domenica 5 maggio 2019

Rampini, nella notte della sinistra brillano le stelle (e strisce)


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Rampini, nella notte della sinistra 

brillano le stelle (e strisce)

degli States, meglio se con un futuro presidente democratico, più risoluto di Obama.
Come una critica frizzante ai radical chic e al politically correct, “alla sinistra dei mercati finanziari e dei governi stranieri”, si traduca nella richiesta di uno Stato italiano forte nella rinnovata alleanza d'Occidente contro Cina e Russia. Tra gli amici, i generali del Pentagono. Tra i nemici, anche Maduro e... Julian Assange.
La nuova pericolosa corsa agli armamenti verrà coperta con una politica di pace sociale interna ai Paesi ricchi? È guerra fredda al comunismo senza il comunismo?

Da tempo Federico Rampini, celebre corrispondente estero di “la Repubblica”, avverte il malessere della sinistra italiana e la bersaglia di critiche da oltreoceano, avendo sotto gli occhi quella americana, affetta dagli stessi mali. Nella sua ultima pubblicazione [vedi copertina in pagina], contro una sinistra che, rinunciando ad essere maggioranza, ha perso il suo popolo, indica da dove ripartire per riguadagnarne l'appoggio.
La rottura, alla quale Rampini vuole si ponga rimedio, deriva sia dalle posizioni assunte dalla sinistra sui problemi dell'attualità politica, sia dal suo atteggiamento culturale.
Per Rampini queste posizioni, che regalano alla destra il consenso dei segmenti popolari più deboli ed esposti al “globalismo”, emanano da spocchia ed ignoranza storica, adagiate su idee superficialmente “corrette”, prive di un pensiero degno della propria tradizione. Eccone l'immagine:
«Tra i guru progressisti ora vengono cooptate le star di Hollywood e gli influencer dei social, purché pronuncino le filastrocche giuste sul cambiamento climatico o sugli immigrati. Non importa che abbiano conti in banca milionari, i media di sinistra venerano queste celebrity. Mentre si trattano con disgusto quei bifolchi delle periferie che osano dubitare dei benefici promessi dal globalismo.»
Tuttavia, man mano che il discorso di Rampini si dipana, ci si rende conto che il sottostante di “chi-come-perché” rimane sempre insondato, privo dello spessore analitico evocato. Gli strali, di cui è zeppo il libro, si traducono in ben poca cosa, che si parli della finanza o dell'euro, della globalizzazione o delle relazioni internazionali. Accade quando il giornalista incontra il rapporto tra Nord e Sud del mondo; quando i dardi lanciati contro Wall Street non prendono a bersaglio le strutture capitalistiche ed egemoniche, comprese quelle militari, sulle quali si erge il dominio degli oligopoli e della finanza. Restano un sacro mistero le radici delle “diseguaglianze globali” e della povertà, nascoste sotto il pubblico insopportabile scandalo degli straricchi, quell'1% che possiede più di interi popoli.
E ciò che nel racconto di Rampini potrebbe apparire una spregiudicata critica, non si scosta mai da una scoppiettante e superficiale descrizione della scena del crimine, che svia le indagini sul possibile assassino. Anzi, lo assolve a priori e finisce con erigerlo a perenne campione della salvezza universale.
Federico Rampini
(Genova, 1956) è uno dei più noti giornalisti italiani.
Residente dal 1958 con la famiglia in Belgio, frequenta la Scuola europea di Bruxelles. Rientrato in Italia nel 1974, studia alla Bocconi di Milano ed alla Sapienza di Roma.
Nella stampa del PCI, al quale è iscritto dal 1974 al 1984, inizia la sua attività di giornalista, prima a Città Futura e poi a Rinascita. Nel 1982 passa a Mondo Economico e a L'Espresso. Dal 1986 è corrispondente dalla Francia del Sole 24 Ore, di cui diviene vicedirettore nel 1991. Dal 1995 è a la Repubblica, della quale è via via corrispondente da Bruxelles, San Francisco, Pechino e New York (dal 2009).
Pluripremiato per la sua attività giornalistica, è autore di numerose pubblicazioni collegate ai luoghi dai quali vede le trasformazioni del mondo.
[Per l'elenco dei suoi libri vedi:
Periferie metropolitane
Sostiene Rampini che sin da quando era corrispondente da Parigi, la sinistra glamour, insediata nei confortevoli quartieri della Rive gauche, non s'era accorta di quanto stava succedendo altrove in città:
«Lentamente ma inesorabilmente, iniziò in quel periodo un cambiamento della classe operaia francese. La banlieue (periferia) parigina, comunista da sempre, cominciò a votare a destra. Trent’anni prima che questo diventasse un fenomeno poderoso in tutto l’Occidente, era accaduto là e la ragione era una: l’immigrazione.»
Incurante dei disagi subiti dalla popolazione indigena, la sinistra guardava unicamente agli ultimi (gli immigrati), trascurando colpevolmente i penultimi.
A distanza di qualche decennio a Roma San Lorenzo, dove è stata stuprata ed assassinata Desirée Mariottini, la sinistra ripete l'errore. Oltretutto, è diventato territorio di spaccio a cielo aperto dei nordafricani, dove la droga è liberalizzata e manca la minima sicurezza, un quartiere popolare che resistette al fascismo sin dal '22, nel quale aveva sede la federazione del PCI e la stampa comunista.
Ma l'opinione politicamente corretta di sinistra sentenzia che bisogna stare dalla parte dei più deboli, purché, sottinteso: «i deboli siano stranieri, possibilmente senza documenti, meglio ancora se hanno la pelle di un colore diverso dal nostro. (…) Tanto peggio per i pensionati poveri, con cittadinanza italiana, se la sera hanno paura a rincasare (…).»
Alle loro proteste si risponde con le statistiche, dalle quali non risulta alcuna coincidenza tra il mestiere di spacciatore e la nazionalità di provenienza. Taccia dunque il pensionato povero e si vergogni dei suoi «pensieri immondi».
«Eppure la povertà degli italiani esiste, ed è perfino peggiorata negli ultimi anni.» È una povertà fatta di pensioni minime, di mancanza di alloggi alla portata di salari peggiorati. Benché la classe operaia dell'industria esista ancora, seppure diminuita numericamente, per la sinistra chic “non esiste più”, quindi sarebbe futile darsi da fare per migliorarne la condizione. Come meravigliarsi se poi tutti questi penultimi cerchino protezione non nella sinistra, ma nella destra? In Italia come negli States, parte dei quali dopo aver votato per due volte Obama, un afro-americano, hanno deciso di rivolgersi a Trump, salvo venire accusati di razzismo e di essersi fascistizzati.
Aggiunge Rampini:
«Poi c’è la nuova classe operaia. I fattorini di Amazon sono un esempio di mestieri in crescita, grazie al boom dell’economia digitale e del commercio online: guadagnano meno dei metalmeccanici, metalmeccanici, fanno lavori manuali, spesso con contratti precari e a termine. Mi sembra corretto includerli in una definizione aggiornata di classe operaia. Come le commesse degli ipermercati. I vigilantes che fanno la guardia di notte agli uffici. Il personale di sicurezza degli aeroporti. Le infermiere degli ospedali. (…).»
Ci sarebbe da osservare che in Italia la classe operaia, vecchia e nuova, nonché gli strati sociali più poveri, allontanandosi dalla sinistra si sono rivolti non tanto alla destra leghista, quanto in maggioranza al M5S, sempre associato dal PD alla destra per pura ipocrisia ideologica (e Rampini su questo tace, quando non acconsente).
Ultimi e penultimi
Dopo avere messo in luce quanto di strumentale e modaiolo si nascondesse nelle campagne no borders relative al Muro con il Messico, in realtà voluto bipartisan sia dai democratici che dai repubblicani, Federico Rampini affronta il problema migratorio.
Cito in sequenza le sue affermazioni, che sono un “bigino” di quanto ha già sostenuto Joseph Stiglitz:
«Il risultato dell’immigrazione è ovvio: i livelli salariali si abbassano, o rimangono bassi, rispetto a quel che sarebbero senza immigrazione. (…) L’immigrazione, da sempre, è stata usata dai capitalisti per indebolire il potere contrattuale dei dipendenti. (…) Non è un caso se i top manager delle multinazionali americane e gli editorialisti del “Wall Street Journal” sono ferocemente contrari a Trump sull’immigrazione. (…) gli industriali, i ricchi, hanno sempre voluto le frontiere aperte, e sapevano benissimo quel che volevano.»
«Il fatto che le società occidentali siano diventate più diseguali mentre diventavano più multietniche, che abbiano visto aumentare il numero dei nuovi poveri (anche nuovi poveri “nazionali”) forse meriterebbe un po’ più di attenzione da parte della sinistra. Infine, per favore, evitiamo l’altra banalità per cui “gli stranieri ci pagheranno le pensioni”.»
I tecnocrati, osannati dalla sinistra, evidenziano che le pensioni di oggi sono pagate dal gettito di cassa dei contributi odierni, sicché il sistema è sostenibile solo se il flusso immigratorio continuerà anche in futuro. Nel qual caso gli immigrati pagheranno non tanto le “nostre”, quanto le loro stesse pensioni. In un contesto in cui il welfare è stato e viene smantellato, rendendo problematica l'integrazione effettiva ed esacerbando i conflitti tra ultimi e penultimi, la loro presenza triplicherà (come in Svezia e negli Usa).
È questo che vogliamo? «Come minimo i cittadini italiani hanno il diritto di essere consultati per sapere se è questo che desiderano.»
La questione meriterebbe un seppur breve accenno al motivo per il quale ciò non è avvenuto.
Lasciandolo in sospeso, Rampini passa direttamente ad attaccare l'dea stigmatizzata per cui “aiutarli a casa loro” sarebbe di destra, in conseguenza dell'assunto della sinistra “realista” per cui «l’immigrazione è semplicemente ineluttabile. Viviamo in un mondo globalizzato dove le frontiere non sono veramente difendibili.»
Anche sull'”aiutarli a casa loro”, ritornano le argomentazioni di Stiglitz, per altro ricorrenti in altre pubblicazioni antecedenti quelle del premio Nobel per l'Economia, globalizzatore semi-pentito.1
«L’emigrazione impoverisce il paese di partenza, in tanti modi. Partono i migliori, i più dotati, e anche i più coraggiosi, in genere: quelli che hanno talenti da vendere su un mercato del lavoro più avanzato. Partono spesso anche i membri delle élite intellettuali, che sanno destreggiarsi per inserirsi in una società straniera. Questo depaupera non solo l’economia della nazione che si lascia, ma pure la sua società civile e la sua politica.»
Una volta “scoperto” ciò che da tempo è risaputo, ci si aspetterebbe un approfondimento seppur succinto, dato il carattere giornalistico del libro, su questo strano giro in forza del quale, in un mondo dominato dagli oligopoli finanziarizzati, il capitalismo nord-occidentale (a guida statunitense) riesca a prendere i classici due piccioni con una fava. Ad un tempo: depaupera sia la working class dei Paesi di accoglienza, sia l'insieme politico ed economico-sociale dei Paesi di partenza, impedendone lo sviluppo indipendente.
Invece Rampini non trova di meglio che evidenziare la contraddizione nella quale cade la sinistra: rifiutare l'idea generale di “aiutarli a casa loro” e minimizzare l'opera di coloro i quali, tramite le organizzazioni non governative, già lo fanno.
Non alza lo sguardo sugli aiuti internazionali, per mezzo dei quali molti Paesi del Sud dovevano essere supportati sulla via dello sviluppo.
Gli è completamente estranea la denuncia critica della pratica complessiva degli “aiuti condizionati”, avanzata dai sostenitori dello sviluppo indipendente dei Paesi del Sud, le periferie del mondo. Per spiegare di cosa si tratti, cito per tutti Samir Amin, che fu presidente del Forum mondiale delle Alternative [vedi finestra dedicata in pagina].
Samir Amin
(1931-2018), economista marxista egiziano-francese, politologo ed analista dei sistemi mondiali. Noto per la introduzione del termine “Eurocentrismo”, fu autore di numerose pubblicazioni, per lo più disponibili in francese (éditions de minuit). Ha diretto il Forum du Tiers Monde a Dakar ed è stato presidente del Forum mondiale delle Alternative. Docente in varie università, è stato consigliere economico di alcuni paesi africani. Presso le Edizioni Punto Rosso, oltre al libro da cui è tratta la citazione sotto riportata, ha pubblicato nel 2009 “La Crisi – Uscire dalla crisi del capitalismo o uscire dal capitalismo in crisi?”
Gli “aiuti”, strumento di controllo dei paesi vulnerabili
«Il concetto di “aiuti” risulta stretto in una camicia di forza. Le strutture sono state definite dalla Dichiarazione di Parigi sull'efficacia degli aiuti (2005), stilata dalla Oecd (Organisation for Economic Co-operation and Development) e poi sono state imposte ai beneficiari. La condizione generale, l'allineamento ai principi della globalizzazione liberale, è onnipresente. A volte viene detto in modo esplicito: promuovere la liberalizzazione, aprire i mercati, diventare “attraenti” all'investimento straniero privato. Talvolta espresso indirettamente: rispetto delle regole del Wto (World Trade Organization). Un paese che rifiuta di sottoscrivere questa strategia – definita unilateralmente dal Nord (la Triade) - perde il diritto di essere scelto per gli aiuti.»
da Samir Amin, “L'imperialismo contemporaneo”,
Punto Rosso, 2010, pag. 59-60.
Esiste un modo per aiutarli a casa loro, tanto più umanitario in quanto politico, sempreché si porti la politica al livello di una effettiva solidarietà internazionalista. Nella nostra Costituzione del 1948 si possono leggerne i principi di pace e cooperazione tra popoli uguali. Non a caso oggetto degli anatemi di J.P. Morgan2 perché troppo socialista.
Noi” chi?
Noi del Nord, o se preferite dell'Occidente ricco, non siamo l'ombelico del mondo, a dispetto della lunga storia dei popoli di tutti i continenti. Non lo siamo ora, come non lo fummo in passato. Dunque, suggerisce Rampini, bando ai sensi di colpa per i mali che lo pervadono, di chi pensa e di conseguenza agisce in base al presupposto: «noi siamo la causa, noi siamo la soluzione, se soltanto facciamo le cose giuste.»
Il rigetto del presupposto meriterebbe un chiarimento su quel “noi”.
Il senso di colpa è comprensibile, in particolare se coinvolge sentimenti religiosi. Benché non causa responsabile, i cittadini del Nord hanno goduto, magari in minima misura, dei vantaggi di vivere qui, al centro privilegiato del capitalismo dominante che non smette mai di depredare le risorse del Sud (una accumulazione non “primitiva”, ma ininterrotta e vigente). Pertanto, come “noi” non siamo la causa, non possiamo essere la soluzione, pretendendo di sostituirci alla lotta di liberazione dei depredati. Tanto meno quando pretendiamo di farlo tramite i mega-concerti del protagonismo umanitario mediatico.
Ben altro ruolo protagonista, tuttavia, “noi” lo possiamo svolgere: impegnandoci contro gli artefici hard e soft della divisione del mondo, in un centro imperiale, costituito da Stati Uniti, Europa e Giappone e le tante periferie (la stragrande maggioranza dell'umanità) non liberate, sebbene in parte e limitatamente emancipate per l'emergere di Paesi come la Cina.
Tanto più in considerazione del fatto che quel diaframma che prima sembrava dividere solo il Nord dal Sud, l'apartheid del mondo, si è ripresentato, dopo decenni di globalizzazione liberista e liberale, anche nei Paesi ricchi nord-occidentali, estendendo la povertà dagli invisibili (“la classe operaia non esiste più”) pure ai meno invisibili ceti di medio reddito e status, ai quali era stato fatto credere di essere “garantiti” per sempre.
Scrive Rampini:
«Solo espiare le nostre colpe può appagare una sinistra che non apre mai i libri di storia.»
Ma qui non c'è ignoranza, perché la cosiddetta “espiazione” appaga una sinistra di istruiti, accomodata nel presente. Un accomodamento al quale il passato, rispiegato da Rampini, potrà offrire unicamente il sollievo dal “senso di colpa”.
Accade quando l'illustre giornalista - lui che i libri di storia li legge! - sostiene che le popolazioni pre-colombiane furono decimate più dalla mancanza di anticorpi verso le malattie importate dai conquistatori che dalle loro armi, come se il documentato sterminio virale potesse mettere in secondo piano tutti gli altri modi di venire sommersi e morire per effetto della riduzione allo stato servile di intere società. Quando scopre che “noi” non abbiamo inventato lo schiavismo, come se occorresse detenere questa primogenitura per fare mercato di milioni e milioni di africani, deportati e sfruttati nelle piantagioni dei coloni americani, privando di energie umane vitali per lo sviluppo intere generazioni del Continente nero, dal quale tutti proveniamo.
Dulcis in fundo, qualora non bastasse questo “giustificazionismo storico”, avendo portato l'esempio dell'Etiopia, asserisce:
«L’Etiopia non può e non vuole attribuire a noi i suoi problemi. Non solo non è mai stata una colonia dei bianchi (ndr l'Italia non l'ha colonizzata, ma “solo” occupata, usando l'iprite contro le sue truppe) ma nella sua storia recente ha scelto per un lungo periodo di agganciarsi all’altro polo, l’anti-Occidente per eccellenza, l’Unione Sovietica. Ora rischia di scivolare verso un altro anti-Occidente, la Cina.»
«L’invasione però procede implacabile: in molti paesi africani, il rapporto tra gli investimenti cinesi e quelli occidentali è dieci a uno.»
In buona sostanza, ci dice Rampini, “noi” stiamo a gingillarci coi problemi di coscienza, mentre quelli, i cinesi della «nuova superpotenza»,3 investono dove “noi” siamo assenti perché rifiutiamo stupidamente di aiutarli a casa loro. Ma gli investimenti non sono una buona cosa, a prescindere da chi li fa? Oppure i “nostri” investimenti occidentali sono migliori, trascurando le condizioni alle quali li subordiniamo?
A tale proposito, un osservatore acuto ed un assiduo lettore di libri di storia, qual è Rampini, dovrebbe sapere che Enrico Mattei [nella foto]
fu assassinato nel 1962 per aver osato, per conto dell'Eni, proporre contratti migliori di quelle imposti dalle sette sorelle del petrolio...
Venezuela e dintorni
L'elenco dei nemici deve allungarsi, per aderire alla riesumata strategia dei democratici statunitensi, surclassati da Donald Trump che preferisce agire con altri mezzi per lo stesso fine: arrestare la decadenza della leadership mondiale degli Stati Uniti d'America.
Poteva mancare il Venezuela di Maduro? La polemica con il «crescente rimbecillimento dei progressisti» non fa sconti e trova il modo di infilare tra questi Corbyn, il M5S e persino la Cgil, colpevole di equidistanza tra un «regime sanguinario» e la sua democratica alternativa. «Triste destino per quello che fu un grande sindacato ai tempi che ricordo io, quelli di Luciano Lama e Bruno Trentin.»
«Tanti di loro (americani, europei, italiani), se Trump si schiera contro qualcuno peggiore di lui, si sentono obbligati a solidarizzare col mascalzone. Un esempio? Maduro. In Italia il Movimento 5 Stelle all’inizio del 2019 ha scelto di riscoprire la sua “anima di sinistra” nel peggiore dei modi: assolvendo un tiranno paleosocialista; bloccando il riconoscimento da parte del nostro governo di un’alternativa democratica alla guida del Venezuela.»
Di sfuggita accenno ai tempi che ricordo io, nei quali la Cgil di Lama e Trentin si fece corresponsabile della austerità ante litteram che, anticipando quella ordo-liberista europea, segnò i primi sostanziali arretramenti4 delle conquiste dei lavoratori italiani a vantaggio di un grande padronato, il quale poi non si fece scrupolo di accorparsi (vedi Fiat) alla finanza internazionale ed europea, dopo aver incassato i benefici della “solidarietà nazionale”.
Più avanti nel suo libro, Rampini rivisita i decenni in cui l'Italia: «S’impegna a una dura disciplina, anche per ricostruire la fiducia degli investitori. L’epoca si situa molto prima della nascita dell’euro o della crisi del 2008. È l’inizio degli anni Ottanta. Iperinflazione e terrorismo.»
«Quel meccanismo [la scala mobile] adegua i salari dei lavoratori dipendenti all’inflazione, compensando circa l’80 per cento del rincaro del costo della vita. Deve garantire la pace sociale ma ci riesce solo in minima parte: l’Italia resta paralizzata dagli scioperi ed è insanguinata dagli attacchi delle opposte fazioni terroristiche.»
«Il quadro mondiale è quello di una restaurazione conservatrice: alla Casa Bianca arriva Ronald Reagan, campione del neoliberismo. È l’inizio di un trentennio che sposterà brutalmente i rapporti di forza, riducendo i salari per aumentare i profitti. Ma l’Italia supera la tempesta e avvia un risanamento.»
Non ha l'impudenza di imputare l'inflazione alla scala mobile, ma, a conti fatti, dopo aver associato disinvoltamente scioperi ed opposti terrorismi nel minare la pace sociale, tutto è bene quel che finisce bene... Sennonché:
«Inizia in quegli anni la lunga marcia dell’Italia verso l’euro (dopo l’esperimento intermedio dello Sme, il Sistema monetario europeo). L’approdo alla moneta unica sarà merito o colpa storica del centrosinistra, il giudizio finale cambierà a seconda delle stagioni politiche. L’accelerazione verso l’euro, dopo la caduta del Muro di Berlino e la riunificazione tedesca, avverrà però sotto il segno dominante dell’«ordoliberismo» germanico e dell’austerity.»
Davvero un altro strano giro si completa e Rampini tra merito e colpa proprio non sa quale possa essere il suo “giudizio finale”. Ai posteri l'ardua sentenza!
Ancora sul Venezuela5
Si dà il caso che nel suo sottosuolo vi siano le più grandi riserve petrolifere del mondo. Si dà il caso che il governo chavista avesse in programma di commercializzare il proprio petrolio adottando una moneta, il Petro, facendo a meno del dollaro americano.
Per inciso, il sistema attuale degli scambi e dei valori è basato sull'accettazione-uso del dollaro, inconvertibile in oro dal 1971, come moneta di riserva internazionale. Ossia di una moneta creata da uno Stato, al centro del suo mondo, con la sua finanza, la sua bisca (Wall Street) ed... i suoi debiti. Può permettere che è il petrolio, ad oggi la prima delle materie prime, non venga commercializzata in dollari?
Sicché l'intento di Maduro ha toccato il nervo scoperto di Washington, determinandone la reazione bipartisan delle sanzioni. Oltre le sanzioni si era spinta quando Saddam Hussein, amico prezioso per fare la guerra all'Iran, pensò di commerciare il petrolio iracheno in euro ed allorché Gheddafi propugnò una moneta africana indipendente.6 Serve aggiungere altro, a proposito dell'attuale embargo di Trump sul commercio di petrolio dell'Iran, che inibisce pure all'Italia di importarlo?
Oppure, una volta stabilito, per insindacabile giudizio di Washington, che un Paese è governato da un tiranno, ovviamente sanguinario, chi lo giudica è legittimato ad appropriarsi delle sue risorse “a tutela dei propri interessi strategici”?
Non c'è traccia in Rampini di opposizione a questo basilare assetto monetario e finanziario capitalistico, che permette agli USA di porsene il centro.
Anzi, sostiene che l'America è diventata autosufficiente dal punto di vista energetico ed il «petrolio arabo non le serve più». Come se la raggiunta autosufficienza comportasse per il centro della finanza mondiale un possibile disinteresse per il controllo, per sé vitale, della “prima materia prima”.
Sicché aggiunge, “babbiando”: «le flotte militari Usa nel Mediterraneo, Golfo Persico e Oceano Indiano presidiano rotte petrolifere vitali per l’Europa, l’India, la Cina, il Giappone; ma non più per gli Stati Uniti.»
Di conseguenza, perché mai gli Usa dovrebbero continuare a farsi carico del generoso presidio, senza coinvolgere Europa e Giappone, gli storici alleati che rischiano di rimanere a secco? Si uniscano anch'essi all'America e si prendano gli oneri ed i rischi relativi!
Il partito dello spread
Scrive sconsolato Rampini:
«Com’è accaduto che lo spread tra Btp e Bund sia diventato una Linea Maginot dietro la quale la sinistra italiana è asserragliata, un baluardo a cui si aggrappa pur di fare opposizione ai populisti-sovranisti? È giusto che lo slogan recente di certi progressisti sia “attenti al giudizio dei mercati”? Agli indici di Borsa? Alle pagelle delle agenzie di rating? E ancora: sentirsi profondamente europeisti, significa sdraiarsi sull’austerity germanica? Proprio quella che abbiamo criticato per anni?» Fatto sta che se questo accade non è per un semplice atteggiamento sbagliato o per via di «un incantesimo malefico».
Gli esponenti della sinistra italiana parlano «come i funzionari del Fondo monetario internazionale o i chief executive delle multinazionali riuniti a Davos».
Hanno perso il senno?
No, hanno aderito a Maastricht e ceduto sovranità democratica all'Unione Europea, perché si sono fatti tutt'uno con la strategia della borghesia delle “grandi famiglie” italiane che si è “internazionalizzata”. Hanno riposto in mani sovranazionali, non solo della Ue, la determinazione del contesto politico-economico al quale parlamento e governo nazionali devono attenersi, se non vogliono che l'Italia venga sanzionata o dai “mercati finanziari” o dalle “strutture tecnocratiche” dell'Unione. Per alzare il segnale di attivazione delle sanzioni sono stati fissati i parametri, tra i quali spicca il famigerato 3% nel rapporto deficit/Pil. Come dimostra l'andamento “a bacchetta” dello spread, il quale, aumentando gli interessi sui nostri buoni del tesoro (un terzo dei quali è nelle mani di investitori esteri), minaccia di vanificare ogni intento di spesa pubblica sociale voluta dal corpo elettorale.
Quella borghesia, come il caso Fiat-Marchionne evidenzia, non si è finanziarizzata a livello internazionale perché disperava di potercela fare da sola a guarire gli atavici mali italiani elencati da Rampini: amministrazione pubblica inefficiente, evasione, abusivismo e mafie. Con questi mali ha sempre convissuto e collaborato, pur lamentandosene.
Ha più semplicemente seguito le sue naturali propensioni a: condurre da posizioni di forza la lotta di classe (“senza la lotta di classe”) a danno delle classi subalterne; massimizzare i profitti attraverso la finanziarizzazione, la quale supponeva la concentrazione oligopolistica su scala continentale e globale, per spremere tutta la sottostante “economia reale”.
Constatare ora che «le rigidità con cui Bruxelles-Berlino avrebbero dovuto disciplinarci non hanno avuto il minimo effetto su queste tare ataviche», nonché apprendere dall'evidenza che «non erano la cura per quei mali», significa credere che fossero dirette a curare quei mali, mentre invece miravano a sottomettere il nostro Paese, tramite vincoli esterni extra-democratici, al forzoso prelievo della finanza, alla quale la grande borghesia italiana si è accorpata.
A nulla vale lamentarsi del surplus commerciale della Germania che, in base ad un esercizio di potenza, viola uno dei vincoli stabiliti, quando la sinistra ha approvato l'introduzione nella nostra Costituzione del principio della compatibilità di bilancio (art. 81), caro a Bruxelles-Berlino.
Né sarà di rimedio «portare a Bruxelles posizioni molto critiche» dal momento in cui dovremmo assicurare che «non usciremo mai dall’euro né tantomeno dall’Unione». Al contrario, solo se saremo pronti ad uscire dall'euro, disponendo di un serio piano B, avremo qualche possibilità di farci ascoltare. Sempreché la Germania receda dalla sua linea: un evento altamente improbabile.
La logica nazionalistica di potenza tedesca è stata intesa da Donald Trump. Dopo anni di inascoltate critiche, rivolte da Obama alla Merkel, affinché espandesse la propria domanda interna e riducesse il surplus esportativo, Trump è passato alle vie di fatto, al protezionismo dei dazi, per risolvere l'annosa questione dello sbilancio commerciale tra Usa e Germania, coinvolgendo tutti i soci dell'Unione. Peggio per loro se le sottostanno, avvinghiati alla moneta unica che la privilegia nell'export.
Ma ciò vale solo per la superpotenza nord-americana, non per la malata e subalterna Italia, la quale poveretta, per Rampini non ha scelta. A sostegno del remain nella moneta unica, non esita ad “addolcire” il pensiero stesso di Joseph Stiglitz, suo faro neo-keynesiano:
«L’euro – mi disse Stiglitz – è nato su premesse profondamente sbagliate e ha fatto danni gravi, in particolare all’Europa del Sud. Ma dato che l’Italia c’è dentro, uscirne comporterebbe dei costi ancora peggiori. Non è un’analisi esaltante: costringe a scegliere il minore tra due mali.»
Non dubito delle confidenze ricevute da Rampini. Eppure, nel suo libro The Euro: How a Common Currency Threatens the Future of Europe (agosto 2016), Stiglitz prevede due sole possibili opzioni: o un coraggioso "euro flessibile", ipotesi data per meno probabile data la palese assenza di solidarietà intra-europea (ndr della Germania e dei suoi alleati), o una concordata distruzione dell'euro.7
Sul malinteso europeismo della sinistra, “epocale” è la conclusione di Rampini:
«No, davvero non vedo un futuro per la sinistra italiana se si ostinerà a essere il partito dei mercati finanziari e dei governi stranieri, in nome di un europeismo beffato proprio da tedeschi e francesi.»
Il fattorino di Mosca
Rampini è un critico intransigente delle multinazionali della Silicon Valley e diffida di Internet.
Rimprovera a Bill Clinton di essersi allineato a Bill Gates nel proclamare: «Internet renderà il mondo più libero». Si solleva contro «i miliardari dell'economia digitale [che] si proclamano orgogliosamente di sinistra, (…) sempre dalla parte giusta nelle battaglie valoriali: sono favorevoli agli immigrati (salvo sottopagarli quando sono addetti alle pulizie negli uffici di Apple) (...)».
È tutto oro quel che luccica? Non proprio.
«(...) i regimi autoritari sono stati veloci ad aggiornarsi, assoldando talenti tecnologici al servizio della repressione. Nello stesso periodo c’è stato il ciclone WikiLeaks e il gigantesco equivoco su Julian Assange. (…) Il mito di Assange è crollato in seguito, soprattutto grazie al Russiagate, l’indagine sull’ingerenza di Mosca per sabotare la campagna elettorale di Hillary Clinton.»
Assange, tramite WikiLeaks, è diventato «il fattorino abituale delle consegne in arrivo da Mosca»:
«Quando viene arrestato dalla polizia inglese il 7 dicembre 2010 e detenuto per dieci giorni, tra le celebrity che raccolgono fondi per pagargli la cauzione c’è il regista Michael Moore.»
«Assange si difende blandamente, spiegando di non avere mai ottenuto segreti degni di qualche interesse sulla Russia o sulla Cina o su Trump. In effetti WikiLeaks ha pubblicato tante notizie su stragi americane in Iraq, nulla sui bombardamenti russi in Siria.»
Sorge spontanea una domanda. Giacché non sono mancate le news sui bombardamenti russi in Siria, grazie al free speech occidentale, perché mai avremmo dovuto rinunciare a quelle relative alle stragi ed alle torture americane in Iraq, rivelatesi vere, seppur imbeccate dai servizi informativi di Putin?
Una domanda che Rampini non si pone: l'equidistanza lo indigna, come già quella sul Venezuela. Quel che gli preme non è la verità dei fatti. La libertà d'informazione è except war crimes. Quando svela i crimini degli Usa, ossia del “nostro campo”, va censurata: è meglio tenere all'oscuro l'opinione pubblica. Meglio creda che il male stia tutto dall'altra parte.
Preso da un irrefrenabile spirito da guerra fredda, tra i nemici include pure Casaleggio:
«I cori che inneggiavano all’eroe della trasparenza Julian Assange si sono ammutoliti. Troppo tardi. Anche in questo caso, il danno ormai è fatto. Sempre in nome di una presunta modernità, affascinata dalla sofisticata cultura tecnologica che WikiLeaks condivide con hacker e cyberpirati, la sinistra è caduta anche in questa trappola. Il “modello Casaleggio”, la tirannide della Rete, non nasce nel vuoto (…).»
Dopodiché non meravigliatevi se leggerete quanto sia giusto estradare Assange, dal Regno Unito agli States, processarlo per spionaggio in base alle loro leggi (benché lui sia australiano) in un rinnovato clima maccartista, però condiviso da una sinistra che esce dalla sua buia notte.
Keynesismo neo e post
Rampini conclude il suo testo, lamentandosi che in Italia si confonda l'esigenza di uno Stato forte con il fascismo. Dovevamo fare come De Gaulle in Francia, invece – sottinteso - Matteo Renzi ha mancato l'ultima occasione, personalizzando il referendum e perdendolo.
Ma le sue vere conclusioni Rampini le ha già tratte cammin facendo, nello svolgimento del suo discorso.
In particolare ha identificato via via i nemici dell'Occidente a guida nord-americana, attorno alla quale raccoglierci in una rinnovata crociata contro le esterne minacce. Alle quale bisognerebbe rispondere non con l'inefficace neo-isolazionismo di Trump, bensì con una maggiore concertazione tra alleati storici (come voleva Obama).
Essa dovrebbe poggiare su due punti forza che riesumano la guerra fredda contro il comunismo:
  • politiche neo-keynesiane per la pace sociale interna ai Paesi ricchi;
  • l'adesione alla strategia del Pentagono che, per fortuna dell'Occidente, non è abituato a ragionare in termini di ritirata.
Non ho alcuna pretesa di dare una interpretazione autentica del portato di J.M. Keynes. Vorrei solo evidenziarne alcuni aspetti, sottolineando come Rampini, benché si dichiari neo-keynesiano, tagli dal pensiero di Keynes le parti per lui scomode.
Il primo attiene alla questione della moneta internazionale.
È risaputo che a Bretton Woods nel 1944 l'economista inglese propose il Bancor, una moneta di conto universalista. Gli Stati Uniti, al contrario, imposero il gold dollar standard, ossia il dollaro convertibile in oro, sostituendo il defunto Gold Exchange Standard.
Quando fu evidente che non potevano più convertire in oro tutti i dollari che avevano stampato, pure per pagare la guerra in Vietnam, Nixon nell'agosto del 1971 dichiarò l'inconvertibilità. Il sistema si mutò di fatto nel puro dollar standard. Invano qualche anno fa il direttore della Banca centrale cinese propose l'adozione di una moneta tipo Bancor, per riequilibrare in senso multilaterale i rapporti internazionali di scambio e commerciali, nonché regolare i debiti degli Stati Uniti derivanti dai loro sbilanci.
Poiché the Donald a tutto pensa, fuorché privarsi dell'assoluto privilegio detenuto dagli USA attraverso il dollaro, cardine dell'egemonia della sua finanza con centro a New York, da che parte deve propendere la sinistra? Nella vicenda venezuelana, come in altre occasioni, la risposta è stata bipartisan, la stessa della destra, sia in America che in Europa.
In secondo luogo, è altrettanto risaputo che per Keynes la repressione della finanza e delle sue bische (le borse) è indispensabile per salvaguardare la economia delle produzioni di beni e servizi, preservandola dai collassi finanziari. Giacché, anche dopo il crack del 2007-2008, ben poco è stato fatto in questa direzione, da che parte deve propendere la sinistra?
Forse mi sono perso passaggi importanti di Rampini a riguardo. Non ho trovato nemmeno un riferimento alla netta separazione tra banche commerciali e banche d'investimento introdotta dalle leggi Glass-Steagall del biennio 1932-1933, abrogate da Clinton nel 1999, nonostante i suoi continui elogi alle politiche keynesiane di F.D. Roosevelt.
Dico “nemmeno”, perché nelle attuali condizioni, date dalla recente globalizzazione, leggi del tipo Glass-Steagall sarebbero auspicabili, ma insufficienti a mettere i ceppi alla finanza. Il suo dominio è il dominio degli oligopoli finanziarizzati ed è arduo pensare che il ritorno dello Stato-nazione possa porre sotto controllo la finanza senza “nazionalizzare” gli oligopoli stessi. Ma su questo punto il dibattito è aperto.
Quanto all'intervento dello Stato in economia, altro aspetto del keynesismo, esso ha avuto, per ammissione dello stesso Keynes, due applicazioni non sempre discordanti. Da un lato in direzione della piena occupazione e della crescita con welfare; dall'altra in funzione della produzione bellica e della guerra.8
Di contro, giusto per fare un esempio, in piena restaurazione liberista, Ronald Reagan praticò abbondantemente il “keynesismo militare” per mettere sotto pressione una Unione Sovietica ai rantoli finali e finanziare il proprio apparato bellico, nel momento in cui stava attaccando il welfare ed i lavoratori.
All'arme
Lanciare il segnale di pericolo è di sinistra. Di una sinistra più post che neo-keynesiana, la quale imputa a Trump di praticare l'isolazionismo e la ritirata dalla responsabilità di proteggere il “nostro” mondo.
Qui l'analisi rampiniana raggiunge il massimo ed inanella una serie di allarmi.
«Il Pentagono ha tentato invano di dissuadere Trump dal ritirare tutte le truppe, le discussioni tra i suoi generali e il capo dell’esecutivo sono state tempestose. I militari americani temono di abbandonare al loro destino gli alleati curdi, che hanno avuto un ruolo decisivo nella lotta contro l’Isis, e contro i quali, adesso, può scatenarsi senza ritegno la furia di Erdog˘an, che li considera «terroristi» (…).»
Immaginiamo quanto i capi del Pentagono tengano alla causa curda, avendola già in passato appoggiata con la fornitura dei gas per le stragi di curdi dell'allora alleato Saddam in guerra con l'Iran.
«Tutto ciò accade in un contesto di ritirata più generale dell’America.» Questo è il vero punto.
Pensate, lo sciagurato Trump vuole pure ritirarsi dall'Afghanistan, accordandosi coi talebani, prima che l'Isis vi prenda definitivamente piede!
«Lo strappo senza precedenti è con i vertici militari al gran completo, solidali con Mattis9 nel condannare l’abbandono della Siria. Manda un segnale tremendo a tutti gli alleati, di cui Mattis difendeva l’importanza. Conferma che la visione di America First di Trump non è solo nazionalista, sovranista. È anche il ritorno all’isolazionismo che precedette l’intervento nella seconda guerra mondiale; e apre spazi enormi ai rivali dell’America: Cina, Russia, Iran.»
«Nell’analisi dei vertici militari Trump smobilita la leadership Usa, liquida un’egemonia, chiude frettolosamente un «secolo americano» fatto di investimenti in hard power e soft power. Apre varchi ai nemici di sempre, crea le condizioni di un indebolimento durevole. I generali americani non sono stati formati alla resa. Vedono un disegno di lungo periodo che li angoscia. (...)»
Rampini è angosciato quanto i generali del Pentagono e, suppongo, i loro fornitori di hard power. Eppure, il primato statunitense non è in forse.
In percentuale sulla spesa globale militare, Cina e Russia assommano (17,1%) a meno della metà di quella effettuata dagli Stati Uniti (36%).
Sono dati dell'Istituto Internazionale di Ricerca di Pace di Stoccolma (SIPRI), secondo il quale le spese militari statunitensi hanno raggiunto i $ 649 miliardi nel 2018 (3,2% del Pil), mentre quelle della Cina, nello stesso anno, sono a $ 250 mld (1,91% del Pil).10 La Russia ha speso $ 61,4 mld (4% del Pil), ma meno, in assoluto, di Arabia Saudita, India e Francia.
In base a tali proporzioni ed alla presenza fuori dai propri confini delle forze armate del Pentagono, disseminate su tutto il globo terracqueo, la minaccia cino-russa (eventuale e futura) è enfatizzata per giustificare quella statunitense (certa e presente). Con lo scopo politico evidente, per chi non voglia nascondersi dietro un dito, di riesumare la guerra fredda, col solito metodo di ingigantire l'avversario per spargere panico. Se la sinistra vuole ridiventare amica dei popoli in coda ad una corsa al riarmo guidata da Washington, è proprio il caso di dire: “Dai nemici mi guardi Dio, che dagli amici mi guardo io.”

Note
1 Joseph E. Stiglitz, “La globalizzazione e i suoi oppositori – Antiglobalizzazione nell'era di Trump”, Nuova edizione, Einaudi, 2018.
2 La nota banca d'affari statunitense, J.P. Morgan, divulgò nel 2013 un rapporto in cui si leggeva: “le costituzioni europee, nate dall'esperienza della lotta antifascista, mostrano una forte influenza delle idee socialiste.” Dalle quali era necessario liberarsi.
3 Tra gli altri Rampini si riferisce, a proposito delle diseguaglianze globali, agli studi di Branko Milanović, dai quali proprio non emerge che la Cina possa essere definita “nuova superpotenza”.
4 La concertazione iniziò nella seconda metà degli anni settanta e Bruno Trentin sottoscrisse nel 1992, prima di dimettersi da segretario della Cgil, un accordo sulla politica dei redditi che pose fine alla scala mobile, il meccanismo di riadeguamento automatico dei salari al costo della vita, imputato di essere non la conseguenza ma l'origine dell'inflazione. A questo proposito vedi L. Gallino, “Il colpo di Stato di banche e governi”, Einaudi, 2013.
5 Sull'insieme della crisi venezuelana, vedasi il Post “I broccoli del Venezuela”, marzo 2019.
6 Incontrando l'appoggio della Francia di Sarkosy che alle ex-colonie ha lasciato in dono il franco africano.
7 The Euro and its threat to the future of Europe, su bookshop.theguardian.com.
8 A questo proposito si vedano le sue osservazioni sulle riforme hitleriane (del ministro delle Finanze Hjalmar Schacht) per il rilancio dell'economia tedesca.
9 Nota mia. Il generale dei marine, James Mattis, detto “mad Dog”, si è dimesso in contrasto con Trump che lo aveva messo a capo del Pentagono.
10 I dati sul Pil nominale cinese, fonte FMI, sono tratti da:

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