lunedì 20 maggio 2019

Consociati al voto

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Confindustria, Cgil, Cisl e Uil lanciano un comune Appello in vista delle europee. Un bilancio roseo dell'Unione, farcito di vuoti di memoria, false affermazioni e reiterati buoni propositi. Schivati i campi, da loro stessi minati, della sovranità democratica e del declino del Paese. “Corpi intermedi” alla ricerca di un ruolo in Europa, perduto in Italia.

In tempi di conclamata crisi dei “corpi intermedi”, chi ne fa parte dovrebbe agire con prudenza, cercando di rifuggire qualsiasi scena nella quale la propria identità appaia oltremodo sminuita o appaiano esaltati i motivi della distanza dalle rispettive basi sociali di riferimento. In particolare dovrebbe evitare di venire assimilato alle screditate politiche europee, per giunta replicando gli stanchi riti del consociativismo sindacale.
Ciò non vale solo per Cgil-Cisl-Uil che hanno perso forza tra i lavoratori attivi, perché inerti, quando non corresponsabili, di fronte alla distruzione delle conquiste dei lavoratori, avvenuta nell'ambito ed anche a causa dell'Unione. Vale anche per Confindustria. Molte grandi aziende sono sparite e lo storico sindacato padronale è stato abbandonato dalla prediletta Fiat, emigrata come FCA in Olanda. Non è attrattivo per le piccole-medie imprese, danneggiate dalla depressione del mercato interno e dalla prevalenza del capitale finanziario, entrambe promosse dall'Ue.
Perché mai, allora, unirsi in un Appello per l'Europa?1 Perché chiamare al voto per quelle liste che è scontato possano “aderire” all'Appello? Perché deludere le aspettative di coloro che avevano confidato in un cambio di registro, grazie alla nuova segreteria in Cgil di Maurizio Landini?
Le risposte, più che nelle proposte, si rintracciano nei motivi della chiamata al voto.

Tra le proposte troviamo il potenziamento del bilancio e degli investimenti europei, la richiesta di una politica industriale comune e l'armonizzazione delle regole economico-sociali e fiscali. Salvo qualche parvenza, cadranno nel vuoto.
L'Unione è disunita o, se preferite, “manca di solidarietà”. Ciascuno tira l'acqua al proprio mulino, con la diversa forza di cui dispone.
Essendo inesigibili anche i riproposti Eurobond (vade retro debito comune!), dovremo accontentarci della diffusione dell'Erasmus nelle imprese, l'“Erasmus aziendale”. Non proprio una decisiva spinta verso «l'ideale degli Stati Uniti d'Europa».
Troppo poco e troppo tardi per contemplare un consociativismo sindacale a livello europeo, che sembra la vera ragione dell'Appello. Sia “sotto”, per mancanza di consenso popolare, sia “sopra”, per assenza di unione politica, il ruolo dei corpi intermedi è alquanto compromesso.

Un esordio dirimente
«Perché un appello per l'Europa?
Perché l'Unione europea ha garantito una pace duratura in tutto il nostro continente e ha unito i cittadini europei attorno ai valori fondamentali dei diritti umani, della democrazia, della libertà, della solidarietà e dell'uguaglianza.»
Pace duratura? In tutto il continente?
E le recenti guerre nei Balcani e nell'attuale Ucraina, per questi tenaci sostenitori della “memoria”, dove sono finite?
Quali Paesi e quali popoli sono Europa?
Ancora: quali diritti umani possono sopravvivere nella guerra? Di quale libertà, solidarietà ed uguaglianza stiamo parlando? Di quale democrazia è titolare l'Unione europea? A quale cittadinanza europea si fa riferimento?
Affermazioni, tanto perentorie quanto discordanti dalla realtà presente e passata, che hanno confermato le convinzioni di un lettore del Blog di Alberto Bagnai, il quale ha scritto al senatore leghista2 una lettera piena di osservazioni in buona parte, sebbene non tutte, condivisibili.
Nella lettera l'operaio, cittadino italiano forse immigrato dalla Serbia, esprime dure fondate critiche. Gli derivano dalla esperienza dell'aggressione della Nato al proprio Paese d'origine e dall'appartenere ad una classe sociale “tradita” dai sindacati.
Particolarmente efficace è la contestazione del falso storico ed attuale della “pace duratura in tutto il nostro continente”.
Alle sue argomentazioni mi sento di aggiungere altro, per una completezza alla quale qualsivoglia visione leghista non può giungere, perché intrisa di nazionalismo a base etnico-confessionale.
Allargamenti
Le guerre nella ex-Jugoslavia si sono temporaneamente concluse con l'intervento bellico della Nato a favore della secessione del Kosovo dalla Serbia. All'edificante epilogo ha contribuito, in violazione della Costituzione, anche l'Italia (governo D'Alema), dalla cui basi sono partiti i bombardamenti della “guerra umanitaria” contro la Serbia.
La sovranità della Serbia è stata infranta, dopo che era stata infranta quella della Jugoslavia. Nella crisi della quale i governi dell'Europa occidentale non sono intervenuti alla ricerca di una soluzione pacifica, bensì, attraverso la politica dei riconoscimenti (in primis di Germania, Italia e Vaticano) delle piccole patrie etnico-confessionali, per distruggere ogni convivenza tra gli slavi del Sud. Una politica divide et impera che, non facendosi scrupolo di dare sostegno al peggiore nazionalismo Blut und Boden3 ed a milizie armate ispirate apertamente al nazi-fascismo (come pure in Kossovo ed in Ucraina), ha spinto quel Paese nel baratro di un feroce e sanguinoso conflitto inter-etnico.
Non si è trattato di un episodico intervento riguardante l'allora Jugoslavia, ma del modo stesso in cui l'Unione è andata costruendosi nell'allargamento nach Osten, verso Est. Una “modalità” della quale ha fatto parte pure l'Anschluß della DDR alla Repubblica Federale Tedesca, l'unica riunificazione affermatasi nel contesto di una “spintanea disgregazione” degli assetti statuali “altrui”.
La Jugoslavia si è frantumata e la Serbia è stata separata manu militari dal Kosovo. È nata una disputa sul nome Macedonia con la Grecia. La Slovacchia si è separata dalla Cechia. In barba alle promesse fatte a Gorbačëv, la Nato si è allargata fino ai confini russi, creando le condizioni per l'attuale guerra in Ucraina.
Sicché ora è pura ipocrisia lamentarsi dei peggiori nazionalismi, da parte di un'Unione che su di essi ad Est si è costruita. Tanto più se consideriamo il dissimulato nazionalismo di potenza dei più forti Stati euro-occidentali, i quali hanno ampiamente approfittato della disgregazione e dell'indebolimento dei piccoli Paesi orientali, per favorire la penetrazione e l'espansione dei propri capitali.
Sostanza edulcorata
L'invito al voto da parte dei firmatari dell'Appello crede di poter contrastare una generale percezione, suffragata dai fatti, che il Parlamento di Bruxelles-Strasburgo sia una istituzione priva di reali poteri, a corredo di una Commissione alla quale viene riservato il ruolo di guardiana delle decisioni prese dai vertici intergovernativi. È l'Europa degli esecutivi, dominata dall'asse Parigi-Berlino, più Berlino che Parigi.
Il tentativo di darle una Costituzione, tramite un Trattato, è fallito miseramente perché non poteva sostituire un effettivo processo di unificazione politica, mai intervenuto.
Sui motivi per i quali questo processo non si è realizzato, si potrà discutere in sede storica. Rimane il fatto che, a dispetto delle buone parole, sin dagli esordi è stato affermato politicamente un processo definito “a-democratico”, per edulcorarne la sostanza anti-democratica. Infatti, per scelta politica, ma su base economica e monetaria, è stata costruita una Unione divisa tra Centro e Periferie, a sovranità differenziata: piena e potente al Centro e via via limitata nelle Periferie. Tra queste ultime figurano i Paesi sud-mediterranei.
La democrazia è pura apparenza, se privata della sovranità: la prima non vive senza la seconda.
Emblematico è stato ed è il caso della Grecia.
Quello dell'Italia rischia di esserlo ancor più.
Dettano legge i vincoli esterni europei, lo spread che fa salire i nostri interessi sul debito pubblico, attivato a bacchetta dalla Commissione europea, e la minaccia sempre in agguato dei mercati finanziari, ai quali è affidato l'ultimo giudizio.
Non siamo nelle condizioni di decidere democraticamente del nostro futuro, se non recuperando la sovranità sottratta, ceduta dalle “nostre classi dirigenti” a conservazione esclusiva dei loro interessi. Recupero che deve avvenire al più presto, in base alla nostra Costituzione del '48, se non vogliamo che al declino si aggiunga una deriva autoritaria e fascistizzante.
A questo proposito, lasciate perdere l'antifascismo di facciata, “politicamente corretto”, tanto superficiale da accentrare l'attenzione unicamente sui rigurgiti in camicia nera.
Non trascurate quanto matura nelle viscere della crisi dell'establishment. Guardate all'attacco alla libertà di informazione, alla negazione del diritto di sapere, celato dietro il progetto europeo maccartista di contrasto alle fake news che festeggia l'arresto di Julian Assange. Non trascurate quello che va facendo in Francia, in reazione ai gilets jaunes, il tanto osannato Macron. È meno pericoloso di Orbán o di Salvini?
Guardate alle spinte verso lo “Stato forte”, presidiato da un “governo forte”, sorretto, però, da una maggioranza parlamentare eletta da una minoranza di elettori. È quanto prevede il Rosatellum, legge elettorale vigente in Italia, alla quale, per nostra coscienza e fortuna, è stato tolto il “combinato disposto” della contro-riforma costituzionale del PD di Renzi.
Il Paese di Bengodi
Perché un Appello per l'Europa?
«Perché l’UE è stata decisiva nel rendere lo stile di vita europeo quello che è oggi. Ha favorito un progresso economico e sociale senza precedenti con un processo di integrazione che favorisce la coesione tra Paesi e la crescita sostenibile. Continua a garantire, nonostante i tanti problemi di ordine sociale, benefici tangibili e significativi, nella comparazione internazionale, per i cittadini, i lavoratori e le imprese in tutta Europa.»
Davvero un incomparabile Bengodi! Ah, se non fosse per “i tanti problemi di ordine sociale”, potremmo godere appieno del nostro “stile di vita”!
Qui si misura un'ulteriore distanza tra il mondo reale e la sua onirica rappresentazione, affastellata di bugie ed umanitarie omissioni. La prima delle quali riguarda l'evocato progresso economico-sociale.
Quest'ultimo risale al trentennio (1945-1975) cosiddetto “glorioso”, durante il quale il capitalismo dell'Europa occidentale era sottoposto alla duplice vincolante pressione: interna del potere sociale delle masse lavoratrici; esterna dal vento dell'Est del comunismo e delle liberazioni nazionali. I “trenta gloriosi” ricadono in un periodo in cui l'Unione nemmeno esisteva.
Da quando è stata creata, con il trattato di Maastricht (1993), l'Ue ha vissuto una iniziale belle époque, alla quale, introdotta nel frattempo la moneta unica e l'eurozona, è subentrata una crisi già evidente agli inizi del secondo millennio e conclamata con il crack finanziario del 2007-2008. Crisi dalla quale non si è affatto ripresa.
Ai “trenta gloriosi” sono seguiti lunghi anni di austerità, prima “nazionale” e poi europea. Eppure c'è ancora qualcuno, come i firmatari dell'Appello, che nega l'evidenza: una progressiva restaurazione, segnatamente dagli anni Ottanta, dei vecchi rapporti di lavoro e sociali, a sovrastante vantaggio dei gruppi oligopolistici finanziarizzati ed a totale svantaggio dei lavoratori e delle classi subalterne. Sono stati gli anni delle liberalizzazioni e della globalizzazione.
Se ve ne fosse stato bisogno, solo un mese dopo i firmatari dell'Appello, sono stati smentiti da... “Il Sole-24 Ore”.4
Comparando i dati del Ministero delle Finanze, del 2007 e del 2017 (denunce dei redditi 2008 e 2018) le fasce di reddito da 0 a 26.000 euro hanno perso mediamente ben 5.207 € a testa [vedi tabella qui sotto],5 in una dinamica di declino nella quale i Paesi dell'Ocse registrano un preoccupante calo dei ceti di medio reddito.6
Per il nostro Paese è declino.
Nell'onirico Bengodi di Confindustria e Cgil-Cisl-Uil la parola “declino” manco compare, perciò tantomeno può venire affrontato il problema della moneta unica, il sistema euro, al quale invece si riconosce un positivo ruolo nel fantomatico “percorso costituente”.7
L'innominabile Declino
L'argomento è alquanto indigesto per le Parti sociali italiane.
Non sto qui a ripetere i dati sull'andamento della integrazione europea, tradottosi in un processo di crescente divergenza e disintegrazione.
Già nel 2013, il professor Bagnai8 affrontava criticamente le tre ricorrenti teorie sul declino, legato alla mancata crescita della produttività:
  1. nanismo, per cui le imprese italiane sarebbero poco produttive perché troppo piccole;
  2. inadeguata Ricerca e Sviluppo (R&S), per insufficienti investimenti, per lo più dovuti allo stesso nanismo, rimasti fermi all'1% del Pil rispetto a più del doppio speso da Paesi come la Germania;
  3. rapporto tra produttività e flessibilità.
Per Bagnai nessuna delle tre teorie rispondeva appieno al quesito: perché l'Italia è colpita dal declino?
Nanismo ed insufficiente spesa per R&S non avevano impedito la crescita della produttività italiana. Le piccole-medie imprese la mantenevano in crescita tramite i distretti industriali, nei quali si trasmettevano rapidamente ed “osmoticamente” continue innovazioni.
Pertanto, l'arrestarsi della produttività, rilevabile non solo in Italia ma anche in Europa, fu attribuita, dai sostenitori della terza teoria, alle riforme del mercato del lavoro. Secondo questi, alcune modifiche legislative, in specifico il pacchetto Treu, determinarono un'abbondanza di lavoro a buon mercato, che scoraggiarono l'innovazione da parte degli imprenditori.
Così pervenivano ad una “sorprendente” conclusione: la produttività è stata penalizzata dalla flessibilità!
Giacché per molti anni ci avevano ripetuto, stigmatizzando ogni opposizione, che la flessibilità era l'inevitabile e sicuro rimedio al problema della produttività e della competitività italiane, Bagnai si chiedeva come mai questi economisti fossero giunti a negare questo assunto di fondo.
Perché erano pervenuti ad un'ammissione così contraria al mantra dominante?
A distanza di più di un lustro, per parte mia aggiungo: per quale motivo il PD di Renzi nel 2015, nonostante gli economisti della sua area sapessero dell'effetto negativo della flessibilità sulla produttività, varò il Jobs act, proseguendo nel solco tracciato dall'aratro di Treu?
Per dare risposte a questi quesiti, va chiarito il rapporto tra cause ed effetti, nel loro svolgimento.
Bagnai svelava che l'arresto nella crescita della produttività media del lavoro in Italia non datava dal giungo 1997, allorché fu emanato il pacchetto Treu, bensì, repentinamente, dalla metà degli anni novanta.
Poiché le piccole-medie imprese italiane dei distretti industriali non rimpicciolirono all'improvviso nel 1995, come fossero precipitati nel paese di Lilliput, restava da spiegare il motivo per cui la produttività italiana da quell'anno iniziò a stagnare, mentre quelle di Francia e Germania continuarono a crescere fino alla grande crisi. [Vedi grafico di Bagnai riprodotto qui sotto].
Concludeva Bagnai che la causa prima risiedeva nel «tasso di cambio lira/ECU che dal 1999 nell'euro diventa tasso di cambio irrevocabile dell'euro.»
A sostegno della sua tesi inseriva altri due grafici dimostrativi: sull'andamento della produttività, correlato all'andamento del tasso di cambio; sul tuffo delle esportazioni (-2%), benché in un periodo di forte crescita, conseguente alla rivalutazione delle lira (+8%) nel 1996.
Commentando infine:
«Sicuramente, dopo essere stata messa su un sentiero di crescita della domanda e quindi della produttività inferiori dallo shock del 1996, l'Italia è stata mantenuta su questo sentiero anche dalle riforme del lavoro, (…).»
Una volta chiarito perché si è preferito ammettere che furono le riforme del lavoro a generare il fermo della produttività, piuttosto che riconoscere il ruolo antecedente e nefasto del cambio fisso europeo, viene da sé la spiegazione del Jobs act renziano o, se volete, dei tanti Jobs act che infestano il nostro invidiabile “stile di vita europeo”.
Imboccata la via dell'euro ed ingabbiati in una moneta sopravvalutata in rapporto alla propria economia, non potendo ricorrere alla svalutazione esterna del cambio, per recuperare competitività internazionale, non rimane altro modo che ricorrere alla continua svalutazione del lavoro interno, in una reciproca disastrosa concorrenza al ribasso.
Ecco spiegati i motivi per i quali l'Appello non parla di declino:
  • non vuole mettere in discussione il sancta sanctorum dell'euro, sul quale si regge l'eurozona, cuore della Unione europea;
  • non può lanciare un Appello consociato per l'Unione europea, partendo dall'ammissione del fallimento del trascorso consociativismo, basato sull'assunto che la flessibilità, concessa da Cgil-Cils-Uil alla parte confindustriale, fosse la soluzione al problema della produttività e della competitività italiane.
   A canone inverso
L'Appello, pur a denti stretti, riconosce che le «politiche di rigore pesano ancora sui cittadini, sui lavoratori e sulle imprese», in una «globalizzazione senza regole», ma chiama alla pugna, a «non battere in ritirata» per «rilanciare l'ispirazione originaria dei Padri e delle Madri fondatrici, l'ideale degli Stati Uniti d'Europa».
Altrimenti avremo la vittoria dei sovranismi e «Di fronte ai giganti economici, i paesi europei presi singolarmente, avranno sempre meno peso politico ed economico.»
Lamentarsi della globalizzazione senza regole equivale a negarne una delle essenziali ragioni: la globalizzazione è stata attuata proprio per non avere regole. Infatti, fu deregulation, dai tanti “lacci e lacciuoli” che tenevano vincolato il capitalismo al potere sociale dei lavoratori e degli strati subalterni, nonché alla sovranità nazionale nella quale questo potere democratico si esercitava.
Quanto agli Stati Uniti d'Europa, l'alto ideale è precipitato nelle più basse concrete pratiche. Pertanto, ora assistiamo a due fenomeni:
  • da un lato l'Unione è un luogo in cui dominano gli oligopoli finanziarizzati, con la finanza che detta legge sulla “economia reale” e sulla società: senza rompere questo dominio società ed economia non possono liberarsi;
  • dall'altra è pervasa da nazionalismi, in primis degli Stati più forti a danno di quelli più deboli: senza rimuovere i primi, i secondi sono inevitabili.
Ai due fenomeni intrecciati occorrerà far fronte congiuntamente, se vogliamo che nella ineludibile ripresa dello Stato-nazione prevalgono le forze della sovranità democratica contro le tendenze autoritarie e fascistizzanti.
Di mezzo va tolta la moneta unica, che continuerà ad accentuare la dicotomia tra Paesi del Centro, a trazione tedesca, e Paesi delle differenziate Periferie, fino a determinare un boomerang anche al Centro, magari innescato dalla crisi del modello esportativo tedesco, ora alle prese con le politiche di Donald Trump. Esse, dopo la Cina, coinvolgeranno tutta l'Unione europea, avendo a bersaglio la Germania, la quale, agli occhi di Washington, vi si nasconde.
Infine, va fatta chiarezza sull'agone internazionale, dominato dai giganti economici (Usa e Cina), nel quale, come singoli Paesi europei, saremmo schiacciati, vasi di coccio tra vasi di ferro.
Non sarà questo imperativo di paura e di logica di potenza contro potenza a costringere all'infinito un Paese a sopportare di essere periferico, impoverito e declinante in Europa, piuttosto che, recuperando la perduta indipendenza, libero di confidare sulle proprie forze per stare nel mondo.
Alla logica di potenza contro potenza, così gravida di conflitti e di guerre, va contrapposta una logica di cooperazione pacifica tra pari, sancita dalla nostra Costituzione.
Allo scopo può servire una Confederazione dei Paesi europei, al posto di un'Unione europea siffatta e da decostruire, prima che le sue macerie ci cadano addosso.
Cerchiamo di essere noi, quello che vogliamo sia il futuro del mondo.

Note
3 “Sangue e suolo”, una formula largamente utilizzata dal nazifascismo per affermare un concetto di Patria derivante dalla combinazione della ereditarietà della cittadinanza (ius sanguinis) con la cittadinanza di luogo di nascita (ius soli).
4 “Il Sole – 24 Ore”, 6 maggio 2019, pag. 3.
5 Mia elaborazione dei dati riportati da “Il Sole – 24 Ore”.
6 Ibidem, la spalla riguardante l'Ocse, è titolata “Il grande declino Paese per Paese”.
7 Nulla si dice, pudicamente, sulla Costituzione fallita, firmata in pompa magna a Roma nel 2004.

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