lunedì 17 novembre 2014

Lavoro: modello tedesco da emulare?

Riccardo Bernini - ottobre 2014
Messe a fuoco

Lavoro: modello tedesco da emulare?

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La funzione dei mini-jobs nella liberalizzazione socialdemocratica tedesca. Il contesto dell'italica imitazione.

Dal momento che il governo Renzi si appresta alla riforma dei rapporti di lavoro, Jobs Act, dichiarando di assumere a riferimento il modello tedesco, appare importante comprendere da vicino in cosa consista e a quale strategia di politica economica corrisponda.

La liberalizzazione del mercato del lavoro tedesco
Viene attuata dal 2002-2003 da parte del governo socialdemocratico di Gerhard Schröder, secondo le indicazioni di una commissione diretta da Peter Hartz, ex capo del personale della Volkswagen. Sono perciò conosciute come riforme Hartz I-IV. Furono concepite nell'ambito di politiche di tagli al sistema sociale (sanità e sussidio di disoccupazione), di innalzamento dell'età pensionabile (portata a 67 anni), di diminuzione delle imposte alle industrie con innalzamento delle imposte indirette e la creazione di un segmento di bassi salari. Tra i provvedimenti più noti ed incisivi figurano i cosiddetti mini-jobs.
Il fenomeno mini-jobs. Dal 2003 ai giorni nostri il numero di coloro che vivono soltanto di un mini-job è rimasto pressoché costante (4,9 milioni) mentre sono raddoppiati i cosiddetti Nebenjobbers1, ossia coloro che sommano un mini-job ad un lavoro a tempo determinato o indeterminato (si tratta di circa 2,7 milioni di persone). Inizialmente, soppiantati dai mini-jobs, sono andati persi circa 340.000 posti a tempo pieno, con una ricaduta negativa sulla cassa malattia. Al tempo stesso sono diminuiti il lavoro nero, la disoccupazione (con il contributo del lavoro interinale e del lavoro part-time) e l'impiego di lavoro immigrato di basso profilo professionale.
Secondo una ricerca dell’Università di Duisburg-Essen i lavoratori dei mini-jobs lavorano più ore percependo uno stipendio inferiore. Sono in maggioranza giovani under 25, stranieri e persone prive di formazione professionale. Per alcune categorie professionali il mini-job rappresenta un’ottima opportunità: per gli studenti, per esempio, l’attività ridotta si può facilmente conciliare con lo studio.
Notoriamente Schröder, in seguito a questa politica, perse le elezioni, essendogli venuto meno il sostegno della sua tradizionale base elettorale. Ma le sue riforme ebbero successo, ovviamente un successo nell'ambito della visione mainstream dell'economia. Infatti, le retribuzioni reali sono cresciute meno della produttività. Di conseguenza: “Fra il 2000 e il 2010 i costi del lavoro per unità di prodotto in Germania sono aumentati del 3,9%, in Italia del 32,5%. I costi dei prodotti tedeschi così sono diminuiti del 18,2 % rispetto agli altri Paesi dell’euro”.2
Ingegneria socio-economica
L'introduzione dei mini-jobs corrisponde ad una sorta di ingegneria socio-economica, in forza della quale:
- le Piccole Medie Imprese sono state spinte ad incrementare l'automazione per impiegare mini-jobber, diminuendo il costo del lavoro;
- casalinghe, pensionati, studenti, sussidiati hanno potuto arrotondare il loro budget mensile senza particolari oneri fiscali;
- il mini-job non consente l'ottenimento del permesso di soggiorno e gli immigrati senza skill non possono competere con il mini-jobber residente che gode di altri sussidi integrativi (vedi riquadro).
La strategia di politica economica
Bisogna dare atto alla élite dirigente tedesca di aver agito con tempestività e almeno una visione a breve-medio termine piuttosto efficace. La Germania era restia ad accettare la moneta unica e, a fronte delle pressioni francesi, pose condizioni assai restrittive in particolare sulle politiche monetarie e fiscali. Ufficialmente non voleva né esporsi all'inflazione né pagare per i debiti contratti da altri, diffidando del lassismo di alcuni governi europei. In pratica si dispose ad approfittare del contesto venutosi a creare anche grazie alle condizioni da essa stessa poste. Varò misure di deflazione salariale e di temporanea stabilità sociale interne per assumere un vantaggio competitivo esterno, soprattutto nell'ambito dell'area dei Paesi aderenti alla moneta unica, l'Eurozona. Oltre al segmento di bassi salari, poteva contare su persistenti dislivelli retributivi tra Länder dell'Ovest e Länder dell'Est, di recente acquisizione. I mini-jobs hanno assunto, pertanto, un ruolo paradigmatico nel modello tedesco: con una base interna di contenimento. dei consumi determinata da una consistente fascia di bassi salari, esso è proteso verso le esportazioni. Da più parti definito neo-mercantilista, scarica sul vicino europeo propri disequilibri.
Nell'ambito della Unione Europea non deve sfuggire un ulteriore aspetto strutturale della strategia tedesca, derivante dalla centralità delle proprie imprese industriali rispetto alle filiere e ai distretti produttivi allocati nei Paesi periferici. L'Italia, ad esempio, è fornitrice di componenti anche di qualità e concorre in posizione subalterna al prodotto finito made in Germany poi esportato. Altri Paesi più periferici assumono un ruolo ancora più subordinato nella dicotomia Centro-Periferie che, pre-esistente nel mondo, è stata riprodotta su scala europea.
Il rovescio della medaglia
Il modello germanico vantava negli ultimi decenni dello scorso secolo un indice di diseguaglianza sociale e di distribuzione della ricchezza inferiore ad altri Paesi ricchi. Ma secondo l’Ocse: “La diseguaglianza dei redditi in Germania è salita rapidamente dal 2000 in poi”. Secondo una ricerca della Conferenza Nazionale sulla Povertà (Nak) presentata nel dicembre scorso, il 10% della popolazione tedesca possiede oggi il 53% della ricchezza, nel 1998 era il 45% e nel 2003 il 49%. Il patrimonio delle classi medie, negli stessi anni, è diminuito dal 52 al 46%, mentre nel 2010 metà della popolazione si divideva appena l’1% della ricchezza. Strano per una nazione che tra il 2007 e il 2012 ha visto crescere il patrimonio nazionale di 1.400 miliardi di euro.3
Un simile andamento contraddice l'economia sociale di mercato a cui la Germania dice di ispirarsi. D'altro canto una politica liberal-liberista di mercato, anche se si avvale di alcune coperture sociali vieppiù indebolite e con ricadute negative spalmate nel tempo soprattutto per i giovani (nel caso dei mini-jobs si tratta delle pensioni da fame e dello svuotamento della cassa malattia), è destinata a perdere ogni carattere "sociale" sia nazionale che europeo. La contraddizione è manifesta pure se la si guarda dal lato delle donne, non a caso rese protagoniste e "ruolizzate" nell'utilizzo dei mini-jobs, o della retorica sull'integrazione dei nuovi immigrati.
Emulazione all'italiana?
A quasi tre lustri di distanza il governo Renzi pensa di ripetere il modello tedesco. Sappiamo già che potrà disporre di minori coperture assistenziali integrative. Inoltre, difficilmente potrà modificare le strutture produttive già consolidate, nelle filiere e nei distretti. Non è indifferente il peso del tempo trascorso: nel frattempo è scoppiata la Crisi e l'Italia vi ha perso un quarto della sua produzione manifatturiera. Poiché, banalmente, all'export dell'uno corrisponde pari import per gli altri, appare materialmente impossibile che ciascun Paese europeo possa perseguire con successo il modello neo-mercantilista tedesco. Il gioco a scaricare sul vicino i propri squilibri sortirà il solo effetto di disgregare l'Euro e l'Unione. Eppure gli indirizzi non mutano, come sostanzialmente non mutano sul piano internazionale, nonostante l'esperienza della Crisi.
Le tutele crescenti promesse ai giovani disoccupati verranno attuate in un quadro, di diritti welfare e salariale, decrescente4 per tutti, giovani compresi. Tuttalpiù l'emulazione italiana potrà portare ad una semplificazione del quadro normativo (il "disboscamento" di leggi e leggine), traducendosi in una imitazione tardiva della Germania, una sua versione "stracciona", per usare un precedente storico di altre tardive italiche imitazioni.
1 Dall'unione delle parole neben (tedesca) e jobbers (inglese).
2 Secondo Roland Berger, consigliere economico di Angela Merkel.
3 Il Fatto Quotidiano, 18 settembre 2013
4 Si tratta in questo caso di "decrescita infelice".

Mini-jobs
450 € mensili max, 15 ore di lavoro settimanali (almeno formalmente), 140 € mensili di costi aggiuntivi per il datore di lavoro pari al 30,99%: 15% per la pensione obbligatoria (a cui la lavoratrice - la maggioranza è donna - può aggiungere il 3,9%); 13% per la sanità; 2% al fisco; 0,99% all'indennità di malattia, maternità e fondo insolvenza.
In Germania non esiste salario minimo, sicché i mini-jobbers, per accordo o costrizione, possono trovarsi a lavorare più di 15 ore settimanali. Valgono le stesse regole dal lavoro "normale": diritto alla continuazione del pagamento del salario in caso di malattia e di ferie; stessa protezione contro il licenziamento delle lavoratrici dipendenti a tempo pieno (Protezione Act) compresa la legge sulla protezione della maternità ai sensi della quale ha diritto anche a prestazioni economiche. Il mini-jobber senza un ulteriore impiego risulta disoccupato e più precisamente “lavoratore marginale” e può chiedere un lavoro più stabile all’ufficio del lavoro.
In quanto "lavoro marginale" il mini-job non consente agli immigrati l'ottenimento del permesso di soggiorno.
In genere il mini-job arriva a 400 € netti al mese. Ad essi si possono sommare: il reddito minimo garantito (Hartz IV) di 360 €, l'affitto pagato per l'alloggio, le cure mediche, il costo del riscaldamento, tariffe ridotte sui trasporti, 250 € circa per ogni figlio.
Matura una pensione pari a 3,11 € mese per ogni anno di contribuzione. Con 40 anni continuativi si arriva a 124 € mensili. 

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