martedì 18 novembre 2014

Krajne e dintorni

Riccardo Bernini - ottobre 2014
Messe a fuoco

Krajne e dintorni

[Clicca sul titolo se vuoi scaricare l'articolo in formato PDF, corredato di foto, grafici e riquadri.]

Territori di confine. Dalle piccole patrie della ex-Jugoslavia all'Ucraina. Guerre d'Europa e NATO. Con l'egemonia USA traballa anche la globalizzazione?


Prima che la crisi Ucraina deflagrasse, l'allora ministro degli esteri dell'Italia in visita a Kiev, Mogherini, ebbe a ricordare che la parola krajna significa terra di confine, non necessariamente luogo di separazione ma possibile territorio di congiunzione. Non muro ma ponte. Forse per questo dovette attendere un po' per essere nominata Alto rappresentante per la politica estera dell'UE (Mrs. PESC). Nomina che avvenne dopo dichiarazioni successive più "rassicuranti".
Confine
Di krajne l'opinione pubblica italiana e occidentale aveva cominciato a sentir parlare qualche decennio fa, quando esplose la crisi jugoslava e, tra le tante autoproclamazioni di indipendenza, proprio la Repubblica Serba di Krajna, proclamata il 1° aprile del 1991 dalla maggioranza serba allora residente1 nelle regioni di Krajna e Slavonia (capitale Knin) della Croazia, non ricevette alcun riconoscimento dalla "comunità internazionale".
Come per un incidente autostradale il problema fu allora "risolto", ripristinando la normale viabilità con il fattivo contributo USA allo sgombero della popolazione serba. Una feroce pulizia etnica tenuta nascosta, essendo assai poco funzionale al racconto atlantico-occidentale per cui le vittime sarebbero state unicamente e inizialmente quelle schierate dalla parte "nostra". Come se la logica delle piccole patrie etniche e confessionali fosse stata solo di Milosevic e non anche di Izetbegovic e Tudjman2 o dell'albanese UCK. Il nemico doveva essere serbo e così, qualche anno dopo (1999), anche l'Italia3, con D'Alema premier, poté partecipare alla guerra umanitaria di Clinton e della Nato in Kosovo. E senza neppure la copertura di un mandato dell'ONU.
Nota: l’Ovest ed il Centro-Nord del Paese vedono una predominanza di popolazione di etnia ucraina o che parla ucraino, mentre il Sud e l’Est hanno una maggioranza russa o russofona.
[Fonte: http://scenarieconomici.it/ucraina-le-mappe-per-capire-la-crisi/]
 


Crimea ed Ucraina
Con la crisi Ucraina sono tornate alla ribalta le vicende jugoslave. A parti rovesciate: ciò che allora giustificò i fulminei riconoscimenti delle autoproclamate repubbliche da parte di governi europei (Italia in prima fila con Austria e Vaticano4), sulla scorta di referendum organizzati manu militari, non vale più. Quale sia la misura minima necessaria, di spazio territoriale abitato dalla prevalente etnia, per ottenere il sigillo di liceità, lo decide, come sempre, il civile occidente. In un simile dibattito, poteva mancare la presa di posizione di un campione degli "europei della libera Europa", che tanta libertà a tutto il mondo ha dato? Bernard-Henry Lévy5 ha sentito immediatamente il bisogno di spiegarci la perfetta ragione delle cancellerie occidentali nel rifiutarsi di riconoscere alla Crimea il diritto di autoproclamarsi indipendente dall'Ucraina per aderire alla Federazione Russa, nonostante la storia.6
Il filosofo francese paragona il caso della Crimea a quello della Repubblica Srpska in Bosnia. Ma, per non contraddirsi, sottilmente distingue: fu giusto negare ai serbi bosniaci il diritto all'autodeterminazione riconosciuto alla Bosnia, mentre quello stesso diritto fu attestato agli albanesi del Kosovo, in quanto pluriennali vittime delle persecuzioni della Serbia. Dimenticando, con rinnovata filosofica disinvoltura, il precedente dell'epurazione dei serbi di Krajna.
Sulla Crimea, inoltre, obiettava: 1) il suo territorio è stato invaso da 30.000 soldati, "accerchiato le sue caserme e terrorizzato le sue popolazioni"; 2) le modalità di indizione e di svolgimento del referendum, "sotto l'autorità di un governo fantoccio", "appare, nel migliore dei casi, come una farsa e, nel peggiore, come un atto di forza"; 3) se l'Europa approvasse avremmo "conseguenze apocalittiche: cosa risponderemmo se, forti di questo precedente, i baschi spagnoli e francesi reclamassero la loro unificazione?"; idem per ungheresi della Transilvania, albanesi della Macedonia, turchi della Bulgaria, russofoni dei Paesi baltici, fiamminghi del Belgio. Nessuna frontiera in Europa sarebbe più sicura.
In forza delle prime due obiezioni finisce per prospettare l'ennesimo intervento militare umanitario a protezione dei popoli minacciati nella loro fisica integrità e contro "il progetto imperialista putiniano". Come fu per il Kosovo. Cotanto elevato pensiero potrebbe indurci a conferire troppo credito al morale, umanitario dovere degli "europei della libera Europa", piuttosto che ai loro interessi materiali e politici, a cui mostrano un secolare e più sicuro attaccamento. Ma è sull'ultima obiezione che occorre porre l'attenzione: il precedente! Il fatto è che avendo seminato a piene mani riconoscimenti e scontri etnici e confessionali, per disgregare ed espandere l'egemonia occidentale a Est, ora se ne temono le conseguenze anche a casa propria. Il virus rischia di contagiare tutto il vecchio continente e oltre.
Intanto a Cernobbio
La frattura inserita a Oriente tra Russia ed Europa è sembrata subito essere più conveniente per gli Stati Uniti che per molti Paesi europei. Negli ambienti del business si è fatto largo il sospetto che dietro l'appoggio ai nazionalisti di Maidan,7 ci fosse un disegno volto a ricreare nelle regioni contese un muro di divisione tra Russia e Unione Europea. La reazione di Putin ad una possibile estensione della Nato alle porte di Mosca era piuttosto prevedibile e prevista. In gioco c'è la politica energetica, il South Stream, gli interscambi commerciali e gli investimenti soprattutto tedeschi.8 Tutto ciò nel momento in cui è in corso la trattativa, tenuta riservata, tra UE e USA per la TTIP (Transatlantic Trade and Investment Partnership), proposto da Washington.
Nell'ultima assise di Cernobbio l'ex ambasciatore Sergio Romano, già a suo tempo su posizioni eterodosse a proposito della ex-Jugoslavia, si è confrontato sul tema della crisi ucraina con il senatore John Sidney McCain, candidato repubblicano alla presidenza sconfitto da Obama. A giudicare dal consenso ricevuto dall'intervento di Romano, la escalation di sanzioni verso la Russia e le sue conseguenze economiche e politiche non è affatto gradita al mondo imprenditoriale. Il caso ha voluto che, con il quasi contemporaneo scoppio della crisi in Siria-Iraq dovuta all'emergere del pericolo Isis, il senatore McCain fosse chiamato in causa per le sue missioni in Medio-Oriente e proprio per i rapporti con i tagliagole.9 Solo una sottovalutazione dell'ISIS o una "diabolica" coazione a ripetizione della operazione nord-americana relativa ad Al Qaida e Bin Laden?
Ma cosa hanno a che fare la Crimea, l'Ucraina, il fondamentalismo islamico e la ex-Jugoslavia?
Allargamento della NATO 1949-2009 [Fonte: Wikipedia]
Il NO alla guerra in Ucraina
Di fronte alla guerra ucraina alcuni analisti, pur dichiarandosi contrari ad un nostro coinvolgimento militare, stentano a comprendere il nesso tra le diverse crisi.10 È il caso di Aldo Giannuli11 che scrive di un "circoscritto caso jugoslavo", come se in quella guerra, la prima in Europa dalla fine del conflitto mondiale, non siano rintracciabili semi di perniciosa ed attualissima fecondità. Giannuli, professore all'Università Statale di Milano e autore di due interessanti libri sulla crisi,12 avanza l'ipotesi che si voglia andare ad una specie di "prova d'assaggio" rivolta a preparare psicologicamente l'opinione pubblica ad una più estesa guerra. E a conferma cita numerosi precedenti storici. Contrarie alla guerra e favorevoli ad un mondo multipolare, le sue posizioni meritano attenzione.
Non per un puntiglio storico, ma il caso jugoslavo sarebbe stato "circoscritto" se non avesse avuto alcun seguito: eppure proprio la guerra in Ucraina dimostra l'opposto e, a ben vedere, pure il caso del Califfato.
Il caso jugoslavo e oltre
Non voglio prendere in esame il modo come l'Europa si è costruita verso Est, riproducendo su scala continentale la dicotomia tra Centro e Periferie a cui è stato sottoposto l'intero globo. Ciò nondimeno può essere dimenticato il fatto che mentre la Germania si unificava e poneva le premesse per porsi al Centro, la disgregazione della Jugoslavia e di altri Paesi poneva le condizioni inverse, ossia la loro riduzione in Periferie addirittura di seconda fascia (della prima ne fanno parte di cosiddetti PIIGS13).
Che avallare le piccole patrie etniche e confessionali, nonché istigare allo scontro territoriale e nazionalistico, fosse utile solo a breve e in funzione dell'immediato economico, ma lanciasse un boomerang sul medio termine, è una evidenza successiva: il risultato di una scelta politica. Sicché da allora nessuna frontiera in Europa risulta stabile e sicura.
Interessa qui ricordare che la Serbia, nel decennio della crisi jugoslava, ebbe nella Russia uno dei pochi alleati. Nell'iniziazione dello spazio europeo allo scontro interetnico e interreligioso, in un quadro di generale regressione al passato, si resuscitò la tradizione di Mosca capitale del mondo ortodosso e pure il panslavismo ottocentesco. Oltretutto l'Occidente non esitò a favorire in Bosnia l'intervento di bande internazionali islamiste a fianco del riconosciuto governo fondamentalista di Izetbegovic. In quelle bande figuravano gruppi combattenti di Bin Laden (con relative teste mozzate di serbi esibite come trofei davanti alla macchina fotografica!).
Comunque, colpire la Serbia significava già allora puntare sulla Russia. Serve ricordare qualche precedente storico del primo Novecento?
Nei primi anni della guerra jugoslava gli Stati Uniti e la NATO, pur operativi sul campo, si mantennero in posizione coperta e defilata. Bastava attendere che i governi europei, già in ordine sparso, mostrassero tutta la loro impotenza politica, anche come Unione, dopo aver contribuito allo sfascio e innescato il conflitto. Esemplare fu l'eccidio di Srebrenica, perpetrato dalle milizie dei četnici serbi di Karadzic, nonostante la presenza dei caschi blu dell'ONU. Non sapevano "uscirne" da soli e, dunque, gli USA ebbero aperta la via per "mettere i piedi nel piatto", sia militarmente che diplomaticamente. Qualche anno dopo si ebbe il già menzionato intervento nel Kosovo con relativa installazione (Camp Bondsteel) di una base nord-americana a comando NATO.
Dopo Maidan e quello che è stato visto come un colpo di Stato, si ebbe una corrispondente reazione russa. Era nell'aria. Come la mossa, da parte di Putin, di presentarsi agli occhi della propria opinione pubblica quale alfiere dell'identità pan-russa, alla cui riesumazione andavano per altro da anni contribuendo misure discriminatorie verso i russofoni,14 messe in atto dal Baltico al Mar Nero da oltranzisti politici a cui non è mai mancato l'appoggio atlantico-occidentale.
Come accadde nella ex-Jugoslavia, durante gli anni successivi alla caduta del muro, nella crisi ucraina l'Europa si è dimostrata uno spazio politico a "sovranità condizionata" dalla sovrastante presenza della NATO a direzione statunitense. Alleati ma tenuti sempre sotto controllo, con una particolare attenzione alla riunificata Germania. Con il crollo dell'Unione Sovietica il problema degli USA consisteva nel contenere e condizionare il ruolo della Germania in Europa. Poiché la Federazione Russa non fu inclusa né nell'alleanza militare, né nell'UE,15 una così forte espansione della NATO ad Est non poteva non suscitare allarme a Mosca, tanto più se portata ai confini ucraini,16 o a mettere in forse la storica base navale di Sebastopoli in Crimea, connessa strategicamente all'unica base russa nel Mediterraneo, allocata in una Siria in preda alla guerra. Quale modo migliore per inserire una frattura tra Germania-Europa e Russia, nel momento i cui traballa l'egemonia nord-americana sul mondo?
Globalizzazione addio?
Se ne potrebbe anche concludere che Washington, reagendo alla caduta della propria egemonia, stia minando le basi stesse della declamata globalizzazione. Disseminando filo spinato, senza il richiamo pavloviano anticomunista, punta a una riedizione rinnovata della vecchia "strategia di contenimento"? Fatto sta che oltre alla già citata TTIP per l'Europa, Washington propone la Trans-Pacific Partnership (TPP), per chiudere da un lato la Germania e l'Unione Europea verso la Russia e, dall'altra, il Giappone e l'India verso la Cina, nel duplice sottinteso obiettivo: scardinare e dividere i Brics; tenere al guinzaglio i partners nella Triade17. Si tratterebbe di una strategia, non di un effetto conseguente ad un errore di prospettiva; e andrebbe oltre il "debole" Obama.
Siamo oltre il "circoscritto caso jugoslavo". Siamo alla Cool War.18

1 Fu l'impero austro-ungarico nel Cinquecento ad istituirvi una Marca militare (Militärgrenze) insediando contadini serbi armati per meglio difendere il proprio confine dall'espansione turco-ottomana.
2 Nell'ordine, gli allora presidenti di Serbia, Bosnia e Croazia.
3 In violazione palese del dettato costituzionale, all'articolo 11.
4 Papa Wojtyla non fu esente dall'"uso di Dio" che contribuì ad innescare il conflitto nella ex-Jugoslavia.
5 "Corriere della sera", 17 marzo 2014.
6 Nel 1954, la Crimea fu "donata" da Krusciev all'Ucraina nell'ambito dell'URSS, per festeggiare i 300 anni di unione tra Russia e Ucraina.
7 Tra cui gruppi paramilitari neofascisti in prima linea.
8 Dal 2006 al 2009, gli investimenti industriali tedeschi in Russia sono cresciuti del 132%, mentre sono diminuiti del 33% in Gran Bretagna, del 17% in Italia e del 10% in Francia. Fonte: G. Gabellini, Eurasia-rivista.org, La "questione tedesca", 14/3/2014. 
9 Il "Fatto Quotidiano", 11 settembre 2014, pubblica una foto del senatore con Ibrahim al Bradi al Baghdadi, capo del Califfato.
10 Sorprendente è l'assenza di qualsiasi riferimento al caso jugoslavo nel pur pregevole libro di L. Canfora e G. Zagrebelsky, "La maschera democratica dell'oligarchia", Laterza, maggio 2014.
11 Blog di Beppe Grillo, 6/10/2014, No alla guerra in Ucraina.
12 Aldo Giannuli: "2012: la grande crisi", Ponte delle Grazie, 2010; "Uscire dalla crisi è possibile", Ponte delle Grazie, 2012.
13 Acronimo di: Portogallo, Irlanda, Italia, Grecia, Spagna.
14 Cristina Carpinelli, Paesi Baltici: tra integrazione europea e "apartheid", CESPI 2013, in http://www.cespi-ong.org/wp-content/uploads/2013/12/Carpinelli.pdf
15 Romano Prodi affermò che un inglobamento della Russia avrebbe trasformato l'Europa in una superpotenza.
16 Mosca dista 460 km dalla frontiera ucraina. Nell'Operazione Barbarossa (attacco all'URSS), l'Ucraina assunse un ruolo strategico per le armate tedesche del fianco Sud, in direzione di Stalingrado.
17 Samir Amin definisce Triade l'alleanza USA-Europa-Giappone.
18 Traducibile in: guerra fresca (tra USA e Cina).


Gli USA e la crisi ucraina*
Il 2 ottobre, in un discorso agli studenti della 'Kennedy School of Government', un istituto di scienze politiche della Università di Harvard, il vicepresidente americano Joseph R. Biden ha parlato con queste parole: "Abbiamo dato a Putin una scelta semplice: rispetta la sovranità dell'Ucraina o affronta conseguenze sempre più pesanti. Questo ci ha permesso di mobilitare i maggiori Paesi sviluppati del mondo per far pagare alla Russia un prezzo reale. É vero che non volevano farlo. Ma ancora una volta è stata la leadership americana ed il presidente degli Stati Uniti, che ha insistito, spesso quasi svergognando l'Europa per costringerla a resistere e a prendersi il contraccolpo economico. E i risultati sono una fuga imponente di capitali dalla Russia, l'arresto praticamente totale dell'investimento estero, il rublo ai minimi storici rispetto al dollaro e l'economia russa sull'orlo della recessione."

* La dichiarazione di J. R. Biden è riportata da Sergio Romano sul 'Corriere della Sera' del 13 ottobre 2014, in risposta ad un lettore. Romano riferisce, inoltre, che nello stesso discorso Biden ha accusato l'Arabia Saudita, gli Emirati Arabi Uniti e la Turchia di avere aiutato direttamente o indirettamente le milizie dell'ISIS in Siria.

Nessun commento:

Posta un commento