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Rampini, nella notte della sinistra
brillano le stelle (e strisce)
degli
States,
meglio se con un futuro presidente democratico, più risoluto di
Obama.
Come
una critica frizzante ai radical
chic e
al politically
correct, “alla
sinistra dei mercati finanziari e dei governi stranieri”, si
traduca nella richiesta di uno Stato italiano forte nella rinnovata
alleanza d'Occidente contro Cina e Russia. Tra gli amici, i generali
del Pentagono. Tra i nemici, anche Maduro e... Julian Assange.
La
nuova pericolosa corsa agli armamenti verrà coperta con una politica
di pace sociale interna ai Paesi ricchi? È guerra fredda al
comunismo senza il comunismo?
Da
tempo Federico Rampini, celebre corrispondente estero di “la
Repubblica”, avverte il malessere della sinistra italiana e la
bersaglia di critiche da oltreoceano, avendo sotto gli occhi quella
americana, affetta dagli stessi mali. Nella sua ultima pubblicazione
[vedi copertina in pagina], contro una
sinistra che, rinunciando ad essere maggioranza, ha perso il suo
popolo, indica da dove ripartire per riguadagnarne l'appoggio.
La
rottura, alla quale Rampini vuole si ponga rimedio, deriva sia dalle
posizioni assunte dalla sinistra sui problemi dell'attualità
politica, sia dal suo atteggiamento culturale.
Per
Rampini queste posizioni, che regalano alla destra il consenso dei
segmenti popolari più deboli ed esposti al “globalismo”, emanano
da spocchia ed ignoranza storica, adagiate su idee superficialmente
“corrette”, prive di un pensiero degno della propria tradizione.
Eccone l'immagine:
«Tra
i guru progressisti ora vengono cooptate le star di Hollywood e gli
influencer dei social, purché pronuncino le filastrocche giuste sul
cambiamento climatico o sugli immigrati. Non importa che abbiano
conti in banca milionari, i media di sinistra venerano queste
celebrity. Mentre si trattano con disgusto quei bifolchi delle
periferie che osano dubitare dei benefici promessi dal globalismo.»
Tuttavia,
man mano che il discorso di Rampini si dipana, ci si rende conto che
il sottostante di “chi-come-perché” rimane sempre insondato,
privo dello spessore analitico evocato. Gli strali, di cui è zeppo
il libro, si traducono in ben poca cosa, che si parli della finanza o
dell'euro, della globalizzazione o delle relazioni internazionali.
Accade quando il giornalista incontra il rapporto tra Nord e Sud del
mondo; quando i dardi lanciati contro Wall Street non prendono a
bersaglio le strutture capitalistiche ed egemoniche, comprese quelle
militari, sulle quali si erge il dominio degli oligopoli e della
finanza. Restano un sacro mistero le radici delle “diseguaglianze
globali” e della povertà, nascoste sotto il pubblico
insopportabile scandalo degli straricchi, quell'1% che possiede più
di interi popoli.
E
ciò che nel racconto di Rampini potrebbe apparire una spregiudicata
critica, non si scosta mai da una scoppiettante e superficiale
descrizione della scena del crimine, che svia le indagini sul
possibile assassino. Anzi, lo assolve a priori e finisce con erigerlo
a perenne campione della salvezza universale.
(Genova,
1956) è uno dei più noti giornalisti italiani.
Residente
dal 1958 con la famiglia in Belgio, frequenta la Scuola europea di
Bruxelles. Rientrato in Italia nel 1974, studia alla Bocconi di
Milano ed alla Sapienza di Roma.
Nella
stampa del PCI, al quale è iscritto dal 1974 al 1984, inizia la sua
attività di giornalista, prima a Città
Futura
e poi a Rinascita.
Nel
1982 passa a Mondo
Economico
e a L'Espresso.
Dal 1986 è corrispondente dalla Francia del Sole
24 Ore,
di cui diviene vicedirettore nel 1991. Dal 1995 è a la
Repubblica,
della quale è via via corrispondente da Bruxelles, San Francisco,
Pechino e New York (dal 2009).
Pluripremiato
per la sua attività giornalistica, è autore di numerose
pubblicazioni collegate ai luoghi dai quali vede le trasformazioni
del mondo.
[Per
l'elenco dei suoi libri vedi:
Periferie
metropolitane
Sostiene
Rampini che sin da quando era corrispondente da Parigi, la sinistra
glamour,
insediata
nei confortevoli quartieri della Rive
gauche, non
s'era accorta di quanto stava succedendo altrove in città:
«Lentamente
ma inesorabilmente, iniziò in quel periodo un cambiamento della
classe operaia francese. La banlieue
(periferia) parigina, comunista da sempre, cominciò a votare a
destra. Trent’anni prima che questo diventasse un fenomeno poderoso
in tutto l’Occidente, era accaduto là e la ragione era una:
l’immigrazione.»
Incurante
dei disagi subiti dalla popolazione indigena, la sinistra guardava
unicamente agli ultimi (gli immigrati), trascurando colpevolmente i
penultimi.
A
distanza di qualche decennio a Roma San Lorenzo, dove è stata
stuprata ed assassinata Desirée Mariottini, la sinistra ripete
l'errore. Oltretutto, è diventato territorio di spaccio a cielo
aperto dei nordafricani, dove la droga è liberalizzata e manca la
minima sicurezza, un quartiere popolare che resistette al fascismo
sin dal '22, nel quale aveva sede la federazione del PCI e la stampa
comunista.
Ma
l'opinione politicamente corretta di sinistra sentenzia che bisogna
stare dalla parte dei più deboli, purché, sottinteso: «i
deboli siano stranieri, possibilmente senza documenti, meglio ancora
se hanno la pelle di un colore diverso dal nostro. (…) Tanto peggio
per i pensionati poveri, con cittadinanza italiana, se la sera hanno
paura a rincasare (…).»
Alle
loro proteste si risponde con le statistiche, dalle quali non risulta
alcuna coincidenza tra il mestiere di spacciatore e la nazionalità
di provenienza. Taccia dunque il pensionato povero e si vergogni dei
suoi «pensieri
immondi».
«Eppure
la povertà degli italiani esiste, ed è perfino peggiorata negli
ultimi anni.»
È una povertà fatta di pensioni minime, di mancanza di alloggi alla
portata di salari peggiorati. Benché la classe operaia
dell'industria esista ancora, seppure diminuita numericamente, per la
sinistra chic
“non esiste più”, quindi sarebbe futile darsi da fare per
migliorarne la condizione. Come meravigliarsi se poi tutti questi
penultimi cerchino protezione non nella sinistra, ma nella destra? In
Italia come negli States,
parte dei quali dopo aver votato per due volte Obama, un
afro-americano, hanno deciso di rivolgersi a Trump, salvo venire
accusati di razzismo e di essersi fascistizzati.
Aggiunge
Rampini:
«Poi
c’è la nuova classe operaia. I fattorini di Amazon sono un esempio
di mestieri in crescita, grazie al boom dell’economia digitale e
del commercio online: guadagnano meno dei metalmeccanici,
metalmeccanici, fanno lavori manuali, spesso con contratti precari e
a termine. Mi sembra corretto includerli in una definizione
aggiornata di classe operaia. Come le commesse degli ipermercati. I
vigilantes che fanno la guardia di notte agli uffici. Il personale di
sicurezza degli aeroporti. Le infermiere degli ospedali. (…).»
Ci
sarebbe da osservare che in Italia la classe operaia, vecchia e
nuova, nonché gli strati sociali più poveri, allontanandosi dalla
sinistra si sono rivolti non tanto alla destra leghista, quanto in
maggioranza al M5S, sempre associato dal PD alla destra per pura
ipocrisia ideologica (e Rampini su questo tace, quando non
acconsente).
Ultimi
e penultimi
Dopo
avere messo in luce quanto di strumentale e modaiolo si nascondesse
nelle campagne no
borders
relative al Muro con il Messico, in realtà voluto bipartisan
sia
dai democratici che dai repubblicani, Federico Rampini affronta il
problema migratorio.
Cito
in sequenza le sue affermazioni, che sono un “bigino” di quanto
ha già sostenuto Joseph Stiglitz:
«Il
risultato dell’immigrazione è ovvio: i livelli salariali si
abbassano, o rimangono bassi, rispetto a quel che sarebbero senza
immigrazione. (…) L’immigrazione, da sempre, è stata usata dai
capitalisti per indebolire il potere contrattuale dei dipendenti. (…)
Non è un caso se i top manager delle multinazionali americane e gli
editorialisti del “Wall Street Journal” sono ferocemente contrari
a Trump sull’immigrazione. (…) gli industriali, i ricchi, hanno
sempre voluto le frontiere aperte, e sapevano benissimo quel che
volevano.»
«Il
fatto che le società occidentali siano diventate più diseguali
mentre diventavano più multietniche, che abbiano visto aumentare il
numero dei nuovi poveri (anche nuovi poveri “nazionali”) forse
meriterebbe un po’ più di attenzione da parte della sinistra.
Infine, per favore, evitiamo l’altra banalità per cui “gli
stranieri ci pagheranno le pensioni”.»
I
tecnocrati, osannati dalla sinistra, evidenziano che le pensioni di
oggi sono pagate dal gettito di cassa dei contributi odierni, sicché
il sistema è sostenibile solo se il flusso immigratorio continuerà
anche in futuro. Nel qual caso gli immigrati pagheranno non tanto le
“nostre”, quanto le loro stesse pensioni. In un contesto in cui
il welfare
è stato e viene smantellato, rendendo problematica l'integrazione
effettiva ed esacerbando i conflitti tra ultimi e penultimi, la loro
presenza triplicherà (come in Svezia e negli Usa).
È
questo che vogliamo? «Come
minimo i cittadini italiani hanno il diritto di essere consultati per
sapere se è questo che desiderano.»
La
questione meriterebbe un seppur breve accenno al motivo per il quale
ciò non è avvenuto.
Lasciandolo
in sospeso, Rampini passa direttamente ad attaccare l'dea
stigmatizzata per cui “aiutarli a casa loro” sarebbe di destra,
in conseguenza dell'assunto della sinistra “realista” per cui
«l’immigrazione
è semplicemente ineluttabile. Viviamo in un mondo globalizzato dove
le frontiere non sono veramente difendibili.»
Anche
sull'”aiutarli a casa loro”, ritornano le argomentazioni di
Stiglitz, per altro ricorrenti in altre pubblicazioni antecedenti
quelle del premio Nobel per l'Economia, globalizzatore semi-pentito.1
«L’emigrazione
impoverisce il paese di partenza, in tanti modi. Partono i migliori,
i più dotati, e anche i più coraggiosi, in genere: quelli che hanno
talenti da vendere su un mercato del lavoro più avanzato. Partono
spesso anche i membri delle élite intellettuali, che sanno
destreggiarsi per inserirsi in una società straniera. Questo
depaupera non solo l’economia della nazione che si lascia, ma pure
la sua società civile e la sua politica.»
Una
volta “scoperto” ciò che da tempo è risaputo, ci si
aspetterebbe un approfondimento seppur succinto, dato il carattere
giornalistico del libro, su questo
strano giro
in forza del quale, in un mondo dominato dagli oligopoli
finanziarizzati, il capitalismo nord-occidentale (a guida
statunitense) riesca a prendere i classici due piccioni con una fava.
Ad un tempo: depaupera sia la working
class
dei Paesi di accoglienza, sia l'insieme politico ed economico-sociale
dei Paesi di partenza, impedendone lo sviluppo indipendente.
Invece
Rampini non trova di meglio che evidenziare la contraddizione nella
quale cade la sinistra: rifiutare l'idea generale di “aiutarli a
casa loro” e minimizzare l'opera di coloro i quali, tramite le
organizzazioni non governative, già lo fanno.
Non
alza lo sguardo sugli aiuti internazionali, per mezzo dei quali molti
Paesi del Sud dovevano essere supportati sulla via dello sviluppo.
Gli
è completamente estranea la denuncia critica della pratica
complessiva degli “aiuti condizionati”, avanzata dai sostenitori
dello sviluppo indipendente dei Paesi del Sud, le periferie del
mondo. Per spiegare di cosa si tratti, cito per tutti Samir Amin, che
fu presidente del Forum mondiale delle Alternative [vedi
finestra dedicata in pagina].
(1931-2018),
economista marxista egiziano-francese, politologo ed analista dei
sistemi mondiali. Noto per la introduzione del termine
“Eurocentrismo”, fu autore di numerose pubblicazioni, per lo più
disponibili in francese (éditions
de minuit).
Ha diretto il Forum
du Tiers Monde
a Dakar ed è stato presidente del Forum mondiale delle Alternative.
Docente in varie università, è stato consigliere economico di
alcuni paesi africani. Presso le Edizioni Punto Rosso, oltre al libro
da cui è tratta la citazione sotto riportata, ha pubblicato nel 2009
“La
Crisi
– Uscire dalla crisi del capitalismo o uscire dal capitalismo in
crisi?”
Gli
“aiuti”, strumento di controllo dei paesi vulnerabili
«Il
concetto di “aiuti” risulta stretto in una camicia di forza. Le
strutture sono state definite dalla Dichiarazione di Parigi
sull'efficacia degli aiuti (2005), stilata dalla Oecd (Organisation
for Economic Co-operation and Development) e poi sono state imposte
ai beneficiari. La condizione generale, l'allineamento ai principi
della globalizzazione liberale, è onnipresente. A volte viene detto
in modo esplicito: promuovere la liberalizzazione, aprire i mercati,
diventare “attraenti” all'investimento straniero privato.
Talvolta espresso indirettamente: rispetto delle regole del Wto
(World Trade Organization). Un paese che rifiuta di sottoscrivere
questa strategia – definita unilateralmente dal Nord (la Triade) -
perde il diritto di essere scelto per gli aiuti.»
da Samir Amin,
“L'imperialismo contemporaneo”,
Punto
Rosso, 2010, pag. 59-60.
Esiste
un modo per aiutarli a casa loro, tanto più umanitario in quanto
politico, sempreché si porti la politica al livello di una effettiva
solidarietà internazionalista. Nella nostra Costituzione del 1948 si
possono leggerne i principi di pace e cooperazione tra popoli uguali.
Non a caso
oggetto degli anatemi di J.P. Morgan2
perché troppo socialista.
“Noi”
chi?
Noi
del Nord, o se preferite dell'Occidente ricco, non siamo l'ombelico
del mondo, a dispetto della lunga storia dei popoli di tutti i
continenti. Non lo siamo ora, come non lo fummo in passato. Dunque,
suggerisce Rampini, bando ai sensi di colpa per i mali che lo
pervadono, di chi pensa e di conseguenza agisce in base al
presupposto: «noi
siamo la causa, noi siamo la soluzione, se soltanto facciamo le cose
giuste.»
Il
rigetto del presupposto meriterebbe un chiarimento su quel “noi”.
Il
senso di colpa è comprensibile, in particolare se coinvolge
sentimenti religiosi. Benché non causa responsabile, i cittadini del
Nord hanno goduto, magari in minima misura, dei vantaggi di vivere
qui, al centro privilegiato del capitalismo dominante che non smette
mai di depredare le risorse del Sud (una accumulazione non
“primitiva”, ma ininterrotta e vigente). Pertanto, come “noi”
non siamo la causa, non possiamo essere la soluzione, pretendendo di
sostituirci alla lotta di liberazione dei depredati. Tanto meno
quando pretendiamo di farlo tramite i mega-concerti del protagonismo
umanitario mediatico.
Ben
altro ruolo protagonista, tuttavia, “noi” lo possiamo svolgere:
impegnandoci contro gli artefici hard
e soft
della divisione del mondo, in un centro imperiale, costituito da
Stati Uniti, Europa e Giappone e le tante periferie (la stragrande
maggioranza dell'umanità) non liberate, sebbene in parte e
limitatamente emancipate per l'emergere di Paesi come la Cina.
Tanto
più in considerazione del fatto che quel diaframma che prima
sembrava dividere solo il Nord dal Sud, l'apartheid
del mondo, si è ripresentato, dopo decenni di globalizzazione
liberista e liberale, anche nei Paesi ricchi nord-occidentali,
estendendo la povertà dagli invisibili (“la classe operaia non
esiste più”) pure ai meno invisibili ceti di medio reddito e
status,
ai quali era stato fatto credere di essere “garantiti” per
sempre.
Scrive
Rampini:
«Solo
espiare le nostre colpe può appagare una sinistra che non apre mai i
libri di storia.»
Ma
qui non c'è ignoranza, perché la cosiddetta “espiazione” appaga
una sinistra di istruiti, accomodata nel presente. Un accomodamento
al quale il passato, rispiegato da Rampini, potrà offrire unicamente
il sollievo dal “senso di colpa”.
Accade
quando l'illustre giornalista - lui che i libri di storia li legge! -
sostiene che le popolazioni pre-colombiane furono decimate più dalla
mancanza di anticorpi verso le malattie importate dai conquistatori
che dalle loro armi, come se il documentato sterminio virale potesse
mettere in secondo piano tutti gli altri modi di venire sommersi e
morire per effetto della riduzione allo stato servile di intere
società. Quando scopre che “noi” non abbiamo inventato lo
schiavismo, come se occorresse detenere questa primogenitura per fare
mercato di milioni e milioni di africani, deportati e sfruttati nelle
piantagioni dei coloni americani, privando di energie umane vitali
per lo sviluppo intere generazioni del Continente nero, dal quale
tutti proveniamo.
Dulcis
in fundo,
qualora non bastasse questo “giustificazionismo storico”, avendo
portato l'esempio dell'Etiopia, asserisce:
«L’Etiopia
non può e non vuole attribuire a noi i suoi problemi. Non solo non è
mai stata una colonia dei bianchi (ndr
l'Italia non l'ha colonizzata, ma “solo” occupata, usando
l'iprite contro le sue truppe) ma
nella sua storia recente ha scelto per un lungo periodo di
agganciarsi all’altro polo, l’anti-Occidente per eccellenza,
l’Unione Sovietica. Ora rischia di scivolare verso un altro
anti-Occidente, la Cina.»
«L’invasione
però procede implacabile: in molti paesi africani, il rapporto tra
gli investimenti cinesi e quelli occidentali è dieci a uno.»
In
buona sostanza, ci dice Rampini, “noi” stiamo a gingillarci coi
problemi di coscienza, mentre quelli, i cinesi della «nuova
superpotenza»,3
investono dove “noi” siamo assenti perché rifiutiamo
stupidamente di aiutarli a casa loro. Ma gli investimenti non sono
una buona cosa, a prescindere da chi li fa? Oppure i “nostri”
investimenti occidentali sono migliori, trascurando le condizioni
alle quali li subordiniamo?
A
tale proposito, un osservatore acuto ed un assiduo lettore di libri
di storia, qual è Rampini, dovrebbe sapere che Enrico Mattei [nella
foto]
fu assassinato nel 1962 per aver osato, per conto dell'Eni, proporre
contratti migliori di quelle imposti dalle sette sorelle del
petrolio...
Venezuela
e dintorni
L'elenco
dei nemici deve allungarsi, per aderire alla riesumata strategia dei
democratici statunitensi, surclassati da Donald Trump che preferisce
agire con altri mezzi per lo stesso fine: arrestare la decadenza
della leadership
mondiale degli Stati Uniti d'America.
Poteva
mancare il Venezuela di Maduro? La polemica con il «crescente
rimbecillimento dei progressisti»
non fa sconti e trova il modo di infilare tra questi Corbyn, il M5S e
persino la Cgil, colpevole di equidistanza tra un «regime
sanguinario» e
la sua democratica alternativa.
«Triste
destino per quello che fu un grande sindacato ai tempi che
ricordo io,
quelli di Luciano Lama e Bruno Trentin.»
«Tanti
di loro (americani, europei, italiani), se Trump si schiera contro
qualcuno peggiore di lui, si sentono obbligati a solidarizzare col
mascalzone. Un esempio? Maduro. In Italia il Movimento 5 Stelle
all’inizio del 2019 ha scelto di riscoprire la sua “anima di
sinistra” nel peggiore dei modi: assolvendo un tiranno
paleosocialista; bloccando il riconoscimento da parte del nostro
governo di un’alternativa democratica alla guida del Venezuela.»
Di
sfuggita accenno ai tempi che
ricordo io,
nei quali la Cgil di Lama e Trentin si fece corresponsabile della
austerità ante
litteram
che, anticipando quella ordo-liberista europea, segnò i primi
sostanziali arretramenti4
delle conquiste dei lavoratori italiani a vantaggio di un grande
padronato, il quale poi non si fece scrupolo di accorparsi (vedi
Fiat) alla finanza internazionale ed europea, dopo aver incassato i
benefici della “solidarietà nazionale”.
Più
avanti nel suo libro, Rampini rivisita i decenni in cui l'Italia:
«S’impegna
a una dura disciplina, anche per ricostruire la fiducia degli
investitori. L’epoca si situa molto prima della nascita dell’euro
o della crisi del 2008. È l’inizio degli anni Ottanta.
Iperinflazione e terrorismo.»
«Quel
meccanismo [la
scala mobile]
adegua i salari dei lavoratori dipendenti all’inflazione,
compensando circa l’80 per cento del rincaro del costo della vita.
Deve garantire la pace sociale ma ci riesce solo in minima parte:
l’Italia resta paralizzata dagli scioperi ed è insanguinata dagli
attacchi delle opposte fazioni terroristiche.»
«Il
quadro mondiale è quello di una restaurazione conservatrice: alla
Casa Bianca arriva Ronald Reagan, campione del neoliberismo. È
l’inizio di un trentennio che sposterà brutalmente i rapporti di
forza, riducendo i salari per aumentare i profitti. Ma l’Italia
supera la tempesta e avvia un risanamento.»
Non
ha l'impudenza di imputare l'inflazione alla scala mobile, ma, a
conti fatti, dopo aver associato disinvoltamente scioperi ed opposti
terrorismi nel minare la pace sociale, tutto è bene quel che finisce
bene... Sennonché:
«Inizia
in quegli anni la lunga marcia dell’Italia verso l’euro (dopo
l’esperimento intermedio dello Sme, il Sistema monetario europeo).
L’approdo alla moneta unica sarà merito o colpa storica del
centrosinistra, il giudizio finale cambierà a seconda delle stagioni
politiche. L’accelerazione verso l’euro, dopo la caduta del Muro
di Berlino e la riunificazione tedesca, avverrà però sotto il segno
dominante dell’«ordoliberismo» germanico e dell’austerity.»
Davvero
un
altro strano giro
si completa e Rampini tra merito e colpa proprio non sa quale possa
essere il suo “giudizio finale”. Ai posteri l'ardua sentenza!
Ancora
sul Venezuela5
Si
dà il caso che nel suo sottosuolo vi siano le più grandi riserve
petrolifere del mondo. Si dà il caso che il governo chavista avesse
in programma di commercializzare il proprio petrolio adottando una
moneta, il Petro,
facendo a meno del dollaro americano.
Per
inciso, il sistema attuale degli scambi e dei valori è basato
sull'accettazione-uso del dollaro, inconvertibile in oro dal 1971,
come moneta di riserva internazionale. Ossia di una moneta creata da
uno Stato, al centro del suo mondo, con la sua finanza, la sua bisca
(Wall Street) ed... i suoi debiti. Può permettere che è il
petrolio, ad oggi la prima delle materie prime, non venga
commercializzata in dollari?
Sicché
l'intento di Maduro ha toccato il nervo scoperto di Washington,
determinandone la reazione bipartisan
delle
sanzioni. Oltre le sanzioni si era spinta quando Saddam Hussein,
amico prezioso per fare la guerra all'Iran, pensò di commerciare il
petrolio iracheno in euro ed allorché Gheddafi propugnò una moneta
africana indipendente.6
Serve aggiungere altro, a proposito dell'attuale embargo di Trump sul
commercio di petrolio dell'Iran, che inibisce pure all'Italia di
importarlo?
Oppure,
una volta stabilito, per insindacabile giudizio di Washington, che un
Paese è governato da un tiranno, ovviamente sanguinario, chi lo
giudica è legittimato ad appropriarsi delle sue risorse “a tutela
dei propri
interessi strategici”?
Non
c'è traccia in Rampini di opposizione a questo basilare assetto
monetario e finanziario capitalistico, che permette agli USA di
porsene il centro.
Anzi,
sostiene che l'America
è diventata autosufficiente dal punto di vista energetico ed il
«petrolio
arabo non le serve più».
Come se la raggiunta autosufficienza comportasse per il centro della
finanza mondiale un possibile disinteresse per il controllo,
per sé vitale,
della “prima materia prima”.
Sicché
aggiunge, “babbiando”:
«le
flotte militari Usa nel Mediterraneo, Golfo Persico e Oceano Indiano
presidiano rotte petrolifere vitali per l’Europa, l’India, la
Cina, il Giappone; ma non più per gli Stati Uniti.»
Di
conseguenza, perché mai gli Usa dovrebbero continuare a farsi carico
del generoso presidio, senza coinvolgere Europa e Giappone, gli
storici alleati che rischiano di rimanere a secco? Si uniscano
anch'essi all'America e si prendano gli oneri ed i rischi relativi!
Il
partito dello spread
Scrive
sconsolato Rampini:
«Com’è
accaduto che lo spread tra Btp e Bund sia diventato una Linea Maginot
dietro la quale la sinistra italiana è asserragliata, un baluardo a
cui si aggrappa pur di fare opposizione ai populisti-sovranisti? È
giusto che lo slogan recente di certi progressisti sia “attenti al
giudizio dei mercati”? Agli indici di Borsa? Alle pagelle delle
agenzie di rating? E ancora: sentirsi profondamente europeisti,
significa sdraiarsi sull’austerity germanica? Proprio quella che
abbiamo criticato per anni?» Fatto
sta che se questo accade non è per un semplice atteggiamento
sbagliato o per
via
di «un
incantesimo malefico».
Gli
esponenti della sinistra italiana parlano «come
i funzionari del Fondo monetario internazionale o i chief executive
delle multinazionali riuniti a Davos».
Hanno
perso il senno?
No,
hanno aderito a Maastricht e ceduto sovranità democratica all'Unione
Europea, perché si sono fatti tutt'uno con la strategia della
borghesia delle “grandi famiglie” italiane che si è
“internazionalizzata”. Hanno riposto in mani sovranazionali, non
solo della Ue, la determinazione del contesto politico-economico al
quale parlamento e governo nazionali devono attenersi, se non
vogliono che l'Italia venga sanzionata o dai “mercati finanziari”
o dalle “strutture tecnocratiche” dell'Unione. Per alzare il
segnale di attivazione delle sanzioni sono
stati fissati i
parametri, tra
i quali spicca il famigerato 3% nel rapporto deficit/Pil. Come
dimostra l'andamento “a bacchetta” dello spread,
il quale, aumentando gli interessi sui nostri buoni del tesoro (un
terzo dei quali è nelle mani di investitori esteri), minaccia di
vanificare ogni intento di spesa pubblica sociale voluta dal corpo
elettorale.
Quella
borghesia, come il caso Fiat-Marchionne evidenzia, non si è
finanziarizzata a livello internazionale perché disperava di
potercela fare da sola a guarire gli atavici mali italiani elencati
da Rampini: amministrazione pubblica inefficiente, evasione,
abusivismo e mafie. Con questi mali ha sempre convissuto e
collaborato, pur lamentandosene.
Ha
più semplicemente seguito le sue naturali propensioni a: condurre da
posizioni di forza la lotta di classe (“senza la lotta di classe”)
a danno delle classi subalterne; massimizzare i profitti attraverso
la finanziarizzazione, la quale supponeva la concentrazione
oligopolistica su scala continentale e globale, per spremere tutta la
sottostante “economia reale”.
Constatare
ora che «le
rigidità con cui Bruxelles-Berlino avrebbero dovuto disciplinarci
non hanno avuto il minimo effetto su queste tare ataviche», nonché
apprendere dall'evidenza che «non
erano la cura per quei mali», significa
credere che fossero dirette a curare quei mali, mentre invece
miravano a sottomettere il nostro Paese, tramite vincoli esterni
extra-democratici, al forzoso prelievo della finanza, alla quale la
grande borghesia italiana si è accorpata.
A
nulla vale lamentarsi del surplus
commerciale della Germania che, in base ad un esercizio di potenza,
viola uno dei vincoli stabiliti, quando la sinistra ha approvato
l'introduzione nella nostra Costituzione del principio della
compatibilità di bilancio (art. 81), caro a Bruxelles-Berlino.
Né
sarà di rimedio «portare
a Bruxelles posizioni molto critiche»
dal momento in cui dovremmo assicurare che «non
usciremo mai dall’euro né tantomeno dall’Unione».
Al contrario, solo se saremo pronti ad uscire dall'euro, disponendo
di un serio piano B, avremo qualche possibilità di farci ascoltare.
Sempreché la Germania receda dalla sua linea: un evento altamente
improbabile.
La
logica nazionalistica di potenza tedesca è stata intesa da Donald
Trump. Dopo anni di inascoltate critiche, rivolte da Obama alla
Merkel, affinché espandesse la propria domanda interna e riducesse
il surplus
esportativo,
Trump è passato alle vie di fatto, al protezionismo dei dazi, per
risolvere l'annosa questione dello sbilancio commerciale tra Usa e
Germania, coinvolgendo tutti i soci dell'Unione. Peggio per loro se
le sottostanno, avvinghiati alla moneta unica che la privilegia
nell'export.
Ma
ciò vale solo per la superpotenza nord-americana, non per la malata
e subalterna Italia, la quale poveretta, per Rampini non ha scelta. A
sostegno del remain
nella moneta unica, non esita ad “addolcire” il pensiero stesso
di Joseph Stiglitz, suo faro neo-keynesiano:
«L’euro
– mi disse Stiglitz – è nato su premesse profondamente sbagliate
e ha fatto danni gravi, in particolare all’Europa del Sud. Ma dato
che l’Italia c’è dentro, uscirne comporterebbe dei costi ancora
peggiori. Non è un’analisi esaltante: costringe a scegliere il
minore tra due mali.»
Non
dubito delle confidenze ricevute da Rampini. Eppure, nel suo libro
The
Euro: How a Common Currency Threatens the Future of Europe (agosto
2016), Stiglitz
prevede due sole possibili opzioni:
o un coraggioso "euro flessibile", ipotesi data per meno
probabile data la palese assenza di solidarietà intra-europea (ndr
della Germania e dei suoi alleati), o una concordata distruzione
dell'euro.7
Sul
malinteso europeismo della sinistra, “epocale” è la conclusione
di Rampini:
«No,
davvero non vedo un futuro per la sinistra italiana se si ostinerà a
essere il partito dei mercati finanziari e dei governi stranieri, in
nome di un europeismo beffato proprio da tedeschi e francesi.»
Il
fattorino di Mosca
Rampini
è un critico intransigente delle multinazionali della Silicon Valley
e diffida di Internet.
Rimprovera
a Bill Clinton di essersi allineato a Bill Gates nel proclamare:
«Internet
renderà il mondo più libero». Si
solleva contro
«i miliardari dell'economia digitale [che]
si proclamano orgogliosamente di sinistra, (…) sempre dalla parte
giusta nelle battaglie valoriali: sono favorevoli agli immigrati
(salvo sottopagarli quando sono addetti alle pulizie negli uffici di
Apple) (...)».
È
tutto oro quel che luccica? Non proprio.
«(...)
i regimi autoritari sono stati veloci ad aggiornarsi, assoldando
talenti tecnologici al servizio della repressione. Nello stesso
periodo c’è stato il ciclone WikiLeaks e il gigantesco equivoco su
Julian Assange. (…) Il mito di Assange è crollato in seguito,
soprattutto grazie al Russiagate, l’indagine sull’ingerenza di
Mosca per sabotare la campagna elettorale di Hillary Clinton.»
Assange,
tramite WikiLeaks, è diventato «il
fattorino abituale delle consegne in arrivo da Mosca»:
«Quando
viene arrestato dalla polizia inglese il 7 dicembre 2010 e detenuto
per dieci giorni, tra le celebrity che raccolgono fondi per pagargli
la cauzione c’è il regista Michael Moore.»
«Assange
si difende blandamente, spiegando di non avere mai ottenuto segreti
degni di qualche interesse sulla Russia o sulla Cina o su Trump. In
effetti WikiLeaks ha pubblicato tante notizie su stragi americane in
Iraq, nulla sui bombardamenti russi in Siria.»
Sorge
spontanea una domanda. Giacché non sono mancate le news
sui bombardamenti russi in Siria, grazie al
free speech occidentale,
perché mai avremmo dovuto rinunciare a quelle relative alle stragi
ed alle torture americane in Iraq, rivelatesi
vere,
seppur imbeccate dai servizi informativi di Putin?
Una
domanda che Rampini non si pone: l'equidistanza lo indigna, come già
quella sul Venezuela. Quel che gli preme non è la verità dei fatti.
La
libertà d'informazione è except
war crimes.
Quando
svela i crimini degli Usa, ossia del “nostro campo”, va
censurata: è meglio tenere all'oscuro l'opinione pubblica. Meglio
creda che il male stia tutto dall'altra parte.
Preso
da un irrefrenabile spirito da guerra fredda, tra i nemici include
pure Casaleggio:
«I
cori che inneggiavano all’eroe della trasparenza Julian Assange si
sono ammutoliti. Troppo tardi. Anche in questo caso, il danno ormai è
fatto. Sempre in nome di una presunta modernità, affascinata dalla
sofisticata cultura tecnologica che WikiLeaks condivide con hacker e
cyberpirati, la sinistra è caduta anche in questa trappola. Il
“modello Casaleggio”, la tirannide della Rete, non nasce nel
vuoto (…).»
Dopodiché
non meravigliatevi se leggerete quanto sia giusto estradare Assange,
dal Regno Unito agli States,
processarlo
per spionaggio in base alle loro leggi (benché lui sia australiano)
in un rinnovato clima maccartista, però condiviso da una sinistra
che esce dalla sua buia notte.
Keynesismo
neo e post
Rampini
conclude il suo testo, lamentandosi che in Italia si confonda
l'esigenza di uno Stato forte con il fascismo. Dovevamo fare come De
Gaulle in Francia, invece – sottinteso - Matteo Renzi ha mancato
l'ultima occasione, personalizzando il referendum e perdendolo.
Ma
le sue vere conclusioni Rampini le ha già tratte cammin facendo,
nello svolgimento del suo discorso.
In
particolare ha identificato via via i nemici dell'Occidente a guida
nord-americana, attorno alla quale raccoglierci in una rinnovata
crociata contro le esterne minacce. Alle quale bisognerebbe
rispondere non con l'inefficace neo-isolazionismo di Trump, bensì
con una maggiore concertazione tra alleati storici (come voleva
Obama).
Essa
dovrebbe poggiare su due punti forza che riesumano la guerra fredda
contro il comunismo:
- politiche neo-keynesiane per la pace sociale interna ai Paesi ricchi;
- l'adesione alla strategia del Pentagono che, per fortuna dell'Occidente, non è abituato a ragionare in termini di ritirata.
Non
ho alcuna pretesa di dare una interpretazione autentica del portato
di J.M. Keynes. Vorrei solo evidenziarne alcuni aspetti,
sottolineando come Rampini, benché
si dichiari neo-keynesiano, tagli dal
pensiero di Keynes le parti per lui scomode.
Il
primo attiene alla questione della moneta internazionale.
È
risaputo che a Bretton Woods nel 1944 l'economista inglese propose il
Bancor,
una moneta di conto universalista. Gli Stati Uniti, al contrario,
imposero il gold
dollar standard, ossia
il dollaro convertibile in oro, sostituendo il defunto Gold
Exchange Standard.
Quando
fu evidente che non potevano più convertire in oro tutti i dollari
che avevano stampato, pure per pagare la guerra in Vietnam, Nixon
nell'agosto del 1971 dichiarò l'inconvertibilità. Il sistema si
mutò di fatto nel puro dollar
standard. Invano
qualche anno fa il direttore della Banca centrale cinese propose
l'adozione di una moneta tipo Bancor,
per riequilibrare in senso multilaterale i rapporti internazionali di
scambio e commerciali, nonché regolare i debiti degli Stati Uniti
derivanti dai loro sbilanci.
Poiché
the
Donald
a tutto pensa, fuorché privarsi dell'assoluto privilegio detenuto
dagli USA attraverso il dollaro, cardine dell'egemonia della sua
finanza con centro a New York, da che parte deve propendere la
sinistra? Nella vicenda venezuelana, come in altre occasioni, la
risposta è stata bipartisan,
la
stessa della destra, sia in America che in Europa.
In
secondo luogo,
è altrettanto risaputo che per Keynes la
repressione della finanza
e delle sue bische (le borse) è indispensabile per salvaguardare la
economia delle produzioni di beni e servizi, preservandola dai
collassi finanziari. Giacché, anche dopo il crack del 2007-2008, ben
poco è stato fatto in questa direzione, da che parte deve propendere
la sinistra?
Forse
mi sono perso passaggi importanti di Rampini a riguardo. Non ho
trovato nemmeno un riferimento alla netta separazione tra banche
commerciali e banche d'investimento introdotta dalle leggi
Glass-Steagall
del
biennio
1932-1933,
abrogate da Clinton nel 1999, nonostante i suoi continui elogi alle
politiche keynesiane di F.D. Roosevelt.
Dico
“nemmeno”, perché nelle attuali condizioni, date dalla recente
globalizzazione, leggi del tipo Glass-Steagall
sarebbero
auspicabili, ma insufficienti a mettere i ceppi alla finanza. Il suo
dominio è il dominio degli oligopoli finanziarizzati ed è arduo
pensare che il ritorno dello Stato-nazione possa porre sotto
controllo la finanza senza “nazionalizzare” gli oligopoli stessi.
Ma su questo punto il dibattito è aperto.
Quanto
all'intervento dello Stato in economia,
altro aspetto del keynesismo, esso ha avuto, per ammissione dello
stesso Keynes, due applicazioni non sempre discordanti. Da un lato in
direzione della piena occupazione e della crescita con welfare;
dall'altra in funzione della produzione bellica e della guerra.8
Di
contro, giusto per fare un esempio, in piena restaurazione liberista,
Ronald Reagan praticò abbondantemente il “keynesismo militare”
per mettere sotto pressione una Unione Sovietica ai rantoli finali e
finanziare il proprio apparato bellico, nel momento in cui stava
attaccando il welfare
ed
i lavoratori.
All'arme
Lanciare
il segnale di pericolo è di sinistra. Di una sinistra più post che
neo-keynesiana, la quale imputa a Trump di praticare l'isolazionismo
e la ritirata dalla responsabilità di proteggere il “nostro”
mondo.
Qui
l'analisi rampiniana raggiunge il massimo ed inanella una serie di
allarmi.
«Il
Pentagono ha tentato invano di dissuadere Trump dal ritirare tutte le
truppe, le discussioni tra i suoi generali e il capo dell’esecutivo
sono state tempestose. I militari americani temono di abbandonare al
loro destino gli alleati curdi, che hanno avuto un ruolo decisivo
nella lotta contro l’Isis, e contro i quali, adesso, può
scatenarsi senza ritegno la furia di Erdog˘an, che li considera
«terroristi» (…).»
Immaginiamo
quanto i capi del Pentagono tengano alla causa curda, avendola già
in passato appoggiata con la fornitura dei gas per le stragi di curdi
dell'allora alleato Saddam in guerra con l'Iran.
«Tutto
ciò accade in un contesto di ritirata più generale dell’America.»
Questo
è il vero punto.
Pensate,
lo sciagurato Trump vuole pure ritirarsi dall'Afghanistan,
accordandosi coi talebani, prima che l'Isis vi prenda definitivamente
piede!
«Lo
strappo senza precedenti è con i vertici militari al gran completo,
solidali con Mattis9
nel condannare l’abbandono della Siria. Manda un segnale tremendo a
tutti gli alleati, di cui Mattis difendeva l’importanza. Conferma
che la visione di America First di Trump non è solo nazionalista,
sovranista. È anche il ritorno all’isolazionismo che precedette
l’intervento nella seconda guerra mondiale; e apre spazi enormi ai
rivali dell’America: Cina, Russia, Iran.»
«Nell’analisi
dei vertici militari Trump smobilita la leadership Usa, liquida
un’egemonia, chiude frettolosamente un «secolo americano» fatto
di investimenti in hard power e soft power. Apre varchi ai nemici di
sempre, crea le condizioni di un indebolimento durevole. I generali
americani non sono stati formati alla resa. Vedono un disegno di
lungo periodo che li angoscia. (...)»
Rampini
è angosciato quanto i generali del Pentagono e, suppongo, i loro
fornitori di hard
power.
Eppure, il primato statunitense non è in forse.
In
percentuale sulla spesa
globale militare,
Cina e Russia assommano (17,1%) a meno della metà di quella
effettuata dagli Stati Uniti (36%).
Sono
dati dell'Istituto Internazionale di Ricerca di Pace di Stoccolma
(SIPRI),
secondo il quale le spese militari statunitensi hanno raggiunto i $
649 miliardi nel 2018 (3,2% del Pil), mentre quelle della Cina, nello
stesso anno, sono a $ 250 mld (1,91% del Pil).10
La Russia ha speso $ 61,4 mld (4% del Pil), ma meno, in assoluto, di
Arabia Saudita, India e Francia.
In
base a tali proporzioni ed alla presenza fuori dai propri confini
delle forze armate del Pentagono, disseminate su tutto il globo
terracqueo, la
minaccia cino-russa (eventuale e futura) è enfatizzata per
giustificare quella statunitense (certa e presente). Con lo scopo
politico evidente, per chi non voglia nascondersi dietro un dito, di
riesumare la guerra fredda, col solito metodo di ingigantire
l'avversario per spargere panico. Se
la sinistra vuole ridiventare amica dei popoli in coda ad una corsa
al riarmo guidata da Washington, è proprio il caso di dire: “Dai
nemici mi guardi Dio, che dagli amici mi guardo io.”
Note
1
Joseph E. Stiglitz, “La globalizzazione e i suoi oppositori –
Antiglobalizzazione nell'era di Trump”, Nuova edizione, Einaudi,
2018.
2
La nota banca d'affari statunitense, J.P. Morgan, divulgò nel 2013
un rapporto in cui si leggeva: “le costituzioni europee, nate
dall'esperienza della lotta antifascista, mostrano una forte
influenza delle idee socialiste.” Dalle quali era necessario
liberarsi.
3
Tra gli altri Rampini si riferisce, a proposito delle diseguaglianze
globali, agli studi di Branko Milanović, dai quali proprio non
emerge che la Cina possa essere definita “nuova superpotenza”.
4
La concertazione iniziò nella seconda metà degli anni settanta e
Bruno Trentin sottoscrisse nel 1992, prima di dimettersi da
segretario della Cgil, un accordo sulla politica dei redditi che
pose fine alla scala mobile, il meccanismo di riadeguamento
automatico dei salari al costo della vita, imputato di essere non la
conseguenza ma l'origine dell'inflazione. A questo proposito vedi L.
Gallino, “Il colpo di Stato di banche e governi”, Einaudi, 2013.
5
Sull'insieme della crisi venezuelana, vedasi il Post “I broccoli
del Venezuela”, marzo 2019.
6
Incontrando l'appoggio della Francia di Sarkosy che alle ex-colonie
ha lasciato in dono il franco africano.
7
The
Euro and its threat to the future of Europe,
su bookshop.theguardian.com.
8
A questo proposito si vedano le sue osservazioni sulle riforme
hitleriane (del ministro delle Finanze Hjalmar Schacht) per il
rilancio dell'economia tedesca.
9
Nota mia. Il generale dei marine, James
Mattis, detto “mad
Dog”, si è dimesso in
contrasto con Trump che lo aveva messo a capo del Pentagono.
10
I dati sul Pil nominale cinese, fonte FMI, sono tratti da:
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