nella realtà, la Metallurgische Forschungsgesellschaft m.b.H. («Società per la ricerca in campo metallurgico»), creata dal Terzo Reich per finanziare la ripresa economica tedesca e, nel contempo, il riarmo, aggirando i limiti e le imposizioni del Trattato di Versailles. «Mefo» era dunque l'acronimo riferito a una scatola vuota di cui la Banca centrale del Reich era l'unico azionista, in nome della quale si emisero siffatte obbligazioni senza gravare sul bilancio pubblico. (...)"
"Quando Hitler andò al potere nel gennaio del 1933 oltre sei milioni di persone (un quinto della forza lavoro) erano disoccupate e al limite della malnutrizione, mentre la Germania era gravata da debiti esteri schiaccianti con riserve monetarie ridotte a zero. Ma fra il 1933 e il 1936 si verificò una spettacolare ripresa dell'economia e dell'occupazione. (...)"
"Scrisse J. M Keynes:
«(...) L'accorgimento consisteva nel risolvere il problema eliminando l'uso della moneta con valore internazionale e sostituendola con qualcosa che risultava un baratto, non però fra individui, bensì fra diverse unità economiche. In tal modo riuscì a tornare al carattere essenziale e allo scopo originario del commercio, sopprimendo l'apparato che avrebbe dovuto facilitarlo, ma che di fatto lo stava strangolando. (...)»"
"(...) In tal modo, la Germania riuscì a sottrarsi alla morsa dei mercati finanziari, evitando che la popolazione fosse colpita da quel segnale di sfiducia che sarebbe scaturito dalla svalutazione della sua moneta nazionale.
Questa fu la mossa determinante che fece ritornare sotto controllo politico la sovranità monetaria della Germania.(...)"
Delle MeFo scrivono ormai tutti gli studiosi che sono alla ricerca di un modo per bai-passare i vincoli dell'Unione Europea e della moneta unica.

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