Confindustria,
Cgil, Cisl e Uil lanciano un comune Appello in vista delle europee.
Un bilancio roseo dell'Unione, farcito di vuoti di memoria, false
affermazioni e reiterati buoni propositi. Schivati i campi, da loro
stessi minati, della sovranità democratica e del declino del Paese.
“Corpi intermedi” alla ricerca di un ruolo in Europa, perduto in
Italia.
In
tempi di conclamata crisi dei “corpi intermedi”, chi ne fa parte
dovrebbe agire con prudenza, cercando di rifuggire qualsiasi scena
nella quale la propria identità appaia oltremodo sminuita o appaiano
esaltati i motivi della distanza dalle rispettive basi sociali di
riferimento. In particolare dovrebbe evitare di venire assimilato
alle screditate politiche europee, per giunta replicando gli stanchi
riti del consociativismo sindacale.
Ciò
non vale solo per Cgil-Cisl-Uil che hanno perso forza tra i
lavoratori attivi, perché inerti, quando non corresponsabili, di
fronte alla distruzione delle conquiste dei lavoratori, avvenuta
nell'ambito ed anche a causa dell'Unione. Vale anche per
Confindustria. Molte grandi aziende sono sparite e lo storico
sindacato padronale è stato abbandonato dalla prediletta Fiat,
emigrata come FCA in Olanda. Non è attrattivo per le piccole-medie
imprese, danneggiate dalla depressione del mercato interno e dalla
prevalenza del capitale finanziario, entrambe promosse dall'Ue.
Perché
mai, allora, unirsi in un Appello per l'Europa?1
Perché chiamare al voto per quelle liste che è scontato possano
“aderire” all'Appello? Perché deludere le aspettative di coloro
che avevano confidato in un cambio di registro, grazie alla nuova
segreteria in Cgil di Maurizio Landini?
Le
risposte, più che nelle proposte, si rintracciano nei motivi della
chiamata al voto.
Tra
le proposte troviamo il potenziamento del bilancio e degli
investimenti europei, la richiesta di una politica industriale comune
e l'armonizzazione delle regole economico-sociali e fiscali. Salvo
qualche parvenza, cadranno nel vuoto.
L'Unione
è disunita o, se preferite, “manca di solidarietà”. Ciascuno
tira l'acqua al proprio mulino, con la diversa forza di cui dispone.
Essendo
inesigibili anche i riproposti Eurobond (vade retro debito comune!),
dovremo accontentarci della diffusione dell'Erasmus nelle imprese,
l'“Erasmus aziendale”. Non proprio una decisiva spinta verso
«l'ideale degli
Stati Uniti d'Europa».
Troppo
poco e troppo tardi per contemplare un consociativismo sindacale a
livello europeo, che sembra la vera ragione dell'Appello. Sia
“sotto”, per mancanza di consenso popolare, sia “sopra”, per
assenza di unione politica, il ruolo dei corpi intermedi è alquanto
compromesso.
Un
esordio dirimente
«Perché
un appello per l'Europa?
Perché
l'Unione europea ha garantito una pace duratura in tutto il nostro
continente e ha unito i cittadini europei attorno ai valori
fondamentali dei diritti umani, della democrazia, della libertà,
della solidarietà e dell'uguaglianza.»
E
le recenti guerre nei Balcani e nell'attuale Ucraina, per questi
tenaci sostenitori della “memoria”, dove sono finite?
Quali
Paesi e quali popoli sono Europa?
Ancora:
quali diritti umani possono sopravvivere nella guerra? Di quale
libertà, solidarietà ed uguaglianza stiamo parlando? Di quale
democrazia è titolare l'Unione europea? A quale cittadinanza europea
si fa riferimento?
Affermazioni,
tanto perentorie quanto discordanti dalla realtà presente e passata,
che hanno confermato le convinzioni di un lettore del Blog di Alberto
Bagnai, il quale ha scritto al senatore leghista2
una lettera piena di osservazioni in buona parte, sebbene non tutte,
condivisibili.
Nella
lettera l'operaio, cittadino italiano forse immigrato dalla Serbia,
esprime dure fondate critiche. Gli derivano dalla esperienza
dell'aggressione della Nato al proprio Paese d'origine e
dall'appartenere ad una classe sociale “tradita” dai sindacati.
Particolarmente
efficace è la contestazione del falso storico ed attuale della “pace
duratura in tutto il nostro continente”.
Alle
sue argomentazioni mi sento di aggiungere altro, per una completezza
alla quale qualsivoglia visione leghista non può giungere, perché
intrisa di nazionalismo a base etnico-confessionale.
Allargamenti
Le
guerre nella ex-Jugoslavia si sono temporaneamente concluse con
l'intervento bellico della Nato a favore della secessione del Kosovo
dalla Serbia. All'edificante epilogo ha contribuito, in violazione
della Costituzione, anche l'Italia (governo D'Alema), dalla cui basi
sono partiti i bombardamenti della “guerra umanitaria” contro la
Serbia.
La
sovranità della Serbia è stata infranta, dopo che era stata
infranta quella della Jugoslavia. Nella crisi della quale i governi
dell'Europa occidentale non sono intervenuti alla ricerca di una
soluzione pacifica, bensì, attraverso
la politica dei riconoscimenti (in
primis
di Germania, Italia e Vaticano) delle piccole patrie
etnico-confessionali,
per distruggere ogni convivenza tra gli slavi del Sud. Una politica
divide
et impera
che, non facendosi scrupolo di dare sostegno al peggiore nazionalismo
Blut
und Boden3
ed a milizie armate ispirate apertamente al nazi-fascismo (come pure
in Kossovo ed in Ucraina), ha spinto quel Paese nel baratro di un
feroce e sanguinoso conflitto inter-etnico.
Non
si è trattato di un episodico intervento riguardante l'allora
Jugoslavia, ma del modo stesso in cui l'Unione è andata costruendosi
nell'allargamento nach
Osten,
verso Est. Una “modalità” della quale ha fatto parte pure
l'Anschluß
della DDR alla Repubblica Federale Tedesca, l'unica riunificazione
affermatasi nel contesto di una “spintanea disgregazione” degli
assetti statuali “altrui”.
La
Jugoslavia si è frantumata e la Serbia è stata separata manu
militari
dal Kosovo. È nata una disputa sul nome Macedonia con la Grecia. La
Slovacchia si è separata dalla Cechia. In barba alle promesse fatte
a Gorbačëv, la Nato si è allargata fino ai confini russi, creando
le condizioni per l'attuale guerra in Ucraina.
Sicché
ora è pura ipocrisia lamentarsi dei peggiori nazionalismi, da parte
di un'Unione che su di essi ad Est si è costruita. Tanto più se
consideriamo il dissimulato nazionalismo di potenza dei più forti
Stati euro-occidentali, i quali hanno ampiamente approfittato della
disgregazione e dell'indebolimento dei piccoli Paesi orientali, per
favorire la penetrazione e l'espansione dei propri capitali.
Sostanza
edulcorata
L'invito
al voto da parte dei firmatari dell'Appello crede di poter
contrastare una generale percezione, suffragata dai fatti, che il
Parlamento di Bruxelles-Strasburgo sia una istituzione priva di reali
poteri, a corredo di una Commissione alla quale viene riservato il
ruolo di guardiana delle decisioni prese dai vertici
intergovernativi. È l'Europa degli esecutivi, dominata dall'asse
Parigi-Berlino, più Berlino che Parigi.
Il
tentativo di darle una Costituzione, tramite un Trattato, è fallito
miseramente perché non poteva sostituire un effettivo processo di
unificazione politica, mai intervenuto.
Sui
motivi per i quali questo processo non si è realizzato, si potrà
discutere in sede storica. Rimane il fatto che, a dispetto delle
buone parole, sin dagli esordi è stato affermato politicamente un
processo definito “a-democratico”, per edulcorarne la sostanza
anti-democratica. Infatti, per scelta politica, ma su base economica
e monetaria, è stata costruita una Unione divisa tra Centro e
Periferie, a sovranità differenziata: piena e potente al Centro e
via via limitata nelle Periferie. Tra queste ultime figurano i Paesi
sud-mediterranei.
La
democrazia è pura apparenza, se privata della sovranità: la prima
non vive senza la seconda.
Quello
dell'Italia rischia di esserlo ancor più.
Dettano
legge i vincoli esterni europei, lo spread
che
fa salire i nostri interessi sul debito pubblico,
attivato
a bacchetta dalla Commissione europea, e la minaccia sempre in
agguato dei mercati finanziari, ai quali è affidato l'ultimo
giudizio.
Non
siamo nelle condizioni di decidere democraticamente del nostro
futuro, se non recuperando la sovranità sottratta, ceduta dalle
“nostre classi dirigenti” a conservazione esclusiva dei loro
interessi. Recupero che deve avvenire al più
presto, in base alla nostra Costituzione del '48, se
non vogliamo che al declino si aggiunga una deriva autoritaria e
fascistizzante.
A
questo proposito, lasciate
perdere l'antifascismo di facciata, “politicamente corretto”,
tanto superficiale da accentrare l'attenzione unicamente sui
rigurgiti in camicia nera.
Non
trascurate quanto matura nelle viscere della crisi
dell'establishment.
Guardate all'attacco alla libertà di informazione, alla negazione
del diritto di sapere, celato dietro il progetto europeo maccartista
di contrasto alle fake
news che
festeggia l'arresto di Julian Assange. Non trascurate quello che va
facendo in Francia, in reazione ai gilets
jaunes,
il tanto osannato Macron. È
meno pericoloso di Orbán
o di Salvini?
Guardate
alle spinte verso lo “Stato forte”,
presidiato da un “governo forte”, sorretto, però, da una
maggioranza parlamentare eletta da una minoranza di elettori. È
quanto prevede il Rosatellum, legge elettorale vigente in Italia,
alla quale, per nostra coscienza e fortuna, è stato tolto il
“combinato disposto” della contro-riforma costituzionale del PD
di Renzi.
Il
Paese di Bengodi
Perché
un Appello per l'Europa?
«Perché
l’UE è stata decisiva nel rendere lo stile di vita europeo quello
che è oggi. Ha favorito un progresso economico e sociale senza
precedenti con un processo di integrazione che favorisce la coesione
tra Paesi e la crescita sostenibile. Continua a garantire, nonostante
i tanti problemi di ordine sociale, benefici tangibili e
significativi, nella comparazione internazionale, per i cittadini, i
lavoratori e le imprese in tutta Europa.»
Davvero
un incomparabile Bengodi! Ah, se non fosse per “i tanti problemi di
ordine sociale”, potremmo godere appieno del nostro “stile di
vita”!
Qui
si misura un'ulteriore distanza tra il mondo reale e la sua onirica
rappresentazione, affastellata di bugie ed umanitarie omissioni. La
prima delle quali riguarda l'evocato progresso economico-sociale.
Quest'ultimo
risale al trentennio (1945-1975) cosiddetto “glorioso”, durante
il quale il capitalismo dell'Europa occidentale era sottoposto alla
duplice vincolante pressione: interna del potere sociale delle masse
lavoratrici; esterna dal vento dell'Est del comunismo e delle
liberazioni nazionali. I “trenta gloriosi” ricadono in un
periodo in cui l'Unione nemmeno esisteva.
Da
quando è stata creata, con il trattato di Maastricht (1993), l'Ue ha
vissuto una iniziale belle époque, alla quale, introdotta nel
frattempo la moneta unica e l'eurozona, è subentrata una crisi già
evidente agli inizi del secondo millennio e conclamata con il crack
finanziario del 2007-2008. Crisi dalla quale non si è affatto
ripresa.
Ai
“trenta gloriosi” sono seguiti lunghi anni di austerità, prima
“nazionale” e poi europea. Eppure c'è ancora qualcuno, come i
firmatari dell'Appello, che nega l'evidenza: una progressiva
restaurazione, segnatamente dagli anni Ottanta, dei vecchi rapporti
di lavoro e sociali, a sovrastante vantaggio dei gruppi
oligopolistici finanziarizzati ed a totale svantaggio dei lavoratori
e delle classi subalterne. Sono stati gli anni delle liberalizzazioni
e della globalizzazione.
Se
ve ne fosse stato bisogno, solo un mese dopo i firmatari
dell'Appello, sono stati smentiti da... “Il Sole-24 Ore”.4
Comparando
i dati del Ministero delle Finanze, del 2007 e del 2017 (denunce dei
redditi 2008 e 2018) le
fasce
di reddito da 0 a 26.000 euro hanno perso mediamente ben 5.207
€ a testa
[vedi
tabella qui sotto],5
in
una dinamica di declino nella quale i Paesi dell'Ocse registrano un
preoccupante calo dei
ceti di medio reddito.6
Per
il nostro Paese è declino.
Nell'onirico
Bengodi di Confindustria e Cgil-Cisl-Uil la parola “declino”
manco compare, perciò tantomeno può venire affrontato il problema
della moneta unica, il sistema euro, al quale invece si riconosce un
positivo ruolo nel fantomatico “percorso costituente”.7
L'innominabile
Declino
L'argomento
è alquanto indigesto per le Parti sociali italiane.
Non
sto qui a ripetere i dati sull'andamento della integrazione europea,
tradottosi in un processo di crescente divergenza e disintegrazione.
Già
nel 2013, il professor Bagnai8
affrontava criticamente le tre ricorrenti teorie sul declino, legato
alla mancata crescita della produttività:
- nanismo, per cui le imprese italiane sarebbero poco produttive perché troppo piccole;
- inadeguata Ricerca e Sviluppo (R&S), per insufficienti investimenti, per lo più dovuti allo stesso nanismo, rimasti fermi all'1% del Pil rispetto a più del doppio speso da Paesi come la Germania;
- rapporto tra produttività e flessibilità.
Per
Bagnai nessuna delle tre teorie rispondeva appieno al quesito: perché
l'Italia è colpita dal declino?
Nanismo
ed insufficiente spesa per R&S non avevano impedito la crescita
della produttività italiana. Le piccole-medie imprese la mantenevano
in crescita tramite i distretti industriali, nei quali si
trasmettevano rapidamente ed “osmoticamente” continue
innovazioni.
Pertanto,
l'arrestarsi della produttività, rilevabile non solo in Italia ma
anche in Europa, fu attribuita, dai sostenitori della terza teoria,
alle riforme del mercato del lavoro. Secondo questi, alcune modifiche
legislative, in specifico il pacchetto
Treu, determinarono un'abbondanza di lavoro a buon mercato,
che scoraggiarono l'innovazione da parte degli imprenditori.
Così
pervenivano ad una “sorprendente” conclusione: la produttività è
stata penalizzata dalla flessibilità!
Giacché
per molti anni ci avevano ripetuto, stigmatizzando ogni opposizione,
che la flessibilità era l'inevitabile e sicuro rimedio al problema
della produttività e della competitività italiane, Bagnai si
chiedeva come mai questi economisti fossero giunti a negare questo
assunto di fondo.
Perché
erano pervenuti ad un'ammissione così contraria al mantra
dominante?
A
distanza di più di un lustro, per parte mia aggiungo: per quale
motivo il PD di Renzi nel 2015, nonostante gli economisti della sua
area sapessero dell'effetto negativo della flessibilità sulla
produttività, varò il Jobs
act,
proseguendo nel solco tracciato dall'aratro di Treu?
Per
dare risposte a questi quesiti, va chiarito il rapporto tra cause ed
effetti, nel loro svolgimento.
Bagnai
svelava che l'arresto nella crescita della produttività media del
lavoro in Italia non datava dal giungo 1997, allorché fu emanato il
pacchetto Treu, bensì, repentinamente,
dalla metà degli anni novanta.
Poiché
le piccole-medie imprese italiane dei distretti industriali non
rimpicciolirono all'improvviso nel 1995, come fossero precipitati nel
paese di Lilliput, restava da spiegare il motivo per cui la
produttività italiana da quell'anno iniziò a stagnare, mentre
quelle di Francia e Germania continuarono a crescere fino alla grande
crisi. [Vedi grafico di Bagnai riprodotto qui
sotto].
Concludeva
Bagnai che la causa prima risiedeva nel «tasso di cambio lira/ECU
che dal 1999 nell'euro diventa tasso di cambio irrevocabile
dell'euro.»
A
sostegno della sua tesi inseriva altri due grafici dimostrativi:
sull'andamento della produttività, correlato all'andamento del tasso
di cambio; sul tuffo delle esportazioni (-2%), benché in un periodo
di forte crescita, conseguente alla rivalutazione delle lira (+8%)
nel 1996.
Commentando
infine:
«Sicuramente,
dopo
essere stata messa su un sentiero di crescita della domanda e quindi
della produttività inferiori dallo shock del 1996, l'Italia è stata
mantenuta su questo sentiero anche
dalle riforme del lavoro, (…).»
Una
volta chiarito perché
si è preferito ammettere che furono le riforme del lavoro a generare
il fermo della produttività, piuttosto
che riconoscere il ruolo antecedente
e nefasto del cambio fisso europeo, viene da sé la spiegazione del
Jobs
act renziano
o, se volete, dei tanti Jobs
act
che infestano il nostro invidiabile “stile di vita europeo”.
Imboccata
la via dell'euro ed ingabbiati in una
moneta sopravvalutata in rapporto alla propria economia, non potendo
ricorrere alla svalutazione esterna del cambio, per recuperare
competitività internazionale, non
rimane altro modo che
ricorrere alla
continua svalutazione del lavoro interno, in una reciproca disastrosa
concorrenza al ribasso.
Ecco
spiegati i motivi per i quali l'Appello non parla di declino:
- non vuole mettere in discussione il sancta sanctorum dell'euro, sul quale si regge l'eurozona, cuore della Unione europea;
- non può lanciare un Appello consociato per l'Unione europea, partendo dall'ammissione del fallimento del trascorso consociativismo, basato sull'assunto che la flessibilità, concessa da Cgil-Cils-Uil alla parte confindustriale, fosse la soluzione al problema della produttività e della competitività italiane.
L'Appello,
pur a denti stretti, riconosce che le «politiche di rigore pesano
ancora sui cittadini, sui lavoratori e sulle imprese», in una
«globalizzazione senza regole», ma chiama alla pugna, a «non
battere in ritirata» per «rilanciare l'ispirazione
originaria dei Padri e delle Madri fondatrici, l'ideale degli Stati
Uniti d'Europa».
Altrimenti
avremo la vittoria dei sovranismi e «Di fronte ai giganti
economici, i paesi europei presi singolarmente, avranno sempre meno
peso politico ed economico.»
Lamentarsi
della globalizzazione senza regole equivale a negarne una
delle essenziali ragioni: la globalizzazione è stata attuata proprio
per non avere regole. Infatti,
fu deregulation,
dai tanti “lacci e lacciuoli” che tenevano vincolato il
capitalismo al potere sociale dei lavoratori e degli strati
subalterni, nonché alla sovranità nazionale nella quale questo
potere democratico si esercitava.
Quanto
agli Stati Uniti d'Europa, l'alto ideale è precipitato nelle più
basse concrete pratiche. Pertanto, ora assistiamo a due fenomeni:
- da un lato l'Unione è un luogo in cui dominano gli oligopoli finanziarizzati, con la finanza che detta legge sulla “economia reale” e sulla società: senza rompere questo dominio società ed economia non possono liberarsi;
- dall'altra è pervasa da nazionalismi, in primis degli Stati più forti a danno di quelli più deboli: senza rimuovere i primi, i secondi sono inevitabili.
Ai
due fenomeni intrecciati occorrerà far fronte congiuntamente, se
vogliamo che nella ineludibile ripresa dello Stato-nazione prevalgono
le forze della sovranità democratica contro le tendenze autoritarie
e fascistizzanti.
Di
mezzo va tolta la moneta unica, che continuerà ad accentuare la
dicotomia tra Paesi del Centro, a trazione tedesca, e Paesi delle
differenziate Periferie, fino a determinare un boomerang anche
al Centro, magari innescato dalla crisi del modello esportativo
tedesco, ora alle prese con le politiche di Donald Trump. Esse, dopo
la Cina, coinvolgeranno tutta l'Unione europea, avendo a bersaglio la
Germania, la quale, agli occhi di Washington, vi si nasconde.
Infine,
va fatta chiarezza sull'agone internazionale, dominato dai giganti
economici (Usa e Cina), nel quale, come singoli Paesi europei,
saremmo schiacciati, vasi di coccio tra vasi di ferro.
Non sarà questo imperativo
di paura e di logica di potenza contro potenza a costringere
all'infinito un Paese a sopportare di essere periferico, impoverito e
declinante in Europa, piuttosto che, recuperando la perduta
indipendenza, libero di confidare sulle proprie forze per stare nel
mondo.
Alla
logica di potenza contro potenza, così gravida di conflitti e di
guerre, va contrapposta una logica di cooperazione pacifica tra pari,
sancita dalla nostra Costituzione.
Allo
scopo può servire una Confederazione dei Paesi europei, al posto di
un'Unione europea siffatta e da decostruire, prima che le sue macerie
ci cadano addosso.
Cerchiamo
di essere noi, quello che vogliamo sia il futuro del mondo.
Note
3
“Sangue e suolo”, una formula largamente utilizzata dal
nazifascismo per affermare un concetto di Patria derivante dalla
combinazione della ereditarietà della cittadinanza (ius
sanguinis) con la cittadinanza di luogo di nascita (ius
soli).
4
“Il Sole – 24 Ore”, 6 maggio 2019, pag. 3.
5
Mia elaborazione dei dati riportati da “Il Sole – 24 Ore”.
6
Ibidem, la spalla riguardante l'Ocse, è titolata “Il grande
declino Paese per Paese”.
7
Nulla si dice, pudicamente, sulla Costituzione fallita, firmata in
pompa magna a Roma nel 2004.
Nessun commento:
Posta un commento